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La pena di morte in Giappone
UNA REALTÀ nascosta
1
Un documento preparato da Forum 90 in collaborazione con Amnesty International–Japanese Section.
Versione italiana a cura del Coordinamento pena di morte,
Amnesty International–Sezione Italiana
Gennaio 2002 (aggiornamento)
INDICE
1. Come nasce un condannato a morte con sentenza definitiva
Dall’arresto al processo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1
Il processo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2
2. Il trattamento dell’imputato durante il processo
La cella. . . . . . . . . . . . .
Contatti con l’esterno. . . . . . . . .
La vita quotidiana. . . . . . . . . .
I pasti. . . . . . . . . . . . . .
Esercizio fisico e assistenza sanitaria. . . .
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3. Trattamento del condannato a morte dopo la condanna definitiva
Contatti con l’esterno. . . . . . . . . . . . . . . .
La vita quotidiana. . . . . . . . . . . . . . . . .
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4. Il diritto alla difesa del condannato al morte
Richiesta di revisione. . . . . . . .
La richiesta di clemenza. . . . . . .
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5. l’esecuzione della condanna a morte
Procedure legali. . . . . . .
Procedura dell’esecuzione. . . .
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6. la pena di morte in Giappone
Le esecuzioni avvenute negli ultimi 20 anni. . . . . . . . . . . .
Sondaggi dell’opinione pubblica. . . . . . . . . . . . . . . .
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7. Conclusione.
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La pena di morte in Giappone: una realtà nascosta
gennaio 2002
Un documento preparato da
Forum 901 in collaborazione con Amnesty International–Japanese Section
Versione italiana a cura dal
Coordinamento pena di morte,
Amnesty International–Sezione Italiana
L’ordinamento giapponese prevede la pena di morte.
Nel paese, ci sono 7 prigioni attrezzate con un patibolo per l’impiccagione. Dal 1993, sono stati
giustiziati 41 condannati a morte.
Alla fine del 2001, nei bracci della morte del Giappone si trovavano almeno 110 condannati, di
cui circa 50 con sentenza definitiva. A loro non è consentito avere contatti al di fuori dei
congiunti, né con amici né con giornalisti. Anzi, capita che persino i colloqui o la corrispondenza
con i congiunti vengano proibiti.
La maggior parte dei condannati a morte vive in celle d’isolamento, controllate attraverso le
telecamere 24 ore su 24.
L’esecuzione viene comunicata al condannato soltanto il giorno stesso, mentre i congiunti ne
vengono a conoscenza a fatto già compiuto.
In Giappone, sia l’esistenza dei condannati a morte sia le esecuzioni sono fenomeni totalmente
isolati dalla società.
Quella di cui ora leggerete è una realtà poco conosciuta anche nello stesso Giappone, tranne
che dalla gente particolarmente interessata alla questione.
1. Come nasce un condannato a morte con sentenza definitiva
Dall’arresto al processo
Entro 23 giorni dall’arresto di un sospettato, gli inquirenti decidono se formulare un’accusa
contro di lui o archiviare il caso. Poiché l’ordinamento giapponese non prevede, in questa fase,
il diritto a un difensore d’ufficio, il sospettato non può beneficiare di assistenza legale a meno
che non nomini un avvocato a proprie spese. Attualmente, esiste un servizio d’assistenza
offerto dalle associazioni degli avvocati che, su richiesta del sospettato o dei suoi congiunti o
amici, mettono a disposizione entro 24 ore un avvocato volontario di turno, che fornisce
qualche consiglio legale. Tuttavia, questo servizio è gratuito soltanto una volta, e dalla seconda
volta occorre nominare il difensore a proprie spese. Sono molti, in realtà, i sospettati che
subiscono la formulazione dell’accusa perché non erano informati dell’esistenza di questo
servizio.
In Giappone, la “confessione” del sospettato ha un’importanza notevole durante il processo e
tende addirittura ad assumere un peso superiore rispetto alle prove oggettive. Una volta
firmato il verbale della confessione, l’eventuale ritrattazione viene difficilmente presa in
considerazione durante il processo.
Per questa ragione, gli inquirenti concentrano i loro sforzi per strappare una confessione al
sospettato entro 23 giorni dall’arresto. Cercano di isolarlo, impedendogli d’incontrare l’avvocato
o concedendogli soltanto un colloquio di una quindicina di minuti. Inoltre, la corrispondenza con
l’avvocato viene controllata dagli inquirenti.
