I QUADERNI DI S. Francese, una vita in cronaca

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I QUADERNI DI S. Francese, una vita in cronaca
SOMMARIO
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Il giornalismo d’inchiesta e il “metodo Francese”
di Franco Nicastro
Quella generazione del ‘79
di Felice Cavallaro
Il dossier di Mario Francese
J’accuse. La chiave per capire cos’è la mafia
I rapporti tra le cosche sicule
e mafia italo-americana
Quel memoriale promesso da Luciano Liggio
Le riunioni da Liggio
L’escalation di don Peppino Garda
Quel filo che collega quei tre sequestri
Militari e magistrati, due modi di vedere
La “guerra del dopo Campisi-Corleo”
Dietro Mandalà otto nomi, otto delitti
Quando la “mala” tocca un intoccabile
Da Garcia a Russo a Garcia
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Tipografia
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Contrada Zaccanelli
Area P. I. P. 90020
Roccapalumba
Q
Il giornalismo
d’inchiesta
e il “metodo
Francese”
di Franco Nicastro*
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uella sera di trent’anni fa la mafia aprì
una nuova stagione criminale. Definì le
sue strategie interne ed esterne, i metodi,
gli obiettivi. E lo fece cominciando da un
giornalista che prima di altri aveva colto
il senso dei cambiamenti in corso nell’universo
mafioso. La logica dei fatti poteva dunque rendere
chiara e lampante la ragione per la quale era
stato ucciso Mario Francese. Ma perché si potesse
ricostruire il quadro d’insieme abbiamo dovuto
aspettare alcuni anni, le indagini di Falcone e
Borsellino, le rivelazioni di Tommaso Buscetta,
i maxiprocessi. E finalmente, nel 2001, le prime
conclusioni giudiziarie sulla morte del cronista con
la condanna degli uomini della cupola.
Un’altra cosa i cronisti accorsi in viale Campania
quella sera intuirono: che quel delitto era solo l’inizio
di una lunga terrificante e martellante catena di
sangue. Nel 1977 era stato ucciso il colonnello
Giuseppe Russo e nel 1978 il giovane Peppino
Impastato, un militante della sinistra ma soprattutto
un giornalista sui generis che attaccava il boss
Gaetano Badalamenti, lo ridicolizzava alla radio,
denunciava i traffici della cosca di Cinisi.
Alcuni segnali, insomma, c’erano già stati. Erano
arrivati in coincidenza con una ripresa dell’attività
investigativa che aveva avuto impulso dopo
l’insediamento del procuratore Gaetano Costa. Sin
dalle prime battute Costa si era mosso da un lato per
rimuovere inerzie, insufficienze, ritardi sedimentati
nel tempo e dall’altro per allargare lo sguardo
verso il terreno inesplorato degli intrecci tra mafia
e politica, del potere finanziario, dei nuovi affari
di Cosa nostra: appalti, subappalti, grandi opere
pubbliche. Guarda caso, i temi che sempre più spesso
riempivano ormai le cronache di Mario Francese sul
Giornale di Sicilia.
Questa corrispondenza, certamente non casuale,
tra nuovi indirizzi investigativi e inchieste
giornalistiche non poteva passare inosservata
né restare senza conseguenze. La mafia aveva
fino a quel momento “tollerato” che Francese si
occupasse giorno per giorno dei crimini e dei traffici
degli uomini d’onore e ne riferisse con cronache
puntigliose e verifiche assidue delle fonti. Aveva
consentito che Francese desse voce a tanti testimoni
scomodi nei processi di mafia come Serafina
Battaglia e Maddalena Gambino e si impegnasse per
trovare un legale a chi non ne aveva per costituirsi
parte civile. Cosa nostra aveva perfino consentito
che raccontasse la storia di Ninetta Bagarella e
delle sue nozze segrete con Totò Riina. Ma non
poteva accettare che dalle pagine di un giornale di
tradizioni moderate si alzasse il velo sugli interessi
delle cosche verso il più grande affare di quel
tempo, quello legato alla costruzione della diga
Garcia. Francese se ne occupò con un’inchiesta
a puntate che non solo arrivò prima dei rapporti
dei carabinieri ma finì per svelare la rete degli
intrecci che teneva insieme società controllate
dai corleonesi. E questo era troppo. Finiva per
rompere regole non scritte, esponeva il giornalista
in un ruolo “intrusivo”, rendeva esplicita – e agli
occhi dei mafiosi inaccettabile – una concezione del
giornalismo portata oltre la dimensione espositiva e
neutra della cronaca.
C’è un’immagine ripresa negli atti del processo che
descrive simbolicamente il modo in cui Francese
declinava il suo giornalismo: i suoi colleghi lo
ricordano tutti con il taccuino in mano nelle aule
dove si processava la mafia, a fianco del pubblico
ministero, quasi a raffigurare una posizione molto
vicina a quella dell’accusa. Sembrano dettagli
trascurabili che però agli occhi dei mafiosi
assumevano un significato preciso e profondo. E
finivano per alimentare un odio accanito. Ricordo
ancora il livoroso disprezzo con cui don Agostino
Coppola, il prete della mafia, apostrofava Francese
nell’aula dove si processavano gli imputati del
sequestro di Luciano Cassina, un altro passaggio
cruciale della nuova strategia imposta dai corleonesi
di Luciano Liggio e Totò Riina, l’uomo che il cronista
del Giornale di Sicilia aveva già definito “tra i più
sanguinari di Corleone”. Ricordo anche i malumori e
le proteste che si levarono dal banco degli accusati
quando Francese, assumendo per una volta in
pubblico le vesti del testimone partecipante, si
avvicinò alla corte per aiutarla a ricostruire la
mappa, solo la mappa, dell’area in cui era stato
ucciso l’agente Gaetano Cappiello impegnato in
un’operazione antiracket.
Questo era il suo metodo di lavoro. Un testimone
attento, onesto, sensibile, animato da un trasporto
civile che lo portava, nei colloqui con il suo direttore
Lino Rizzi, a rimarcare la grande distanza culturale
e morale tra lui e gli uomini delle cosche.
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Ma anche il suo stile aveva segnato, allora, una
discontinuità con il giornalismo tradizionale. Lo
segnalava acutamente l’avvocato Nino Sorgi, uno
dei più attenti e autorevoli penalisti palermitani:
“Si deve a lui (Francese, ndr) un’impostazione
innovatrice del vecchio concetto di cronaca
giudiziaria. Ricordo che un tempo i cronisti dei
giornali erano cancellieri: riempivano pagine intere,
naturalmente con uno stile notarile, e, comunque,
senza mai andare oltre il dibattimento processuale.
Ecco, Francese fu credo il primo cronista a Palermo
che cominciò a privilegiare la notizia del reato sul
nascere, cioè prima di quella fase, diciamo così,
protetta che è il dibattimento”. La modernità, e
l’attualità, di quello stile diventò una connotazione
forte del lavoro di Francese che cercava appunto la
notizia “sul nascere” – tanto da trovarsi a vedere da
vicino l’esecuzione di un delitto in una taverna della
Vucciria – proprio come dovrebbe fare un cronista
scrupoloso e rigoroso. Il valore di quell’esperienza
non può essere colto nella sua fondamentale
importanza se non va opportunamente richiamata
la differenza rispetto all’oggi del tipo di rapporto
tra le fonti e il cronista. È un tema che investe
l’autonomia del giornalista, la sua indipendenza, la
sua autorevolezza. Al tempo di Francese, e per un
decennio ancora, era il cronista a cercare la notizia
“sul nascere”, a seguirne lo sviluppo e a ricostruirne
il profilo con un lavoro faticoso, difficile, rischioso.
Le fonti difendevano il loro territorio e lasciavano
filtrare solo poche essenziali informazioni. Il resto
era il frutto di un’opera di ricerca e di verifica
che portava il giornalista a contatto diretto con
i fatti, i loro testimoni, i loro protagonisti. Non
giravano verbali, non si convocavano conferenze
stampa, non si offrivano resoconti dettagliati né
comunicati. E molte porte restavano chiuse. Se
oggi le moderne forme di comunicazione hanno
favorito la circolazione delle notizie, con un indubbio
vantaggio per la ricchezza dell’informazione, è anche
vero che l’omologazione è diventata straripante per
l’attenuazione dei filtri critici e che le strategie delle
fonti hanno finito per imporre ai cronisti un rapporto
di dipendenza.
Per questo oggi è giusto chiedersi, anche e
soprattutto all’interno della professione, cosa sia
rimasto nel giornalismo di quello che si può definire
il “metodo Francese” ossia la ricerca sistematica
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della notizia condotta con cura e precisione
artigianale. Poco, e quel poco rimane per l’impegno
di alcuni cronisti che come Francese puntano sulla
qualità e investono sull’indipendenza del loro lavoro
anche in dissonanza con le scelte degli editori e delle
direzioni.
Allora come ora la mafia sa cogliere le evoluzioni
della professione, sa distinguere una cronaca
notarile dall’approfondimento e dall’inchiesta
e sa dunque adeguare agli obiettivi più utili le
proprie strategie. Con Francese venne eliminato
un modello di giornalismo antinotarile e con lui la
metafora di un giornalista che racconta la cronaca
riempiendo il taccuino di appunti. Trent’anni dopo
spetta ai giornalisti conservare la memoria di un
modello professionale sempre meno connotato e
sempre meno praticato. Specie qui in Sicilia dove è
sempre un esercizio rischioso quello di raccontare
semplicemente i fatti a dispetto di ogni tentativo di
oscuramento e di condizionamento. Tra minacce e
autocensure, che è la forma peggiore di abbassare
la schiena, la sfida è ancora quella di produrre
un’informazione libera. È per questo che prima e
dopo Francese si può dire che il giornalismo siciliano
abbia scritto le sue pagine migliori.
*Presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia
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I
Quella
generazione
del ’79
di Felice Cavallaro
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lutti di Palermo, gli orrori della città
mattatoio che con i macellai di Cosa nostra
avrebbe colpito al cuore magistratura e
apparato investigativo, istituzioni e politica,
maggioranza e opposizione, perfino la
Chiesa, ebbero un picco nel 1979, l’anno cominciato
con il delitto di Mario Francese, cronista di
giudiziaria del Giornale di Sicilia.
Per chi ha vissuto da vicino quel drammatico
giro di boa non come distaccato testimone ma da
protagonista coinvolto con tormento e dolore,
parlarne trent’anni dopo significa evocare il golpe
tentato dai “viddani”, dai mafiosi di Totò Riina, i
villani di provincia, come li chiamavano i notabili
di una capitale grassa e molle, popolata da padrini
e banchieri, editori ed esattori, tutti impastati, per
dirla con Vincenzo Consolo, di un odore dolciastro di
sangue e gelsomino.
I golpe, si sa, cominciano dai palazzi
dell’informazione. Era difficile allora interpretare
l’assalto. Ma anche il lavoro dei cronisti e il
loro luogo fisico di lavoro veniva posto sotto
osservazione. Scrutati a vista. Come accadeva a
Mario che a un tratto avvertì il fiato sul collo dei
mafiosi e le attenzioni pelose di quel contesto che
Bruno Caruso esplorava rappresentandolo nelle
sue incisioni con paradisi botanici contrapposti a
velenose teste di medusa.
Un contesto composto da notabili, costruttori,
professionisti untuosi, mollicci profittatori, non
solo pacchiani e volgari sbrigafaccende di politici
e potenti che capitava di incontrare anche in
redazione. Era la città di allora dove tutto era
concesso e tutto doveva sembrare normale,
adeguandosi. Con l’avallo dell’omissione colpevole
di chi avrebbe dovuto controllare. A cominciare
da tanti magistrati ben inseriti in salotti snodo di
trame oblique. E mi dispiace evocare il padre di un
mio amico, Giovanni Pizzillo, il procuratore della
Repubblica sul quale si addensarono i dubbi di
tanti suoi colleghi, a cominciare da Rocco Chinnici,
durissimo nei suoi diari.
