S. Marinella 2014 - Campana L`Africana

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S. Marinella 2014 - Campana L`Africana
RITO ANNUALE IN ONORE DEI CADUTI ITALIANI IN AFRICA
(testo del discorso tenuto da Alessandro Scafi all’Oasi Tabor di Santa Marinella, il
10 maggio 2014)
Roma. Piazza S. Pietro. 4 maggio 1983, Anno Santo della Redenzione: un papa
benedice una campana. Il papa è San Giovanni Paolo II. La campana è qui di fronte a
voi. Si chiama l'Africana. Alle dodici, ogni mezzogiorno, al tramonto, ogni sera,
i rintocchi di questa campana pregano per i Caduti nell’Africa che è stata italiana.
Scriveva Leonida Fazi nel 1983:
“I rintocchi dell’Africana volano […] verso l’avvenire, perché essi non sono
soltanto voce che geme sui Morti all’ombra del Tricolore, di tanti dei quali
le Ceneri si sono smarrite, ma soprattutto monito severo che risvglia le
coscienze. Nel tempo della negazione e dell’odio, della menzogna e della
disperazione, poesia e verità, gratitudine e speranza ad ogni rintocco
risorgono, sospinte verso il cuore degli uomini perché riprendano a
riconoscere la Patria e dalla venerazione per essa giungano alla
concordia; elevate dalla fede verso Dio perché santifichi questo amore che
dal passato si protende verso l’avvenire.”
Ricordiamole queste parole di Leonida Fazi di più di trent’anni fa, ora che siamo qui
riuniti a celebrare questo rito. Un rito che è dedicato a tutti coloro che hanno amato la
patria italiana dedicandosi all’Africa, come è scritto in latino sul manto bronzeo di
questa campana. Un rito celebrato a cura della Sezione Romana dell’Associazione
Nazionale Reduci e Rimpatriati d’Africa, presieduta da Gianni Rizzi, genero della
Medaglia d’Oro Angelo Bastiani, l’indomabile comandante di Bande Irregolari in
Africa Orientale. Molti di voi sono venuti qui grazie allo sforzo organizzativo di
Mariza Patané, figlia di Pietro Lorenzo Patané, il militare che dopo la guerra è
ritornato sulle ambe africane, per recuperare i resti dei nostri Caduti, e comporli in
ordinati sacrari. Tra gli organizzatori, c’è poi la famiglia di Leonida Fazi, il reduce, il
cantore degli eroismi dimenticati, uno che con la penna e la parola ha sempre onorato
questo luogo, dicendo e scrivendo la verità dell’epopea africana, con l’autorità di chi
l’aveva vissuta sulla sua pelle e la maestria di un poeta della storia. Anna Fazi, con la
sua tenacia di amorevole amanuense, perpetua la passione di bersagliere di suo marito
Leonida.
Salutiamo il Presidente dell’Associazione Nazionale Reduci e Rimpatriati
d’Africa, Franco de Molinari e Giovanni Chiavellati, figlio di Luigi Chiavellati,
capomanipolo medico caduto nel 1936 a 33 anni a Passo Uarieu mentre, deposto il
fucile, curava i feriti. Saluto voi tutti.
Questo rito viene celebrato ogni anno dal 1973. È una Messa, in suffragio di
tutti i Caduti italiani in Africa. Dal 1991 questo rito viene celebrato qui, sul sagrato
del Santuario di Santa Maria della Visitazione, il santuario dedicato alla Vergine, che,
divenuta Madre di Cristo, visita la cugina ed esulta nel Signore, mentre il Battista,
concepito nel grembo di Elisabetta, sussulta di gioia. Dal 1991, l’appuntamento è su
questa collina, al cinquantanovesimo chilometro dell’Aurelia, che le suore, le Ancelle
della Visitazione, chiamano Monte Tabor, cioè il monte dove il Figlio di Dio si è
trasfigurato, un monte in Galilea, ora anche sul litorale laziale.
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Il rito ferma il tempo, interrompe lo spazio, sospende il profano, introduce il
sacro. Qui, tra i pini mediterranei, affiorano paesaggi africani. Ora, tra i labari e i
pavoni, tra gli alberi e l’altare, i cappelli e le uniformi, tornano tra noi persone
passate, passioni provate, vicende vissute. Qui, ogni anno, tentiamo di evocare una
verità storica che è rimasta sepolta, una gloria nazionale che è stata sommersa
dall’ignoranza, dal tradimento, dall’oblio. Qui ogni anno rendiamo onore al retaggio
della nostra epopea africana. Negli anni passati abbiamo ricordato i marinai; gli
aviatori; gli alpini; i bersaglieri; i carabinieri; i paracadutisti; i granatieri; i fanti, tutti i
soldati che, in Africa, hanno amato l’Italia. L’anno scorso abbiamo immaginato di
viaggiare nello spazio e nel tempo: di andare, nel 1977, sulle rive del Lago Rodolfo,
in Kenya, dove quattro missionarie italiane, in perfetta solitudine, bruciavano le loro
giovinezze nel roveto ardente della carità e della fede. E quest’anno? Come possiamo
quest’anno rendere onore alle ombre di El Alamein, agli eroi delle Ambe, ai martiri
italiani del deserto?