Secondo le leggi giapponesi, un sospettato deve essere detenuto in una prigione. Tuttavia, vi è
una deroga che consente agli inquirenti l’utilizzo di un carcere della polizia (daiyô-kangoku),
dove viene normalmente effettuato l’interrogatorio. Questa circostanza offre una formidabile
arma agli inquirenti, cioè la possibilità di interrogare il sospettato per oltre dieci ore al giorno,
giorno dopo giorno, con la conseguenza di estenuarlo ed indurlo a “confessare”, aggravando
così la propria posizione.
Anche i mezzi d’informazione hanno una parte di responsabilità, in quanto non rispettano il
principio della presunzione d’innocenza e, appena vengono a conoscenza dell’arresto di un
sospettato, senza attendere il processo, diffondono un fiume di notizie che lo descrivono come
se fosse il vero colpevole. Succede a volte che articoli del genere, scritti in malafede, vengano
sfruttati durante l’interrogatorio per demoralizzare il sospettato.
Chi subisce un arresto viene costretto ad affrontare lunghi interrogatori da solo, senza essere
assistito adeguatamente da un legale. Anche se si viene informati della facoltà di non
rispondere, avvalersi di essa comporta duri rimproveri da parte dei poliziotti e degli inquirenti e
complica la propria posizione, impedendo ad esempio di poter ottenere il rilascio su cauzione.
Infatti, la facoltà di non rispondere in Giappone esiste soltanto sulla carta. Molti sospettati, pur
di porre fine al tormento dell’interrogatorio, finiscono per firmare un verbale redatto dagli
inquirenti a proprio piacimento. Così un omicidio colposo diventa un omicidio volontario, un
incidente si trasforma in un omicidio premeditato: “confessioni” del genere procurano gravi
danni al sospettato.
Ecco la ragione per cui in Giappone il 99,8% degli imputati vengono giudicati colpevoli.
Il processo
Nei processi penali celebrati in Giappone, il verbale dell’interrogatorio viene tenuto in
considerazione più della deposizione in tribunale. Per questo il tribunale diventa spesso il luogo
dove si dibatte non sui fatti bensì sulle circostanze attenuanti per ottenere una pena più lieve.
In molti casi, a una sentenza definitiva di morte si arriva dopo appena un anno di processo.
Poiché in Giappone non esiste l’obbligatorietà del ricorso in appello, un condannato a morte non
sempre ricorre contro la condanna e lascia che la sentenza diventi definitiva.
Quando viene formulata l’accusa contro un sospettato, se questi non può nominare un avvocato
di propria scelta (ad esempio, per motivi economici), il tribunale ordina l’assegnazione di un
avvocato d’ufficio. L’imputato non ha nemmeno il diritto di rifiutarlo o di togliergli il mandato.
Inoltre, dato che l’avvocato d’ufficio viene assegnato separatamente per ogni grado di giudizio,
l’imputato rimane privo di avvocato dalla fine di un processo all’inizio di quello successivo.
Quando viene emessa la sentenza, l’avvocato che se ne è occupato può avviare il procedimento
per il ricorso in appello, ma ci sono casi in cui l’imputato ritira il ricorso mentre aspetta
l’assegnazione di un nuovo avvocato d’ufficio, rendendo così la condanna a morte definitiva.
Gli inquirenti, invece, non hanno difficoltà a ricorrere in appello quando la richiesta di una
condanna a morte viene respinta. Tra il 1997 e il 1998 la pubblica accusa ha fatto ricorso alla
Corte suprema nei confronti di cinque condanne a pena detentiva a tempo indeterminato.
Le autorità hanno sempre sostenuto l’imparzialità dei processi, sostenendo che “poiché il nostro
paese adotta un sistema di tre gradi di giudizio, ogni condanna a morte viene pronunciata con
molta cautela dopo esami accurati e scrupolosi”. Ma, poiché la Corte suprema non esamina i
fatti, il sistema giudiziario giapponese può considerarsi sostanzialmente basato su due soli
gradi. In appello, la difesa fa sempre presente che “la pena di morte è contraria all’articolo 36
della Costituzione, che vieta una pena crudele”, ma la Corte suprema è ferma nel sostenere
che la pena capitale “non è crudele” e non si dimostra affatto disponibile a riesaminare la
situazione.