Ma è quell’impasto che arrovella ancora, dopo
trent’anni. Un impasto perfino topografico. Penso al
corpo senza vita di Mario, in viale Campania. Sotto
casa. Stesso edificio in cui abitava Pizzillo, per un
caso del destino. Stesso stabile dove cresceva il figlio
Francesco, mio fraterno amico. E dove venivano
su i figli di Francese, pure Giuseppe, il ragazzo che
sarebbe stato preso dall’ossessione del processo,
tanti anni dopo, con una caccia a ritroso su intrecci
sfociati nella disperazione, nel suicidio, una corda
al lampadario. Proprio come era accaduto al figlio
di Pizzillo, anima candida, una roccia per noi tutti,
anche per Francesca Morvillo, non ancora moglie di
Falcone, anche lei della comitiva. Suicida pure lui,
un colpo alla tempia, alla fine incapace di reggere
il sospetto di interrogativi rilanciati dallo stesso
Falcone e altri colleghi del padre.
I ricordi feriscono, ma dobbiamo tirarli fuori per
capire cos’è successo nelle nostre case. Non solo in
quelle dei malacarne.
I suicidi di questi due giovani, lontani nel tempo,
questi drammi che nessuna indagine avrebbe potuto
collegare, riflettono la tragedia di una città a lutto
per lunghe stagioni poi dominate da quei “viddani”
decisi a sostituire i padrini di città e stringere i loro
rapporti con potenti, politici, costruttori, magistrati,
giornalisti, nell’illusione che tutti dovessero sempre
essere pronti a piegarsi, a prestarsi, ad adeguarsi.
A questo travaglio ripenso davanti al buco nero di
Viale Campania dove una gelida sera del gennaio
’79 vidi senza vita il cronista dalle suole di scarpa
consumate, il compagno di scrivania che m’ero
ritrovato accanto nei miei primi passi al Giornale di
Sicilia.
Ero catturato dalla mole delle sue informazioni
raccolte negli ospedali e nelle bettole, negli uffici
di magistrati, carabinieri e polizia, ovvero lungo
i suoi giri che spesso lo portavano fuori città, in
provincia. Per vedere con i suoi occhi, per ascoltare,
tornare e scrivere. Svelando per esempio gli imbrogli
miliardari per costruire la diga Garcia, il grande
affare di allora. Tirando fuori i nomi delle società
mafiose. A cominciare dalla ‘Ri.sa’. E che ne doveva
sapere la gente della ‘Ri.sa’? Ci pensò lui a spiegare
che il nome di quell’azienda celava proprio le iniziali
di Riina Salvatore. Il boss che aveva sposato la
maestrina di Corleone, Ninetta Bagarella, la sorella
di Leoluca, il killer che sei mesi dopo avrebbe ucciso
pure Boris Giuliano, il capo della Mobile.
Riina passava, come Bernardo Provenzano, per
l’uomo più fidato di Luciano Liggio, il grande capo
all’Ucciardone. Entrambi suoi “luogotenenti”, come
si scriveva allora. Come se si trattasse di un esercito.
E lo era purtroppo. Con gli squadroni della morte
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pronti ad agire. Anche con la benedizione di qualche
parrino. Perché dalla loro parte stava pure un pezzo
di Chiesa, come Don Agostino Coppola, finito in
manette per i sequestri che i Corleonesi negli anni
Settanta organizzavano al Nord, in Piemonte, in
Lombardia.
Al processo Mario Francese si avvicinò al pubblico
ministero e quel parrino, immaginando chissà cosa,
forse un suggerimento, scattò con un “cornuto” che
sentirono tutti in aula. Ma non si lasciava intimorire
Mario. Nemmeno da croci e crisantemi trovati sul
cofano della sua auto. E se c’era da aiutare una
povera femmina sola e abbandonata contro i boss che
le avevano ammazzato il marito correva a trovarle
un avvocato.
Prudenza, cominciavano a raccomandargli pure nel
suo giornale.
Non si capì subito chi ammazzò nel ’77 il colonnello
Ninni Russo. E Francese ci lavorò a fondo. Come
feci anch’io con l’aiuto di strettissimi collaboratori
dell’ufficiale ucciso a Ficuzza. Alcuni articoli del
1978 offrirono una buona chiave per capire cosa
accadeva, quale scontro stava maturando fra
provincia e città. Scattava l’assalto. Il golpe. E,
come tutti i golpe, si progettava di occupare radio,
tv, giornali. Ci provavano i Corleonesi, golosi dei
rapporti che i grandi boss della città avevano con
politica, costruttori, esattorie. La guerra di mafia
era vicina. Per i Bontade, gli Inzerillo, i Teresi si
preparava la mattanza. Partita dura combattuta
anche puntando al palcoscenico del giornale dove
veniva bruciata la casa al capocronista, incendiata
l’auto al direttore e rubata una BMW all’editore.
Questa l’escalation culminata nell’assassinio di Viale
Campania, seguito da una resistenza protrattasi
un paio d’anni con un direttore venuto da fuori,
Fausto De Luca. Breve, difficile resistenza contro una
nuova mafia che non si accontentava più del ruolo di
elemento parassitario tra pubblica amministrazione
e produzione, ma voleva diventare essa stessa Stato
e Impresa.
Quando questo quadro non era ancora chiaro,
Mario Francese cominciò a descriverlo. Prima
collaborando a un saggio che sette, otto di noi,
sotto la direzione di Roberto Ciuni, preparammo in
occasione della visita a Palermo di Sandro Pertini.
Poi trasformando le ricerche in un dossier su Cosa
Nostra, una mappa su quartieri e “famiglie”. Un
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lavoro che non fu pubblicato. Con suo disappunto.
Anzi, Francese ebbe la sensazione che il dossier
fosse uscito dal giornale. Una copia rimase a lungo
poggiata su un mobile di fronte alla sua scrivania.
Copia da me spesso consultata per leggere nomi di
personaggi che abitavano anche sotto il giornale,
boss e contrabbandieri della Kalsa. Francese
descriveva una mafia pigliatutto che si occupava
di sbrigafaccende, di banche, costruzioni, grandi
appalti.
Oggi sarebbe facile cogliere nella mancata
pubblicazione di quella miniera di informazioni
una colpevole manovra dei vertici del giornale.
Ma certo se ne pentirono dopo l’agguato a Mario,
quando fu consegnata a me una copia per correggere
delle sviste e trasformare il lavoro in dieci puntate
stampate nell’inserto settimanale del “Sicilia”.
Avvertivo la reponsabilità del compito, la necessità
di intervenire al minimo, terrorizzato dai miei
possibili errori. Doveva essere la stessa copia sparita
per tanti giorni dal giornale, come aveva protestato
Francese, preoccupato di non trovarla al suo posto.
Ma era ricomparsa. E lui, come si legge anche nelle
carte processuali, se l’era riportata a casa. Sconfitto
e amareggiato perché il suo giornale non dava
adeguato risalto all’analisi di un dossier che parlava
di una spaccatura dentro la “commissione” di Cosa
nostra fra i “guanti di velluto”, cioè i moderati
come Gaetano Badalamenti, e i “liggiani” fra i quali
emergevano Riina e Provenzano e tanti nomi allora
nuovi.
Al punto che il giornale concorrente, L’Ora, dopo la
morte di Francese s’azzardò a dargli del “visionario”.
Una sbandata di colleghi pur con pregi e meriti
nell’impegno antimafia. Vuoi o non vuoi, cominciò
così un’opera demolitoria giocata soprattutto
sull’annullamento della memoria. Non solo a
Palermo. Lino Rizzi, il direttore dell’auto bruciata,
ebbe per Francese il premio Saint Vincent alla
memoria nel giugno ‘79. Poi intitolarono a Mario
il premio dell’Unione cronisti, quello del cronista
dell’anno. Lo chiamarono “Premio Francese”. E
un anno lo consegnò il figlio Giulio, poi assunto al
“Sicilia”, ai familiari di Walter Tobagi. Ma anche
questo é un mistero. Improvvisamente, il premio
dei cronisti non si chiamò più “Francese”, come si
rammaricò lo stesso Giulio.
Fu anche assegnata per Mario una vistosa targa
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di bronzo a Cefalù. La ritirò Rizzi e la espose in
uno scaffale del suo studio. Restò lì col nuovo
direttore, De Luca, uno dei fondatori di “Repubblica”,
approdato per due anni a Palermo da dove andò
via nell’82, subito dopo l’omicidio Dalla Chiesa.
Con il nuovo direttore la targa sparì. Per caso un
collega la trovò in un magazzino, abbandonata fra
tante cianfrusaglie. La prese ed irruppe durante
un’assemblea di redazione inveendo contro la
direzione, gridando che la targa doveva essere
rimessa al suo posto. Così accadde. Per qualche
tempo.
Piccole storie estranee a una inchiesta giudiziaria
che invece ha zoomato sulla redazione in cui ha
lavorato Francese, pure su alcuni colleghi che
s’erano ritrovati a cena con qualche boss o in
sintonia con potenti come gli esattori Salvo. Nulla
di penalmente rivelante, per fortuna, ma frizioni,
acidità, sordi contropiedi hanno segnato una
generazione di cronisti. Con realtà, finzione e veleni
che miscelati quasi mai hanno per risultato la verità.
O forse trent’anni non bastano per dare il giusto peso
alle cose che meritano attenzione e sottrarre zavorra
alle ricostruzioni improprie. Ma si può cercare di
ricordare e cominciare a raccontare tutto. Sforzo
dovuto per una categoria che in Sicilia ha pagato
caro, con altri sette giornalisti come Mario Francese
caduti sul fronte della notizia.
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Dall’album
della famiglia Francese:
Mario con la moglie
Maria Sagona
e i figli Giulio e Fabio
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il Dossier
di Mario Francese
L
11 marzo 1979
J’accuse.
La chiave
per capire
cos’è
la mafia
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a mafia è come una congregazione di
mutua assistenza che ha suoi uomini
in ogni struttura dell’apparato dello
Stato e della società dove li infiltra,
nell’apparente rispetto della legalità,
per ricavarne vantaggi puntando sulla corruzione,
sull’omertà, sul rispetto. Attraverso il suo sviluppo,
la mafia ha fornito negli anni possibilità di lavoro
illegale o legalizzato, solidarietà, assistenza,
collaborazione in ogni iniziativa le cui finalità non
sono in contrasto con i principi dell’“organizzazione”.
Ma, pur assicurando collaborazione ed assistenza
ad uomini inseriti nella malavita, la mafia non si
identifica con nessuna delle associazioni a delinquere
che proliferano nei quartieri popolari della città.
Ogni gruppo può agire nell’ambito di una zona
limitata in modo autonomo, purché non infranga le
regole dell’“onorata società” e non ostacoli i piani
delle “famiglie” che comandano.
La mafia protegge questi gruppi così come alimenta
ogni iniziativa parassitaria ed antisociale non
allo scopo di demolire le istituzioni dello Stato
ma, piuttosto, per penetrare meglio nel tessuto
sociale e trarne vantaggi sempre più grandi. Nel
corso degli anni, c’è stata una vistosa evoluzione
all’interno dell’organizzazione, rappresentata come
una piramide il cui vertice è costituito da persone
non sempre facilmente identificabili che, con criteri
manageriali, manovrano le fila di complessi interessi
economici a livello nazionale e internazionale. Al
vertice esecutivo dell’organizzazione si giunge per
meriti propri, per capacità organizzativa, forte
personalità, spregiudicatezza, coraggio.