Quest’anno abbiamo deciso di non fermarci su un singolo episodio, di non
esplorare solo un aspetto, di non ricordare il particolare contributo di un unico corpo
militare. Quest’anno vorremmo rievocare l’anima, rivendicare il senso, riproporre la
verità storica della nostra epopea africana nel suo insieme.
Vorrei tentare di rispondere a tre domande precise: Cosa distingue l’opera
italiana in Africa nel quadro generale, piuttosto controverso, della colonizzazione
europea del continente africano? Che cosa ha significato per i popoli africani la
colonizzazione italiana? Che cosa ha significato per la storia del popolo italiano tutto
l’arco dell’epos africano?
Veniamo alla prima domanda. Qual è il senso storico dell’epopea italiana in
Africa? Essa è legata alla domanda più ampia: cos’è stato il colonialismo europeo in
Africa? Evangelizzazione, civiltà progresso? Oppure imperialismo, violenza,
sfruttamento? Il quadro è molto contraddittorio. Gli storici prima hanno esaltato, poi
hanno condannato; le opinioni pubbliche sono andate dietro alle mode del tempo; le
classi dirigenti hanno seguito le convenienze politiche e le alleanze internazionali.
Tutti però sanno prendersela con i potenti e gli sfruttatori di ieri, ma ignorano i
potenti e gli sfruttatori di oggi, le nuove forme di egemonia, i nuovi imperialismi. È
stato detto tanto del colonialismo europeo; tutto e il contrario di tutto. Ma su di un
punto forse gli storici sono concordi. Sul fatto che si possono distinguere tre fasi
storiche e che per ognuna di queste tre fasi storiche il giudizio deve differenziarsi.
La prima fase è stata la fase degli esploratori, dei pionieri, dei missionari. La
seconda fase quella della conquista armata, del dominio, dello sfruttamento. La terza
fase ha visto l’organizzazione civile, politica, sociale delle colonie, con la diffusione
presso i popoli assoggettati di tutti i benefici della civiltà occidentale. Nella storia
della colonizzazione inglese, francese, belga del continente africano (di varia durata,
ma in tutti e tre i casi molto lunga) la fase preminente è stata la seconda, quella
dell’asservimento, del dominio, dello sfruttamento delle risorse ad esclusivo beneficio
del conquistatore. Questa fase è durata più di un secolo. Ci sono stati massacri,
misfatti, feroci repressioni. Questa fase ha lasciato una traccia profonda nel
risentimento dei popoli.
Diamo un rapido sguardo a queste tre fasi per quanto riguarda la
colonizzazione italiana, partendo dalla prima fase, quella dell’esplorazione e delle
missioni. L’esplorazione italiana del continente africano nell’Ottocento era animata
dallo stesso spirito del nostro Risorgimento, lo stesso entusiasmo, lo stesso ardimento,
la stessa idea di compiere una missione storica. David Livingstone, Henry Stanley,
famosi esploratori dell’Africa, furono preceduti da due Italiani: Giovanni Miani, il
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primo Europeo a scoprire il Nilo Bianco, e Romolo Gessi, il primo Europeo a
circumnavigare il Lago Alberto. Ricordo anche le spedizioni Bianchi, Giulietti,
Antinori, Chiarini, Antonelli, Martini, l’esploratore Alfonso Maria Massari. Tutti con
la passione di issare il tricolore su nuovi luoghi, su lidi sconosciuti. Poi Padre
Massaia, che fondava scuole, missioni, ospedali da campo. Tanti italiani, medici
volontari andati in Africa a combattere le malattie tropicali.
Per quanto riguarda la seconda fase, quella della conquista, all’inizio i
governi del neonato Regno d’Italia rimasero ripiegati su sé stessi, esclusi dalla grande
diplomazia, assenti dalla scena internazionale, per apatia o per convenienza di
bottega. Fu con il governo Crispi, che la passione garibaldina si trasformò in
ambizione coloniale.