2. Il trattamento dell’imputato durante il processo
La cella
Per tutta la durata del giudizio, l’imputato rimane in prigione. L’imputato per il quale la
pubblica accusa abbia richiesto la pena di morte non ha alcuna possibilità di essere rilasciato.
La cella ha una dimensione di circa 5 mq. Vi sono collocati un lavandino, un gabinetto, un
letto, una scrivania e gli oggetti personali del detenuto, cui non resta spazio per muoversi. In
ogni caso, è il regolamento del carcere a stabilire quali movimenti siano consentiti.
La maggior parte delle prigioni non ha impianto di riscaldamento e nessuna è dotata di un
sistema di condizionamento dell’aria. Perciò, d’inverno si soffre per i geloni mentre d’estate si
è vittima di eritemi da sudorazione.
L’imputato per il quale si prevede una condanna a morte è mantenuto sotto una sorveglianza
particolarmente rigorosa “per prevenire il rischio di suicidio”. Poiché le telecamere sono puntate
su di lui 24 ore su 24, la luce rimane accesa anche durante la notte. Tra la finestra e l’inferriata
vi è uno schermo di ferro perforato. Pertanto, la “cella anti-suicidio” ha l’aerazione ridotta di
oltre duecento volte e una luminosità inferiore del 30% rispetto a una cella normale.
Contatti con l’esterno
Durante l’attesa del verdetto l’imputato può vedere chiunque, ma nella maggior parte dei casi
gl i è conce sso sol t ant o un col l oqui o al gi orno, al m assi m o con t re pe rsone
contemporaneamente, attraverso un divisorio e per una durata compresa tra 10 e 30 minuti. È
presente una guardia, che trascrive il contenuto della conversazione. Al detenuto non è
consentito l’uso del telefono e non è permesso parlare con i giornalisti che seguono il suo caso.
L’imputato può scrivere a chiunque, ma il regolamento prevede soltanto una lettera al giorno,
al massimo di 7 fogli, mentre non vi è limite al ricevimento della corrispondenza. Le lettere in
arrivo o in partenza vengono sottoposte alla censura e, se si giudicano inopportune, devono
essere riscritte o alterate con un inchiostro nero. Anche i libri mandati ai detenuti possono
subire la stessa sorte.
Più grave, tuttavia, è il provvedimento con cui si possono negare i colloqui al detenuto. Quando
il tribunale prevede il rischio di evasione o di inquinamento delle prove, è possibile proibire
tutti i colloqui tranne quelli con l’avvocato. In questo caso, l’imputato deve lottare per tutta la
durata del processo in uno stato di assoluta solitudine, senza poter vedere parenti o amici per
un periodo molto lungo.
Anche la quantità di oggetti personali che il detenuto può tenere con sé è limitata. A causa di
ciò e dei controlli eseguiti sui documenti processuali, il detenuto che affronta un lungo processo
risulta gravemente danneggiato perché non può prepararsi adeguatamente.
La vita quotidiana
Ancora prima che venga pronunciata la sentenza, l’imputato è obbligato a rispettare un orario
molto rigoroso, da quando si sveglia a quando torna a dormire. Oltre ad essere costretto a
osservare un orario poco naturale, egli non ha il tempo sufficiente per prepararsi al processo.
L’orario dei giorni feriali è il seguente:
Sveglia alle 7.00
Appello alle 7.30
Prima colazione alle 7.40
Pranzo alle 11.50
Cena alle 16.20
Appello alle 16.50
Coricamento alle 21.00
I pasti
Vengono distribuiti tre volte al giorno. Il giudizio sulla qualità e sulla quantità è variabile,
mentre è certa la carenza di vitamine a causa della mancanza di verdure crude. È possibile
acquistare un po’ di frutta di tasca propria, ma solo per chi dispone di denaro. Inoltre, non può
essere certo definito rispettoso dei diritti umani dei detenuti un orario che costringe i detenuti a
consumare tre pasti nell’arco di nove ore.
Esercizio fisico e assistenza sanitaria
L’esercizio fisico all’esterno della cella è consentito due volte a settimana d’estate e tre volte
d’inverno, ogni volta per 30 minuti circa. I detenuti delle celle di isolamento, tra cui i
condannati a morte, restano soli anche in queste occasioni. In media, la palestra misura 5
metri di lunghezza per 2 metri di larghezza ed è situata su una terrazza o un balcone di
cemento controllati dall’alto. L’unico strumento a disposizione dei detenuti è una corda per
esercitarsi nel salto della corda.