Come si vede, siamo davanti ad una moderna
concezione dell’organizzazione che è un
superamento della mafia di città (preceduta dalla
mafia delle campagne e delle borgate), peraltro non
in contrasto con le cosche mafiose operanti nelle
varie zone. Le cosche cittadine e provinciali in fondo
costituiscono le basi di quella che abbiamo definito
“una piramide”. Ed ogni cosca da questa moderna
organizzazione, come ha sottolineato Henner Hess,
trae vantaggi, impensabili in potenza, immunità e
nei suoi traffici.
Più in generale, l’“onorata società” è riuscita a darsi
strutture e mezzi adeguati per un inserimento nei
commerci tra Nord e Sud, tra l’Italia e i paesi della
Comunità europea.
Attività
Non è un caso se in questi ultimi anni sono sorte
moltissime società di autotrasporti. È emerso con
chiarezza anche in occasione del cosiddetto processone
ai 114 della “mafia nuovo corso”. È uno dei sintomi
relativi all’espansione dei traffici oltre lo Stretto.
Ricordiamo che molti titolari di società di
autotrasporti, spesso mimetizzati da una sigla o da
una denominazione, figurano negli elenchi dei mafiosi.
E in diverse associazioni per delinquere ritroviamo
camionisti di ogni città. Tuttavia, mentre assistiamo
al boom degli autotrasporti, non mancano le società
che falliscono: riesce a stare in “sella” chi ha agganci e
protezioni e, soprattutto, chi si presta ad ogni “tipo” di
trasporto.
Basti qualche esempio: la cocaina sequestrata sui
camion addetti al trasporto dei marmi, le casse di
sigarette trovate su camion carichi di mobili o di
cassette di frutta, lo zucchero zootecnico importato
a prezzo agevolato dai Paesi del Mercato comune e
trasportato con i camion operanti nel porto di Palermo
nei centri della sofisticazione del vino. Una società
sulla quale gli inquirenti sono riusciti a mettere le
mani addosso è quella che ha fatto capo al presunto
capomafia di Baucina, Francesco Realmuto, morto
recentemente. Una società che ha raggiunto in pochi
anni un capitale di oltre un miliardo.
Contrabbando
Il contrabbando di droga, sigarette, valuta e preziosi
è la principale attività che consente alla mafia di
dominare la malavita dei quartieri imponendosi come
fonte primaria di lavoro. Migliaia di disoccupati, di
invalidi, di persone appena uscite dal carcere vivono
infatti di contrabbando. Da non sottovalutare un
aspetto sociale di fondamentale importanza: sono tutte
persone distratte da reati più gravi come gli scippi, le
rapine, i furti.
Le società di quartiere
Stanno, su piani diversi, naturalmente, il contrabbando
di droga, valuta e preziosi e quello dei tabacchi.
Palermo è divisa in zone ed ogni zona ha i suoi
esponenti in seno alla “società” in cui sono
rappresentati gran parte dei quartieri. Funziona
proprio come una società per azioni, con un
amministratore che affida i compiti ai componenti,
con il cassiere, con gli uomini designati per reperire
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la merce, con i capi che debbono tenere i contatti con
l’“esecutivo”.
Per il contrabbando di sigarette la “società” crea
delle basi operative che variano da periodo a periodo.
Si ricorre ad espedienti suggeriti dall’esperienza.
Per sbarcare senza danni un grosso quantitativo
di sigarette nella zona di Termini Imerese, si può
così attirare l’attenzione della Guardia di Finanza a
Balestrate sacrificando un modesto quantitativo di
tabacchi. Ogni società ha auto di grossa cilindrata,
potenti motoscafi, propri mezzi navali ed automezzi
pesanti, tutti ufficialmente di proprietà di persone
insospettabili. Ciò spiega le difficoltà della Guardia
di Finanza che non è mai riuscita ad individuare
i finanziatori del contrabbando, probabilmente
personaggi mascherati da un perfetto perbenismo. La
ripartizione degli utili varia in base alla cifra investita
nell’operazione e ai rischi corsi.
È accaduto qualche volta che nella stessa zona si siano
costituite più “società”. Inevitabile lo scontro con
battaglie caratterizzate perfino da singolari alleanze
tra gruppi di contrabbandieri e finanzieri.
Gli esponenti delle società mantengono i contatti con i
“vertici” esecutivi del contrabbando, rappresentati per
anni da Gerlando Alberti, Tommaso Buscetta, Luciano
Liggio. Questi ultimi, a loro volta, fanno da tramite con
i fornitori tra i quali spiccano i terribili cugini Greco di
Ciaculli.
L’organizzazione ha i suoi agganci dovunque: si pensi
che spesso i contrabbandieri riescono a tornare in
possesso dei mezzi sequestrati partecipando alle “aste”
giudiziarie. Gli introiti del contrabbando trovano
sbocchi diversi. C’è chi investe i ricavi in attività
lecite, soprattutto nel settore edilizio, chi torna a
partecipare ad altre operazioni di contrabbando e chi
costituisce società di diverso tipo: nascono così catene
di ristoranti, boutiques, negozi di elettrodomestici, di
mobili, bar. Altri controllano case da gioco clandestine,
acquistano zavorriere e motopesca, investono in
cavalli da corsa, comprano vaste estensioni di ortaggi
a prezzi di assoluta convenienza, si dedicano all’usura
imponendo tassi di interesse che si aggirano intorno al
20, 30 per cento, ogni tre mesi, ricettano oggetti rubati.
Questo complesso ingranaggio spiega la forte
solidarietà tra tutti gli anelli della catena, dalla base
al vertice e spiega anche perché molti “sconti” non
possano essere regolati per le vie legali.
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Contrabbando di stupefacenti
Da trenta anni le basi di questo tipo di contrabbando
sono Palermo, Castellammare del Golfo, Salemi, Cinisi,
Napoli, Roma e Milano. La droga viene smistata in
USA, proveniente dalle raffinerie della Francia, della
Corsica e dei paesi orientali. Un traffico possibile per
i legami tra i vertici esecutivi dell’organizzazione con
emissari d’oltreoceano, spesso siculo-americani.
Nella penisola e in Sicilia operano numerosi gruppi,
collegati con “agenti” di “Cosa nostra”, tra i quali negli
ultimi tempi Salvatore Catalano, oriundo di Borgetto,
emigrato negli Stati Uniti dopo la conclusione del
processo ai 114 della nuova mafia. Catalano è collegato
con l’italo-canadese Guido Orsini, abbastanza noto al
F.B.I. e alla Guardia di Finanza.
è possibile tracciare una planimetria dei gruppi
operanti in Sicilia e nella penisola (escludendo per
il momento quelli di Milano che fanno capo a Liggio
ed Alberti e sui quali tenteremo un approfondimento
parlando della “mafia del Palermitano”).
NAPOLI: Salvatore Filippone, Gaetano Filippone,
Giacomo Sciarratta, Tom Greco, Gennaro Napolitano,
Michele Zasa, Tommaso Spadaro e Stefano Bontade.
BOLOGNETTA: Giovanni Pitarresi, Salvatore Lo Cascio,
Rosario Minì, Antonino Sclafani, Ciro Lo Cascio.
ERCOLANO: Antonino e Giacomo Camporeale.
ROMAGNA (Lugo): Salvatore Schillaci.
PESCARA (Tosca Casaulia): Arturo Vitrano.
REGGIO EMILIA (Cavirago): Pietro Salerno di Paceco.
MODENA: Antonino Pollina di Alcamo.
ARICCIA: Antonino Melodia di Alcamo.
RIMINI: Antonino Sorci.
TARANTO (Ginosa): Pietro Sorci.
BARI (Conversano): Giuseppe Pomo.
GENOVA: Calogero Bartolo di Cinisi.
ST. VINCENT: Vincenzo Randazzo di Cinisi.
VAL D’AOSTA: Faro Randazzo di Cinisi.
CATANIA: Giuseppe Calderone e i fratelli Seminara.
CASTELLAMMARE DEL GOLFO: Diego Plaia,
Giuseppe Magaddino, Giuseppe Scandariato, Giovanni
Bonventre, Giuseppe e Serafino Mancuso, i fratelli
Cataldo.
TAORMINA: Rosario Vitaliti e Francesco Scimone.
MARSALA: il gruppo di Vincent Martinez.
SALEMI: Salvatore Zizzo, i suoi fratelli e Giuseppe
Palmeri.
PARTANNA: fratelli Accardo.
MISILMERI: Antonio Cimò, Francesco Vasta, Giuseppe
19
Chiaracane, Edoardo Ducati, Francesco Mutolo.
Il gruppo principale è quello costituito dai fratelli e dai
cugini Greco di Ciaculli. Chiamiamolo per comodità
gruppo n. 1 e diciamo che è collegato direttamente con
il gruppo n. 2 (Pietro Davì e Giuseppe Albanese) e con
il gruppo n. 3 (Antonino Salamone, cognato di Totò
Greco l’ingegnere, Paolo e Nicola Greco).
Il gruppo n. 2, a sua volta, è collegato con il gruppo n. 4
(Teresi, Citarda, Bontade, fratelli Spadaro, Tommaso
Magliozzo, Francesco Cambria). Il gruppo n. 3 è invece
collegato con il gruppo n. 5 (Alberti) e, a Palermo,
con il gruppo n. 6 (Giuseppe Bono) e a Roma con il
n. 7 (Mangiapane-Sciarrabba, Corso). Quest’ultimo
è in stretto contatto con i gruppi n. 8 di San Lorenzo
Colli, n. 9 di Terrasini e Cinisi, e n. 10 di Villabate. Il
gruppo n. 4 è collegato con il n. 11 di Carini, che fa
capo a Calogero Passalacqua. Il gruppo romano n. 7 è
direttamente collegato con i gruppi di Castellammare e
del Trapanese.
Gruppo Roma – Lazio
Costituito da Lucky Luciano (Salvatore Lucania)
e dal vecchio boss di Partinico Frank Coppola, è
il primo gruppo trapiantatosi nella penisola per
tenere i collegamenti con esponenti italo-americani
di “Cosa nostra”. Del gruppo fanno parte anche
Antonino Buccellato, rappresentante della famiglia
di Castellammare del Golfo. Giuseppe Corso (nato nel
1889) e il figlio Giuseppe del ’27, sposato con una figlia
di Frank Coppola, entrambi di Partinico, Filippo Rimi
e il fratello Natale di Alcamo, Gian Battista Brusca
e Giuseppe Mangiapane di Castellammare e Giusto
Sciarrabba di Palermo.
Il traffico di stupefacenti per gli Stati Uniti ha fatto
leva su questo gruppo. Ed è logico, quindi, che a
questo gruppo abbiano fatto capo i vertici siciliani
del contrabbando della droga, cioè Luciano Liggio,
Gerlando Alberti, Gaetano Badalamenti, Tommaso
Buscetta e i cugini Greco di Ciaculli.
Dal 1975, per presunti rapporti confidenziali con il
questore Angelo Mangano, impegnato nella cattura
di Luciano Liggio, Frank Coppola sarebbe stato
detronizzato. L’organizzazione romana sarebbe ora
passata nelle mani del più giovane dei Rimi, Natale,
e di Giuseppe Corso junior, implicato nella fuga di
Liggio da villa Margherita, la clinica romana in cui era
ricoverato.
20
Altri traFfiCI clandestini
Fra le numerose attività in cui è impegnata
l’organizzazione mafiosa da ricordare il riciclaggio del
denaro sporco (basti ricordare il caso di Alfredo Pantò,
dipendente dell’Ente minerario siciliano), il commercio
di vino sofisticato (un mafioso di Bagheria, Tommaso
Scaduto, ha allestito addirittura una flottiglia con basi
a Trappeto, Marsala, Anzio e Genova), il traffico dello
zucchero alimentare e zootecnico da utilizzare per la
sofisticazione (un processo si è concluso nell’aprile
del ’78 con multe fra i 35 e i 40 milioni), il racket del
latte sofisticato (la mafia ha abusato delle agevolazioni
previste per l’importazione dai Paesi del MEC di
latte in polvere ad uso zootecnico, poi venduto come
latte genuino), il traffico della valuta e dei preziosi
(l’Interpol ha informato la questura di Palermo, con
una nota del 21 ottobre 1976, dell’esistenza di un
traffico di preziosi tra Italia e Belgio con particolare
riferimento a Palermo).