Nel corso dell’Ottocento nuclei di Italiani si erano stabiliti lungo le coste
africane. Nei porti da Alessandria al Mar Rosso si parlava italiano. L’ambizione del
governo regio era quella di collegare questi nuclei, favorire un’espansione economica,
stimolare una crescita commerciale, promuovere un’affermazione politica. Ci voleva
una grande flotta nel Mediterraneo, una grande flotta nell’Oceano Indiano. Bisognava
trattare alla pari con le grandi potenze europee, rendere grande il nome d’Italia.
L’acquisizione dei porti di Assab e Massaua sulla costa africana del Mar Rosso, negli
ultimi decenni dell’Ottocento, segnò l’inizio dell’avventura italiana in Africa. Ma le
sconfitte di Dogali e di Adua bloccarono i tentativi italiani di penetrare all’interno
dell’altopiano etiopico. Eppure l’epos africano non fu travolto dal trauma, si propagò
in opere di pace. Asmara, occupata nel 1889, divenne florida capitale di traffici e di
cultura, la prima città europea dell’Africa Orientale: con scuole, ospedali, corti di
giustizia, luoghi d’arte, centri di commercio. Dove avevano imperversato per secoli
razziatori e tribù ribelli, ora regnava l’ordine e la pace. In rapidissimo tempo, oltre
all’Eritrea, tutta la costa somala divenne terra italiana. L’Etiopia si trovò circondata
da ogni lato e privata di ogni sbocco al mare. Quindi non fu un caso che, una
generazione dopo, l’epopea africana riprese il suo corso dove si era interrotta, e nel
1936 l’Abissinia divenne italiana. Come sapete, nel 1911, dopo una breve guerra
contro l’impero ottomano, l’Italia acquisì anche il controllo della Tripolitania e della
Cirenaica, che nel 1934 furono riunite per formare la colonia della Libia, l’antico
nome utilizzato dai Romani del tempo di Diocleziano.
Se guardiamo all’azione coloniale italiana nel suo complesso, notiamo una
particolarità cronologica rispetto alle potenze coloniali europee. L’Italia è arrivata
ultima nella competizione coloniale. Per l’Italia le tre fasi storiche del colonialismo
europeo si sono sovrapposte in tempi rapidissimi, fuse in una sola. In pochissimo
tempo si è passati dall’esplorazione, alla conquista, a una politica di assimilazione,
alla fase civile dell’associazione tra i popoli. Per esempio Cirenaica e Tripolitania
sono diventate, pochissimi anni dopo l’effettiva occupazione, provincie italiane,
governate da prefetti italiani, rette dalle stesse leggi della madrepatria italiana.
Ecco allora la seconda domanda: che cosa ha significato per i popoli africani
la colonizzazione italiana? In Etiopia vigeva la legge del taglione, gli Italiani hanno
portato il codice. In Etiopia ai prigionieri si tagliavano le mani, si amputavano i piedi.
Gli Italiani hanno imposto i diritti dell’uomo. L’Etiopia era al centro della tratta
africana degli schiavi. Gli Italiani sradicarono la schiavitù. Un’opera di elevazione
morale e materiale riassunta nel giudizio di Haile Selassié, imperatore d’Etiopia, a
proposito di Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta: ‘Egli ha amato e beneficato le mie
terre e le mie genti’. Qualcuno potrebbe dire: ma gli Italiani hanno tolto la libertà al
popolo etiopico!
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In realtà l’Etiopia è stata sempre abitata da tribù di etnia assolutamente
diversa, parlanti lingue diverse, assoggettate di tempo in tempo da altre popolazioni
guerriere. Alla fine gli Amara imposero la loro egemonia sulle popolazioni
dell’Harrar e del Galla Sidama. I Ras locali stavano sempre in guerra contro il potere
centrale, contro i dominatori Amara. I ras locali si ribellavano continuamente contro
Addis Abeba. Ogni singola razza lottava per la propria indipendenza. Per questo molti
Ras appoggiarono gli Italiani e per molte tribù l’occupazione italiana fu una
liberazione.
E la Libia? Tripoli e Bengasi erano squallidi villaggi, divennero splendide
città moderne. Gli Italiani portarono attrezzature civili, strade, igiene, sicurezza,
giustizia. Ventimila coloni dalla pianura padana trasformarono completamente il
Gebel cirenaico. Dove c’era il deserto sorsero giardini, frutteti, fattorie, case coloniali,
villette. Lo stesso qualcuno di prima potrebbe dire: ma gli Italiani hanno tolto la
libertà al popolo libico!