Per quanto riguarda il bagno, è consentito farlo tre volte a settimana d’estate e due d’inverno,
in giorni diversi da quelli destinati all’esercizio fisico. Il tempo a disposizione è di circa 15
minuti, che devono servire anche a spogliarsi e rivestirsi.
A parte i momenti per l’esercizio fisico, per il bagno e per i colloqui, il detenuto deve restare
seduto nella sua cella.
Chi ne fa domanda, può svolgere un lavoro leggero da eseguire restando seduti. Da queste
attività si possono ricavare 4 - 5000 mila yen (70 – 80.000 lire) al mese ma negli ultimi anni
questa opportunità è stata sempre più limitata.
Col prolungarsi della detenzione la scarsità di esercizio fisico, l’insufficienza di vitamine e la
carenza dell’assistenza sanitaria provocano malesseri di vario genere: mal di schiena, carie,
gengivite, peggioramento della vista, esaurimento nervoso da carcere sono tra quelli più
frequenti.
3. Trattamento del condannato a morte dopo la condanna definitiva
Quando la condanna a morte diviene definitiva, il detenuto viene trasferito in una cella di
isolamento di una prigione attrezzata con un patibolo. La cella e le condizioni riguardanti
l’esercizio fisico, il bagno e l’assistenza sanitaria restano invariate rispetto a prima.
I contatti con l’esterno
Dopo che la sentenza è diventata definitiva, i contatti con l’esterno vengono strettamente
limitati. Nonostante l’articolo 9 della legge sulle carceri preveda che il trattamento di un
condannato a morte non deve essere diverso da quello di un detenuto in attesa di giudizio, lo
Stato non rispetta questa disposizione.
Di norma, i colloqui e la corrispondenza vengono permessi esclusivamente con i congiunti.
Tuttavia, molti dei condannati a morte sono divorziati o hanno rotto i legami con la famiglia a
causa della vicenda per cui sono stati processati, perciò non hanno parenti che vengano a
visitarli. Anche quando si crea un rapporto di parentela attraverso l’adozione legale con qualche
sostenitore conosciuto durante il processo, il colloquio e la corrispondenza vengono difficilmente
ammessi dopo che la sentenza è diventata definitiva.
Le autorità non consentono ai condannati a morte di avere contatti con l’esterno col pretesto di
“non turbare la loro stabilità psicologica” in modo da rendere più facile l’accettazione della
pena di morte.
Richieste di colloqui con condannati a morte sono state avanzate da varie parti, tra cui
organizzazioni non governative giapponesi e straniere nonché parlamentari, ma non sono state
mai accolte.
Nel marzo 2001, durante la visita di una delegazione del Consiglio d’Europa, incaricata di
svolgere un’inchiesta sul sistema della pena di morte in Giappone, il suo presidente, Gunnar
Jansson, si è recato alla prigione di Tokyo e, su richiesta dei familiari di un condannato a
morte, ha cercato di ottenere il permesso di vederlo, ottenendo soltanto un rifiuto da parte
della direzione della prigione.
In alcuni casi, i condannati a morte vengono giustiziati senza avere alcuna possibilità di parlare
con qualcuno all’esterno.
Se un condannato a morte lo richiede, gli viene concesso di vedere per una volta al mese un
religioso addetto al carcere. Questi assiste anche all’esecuzione, ma non può assolutamente
farne parola quando è fuori.
Il colloquio e la corrispondenza sono consentiti tra il condannato e il difensore che presenta la
richiesta di revisione del processo (vedi oltre). Tuttavia, dato che vi assiste anche una guardia
penitenziaria, la riservatezza dei colloqui non viene rispettata. Inoltre, può anche accadere che
a un condannato che desidera incontrare un avvocato per conferirgli l’incarico di presentare la
richiesta di revisione, venga negato il colloquio.
Anche consegnare un pacco al condannato è consentito esclusivamente ai familiari e
all’avvocato difensore incaricato della richiesta di revisione.
La vita quotidiana
Anche dopo che la condanna è diventata definitiva, il condannato può chiedere di svolgere un
lavoro leggero nella sua cella e ricevere un seppur minimo compenso.