Come si vede, la mafia non trascura alcun settore pur
di realizzazione guadagni ingenti. Guadagni che le
hanno via via consentito di migliorare i propri mezzi,
al punto da rendere estremamente difficile il compito
di chi dovrebbe sgominare l’“organizzazione”.
21
M
18 marzo 1979
I rapporti
tra
le cosche
sicule
e mafia
italoamericana
22
afia, fenomeno in continua
evoluzione, anche nel ’78
contraddistinto da una sua
peculiarità. Ai delinquenti
assassinati nell’ambito della
lotta tra cosche, alle mezze cartucce uccise per
“regolamento di conti”, come dicono gli inquirenti,
nel ’78, si sono aggiunte alcune morti decisamente
atipiche. Delitti che hanno fatto pensare a
ristrutturazioni nell’“organizzazione”, a lotte
intestine per l’attribuzione di cariche direzionali
in seno alle “famiglie” di Palermo, delle sue borgate
e dei comuni della provincia. Eravamo abituati a
registrare, dal lontano 1957, omicidi nell’ambito
della guerra di cosche contrapposte: tra “liggiani” e
“navarriani”, tra seguaci di La Barbera e dei Greco.
“Si uccidono tra loro”, era il commento dei dirigenti
della squadra mobile e degli ufficiali dei carabinieri.
Ma nell’ambito di quale guerra si possono collocare
gli omicidi di persone come l’avvocato Gaetano
Longo, per molti anni sindaco di Capaci, consigliere
comunale democristiano, direttore della Banca del
Popolo di Palermo, o dell’avvocato Ugo Triolo di
Corleone, vice pretore onorario di Prizzi? Difficile –
per non dire impossibile – dare una risposta a questa
domanda. Anche perché le analisi sulla mafia sono
diventate veramente complesse negli ultimi anni. Si
pensi, per esempio, alla sua espansione determinata
anche dall’indiscriminata applicazione di misure di
prevenzione con provvedimenti di soggiorno obbligato
in comuni lontani dalla Sicilia: si è finito per esportare
mafiosi e delinquenti comuni in tutta la penisola. E
si son esportate anche sacche di miseria, di problemi
individuali, certamente non risolti dalle 700 lire al
giorno previste per i più indigenti.
Si sono così creati vasti strati di diseredati,
esposti ad umiliazioni e disagi, facile preda di
un’“organizzazione”, come si è detto, pronta
all’assistenza, alla collaborazione, alla solidarietà.
Naturalmente, a patto che a tutto ciò corrisponda
disponibilità, rispetto, omertà.
Non si spiega, altrimenti la potenza organizzativa
raggiunta da gruppi ai quali fanno capo Luciano
Liggio, Gerlando Alberti, i cugini Greco di Ciaculli,
Frank Coppola. Personaggi diventati dei veri e
propri “simboli” per emarginati che avvertono lo
Stato addirittura come espressione di una casta
prevaricatrice ed iniqua.
Polizia e carabinieri non avrebbero mai potuto
controllare questo gran numero di pregiudicati
distribuiti in diverse regioni del Paese.
Contemporaneamente si è avuto il perfezionamento dei
mezzi di trasporto e di comunicazione. Ciò ha facilitato
la ricerca e il consolidamento dei rapporti tra confinati
e gruppi di mafiosi stabilitisi sin dagli anni ’60 in
Piemonte, Lombardo, Lazio, Toscana e Campania per
tenere stretti collegamenti con gli italo-americani di
“Cosa nostra”.
La mafia si evolveva e le forze di polizia restavano
con mezzi inadeguati mentre si approvavano leggi
buone nel campo dei diritti civili. Ma proprio queste
leggi hanno messo in moto un meccanismo perverso.
Si pensi alla legge che garantisce la riservatezza delle
conversazioni telefoniche, alle innovazioni del codice
di procedura penale finalizzate al potenziamento dei
diritti di difesa di ogni cittadino ma anche di ogni
imputato, alla riforma carceraria con l’introduzione
dell’uso del telefono nelle prigioni.
Uomini come Liggio, Coppola, Alberti, Buscetta, pur
detenuti, assicurando con il loro prestigio un certo
ordine nel carcere hanno goduto in contropartita
di privilegi che hanno consentito loro di tenere
collegamenti con l’esterno e, soprattutto, con i
luogotenenti.
Abbiamo fatto un cenno su “Cosa nostra”. I rapporti
tra le “famiglie” d’oltreoceano e quelle siciliane si
concretizzano nel varo di un programma comune
a carattere internazionale formalizzato, o meglio
ratificato nelle “assise” di mafia all’albergo Arlington
di Binghmantoan dal 17 al 19 ottobre 1956, all’Hotel
des Palmes di Palermo dal 12 al 16 ottobre 1957 e ad
Apalachin il 14 novembre 1957.
Un rapporto della squadra mobile del 28 luglio
’65 mise in evidenza l’intensa attività nel traffico
di stupefacenti, valuta e tabacco tra Stati Uniti e
Sicilia. Il 31 gennaio ’66 vennero rinviati a giudizio
per associazione in traffici illeciti Frank Garofalo di
Castellammare del Golfo, residente a Palermo, Santo
Sorce di Mussomeli abitante a New York, Vincent
Martinez di Marsala, Gaspare Magaddino, Diego Plaja
e Giuseppe Magaddino, tutti e tre di Castellammare,
Giuseppe Corrito di Villabate, ma residente a Los Gatos
negli USA, Giuseppe Scandariato di Castellammare,
Filippo Gioè Imperiale di Palermo, Frank Coppola di
Partinico residente a San Lorenzo in Ardea di Pomezia
nel Lazio, Gaetano Russo di Palermo residente a New
23
York, Rosario Vitalità di Taormina, Francesco Scimone
di Boston residente a Taormina, Angelo Coffaro di
Palermo, Giuseppe Bonanno e Giovanni Bonventre
di Castellammare, Giovanni Priziola di Partinico
residente nel Michigan, Camillo Galante di New York,
Raffaele Quarsano di Detroit, Calogero Orlando di
Terrasini.
Precursori di questa nuova associazione siculoamericana erano stati Salvatore Lucania (Lucky
Luciano) e Frank Coppola, entrambi espulsi dagli
USA, rispettivamente nel ’45 e nel ’48. Luciano
riallacciò rapporti con il palermitano Pasquale Enea,
indiziato nel 1909 dell’assassinio del tenente di
polizia americana Joseph Petrosino, collegato ad una
rete internazionale di contrabbando di droga e ai
pregiudicati palermitani Rosario Mancino, Pietro Davì,
Giacinto Mazzara e Antonino Sorgi.
Non mancava una ricca documentazione sui
collegamenti tra le “famiglie” siciliane e quelle
d’oltreoceano: il rapporto dell’americano Mc Clellan, le
rivelazioni di Joseph Valachi, le note informative tra
polizia italiana e statunitense.
Segni premonitori dell’inizio del traffico di stupefacenti
tra Sicilia e Stati Uniti si erano avuti nel giugno del
’49, quando la Guardia di Finanza arrestò a Ciampino
l’americano Vincent Charles Trupie, un corriere che
portava addosso 9 chili di eroina. Avrebbe dovuto
consegnarli a Francesco Pirico, un milanese poi
catturato.
Altri “segni”: il 6 aprile 1951 all’aeroporto Urbe di
Roma la Guardia di Finanza arresta l’americano Frank
Callaci con 3 chilogrammi di eroina. Lo stesso giorno
a Palermo viene bloccato l’italo americano Francesco
Callaci, zio di Frank; nel luglio del ’51 il nucleo di
polizia tributaria di Roma controlla una serie di ditte
farmaceutiche del Nord autorizzate al commercio di
stupefacenti. Si scopre che dal ’48 al ’50 cinque ditte
(Alfa di Savona, Lodi di Genova, Gastoldi di Genova,
Sace e Saipom di Milano) hanno venduto 716 chili
di stupefacenti regolarizzando i propri libri di carico
e scarico con documenti falsi. Furono coinvolti nel
traffico Salvatore Vitale, “Totò il piccolo” di Partinico
fuggito in America, Cristofaro Caruso di Palermo,
latitante, Agostino Simoncini e Salvatore Torretta di
Palermo. Denunciate, al termine delle indagini, 23
persone, tra le quali Frank Coppola, allora latitante.
Chiusa la “fonte” delle farmacie, la mafia tenta di
importare oppio dalla Jugoslavia e dalla Bulgaria e di
24
impiantare in Sicilia un laboratorio clandestino per
la sua lavorazione. La squadra mobile di Palermo e il
nucleo di polizia tributaria delle “Fiamme Gialle” di
Roma nel febbraio del ’67 presentarono un dettagliato
rapporto contro 91 persone. Ci sono tutti i nomi dei
boss del gotha mafioso accanto ad altri meno noti. Al
processo ne venne allegato un altro scaturito da un
rapporto della sezione narcotici della squadra mobile
del 23 febbraio ’66 contro Gaetano Badalamenti,
Giuseppe Bertolino, Pietro Davì, Elio Forni, Salvatore
Greco, Angelo La Barbera, Rosario Mancino, Giacinto
Mazzara e Antonino Sorci, tutti accusati come i “91” di
“traffici illeciti”.
A distanza di dodici anni questi processi sono
paradossalmente ancorati alla fase istruttoria, dopo un
palleggiamento di competenza tra il tribunale di Roma
e quello di Palermo. La magistratura romana ha poi
ammesso la competenza dei giudici palermitani. Ma
gli atti si sono bloccati all’ufficio istruzione di Palermo
in attesa che l’indagine giudiziaria prendesse il via.
Naturalmente, a distanza di tanti anni, difficilmente
l’inchiesta potrà essere avviata, sia per il gran numero
di imputati che per tutte le incombenze formali
richieste dalla nuova procedura. Tuttavia l’indagine
avrebbe consentito un controllo sulla posizione dei boss
della droga e, almeno, avrebbe fornito agli inquirenti
una mappa aggiornata dei “gruppi” e dei loro capi. Non
se ne è fatto niente.
Si tratta di processi ai quali si giunse tra il ’65 e il ’67,
cioè dopo l’esplosione della “Giulietta-bomba” a Ciaculli
e qualche anno dopo i rapporti congiunti di squadra
mobile e carabinieri che tra il ’63 e il ’64, denunciarono
prima un gruppo di 33 imputati capeggiati da Angelo
La Barbera e, successivamente, altre 54 persone
capeggiate da Pietro Torretta.
I due processi, abbinati e celebrati presso la Corte di
Assise di Catanzaro si sono conclusi con condanne
minime per associazione a delinquere e con
l’assoluzione per tutti gli imputati, tranne che per La
Barbera e Torretta.
Evidentemente squadra mobile e carabinieri sono
venuti a conoscenza delle operazioni e dei controlli
eseguiti dalla Guardia di Finanza soltanto a distanza
di molti anni. Un gran numero degli imputati nei due
processi tenuti a Catanzaro figurano nei rapporti
delle Fiamme gialle. Se gli inquirenti avessero potuto
leggerli nel ’60, probabilmente si sarebbe potuto
evitare lo spargimento di sangue provocato dalla lotta
25
tra le cosche.
Si sarebbe dovuto costituire un centro misto di
controllo della mafia tra polizia, carabinieri e guardia
di finanza. Un centro con uno schedario da aggiornare
almeno ogni mese per controllare gli stranieri e gli
uomini dalla doppia nazionalità.