In realtà la Libia non è mai esistita come unità nazionale e statale. Prima della
conquista italiana, come ho detto, Tripolitania e Cirenaica erano regioni diverse,
abitate da popolazioni diverse, soggette ai Turchi, vessate da despoti locali in
perpetuo stato di guerra. Soltanto l’occupazione italiana diede unità politica alla
regione. Soltanto l’occupazione italiana liberò la popolazione indigena di origine
berbera dal dominio schiavizzante degli Arabi e dei Turchi. Poi tutta la Libia fu
assimilata alle altre regioni d’Italia. Tripoli e Bengasi divennero prefetture del Regno;
gli abitanti furono chiamati a far parte del governo del territorio. L’associazione dei
popoli, non la dominazione, fu il senso storico del nostr epos africano.
Infine la terza domanda: che cosa ha significato l’epos africano per la storia
del popolo italiano? Il senso generale dell’epopea italiana in Africa è quello epico di
una nazione giunta ultima all’unità, all’indipendenza, travagliata da debolezze interne,
priva di una classe dirigente di livello europeo, avvinghiata, soffocata da beghe
miserabili, scandali provinciali, una nazione che si levava fieramente a rivendicare
una dignità storica, una missione da compiere, un’impresa collettiva che la rendesse
pari alle altre grandi potenze. A questa dignità storica avevano chiamato Alfieri,
Foscolo, Leopardi, a questa alta coscienza di una missione nel mondo avevano fatto
appello Gioberti, Mazzini, Questa era l’anima del Risorgimento. Ma non la sola
anima della nazione italiana. Una volta che il Risorgimento ebbe realizzato il sogno
unitario - l’utopia di tanti secoli: l’unità, la libertà, l’indipendenza - ecco il cedimento
morale, ecco la stanchezza, ecco l’Italia lasciata in preda delle sue antiche tare
secolari: corruzione, scandali, intrighi, beghe, avidità, servilismo verso lo straniero.
Senza politica estera, senza alcun rilievo internazionale l’Italia restava una
provincia secondaria fuori dalla storia, destinata a subire la volontà delle altre nazioni.
Erano questi i grandi ideali mazziniani? Ma non doveva l’Italia guidare un
rinnovamento mondiale? La realtà era quella di una vita paesana, meschina, del
calcolo gretto del proprio particulare, come aveva già visto Guicciardini.
L’epos africano è la sdegnosa risposta a tutto questo. È il rifiuto di vivere
senza ideali, senza passioni, senza finalità collettive. È una linea, lontana ma
luminosa, che si staglia nell’arco dell’orizzonte della storia d’Italia. So che sto
dicendo cose scandalose per la nostra epoca. Oggi il mondo crede solo nell’economia,
nell’utile individuale, si preoccupa solo dello spread. Ma c’è qualcosa che è rimasto,
oltre le colonie perdute, oltre le città distrutte, oltre il sangue sparso. Un patrimonio,
un retaggio.
In questa piccola, breve, assolata messa all’aperto, in questo sabato di maggio,
la memoria dei Caduti d’Africa diventa celebrazione eucaristica. L’amore patrio si
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intensifica dilatandosi a fede religiosa. La memoria dei Caduti d’Africa diventa
l’incoraggiamento a seguire la testimonianza di chiunque sia andato oltre se stesso,
abbia saputo trascendersi, sia riuscito a trasumanare, per usare un’espressione
dantesca Questo è il significato più profondo di uno spirito guerriero che altrimenti
non staremmo ad evocare qui, nella casa delle Ancelle della Visitazione.
Questa è la preghiera che innalziamo, questo è il messaggio che porgiamo,
come fa questo bronzo di Corrado Rufini, questo “Melic Tegnà”, questo adolescente
etiope portatore di messaggi. Oggi questa congregazione è fatta di uomini e di donne
che, da un punto di vista strettamente anagrafico, sono “diversamente giovani”, ma
che nel cuore sono rimasti eterni ragazzi, perpetue fanciulle. Vedo anche ragazzi
giovani anagraficamente. Vedo mio nipote di vent’anni. Ecco questo è il retaggio che
ieri mi ha affidato Leonida Fazi, e che, oggi, a mia volta, insieme a quelli di noi
“diversamente giovani”, affidiamo ai giovani di oggi. Un messaggio che va oltre i
limiti dell’ideologia o della nostalgia. Un messaggio che va oltre l’amarezza della
disfatta e del tradimento. Il messaggio è che è possibile una vita più intensa, dignitosa,
creativa. Prima di noi, c’è stato qualcuno che ha avuto il coraggio di fare fino in fondo
il proprio dovere, di incontrare la morte in nome di una vita fatta di ideali e di
passioni. Alla fine della Messa, ascoltate il rintocco della campana. Non è un ultimo
rintocco in lontananza. Come scriveva Leonida Fazi più di trent’anni fa, “I rintocchi
dell'Africana volano verso l’avvenire”.
Alessandro Scafi
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