L’assistenza sanitaria rimane sempre carente. Per di più, le restrizioni estremamente severe ai
contatti con l’esterno provocano, in alcuni casi, un peggioramento delle condizioni di salute. Per
la mancanza di cure, una retinite può trasformarsi in cecità, un tumore al cervello può
degenerare e causare difficoltà di deambulazione. Le scarsissime opportunità di parlare con
qualcuno possono causare afasia, l’esaurimento nervoso da carcere può comportare problemi
psichici. Nonostante ciò, quasi mai i condannati vengono trasferiti in ospedale.
4. Il diritto alla difesa del condannato a morte
Richiesta di revisione
In Giappone, una richiesta di revisione processuale viene difficilmente accolta. C’è stata
un’eccezione negli anni Ottanta, quando quattro condannati a morte furono assolti l’uno dopo
l’altro grazie alla revisione del processo. I quattro avevano confessato sotto tortura ed avevano
dovuto sopportare da 28 a 34 anni di carcere prima di essere assolti. Sakae MENDA, il primo
condannato a morte assolto grazie alla revisione, racconta: “Ho visto circa 70 condannati
mandati al patibolo, ma tra loro ce n’erano cinque che si dichiaravano innocenti.”
Alla fine del 2001 erano circa 50 i condannati a morte con sentenza definitiva detenuti nelle
prigioni giapponesi. Di essi, 25 sostengono la propria totale estraneità o il coinvolgimento
soltanto parziale nei rispettivi casi ed hanno presentato la richiesta di revisione processuale;
altri 8 si erano dichiarati innocenti durante i processi.
Eppure, dopo le quattro assoluzioni degli anni Ottanta, non è stata più ammessa alcuna
revisione processuale. Questa strada rimane sbarrata anche per i condannati che, secondo
inchieste giornalistiche, sarebbero stati incriminati con accuse false. Alcuni di loro sono stati
arrestati addirittura 40 anni fa e condannati con sentenza definitiva da 30 anni.
Nel dicembre 1999, sono stati giustiziati 2 condannati a morte. Uno era in attesa dell’esito della
sua ottava richiesta di revisione, l’altro aveva avanzato una richiesta di protezione della libertà
personale. Le autorità hanno così giustiziato due condannati a morte che cercavano di
difendersi con i pochi mezzi a loro disposizione. Esse si sono giustificate sostenendo che “né la
richiesta di revisione né quella di protezione della libertà personale costituiscono un motivo
valido per sospendere l’esecuzione. Le richieste di revisione sempre per gli stessi motivi sono
soltanto un pretesto per sfuggire all’esecuzione. Perciò, per difendere la giustizia, è lecito
giustiziare un condannato ancora in attesa del verdetto.”
Ma è più che naturale che un innocente dichiari sempre la stessa cosa, e cioè che non è stato
lui a uccidere. Infatti, è ciò che sostenevano i quattro ex-condannati a morte tornati liberi
vent’anni fa.
La richiesta di clemenza
Un provvedimento di clemenza può essere richiesto dallo stesso condannato o dal suo avvocato.
Tuttavia, dal 1975 non è più stata concessa alcuna clemenza. La decisione sulla richiesta di
clemenza viene comunicata a voce soltanto al condannato e non è possibile fare alcun ricorso
contro di essa.
Nel dicembre 1995, è stato giustiziato un condannato al quale era stato appena comunicato il
rigetto della sua richiesta di clemenza. Egli è stato portato al patibolo senza avere alcuna
possibilità di difendersi.
5. Esecuzione della condanna a morte
Per più di tre anni, dal novembre 1989 al marzo 1993, non ci sono state esecuzioni in
Giappone. Ciò, insieme all’adozione - nel dicembre 1989 – da parte dell’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite del Secondo Protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e
politici, avente l’obiettivo di abolire la pena di morte, ci aveva fatto sperare che la pena di
morte potesse essere definitivamente bandita. Purtroppo, nel marzo 1993, le esecuzioni sono
riprese.
Procedure legali
Mentre tutte le altre sentenze giudiziarie vengono eseguite su ordine dell’ufficio della Procura,
la procedura di esecuzione delle condanne a morte viene attivata dal Ministro della Giustizia, in
base a quanto dispone l’art. 475 del Codice di procedura penale. Se non vi è stata alcuna
esecuzione per oltre tre anni (novembre 1989 – marzo 1993, vedi sopra), lo dobbiamo non
poco alle convinzioni personali del Ministro in carica in quel periodo. Invece, i suoi successori
hanno emesso ordini di esecuzione uno dopo l’altro, convinti che “chi non attua una sentenza
riconfermata attraverso i processi non è un Ministro della Giustizia degno del suo nome”.