Il lavoro in comune fra i tre corpi di polizia avrebbe
consentito di avviare il tentativo di disciplinare
il settore degli autotrasporti e quello dei portuali,
settori di cui spesso si serve la mafia per una vasta
gamma di attività illecite. E si sarebbero potute
controllare le società che spesso costituiscono soltanto
il paravento di personaggi ben mimetizzati dietro una
sigla insignificante per riciclare denaro sporco, per
speculare, o usufruire delle provvidenze che lo Stato
e le regioni dispongono per incentivare iniziative
industriali e produttive nelle zone depresse.
Mario Francese
alle prese con una gara
di trotto per giornalisti
all’ippodromo
della Favorita
26
27
C
26 marzo 1979
Quel
memoriale
promesso
da Luciano
Liggio
28
arabinieri, polizia, studiosi dei fenomeni
mafiosi concordano tutti su un punto:
che i sequestri dell’esattore di Salemi
Luigi Corleo, preceduto di pochi giorni
dal rapimento del professor Nicola
Campisi, il sequestro di Graziella Mandalà, moglie
dell’ex costruttore Giuseppe Quartuccio, la catena di
omicidi intorno a Corleone apertasi nel ’75, l’omicidio
del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, la
soppressione di Ignazio Scelta e di Baldassare Garda
sono le conseguenze più eclatanti di una guerra tra le
due cosche dominanti in Sicilia e, forse, addirittura in
tutta la penisola.
La mafia si sarebbe dunque spaccata in due tronconi
contrapposti, con caratteristiche e programmi
inconciliabilmente diversi. In questa lotta, il primo
tenterebbe di conservare posizioni raggiunte in
decenni di intensa attività, l’altro gruppo di imporre la
sua legge e i suoi sistemi.
Secondo una schematizzazione attendibile, sarebbero
queste le due grandi “famiglie” che si contendono il
predominio: la cosca dei cosiddetti “liggiani” e quella
dei “guanti di velluto”.
La prima programma rapine e sequestri e controlla
a livello nazionale il contrabbando di sigarette
e di droga: l’altra è composta da mafiosi fedeli ai
tradizionali schemi dell’“organizzazione” che,
attraverso una serie di società-paravento, hanno
indirizzato i loro programmi verso le opere pubbliche
finanziate dallo Stato soprattutto nel Mezzogiorno e,
in particolare, nella Sicilia occidentale colpita nel ’68
dal terremoto. I fondi per la ricostruzione della Valle
del Belice hanno fatto gola a tanti uomini direttamente
o indirettamente impegnati nella realizzazione di
opere stradali, di invasi e dighe.
Vediamo quali sono gli eventi appariscenti che
suffragano l’ipotesi dell’esistenza di due tronconi
mafiosi in guerra in un vastissimo campo disseminato
di morti ammazzati.
Il primo punto determinante è costituito dalla
“promozione” di Gaetano Badalamenti, “capo-famiglia”
di Cinisi, 56 anni, a “presidente della commissione”
dell’organizzazione mafiosa del Palermitano, dopo
la morte del boss di Caccamo, Giuseppe Panzeca,
deceduto nel suo letto il 31 marzo 1967. Un’elevazione
avvenuta secondo un antico rituale mafioso, con la
partecipazione dei “capi-gruppo”, ognuno dei quali
rappresentante cinque “famiglie”.
L’altro evento, quasi concomitante, è costituito dalla
clamorosa fuga di Luciano Liggio dalla clinica romana
del professor Bracci. Accadde il 24 novembre 1969.
Trasferito nella casa di cura privata dell’ospedale di
Reggio Calabria per essere sottoposto ad un delicato
intervento chirurgico alla vescica. Liggio riuscì poi a
dileguarsi sotto il naso degli agenti.
La fuga ha avuto strascichi pesanti. Se ne interessò
la commissione antimafia nominata dal Parlamento
per studiare il fenomeno mafioso. E se ne occupò il
Consiglio superiore della magistratura, nel tentativo
di individuare eventuali responsabilità da parte dei
magistrati.
Dove si stabilì l’ex primula di Corleone subito dopo
la fuga romana e prima del suo arresto avvenuto a
Milano, il 4 luglio 1974?
Tentò di stanarlo il colonnello dei carabinieri Giuseppe
Russo, allora comandante del nucleo investigativo
di Palermo. Gli diede la caccia seguendo le sue piste
finché non riuscì a stabilire la sua presenza in una
cittadina della provincia di Palermo tra il ‘72 e il ‘73.
Assolto per insufficienza di prove per una serie
di delitti al primo processo di Bari, Liggio fu poi
scarcerato. Quando seppe della modifica del verdetto
in ergastolo al giudizio di appello, non pensò certo a
costituirsi.
Avrebbe trovato una rete di protezione idonea per
garantirgli una tranquilla latitanza solo in provincia
di Palermo dove era già riuscito a nascondersi
addirittura per 19 anni al punto da meritarsi
l’appellativo di “primula” di Corleone. La sentenza
di Bari, come si dice in termini giudiziari, fu resa
definitiva dalla corte di Cassazione nel ’71: a quel
punto per Liggio non restavano alternative alla
latitanza.
La conferma della sua presenza nel Palermitano nel
maggio 1973 l’ho avuta dallo stesso Liggio. Tramite
un vecchio avvocato poi scomparso, Franco Berna, la
“primula” preannunciò un suo memoriale che avrebbe
anche presentato alla Corte di Assise di appello
di Bari, cioè ai giudici che lo avevano condannato
all’ergastolo, in modo da chiedere la revisione del
processo.
Con tutta probabilità Liggio si trasferì dunque in
provincia di Palermo sia per usufruire della “rete di
protezione”, che per contattare i testi sui quali far leva
nella stesura del memoriale.
Il colonnello Russo era convinto che Luciano Liggio si
29
nascondesse a Piano Zucco, in gran parte controllato
a quell’epoca dal parroco di Carini, Don Agostino
Coppola, e dai fratelli Giacomo e Domenico. Controllato
da loro ma di proprietà di Giacomo Chiello, abitante
a Palermo in via Libertà, personaggio sotto certi
aspetti ambiguo, causa indiretta dell’agguato subito
dall’allevatore Francesco Paolo Randazzo il 27 ottobre
1974, rinviato a giudizio nel ’77 per contrabbando di
sigarette.
Alla fine del ’73 Liggio, che nel frattempo era andato
spesso a Milano eludendo ogni controllo, cambiò
parere. Non pensò più alla revisione del processo di
Bari. E a me, che aspettavo il memoriale promesso
attraverso l’avvocato Berna, fece sapere che non se
ne sarebbe fatto niente e che avrebbe preferito “esser
considerato morto”.
Si trasferì in quel periodo in Calabria. Lo prova
un viaggio nella regione di Don Agostino Coppola,
poi implicato nel sequestro dell’ingegner Luciano
Cassina. Già a quell’epoca Liggio aveva deciso il suo
programma: sequestri di persona e controllo del
contrabbando.
Per mimetizzare i veri motivi della sua missione,
Don Coppola si fece accompagnare in Calabria da
una ragazza che interrogata, ha poi detto di essersi
innamorata del sacerdote e, praticamente, di non
essere riuscita a conquistare il suo amore.
Dalle Calabrie a Milano: Liggio trovò nella metropoli
l’appoggio di Gerlando Alberti, il boss palermitano
meglio noto con il nomignolo “’u paccarè”.
Ma a Milano Liggio fu poi arrestato perché coinvolto
in una eclatante serie di sequestri di persone e
condannato a 18 anni di reclusione insieme ad altri
siciliani tra i quali spicca padre Agostino Coppola
condannato a 14 anni.
Ma perché l’ex primula di Corleone rinunciò alla
comoda rete di protezione del Palermitano per
trasferirsi nelle Calabrie prima e in Lombardia poi?
Fuggito dalla clinica romana nel novembre ’69, Liggio
appena giunto in provincia di Palermo strinse un
patto di ferro con la mafia di Partinico, San Lorenzo
Colli e Borgetto. La sua presenza è documentata da
un atto notarile con il quale Liggio, revocando ogni
sua precedente decisione, nominò la sorella Maria
procuratrice legale di tutti i suoi beni. Non solo ma
si è certi che in quel periodo fece consegnare alla
sorella 40 milioni per acquistare un feudo in contrada
Casale dove già possedeva 9 salme di terra. Per questa
30
operazione Maria Liggio venne incriminata di violenza
privata perché, secondo i carabinieri, il feudo sarebbe
stato acquistato con l’imposizione e pagato per una
somma inferiore al suo valore.
Nel Palermitano, Luciano Liggio raccoglie le istanze
della malavita e soprattutto di giovani delinquenti
gravitanti nel settore del contrabbando, in quell’epoca
attanagliato da una forte crisi. È soltanto una
coincidenza se la cronaca comincia allora a registrare
una clamorosa serie di sequestri? Si va dal rapimento
dell’industriale Antonino Caruso, sequestrato nella
sua fattoria di Salemi il 27 febbraio 1971, a quello
di Giuseppe Vassallo (settembre ’71), al tentato
sequestro di Vincenzo Traina ucciso quella notte
d’ottobre del ’71 perché resisteva; e si giunge al
sequestro di Luciano Cassina avvenuta il 16 agosto
1972.
Il clamore suscitato dai sequestri e, in particolare,
da quelli di Vassallo e Cassina, tra i più noti e potenti
imprenditori palermitani, non possono non provocare
reazioni anche nei tradizionali ambienti della mafia.
Il colonnello Russo viene così a sapere di una riunione
della cosiddetta “commissione mafiosa” presieduta da
Gaetano Badalamenti. In quell’occasione i “picciotti”
erano stati autorevolmente invitati “a smetterla con i
sequestri”.
Ogni “invito”, nel gergo della mafia, è un “ordine”
perentorio.
“Se volete dedicarvi ai sequestri”, ammonì
Badalamenti, “organizzateli fuori dalla Sicilia”. Ed
aggiunse: “A Palermo non voglio più sentire parlare di
sequestri”.
Sembra che la decisione del “tribunale della mafia”
non sia stata adottata all’unanimità. Avrebbero votato
contro i rappresentanti delle “famiglie” di Liggio,
Coppola, Scaduto di Bagheria e Gerlando Alberti.
Il gruppo Liggio si trovò così in minoranza. Da qui
la decisione di Liggio di trasferirsi in Calabria. Ma
prima, acquistò a Vaccarizzo di Catania un agrumeto.
Naturalmente non a nome suo. Si servì, come
prestanome, di Antonino Quartararo, evaso il primo
luglio 1970 mentre si trovava piantonato all’ospedale
civico di Palermo.
Anche con la collaborazione dei fratelli Ugone,
poi coinvolti nell’“anonima sequestri”, Liggio fece
costruire su questo terreno una villa a due piani con
seminterrato adibito a magazzino. Una villa di oltre
400 metri quadrati.
31
I carabinieri e la guardia di finanza poi scoprirono che,
sotto il pianerottolo principale, proprio a ridosso delle
fondazioni, era stata costruita una cella certamente da
destinare a prigione per i sequestri programmati dalla
cosca in Calabria, in Puglia e nella Sicilia orientale.
Liggio dovette dunque obbedire, per quanto a
malincuore alla decisione della “commissione
mafiosa” presieduta da Gaetano Badalamenti. Ma era
rimasto per tre anni nel Palermitano e aveva avuto
modo di rinsaldare i vincoli associativi, oltre che con
Gerlando Alberti e Tommaso Buscetta, con quasi tutti
i capifamiglia della città, delle sue borgate e della
provincia.
Il trasferimento di Luciano Liggio da Palermo in
Calabria dev essere avvenuto il 25 febbraio 1974.
Quel giorno, alle 13, la polizia bloccò in città, a piazza
Scaffa, una “BMW 3000”, targata “Napoli 900219”.
A bordo c’erano Michele Zaza di Procida (indicato
nel febbraio ’73 da Leonardo Vitale come un gregario
della cosca di Liggio), il boss di Villafrati Salvatore
Santomauro, Biagio Martello (fratello di Mario,
condannato a 15 anni di reclusione nel gennaio ’78
per il sequestro di Franco Madonia) e Alfredo Bono
di Palermo, fratello di Giuseppe, uno degli imputati
al processo dei “114” della cosiddetta “mafia nuovo
corso”.
Secondo informazioni confidenziali, i quattro che
erano armati facevano da scorta ad un’altra auto
riuscita a dileguarsi. Fu il colonnello Giuseppe Russo
a stabilire che su questa seconda auto si sarebbero
trovati Totò Greco l’“ingegnere”, Luciano Liggio e
Domenico Coppola, fratello di Don Agostino. Fu lo
stesso Russo ad aggiungere successivamente il nome
di una quarta persona che avrebbe viaggiato con loro:
quello di Giovanni La Barbera.
Liggio e i suoi amici prima di partire per la Cabaria
avrebbero tentato un vertice di mafia nella borgata di
Uditore e, poco dopo, una seconda riunione nel fondo
di un avvocato, a Brancaccio-Roccella: cioè dove –
secondo le dichiarazioni di padre Giovanni Ajello,
incaricato dal conte Arturo Cassina – furono depositati
i primi 300 milioni del riscatto pagato (un miliardo e
300 milioni) per la liberazione dell’ingegner Luciano
Cassina.
Mario Francese
a passeggio
con la moglie
Maria Sagona
32
33
I
1 aprile 1979
Le riunioni
da Liggio
34
l colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo,
ucciso dalla mafia il 20 agosto ’77 a Ficuzza,
non si stancò mai di dare la caccia a Liggio
e al suo clan. Fra le varie informazioni che
gli giunsero ce n’è una particolarmente
interessante: nel periodo di permanenza di Liggio nel
Palermitano, padre Agostino Coppola, tra il ’71 e il 10
settembre ’73 acquistò beni immobili per 49 miliardi e
500 mila lire.
Si costituì allora la “Solitano”, una società per azioni
che acquistò Piano Zucco cedendolo in affitto a don
Coppola e ai suoi fratelli Giacomo e Domenico. Questo
nonostante l’impegno assunto dal proprietario del
fondo, Giacomo Chiello, con l’agricoltore-allevatore
Francesco Paolo Randazzo poi cacciato via a colpi di
fucile.
Risulta che Agostino Coppola caldeggiò finanziamenti
per la “Solitano” presso la Cassa per il Mezzogiorno
ricavandone un utile del dieci per cento. A Piano
Zucco, secondo i programmi del tempo, avrebbero
dovuto essere avviate un’industria del formaggio e
un’altra per l’imbottigliamento dei vini pregiati.
Contemporaneamente alla costituzione della
“Solitano” sorsero altre società fra le quali la “Sifac
S.p.A.” (soci Emanuele Finazzo di Cinisi, Vito Giannola
di Cinisi e Antonino Nania di Partinico) e la “ZooSicula RI.SA.” (sigla dietro cui va letto il nome di Riina
Salvatore, luogotenente di Liggio).
La “Sifac”, proprietaria di una cava a Cinisi, si dedicò
a forniture di materiale alle ditte impegnate nei
lavori edili all’aeroporto di Punta Raisi e all’impresa
del conte Arturo Cassina, all’epoca impegnata nella
costruzione dell’autostrada Punta Raisi-Mazara
del Vallo. C’è una singola coincidenza: l’ingegner
Luciano Cassina fu sequestrato il 16 agosto 1972,
dopo la prima fornitura di materiale per l’autostrada
effettuata il 10 agosto.
La “Zoo-sicula RI.SA.” costituita il 5 dicembre
1972 da Franca Migliore di San Giuseppe Jato e
da Domenico Farruggia di San Cipirello, era invece
impegnata nell’acquisto di immobili. Tra il 26
dicembre 1972 e il 22 dicembre 1973 sono stati
comprati terreni ed immobili per 65.850.000 di lire.
Tra l’altro, fu comprato un palazzo a San Lorenzo
Colli. In un appartamento di questo edificio avrebbe
abitato proprio il luogotenente di Liggio, Totò Riina,
insieme alla sua compagna, Antonietta Bagarella
con cui si sposò segretamente, officiante padre
Agostino Coppola, nel maggio ’73. Nell’appartamento
carabinieri e polizia arrestarono un fratello della
Bagarella, Leoluca, trovato armato fino ai denti.
Il colonnello Russo stabilì inoltre che, in contrada
Rocche di Rao di Corleone, la “RI.SA.” comprò undici
salme di terreno, ceduto in affitto per trent’anni, in
cambio del compenso irrisorio di 30 salme di frumento
all’anno, al corleonese Giovanni Grizzaffi, figlio di
Caterina Riina, sorella del latitante Totò. Grizzaffi
si sposò a Corleone il 6 settembre ’73, per cui la
“cessione” deve essere stata un dono di nozze dello zio
Totò. Al matrimonio intervennero Giacomo Gambino,
Gaetano Carollo, Antonino Ciulla e Francesco Madonia
del fondo Gravina.
A MILANO
Luciano Liggio, facendo leva su luogotenenti,
manovalanza della delinquenza e protettori organizzò
tra la Sicilia, la Calabria e la Lombardia una vasta
associazione specializzata soprattutto nei sequestri di
persona.
A Milano il “re di Corleone” si stabilì in un
appartamento al quarto piano di via Friuli 15. Un vero
e proprio “quartier generale” dove si svolsero diverse
riunioni di mafia. Con lui convivevano la triestina
Lucia Paranzan ed una bambina, forse sua figlia.
La latitanza lo costrinse a ricorrere a travestimenti
e a presentarsi sempre con nomi diversi: ora “signor
Antonio”, ora “Antonio Paranzan”, altre volte come
“signor Michele Di Terlizzi”.
Nonostante la sua attenzione nell’evitare di essere
notato frequentò spesso la sala da barba di Antonion
Balducci e Pasquale Orsini, la boutique “Try 50” di via
Umbria, gestita da Tony Casale, il negozio di frutta e
verdura di Franco Gavagna in viale Umbria, il bar Lido
in piazza Siparich 4, gestito da Angela ed Aldo Beretta.
La prima riunione a Milano sarebbe stata tenuta da
Liggio negli ultimi mesi del 1970. Questo secondo
un rapporto del colonnello Russo. Oltre a Liggio vi
avrebbero partecipato Totò Riina, Vincenzo Arena,
Giuseppe Taormina e Salvatore Gambino. Si sarebbero
stabiliti i programmi da attuare, i sequestri, le
competenze territoriali di ciascun gruppo della cosca e
i settori da controllare e ai quali dedicarsi con maggior
profitto.
Il colonnello Russo era convinto che Liggio fosse poi
tornato a Milano nella primavera del ’71 dopo la
scarcerazione di Gerlando Alberti e la soppressione di
35
Vincenzo Conti, soprannominato “Cucca”, assassinato
a Milano il 4 aprile 1971. A questa seconda riunione
avrebbero partecipato Salvatore Riina, Salvatore Enea
(poi coinvolto nel sequestro di Graziella Mandalà), i
fratelli Bono, Gerlando Alberti, Francesco Scaglione,
Vincenzo Arena ed altri.
Russo scrisse allora: “Non si può sottacere come,
ancora una volta, il tempo e il succedersi di nuovi
eventi delittuosi, abbiano confermato quanto accertato
nelle indagini condensate nel processo ai 114 della
mafia nuovo corso. Soprattutto abbiamo ancora meglio
delineato i disegni criminosi di una organizzazione
criminale che non conosce soste, non ammette
insuccessi, aggiorna tempestivamente le sue tecniche,
rinnova i propri quadri, estende ai più svariati settori
il proprio interesse e la propria sete di lucro”.
Ed ancora nel rapporto del 21 maggio ’74: “Le prime
indagini a Milano – scrisse Russo – danno la conferma
dell’esistenza di agguerriti gruppi di mafia cui è da
attribuire la ripresa dei sequestri di persona nella
Sicilia occidentale e il trasferimento di tale attività in
continente”.
Fu proprio Russo ad accertare il collegamento tra il
gruppo di Liggio ed altre cosche, tra le quali quella
calabrese, contattata attraverso il gruppo di Tommaso
Scaduto di Bagheria che fungeva da trait d’union con
i clan della Lombardia, della Toscana e delle Marche.
Collaborava in questi collegamenti Antonino Di
Cristina, 45 anni, imputato della strage di Locri.
Il gruppo dei calabresi era composto da famiglie
molto note nel gotha mafioso: i Sammarco, i Carone
(Sant’Eufemia), i Piromalli (Gioia Tauro). Tra gli altri,
anche Vito Gallina, oriundo di Carini, ucciso – secondo
i carabinieri – da Girolamo Piromalli e Giuseppe
Carbone.
Tra gli amici di Liggio figurano, inoltre, i fratelli
Quartararo di Brancaccio, Vincenzo Chiaracarne
di Palermo, Damiano Caruso di Villabate, Giacomo
Taormina arrestato per i sequestri Torielli e Rossi
di Montelera. Altri nomi abbastanza interessanti:
Domenico Bacchi di Partinico, Giuseppe Scaduto di
Bagheria al soggiorno obbligato a San Colombano
al Lambro, in provincia di Milano, Pietro Scaduto
di Bagheria, contrabbandiere, Antonio Scaduto di
Bagheria ma residente a Novara.
Si parlò di questi personaggi al processo all’“Anonima
sequestri” celebrato a Milano. In quell’occasione il
colonnello Russo fornì alla magistratura anche una
36
lunga lista di amici di Liggio operanti in diverse città
italiane.
Eccola: Francesco Alterno, autista di Palermo, Gerardo
Alterno muratore di Palermo, Giuseppe Alterno
camionista della borgata Uditore e il figlio Salvatore
camionista. Poi: Francesco Anselmo di Partinico ma
barbiere a Roma, Gaspare Anselmo impiegato a Roma,
Salvatore Anselmo anch’egli di Partinico, studente.
Inoltre: Antonino Badalamenti di Cinisi, Natale
Badalamenti allevatore di buoi a Cinisi, Gaetano
Badalamenti anch’egli allevatore a Cinisi, Giuseppe
Bertolino, produttore di vini a Partinico, Alfredo
Bono palermitano residente a Milano, Giuseppe Bono
residente a Milano, Giuseppe Briguglio di Partinico,
Andrea Cataldo di Alcamo, imprenditore edile, Nicolò
Cataldo imprenditore edile di Alcamo, Vito Cataldo
impiegato comunale a Balestrate, Gaspare Centineo di
Partinico. Seguono nomi di rilievo: Agostino, Domenico
e Giacomo Coppola di Partinico, Vincenzo Di Giorgio
imprenditore edile di Partinico. Gaspare Di Trapani,
agricoltore di Partinico.
L’ARRESTO
Quando nei rapporti di carabinieri e polizia si parla
di una vasta rete di protezione il riferimento corre a
questi ed altri “amici”. Non mancarono però – come
si è detto – le divisioni. La “triplice alleanza” tra le
cosche siciliane, calabresi e lombarde, avvenuta fra
il ’73 e il ’75, provocò in tutto il Paese uno stato di
allarme generale. E provocò anche reazioni negli
ambienti della mafia tradizionale.
I primi sintomi della guerra tra “mafia nuovo corso” e
“vecchia mafia” si erano già avuti nel ’71 a Palermo.
Infatti, il 14 settembre ’71 a Tommaso Natale venne
ucciso Francesco Ferrante, alla ribalta della cronaca
giudiziaria sin dagli anni cinquanta. Il corpo di
Ferrante fu trovato semicarbonizzato dentro la sua
“500”. Era guardiano di Villa Boscogrande a Cardillo.
Il delitto è rimasto impunito.