L’art. 476 del Codice di procedura penale prevede soltanto che l’esecuzione deve aver luogo
entro 5 giorni dall’ordine del Ministro della Giustizia, ma non contiene alcuna indicazione precisa
riguardo al metodo, al luogo, agli esecutori ecc… Di fatto, le esecuzioni avvengono senza un
fondamento legale.
Anche la scelta dei condannati da mandare al patibolo è del tutto arbitraria. Perfino anziani e
malati di mente vengono giustiziati senza pietà.
Dal 1994 è attiva una “Federazione dei parlamentari che promuovono l’abolizione della pena di
morte”. Ma negli ultimi sei o sette anni, le esecuzioni sono avvenute durante il periodo di
chiusura del Parlamento, rendendo così impossibile presentare interrogazioni al Ministro della
Giustizia.
Inoltre, in Giappone, il Ministro della Giustizia viene sostituito ogni 7-8 mesi e il Ministero della
Giustizia, per non creare il precedente di un Ministro che non ha ordinato esecuzioni, preme
perché tutti firmino almeno un ordine di esecuzione nel corso del loro mandato.
Così le esecuzioni si ripetono regolarmente, una o due volte all’anno, senza alcun nesso con le
condizioni dei condannati a morte.
Procedura dell’esecuzione
a) Prima dell’esecuzione
L’esecuzione non viene preannunciata né al condannato né ai suoi parenti né tanto meno
all’avvocato. La mattina stessa il condannato, chiamato d’improvviso, viene informato che “è
arrivata l’ora della tua esecuzione” e subito portato al luogo dell’esecuzione, senza avere
nemmeno la possibilità di dire addio ai familiari. Non può chiamare l’avvocato, quindi non ha
alcuna opportunità di essere assistito legalmente.
Il fatto di non essere avvertito in anticipo, crea instabilità psicologica nel condannato.
Attualmente le esecuzioni avvengono dopo 6 o 7 anni dalla sentenza definitiva. Perciò,
trascorso questo periodo, egli è costretto a trascorrere ogni giorno nel terrore. Può capitargli di
essere mandato a morte mentre sta aspettando l’esito di una richiesta di revisione o, se aveva
presentato domanda di clemenza, può essere giustiziato quasi contemporaneamente
all’annuncio che essa è stata respinta.
Ogni mattina pensa che, se la guardia si fermerà davanti alla cella, sarà la fine. E anche se
non si fermerà oggi, nulla è sicuro per domani: può darsi che abbia avuto soltanto una proroga
di 24 ore. Così la vita continua fino all’esecuzione.
b) L’esecuzione
Sul luogo dell’esecuzione, avviene una specie di rito programmato dalla direzione della
prigione. Al condannato vengono concessi alcuni minuti per scrivere un testamento, seguiti da
un colloquio di commiato col religioso addetto alla prigione.
Dopodiché, gli vengono legate le mani dietro la schiena, viene bendato e fatto salire sul
patibolo, il cui pavimento è progettato per aprirsi in due. Per impedirgli di agitarsi e procurarsi
ferite sul corpo, gli vengono legate anche le ginocchia, poi gli viene messa la corda intorno al
collo.
A un segnale convenuto, il pavimento si apre in due facendo cadere il condannato. La
lunghezza della corda è regolata in precedenza secondo la statura del condannato, in modo che
questi rimanga sospeso nel vuoto, a 15 cm da terra, dove resterà tremante fino all’ultimo
respiro.
Nel locale sottostante, è presente un medico che controlla il polso e il battito del cuore del
giustiziato. Si dice che ci vogliono da 15 a 20 minuti per spirare.
A esecuzione avvenuta, la famiglia viene messa al corrente dell’accaduto. Presentando
domanda entro 24 ore, è possibile ritirare la salma. Da quando sono riprese le esecuzioni, nel
marzo 1993, sono state giustiziate 41 persone e solo in due casi la salma è stata ritirata.
La salma di Norio NAGAYAMA, giustiziato nell’agosto 1997, era stata richiesta dal suo avvocato,
ma la restituzione è avvenuta in forma di ceneri: la direzione del carcere l’aveva fatta
cremare, probabilmente per nascondere le ferite sul corpo della vittima, segni della sua
resistenza.