Subito dopo, il 30 maggio ’72, scomparve in
circostanze misteriose un altro uomo della gang
di Tommaso Natale, Filippo Pellerito. I due, oltre
ad occuparsi del traffico della droga, erano quasi
certamente implicati nel sequestro di Giuseppe
Vassallo. Con le intercettazioni telefoniche effettuate
durante la trattativa per il pagamento del riscatto per
la liberazione del figlio del costruttore edile Francesco
Vassallo si stabilì infatti che le tre voci registrate
37
corrispondevano a quelle di Giuseppe Scaduto di
Bagheria, di Francesco Ferrante e Filippo Pellerito.
La giustizia non fece in tempo ad accertarlo perché
la vecchia mafia “punì” i due con una sentenza
irrevocabile di morte.
Per la gang di Luciano Liggio le cose erano andate
meglio nel Nord. Il “re di Corleone” era coadiuvato
dai luogotenenti Totò Riina latitante dal marzo 1970,
Bernardo Provenzano, latitante dal 1958, Calogero
Bagarella latitante dal 1957, e Leoluca Bagarella. Tutti
di Corleone, avevano già all’attivo i sequestri di Luigi
Rossi di Montelera, Paul Getty III, Cristina Mazzotti,
Luigi Genchini (Milano), Renato Lavagna (Torino),
Egidio Perfetti (Milano), Giovanni Bulgari, Saverio
Garonzi, Giuseppe Lucchese, Giuseppe Agrati, Baroni.
All’attivo dell’“Anonima sequestri” anche gli omicidi
di Vito Gallina di Carini assassinato a Fabriano il 5
febbraio ’74 e di Giovanni Gallina, ucciso a Carini il
26 maggio ’74. Questo il motivo per cui i due fratelli
sarebbero stati giustiziati: Vito Gallina avrebbe
rifiutato di offrire la sua collaborazione al progetto
del sequestro della figlia del senatore Francesco
Merloni, titolare della “Ariston”, una fabbrica di
elettrodomestici.
Lo avrebbero eliminato due “fedeli” della gang di
Liggio, il calabrese Piromalli e Giuseppe Carbone.
Proprio gli assassini ai quali Giovanni Gallina tentò di
dare la caccia per vendicare il fratello trovando, però,
la morte.
Anche le gesta di Luciano Liggio finiscono per
registrare una fase discendente. E il 4 luglio ’74 l’ex
primula di Corleone, con azione a sorpresa della
Guardia di Finanza, viene arrestato nel suo rifugio
di Milano dove le Fiamme Gialle trovano armi e
munizioni di tutti i tipi.
38
Un cronista instancabile:
Mario Francese
a caccia di notizie
sulla diga Garcia
39
L
8 aprile 1979
L’escalation
di don
Peppino
Garda
40
uciano Liggio fu arrestato nel suo rifugio
di Milano il 4 luglio 1974. Due mesi prima,
il 23 maggio, era finito in carcere padre
Agostino Coppola, uno degli imputati dei
sequestri di Rossi di Montelera e Baroni a
Milano, e di Luciano Cassina a Palermo. Non è un caso
se, nell’abitazione di don Coppola, furono sequestrati
cinque milioni del riscatto Baroni.
Le file della cosca furono decimate da numerosi
arresti. E i controlli sulle persone bloccate
consentirono di accertare che, oltre ad avere
acquistato terreni ed altri beni immobili, Luciano
Liggio era anche azionista della “S.p.A. Gulf Italia”
di Roma, una società presieduta da Nicola Pignatelli
D’Aragona Cortes di Napoli. Si appurò anche che parte
del denaro proveniente dal riscatto dei sequestri
veniva riciclato da uomini di fiducia nei casinò di Saint
Vincent, Montecarlo e Sanremo.
L’arresto di Liggio, Coppola ed altri componenti
l’“Anonima sequestri” scoraggiò chi non rimase
impigliato nella rete tesa dalle forze di polizia.
Ma i programmi dell’“organizzazione” dovevano
essere portati a termine. Molti palermitani del clan
lombardo tornarono così in Sicilia pensando già
ad altri sequestri, spesso suggeriti più da motivi di
vendetta che non da effettive finalità di guadagno. Gli
osservatori più attendibili pensano che in alcuni casi il
fine sia stato di soddisfare le due esigenze insieme.
Si pensi al sequestro di Franco Madonia, il giovane
enologo, nipote di don Peppino Garda, un anziano
esponente del vecchio ceppo della mafia tradizionale
di Monreale, quella capeggiata dai Minasola, dagli
Sciortino, dai Viola, dai Miceli. Nato a Pioppo ed
imparentato proprio con i Miceli (sua figlia si è sposata
con Baldassare Miceli, erede del vecchio capomafia),
don Peppino Garda, che ormai non aveva più interessi
nell’edilizia, era proprietario di oltre 300 ettari di
terreno in contrada Gammari di Roccamena, in
maggior parte trasformata in vigneti.
Un sequestro anomalo quindi quello di Franco
Madonia; realizzato quasi “in famiglia”. Ma la vecchia
mafia rinnegava il clan di Luciano Liggio, Gerlando
Alberti e padre Agostino Coppola, personaggi-chiave
dell’ala aggressiva e spregiudicata della cosiddetta
“mafia nuovo corso”.
Franco Madonia fu rapito quasi a mezzogiorno dell’8
settembre 1974. In macchina era diretto verso la
fattoria del nonno Peppino Garda dove lavorava, come
affittuario, anche suo padre, don Pietro. A mezzo
chilometro da Gamberi, subito dopo Roccamena,
un’auto strinse quella del giovane enologo. Costretto a
fermarsi, Franco Madonia fu rapito dai banditi.
Fu liberato sette mesi dopo, alla vigilia di Pasqua.
Riscatto: un miliardo.
Carabinieri e polizia sono convinti che quel sequestro,
abbia provocato una lunga catena di delitti. Il primo
anello di questa catena di sangue è un duplice
omicidio: a Giardinello, alle porte del feudo Piano
Zucco dei Coppola, cade sotto i colpi della lupara un
“ex” della banda Giuliano, Angelo Genovese, fatto fuori
insieme al suo dipendente Michele Ferrara di Prizzi
mentre mungevano le pecore. Siamo al 27 gennaio
1975.
Passiamo al secondo anello della “catena”, l’assassinio
di un altro “ex” affiliato a Salvatore Giuliano, Remo
Corrao. Viene ucciso a Monreale il 17 dicembre 1975.
Era stato interrogato dai carabinieri sette mesi
prima di morire, dopo la liberazione del nipote di don
Peppino Garda. In casa di Corrao (via Randazzo 14
a Monreale) i militari sequestrarono fra l’altro una
banconota di centomila lire proveniente dal riscatto
del sequestro di Luigi Genchini di Milano.
Corrao sostenne che la banconota gli era stata
data alla Banca del Popolo di Monreale nel corso di
un’operazione finanziaria. Probabilmente era una
bugia. E forse, fu poi ucciso per avere offerto la sua
collaborazione a don Peppino Garda. Si tratterebbe
dello stesso movente per cui i carabinieri spiegano
l’omicidio di Angelo Genovese.
Altri due omicidi vengono collegati al sequestro di
Franco Madonia, quello di Enzo Giuseppe Caravà,
assassinato a San Cipirello l’11 aprile 1976 davanti ad
una cantina sociale del paese, e quello di Aloisio Costa,
anch’egli ucciso a San Cipirello il 22 gennaio 1977.
Non sono pochi i dubbi che il primo dei due delitti sia
necessariamente da collegare al sequestro Madonia.
Per il secondo appare più verosimile, invece, una
relazione con le vendette del “dopo-sequestro Corleo”,
al quale – secondo gli inquirenti – avrebbe partecipato
anche un fratello di Caravà, Angelo, latitante da
diversi anni. Per Costa, infine, si è anche fatta l’ipotesi
dei contrasti tra cosche dedite alla sofisticazione del
vino.
Nella sesta puntata dell’inchiesta torneremo sui delitti
provocati dal sequestro Madonia. Per il momento
è necessario invece soffermarsi sulla personalità
41
di don Peppino Garda, perché la sua “carriera”
è emblematica. Il sequestro di suo nipote è un
“sequestro-monstre” proprio perché colpisce un uomo
rappresentativo della tradizione che, smaliziato dagli
eventi, negli anni sessanta firmò la sua neutralità
durante la guerra tra i La Barbera e i Greco.
Garda rivela un certo tipo di mentalità tipica della
mafia non denunciando, per esempio, la scomparsa del
nipote.
Fu il colonnello Giuseppe Russo, ad una decina
di giorni dal rapimento, ad avere la certezza che
l’enologo fosse stato sequestro. Ma non trovò alcuna
collaborazione nei familiari che, dal canto loro,
cercarono ed ebbero contatti con i rapitori.
Furono chiesti in un primo tempo due miliardi
di riscatto. Cominciò allora la politica del
temporeggiamento e della lesina. Per sette mesi
don Peppino Garda è stato così impegnato nelle
trattative: 210 giorni caratterizzati da viaggi notturni
del padre del giovane enologo, Pietro Madonia, e
dell’altro genero di Garda, Baldassare Miceli. Gli
itinerari venivano indicati per telefono o attraverso
messaggi quasi sempre contenuti in pacchetti vuoti di
“Marlboro”.
I carabinieri controllavano tutto soprattutto
con intercettazioni telefoniche e pedinamenti
raggiungendo qualche successo: a volte nelle cabine
telefoniche o in una roulotte di corso Calatafimi
arrivavano tempestivamente e recapitavano i
messaggi dei banditi prima dei familiari di Franco
Madonia.
Una notte i carabinieri notarono una “127” rossa
avvicinarsi alla roulotte di corso Calatafimi per
depositare un messaggio segnalato a Garda con una
telefonata intercettata poco prima da un sottufficiale
dell’Arma.
Attraverso la targa dell’auto si risalì al proprietario,
il gioielliere Mario Martello, con negozio a Palermo
in via Aurispa, fratello del latitante Ugo, implicato
nell’“Anonima sequestri” di Luciano Liggio.
Dai controlli effettuati dai carabinieri venne fuori un
lungo elenco di personaggi sospetti che frequentavano
la gioielleria. Eccolo: Biagio Prestigiacomo, Nicolò
Salamone, i fratelli Bernardo e Stefano Bommarito,
Salvatore Brusca, tutti di San Giuseppe Jato. Poi:
Benedetto e Francesco Valenza di Borgetto, Andrea
Impastato ed Emanuele Finazzo di Cinisi, Francesco
Pastoia, boss di Belmonte Mezzagno, e Antonio
42
Nocera, Luigi Savoca, Francesco Paolo Morello e
Stefano Brancato, tutti di Palermo. Si pensò ad una
loro partecipazione al sequestro Madonia anche
perché facevano una serie di misteriose telefonate da
un bar vicino alla gioielleria.
Per trovare la causale del sequestro si è scavato
abbastanza nel passato di don Peppino Garda, excostruttore edile e proprietario di immense distese di
vigneti tra Roccamena e Garcia.
Tra il 1954 e il 1960, venduta a malincuore la casa
paterna di Pioppo (tra Monreale e San Giuseppe
Jato) dove nacque anche il suo unico figlio maschio
Baldassare, “don Peppino” tentò come molti altri la
grande avventura edilizia in città.
Era l’epoca in cui, mancando un piano regolatore, si
cambiava il volto di Palermo smantellando i fertili
giardini della Conca d’Oro per costruire strade dove
i palazzi ormai si susseguono uno accanto all’altro,
via Sciuti, via Lazio, viale Leonardo da Vinci, via
Empedocle Restivo, viale Campania e così via.
Giuseppe Garda fondò la società “Conca d’Oro” con
il costruttore Giuseppe Quartuccio e comprò, con
l’appoggio della Curia arcivescovile, vaste aree in
quella che sarebbe diventata la città-nuova. In società
con Garda e Quartuccio, entrò anche Francesco
Zummo di Monreale.