Gli oggetti personali del giustiziato vengono restituiti ai familiari, ma i diari scritti dopo che la
sentenza era diventata definitiva vengono esclusi dalla restituzione. In ogni caso, anche se altri
oggetti non venissero resi indietro, non sarebbe possibile verificarne l’esistenza.
6. La pena di morte in Giappone
Le esecuzioni avvenute negli ultimi 20 anni
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
1
1
1
1
3
2
2
2
1
0
0
0
7
2
6
6
4
6
5
3
2
Totale:
55
Rispetto agli otto anni che precedono il periodo della sospensione (novembre 1989 – marzo
1993), il numero delle esecuzioni avvenute negli ultimi nove anni è quasi triplicato, passando
da 14 a 41.
Sondaggi dell’opinione pubblica
Il Governo giapponese afferma che la grande maggioranza dell’opinione pubblica del paese
sostiene la pena di morte. È vero che, nel sondaggio commissionato dal Governo nel 1999, il
79,3% del campione ha risposto che “la pena di morte è inevitabile”. Ma ciò è frutto di un
tranello teso nella formulazione delle risposte possibili, che ha indotto gli intervistati a optare
per l’una piuttosto che per l’altra.
Alla domanda “Sulla pena di morte, ci sono le seguenti opinioni. Con quale di esse Lei è
d’accordo?”, sono state offerte soltanto tre risposte:
- “In ogni caso, la pena di morte va abolita.”
- “Ci sono certi casi in cui la pena di morte è inevitabile.”
- “Non lo so. Non è possibile rispondere in modo così generico.”
Di fronte a una scelta imposta in tal modo molta gente, per forza, ha optato per “la pena di
morte è inevitabile”. In Giappone, la realtà dei condannati a morte è completamente isolata
dalla società, resa invisibile agli occhi della popolazione. Anche le esecuzioni hanno luogo di
nascosto. I cittadini giapponesi non ne sono informati che molto scarsamente.
Eppure, il sondaggio d’opinione non è stato del tutto inutile. Ai sostenitori della pena di morte,
è stata posta un’ulteriore domanda: “Secondo Lei, che cosa bisogna fare con la pena di morte
in futuro?”
Le risposte e le rispettive percentuali sono state le seguenti:
- “Bisogna mantenerla nell’ordinamento” – 56,5%
- “Potrebbe essere abolita se le condizioni lo permettessero” – 37,8%
- “Non lo so” – 5,7%
Questi risultati mostrano che i sostenitori della pena di morte “ad ogni costo” sono soltanto
poco più della metà di coloro che l’accettano e, ricalcolando questa cifra sul totale del
campione, non si arriva nemmeno alla metà ma soltanto al 44,8% degli intervistati.
Il Governo giapponese dovrebbe riflettere su questi dati e, seguendo le raccomandazioni delle
Nazioni Unite, dovrebbe adottare una politica mirante all’abolizione della pena di morte.
7. Conclusione
Il Giappone mantiene l’atroce sanzione della pena di morte nel suo ordinamento e continua a
giustiziare condannati ogni anno.
Benché per due volte, nel 1993 e nel 1998, la Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite
abbia raccomandato di abolire la pena di morte, il Governo giapponese continua a fare finta di
niente. Ma non solo. Esso cerca di influenzare gli altri paesi mantenitori perché si pronuncino
contro l’abolizione della pena di morte. Infatti, il Giappone ha votato per cinque volte contro le
risoluzioni della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite che chiedevano l’abolizione
della pena capitale e si sta opponendo alla tendenza abolizionista mondiale.
Aiutateci ad abolire la pena di morte in Giappone!
Fate pressioni sul Governo giapponese affinché abolisca questa pena!
Protestate insieme a noi contro le esecuzioni capitali in Giappone!
1“Forum ’90 per la ratifica del Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili, avente l’obiettivo
dell’abolizione della pena di morte” è una coalizione di organizzazioni non governative e membri individuali, nata nel
1990 per promuovere la ratifica, da parte del Giappone, del più importante strumento del diritto internazionale diretto a
conseguire l’abolizione della pena di morte.
Dal 1990, la coalizione è impegnata ad accrescere la sensibilità dell’opinione pubblica sulla pena di morte organizzando
iniziative, esercitando pressione politica e prendendo attivamente parte al dibattito sulla pena di morte.
Forum ‘90 può essere contattata al seguente indirizzo:
Forum ‘90
c/o Minato Godo Law Firm
2-14-13 Akasaka
Minato-ku, Tokyo
Japan
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