I tre il 28 agosto 1963 vendono alla società capeggiata
dal capomafia di San Giuseppe Jato, Nicolò Salamone,
e comprendente Alberto Beltrame e Giovanni
Simonetti anch’essi di San Giuseppe Jato, 2.104 metri
quadrati di area edificabile nella zona di Malaspina per
35 milioni. Un affare per la “Conca d’Oro” che aveva
acquistato i terreni per un paio di milioni ed un affare
per Salomone e soci.
Mentre le “Giuliette al tritolo” segnavano la guerra tra
le cosche che operavano in città e nelle borgate, vecchi
mafiosi dello stampo di Garda, Salamone, Vassallo,
Moncada consolidavano i loro vincoli di amicizia
e costruivano le basi della loro immensa fortuna
economica.
Garda in questo fu aiutato dalla Chiesa. Don Peppino
era riuscito ad accattivarsi le simpatie e la protezione
dell’arcivescovo di Monreale donando alla mensa
arcivescovile, con atto del 22 maggio 1969 stipulato
dal notaio Antonino Leto, 2.090 metri quadrati
di terreno dell’ex-feudo Riela, da usare a scopo di
culto e da destinare alla costruzione di attrezzature
scolastiche. Un atto di riconoscenza per tre anni di
43
“assistenza” fornita dalla chiesa di Monreale alla
società “Conca d’Oro” fondata da Garda il 2 marzo
1966 con atto stipulato dal notaio Giuseppe Marsala.
Quartuccio e Zummo non furono i soli soci di don
Garda. L’elenco si ampliò abbastanza. Eccolo: Antonino
Terranova, Salvatore Moncada, Giacomo Bellomare,
Giuseppe Sanseverino, Giuseppe Gorgone di Torretta,
Giovanni Simonetti e Nicolò Salamone di San
Giuseppe Jato, Alberto Beltrame di Perugia, Giovanni
Di Giovanni e il figlio Francesco, Michele Caronia e
Gaetano Maniscalco, tutti di Palermo.
Quasi analfabeta, ma eccezionalmente pratico e dotato
di formidabile intuito, don Peppino Garda lasciò
Palermo per tornarsene a Monreale tra la fine del
’68 e l’inizio del ’69, cioè quando con la sentenza di
Catanzaro, quasi tutti i “114” mafiosi dei gruppi La
Barbera e Greco uscirono dalle prigioni. Don Garda
aveva previsto (e gli avvenimenti successivi gli
hanno dato ragione) che gli “affamati” di Catanzaro
avrebbero cercato di recuperare le posizioni perdute
durante la carcerazione.
Così “don Peppino” sciolse la “Conca d’Oro” vendendo
buona parte degli appartamenti che si era tenuto per
sé e comprando contemporaneamente quattrocento
ettari di terreno incolto nella vallata compresa
tra Roccamena e Garcia: un acquisto del valore
di 150 milioni che lasciò perplessi gli osservatori,
anche perché si tratta di una zona sulla quale
allora aleggiava il rischio dell’espropriazione per la
costruzione di una gigantesca diga.
Giuseppe Garda non solo acquistò quei 400 ettari,
ma fece comprare altri terreni ai suoi più stretti
collaboratori. Quasi mille ettari finirono nelle mani di
240 proprietari tra i quali troviamo nomi che vale la
pena di ricordare: i Giocondo di Camporeale, Antonino
Salvo, Alberto e Luigi Salvo, tutti di Salemi e legati
a Luigi Corleo, l’anziano Vito Sacco di Camporeale,
parente del più famoso Vanni Sacco, Salvatore
Mancuso di Alcamo, già amico di don Vincenzo Rimi
e del figlio Filippo, Carmelo Pennino di Corleone,
Michele Fundarò di Alcamo, Giuseppina Lo Castro
di Salemi, parente dei Salvo e di Corleo, Antonino
Terranova, ex socio della “Conca d’Oro”, Antonino
Vaccaro di Bisacquino, Giuseppe Serradifalco di
Roccamena, Michele Sacco di Camporeale, Giuseppe
Mancuso di Alcamo, Francesco Candela di Alcamo,
Giuseppe Misuraca di Camporeale, Vincenzo Accurso
di Camporeale, Salvatore e Francesco Sacco di
44
Camporeale, Vincenzo Ferrara di Alcamo, Giuseppe
Tramonti di Roccamena, Antonina Palermo con
i mezzadri Giorgio Rausi e Giuseppe Ponzio di
Salaparuta, Gaspare Teresi, Giuseppe e Vincenzo
Cangelosi di Borgetto, Giuseppe Tritico di Poggioreale,
Gaspare Tramonte di Poggioreale, Maria Adragna e
Giacomo Trapani di Salemi.
Questi i più grossi tra i proprietari.
Nonostante le voci sulla imminente espropriazione,
dall’acquisto della terra incolta alla trasformazione
in lussureggianti vigneti il passo fu breve. Non
capirono i piccoli proprietari i veri obiettivi della
grossa operazione, non capirono né i braccianti né i
salariati della terra. I poveri gridarono al miracolo per
l’improvvisa trasformazione. E la Regione non lesinò
contributi.
I braccianti intuirono i veri obiettivi di questa “corsa
alla terra” soltanto alla fine del 1974, quando prese
corpo il progetto per l’espropriazione delle terre
che avrebbero dovuto fare da letto alla superdiga
“Garcia”: progetto definitivamente approvato nel
1975 con una previsione di spesa di 17 miliardi da
elargire ai proprietari per l’esproprio di terre che,
quattro o cinque anni prima, a loro erano costate,
complessivamente, meno di due miliardi.
Un vero e proprio “affare” determinato non solo
dalla “intuizione” di don Peppino Garda, ma
soprattutto dalle complicità che i più grossi acquirenti
hanno trovato ad altissimi livelli. Il progetto di
espropriazione, non a caso, sembra essere stato
approvato su misura.
45
L
15 aprile 1979
Quel filo
che collega
quei tre
sequestri
46
a legge con cui sono stati espropriati gli
820 ettari di terreno per la costruzione
della gigantesca diga “Garcia” ha previsto
una spesa di 17 miliardi da dividere tra
i proprietari che quelle terre, pochissimi
anni prima, avevano acquistato complessivamente per
meno di due miliardi.
Ogni ettaro di terreno coltivato a vigneto è stato
pagato 13 milioni. Cifra raddoppiata nel caso che il
proprietario fosse iscritto nell’elenco dei coltivatori
diretti. Altri benefici sono stati previsti per mezzadri,
coloni, affittuari, compartecipi ed usufruttuari.
La legge, nota con il numero “865”, ha così consentito
ai grossi proprietari tra i quali spicca don Peppino
Garda di creare, al momento giusto, rapporti con la
Coldiretti o con terzi per privilegiare larghe fasce di
familiari, parenti, amici o fedeli subalterni.
Garda, tanto per fare un esempio, ha ceduto “al
momento giusto” la sua terra alla moglie Vita Ganci
e ai figli Baldassare, Anna, Maria, Ursula e Gaetana,
conservandone l’usufrutto. Aveva poi creato rapporti
di mezzadria o di affittuariato con i generi Pietro
Madonia e Baldassare Miceli. E, grazie a questi
rapporti, una prima estensione di 33 ettari gli è stata
pagata un miliardo 68 milioni e 960 mila lire: circa 33
milioni e 600 mila lire ad ettaro.
Un altro esempio: Michele Fundarò, coltivatore diretto,
ha percepito un miliardo e 58 milioni per l’esproprio di
30 ettari. Un altro ancora: i coniugi Antonino Vaccaro
e Rosa Perrillo, entrambi iscritti nell’elenco dei
coltivatori diretti, hanno incassato 99 milioni e 209
mila lire per due ettari e 96 are. Ed inoltre: Giuseppe
Serradifalco di Roccamena ha percepito 145 milioni
per quattro ettari e 56 are.
Il progetto della diga Garcia, redatto nella sua stesura
definitiva nel dicembre 1972, venne approvato il 18
settembre 1974, otto giorni dopo il sequestro di Franco
Madonia, enologo, nipote di Giuseppe Garda. Agli
osservatori e agli inquirenti è sembrato che la “mafia
nuovo corso” abbia voluto colpire Garda sotto il profilo
affettivo infierendo con crudeltà sui sentimenti di un
vecchio baluardo della tradizionale mafia di Monreale.
Al vecchio patriarca, durante i sette mesi di prigionia
del nipote, sono giunte offerte da ogni parte d’Italia
per i suoi terreni di Garcia e Roccamena. Per
rendersene conto basta dare un’occhiata al volume di
circa 80 pagine in cui sono tradotte le intercettazioni
telefoniche dei carabinieri durante il periodo del
sequestro. Offerte giunte dall’Immobiliare Venezia,
da possidenti del Lazio, di Bologna, Napoli, Monreale,
Bisacquino e San Giuseppe Jato. Ma Giuseppe Garda
tenne duro, non vendendo una sola striscia di terra
e cedendo soltanto il cocuzzolo di una montagnola
(terra gessosa e non trasformabile) che non rientrava
nel piano espropriativo.
Con i banditi Garda raggiunse un accordo per pagare
il riscatto in tre rate. Il denaro gli veniva ogni volta
preparato dalla Cassa centrale di risparmio: 120
milioni pagati il 4 marzo 1975, poi 150 milioni e,
infine, il 13 aprile 1973, 730 milioni per un totale di
un miliardo di lire.
L’ultima rata, quella di 730 milioni, fu consegnata
ai banditi da Pietro Madonia e da Baldassare Miceli,
partiti in auto dalla loro abitazione di Monreale alle 22
del 13 aprile e rincasati alle 2,35 del giorno dopo.
I carabinieri accertarono che lunedì 14 aprile il
gioielliere Mario Martello non aveva messo piede nella
sua oreficeria. La sua auto fu però vista transitare
verso le 15,20 da corso Calatafimi. La mattina di
martedì (15 aprile) Franco Madonia fu rilasciato dai
banditi. Martello tornò a casa alle 8,15 di martedì con
le ruote della sua macchina infangate.
Fermato dai carabinieri, non seppe fornire spiegazioni
per la sua assenza dalla sera del 13 aprile, alla mattina
del 15. Fu arrestato il 18 aprile, imputato di concorso
in sequestro, e condannato nel dicembre 1977 a 15
anni di reclusione. Non ha mai parlato e non sono stati
identificati i suoi complici.
Prima della liberazione di Madonia, in contrada
Gamberi di Roccamena era stato ucciso il sindacalista
Salvatore Monreale. Non si è riusciti a dare un perché
a questa “esecuzione”, né il delitto può essere collegato
con certezza al sequestro. Al contrario, la lunga catena
di sangue che si sviluppa dopo il rilascio suggerisce
una relazione con il “caso Madonia”.
Di cinque omicidi abbiamo già parlato nella scorsa
puntata. Ricordiamo rapidamente i nomi delle vittime:
27 gennaio 1975, Angelo Genovese e il suo dipendente
Michele Ferrara a Giardinello; 17 dicembre 1975,
Remo Corrao a Monreale; gennaio 1976, Aloisio Costa
a San Cipirello; 11 aprile 1976, Enzo Giuseppe Caravà
a San Cipirello.
Cinque omicidi tutti ad opera di “ignoti”, come ignoti
sono rimasti i complici di Mario Martello, l’unico
condannato per il sequestro Madonia e contro il quale
i Garda-Madonia, durante il dibattimento, non si sono
costituiti parte civile.
47
Per avere una visione complessiva dell’attività della
“nuova mafia” nella rottura dei vecchi equilibri
realizzati dalla mafia tradizionale, oltre al sequestro
Madonia, bisogna esaminare quelli del professor
Nicola Campisi e dell’esattore Luigi Corleo.
La mattina del primo luglio 1975, verso le 10,20
il professor Campisi, docente di criminologia
all’università di Palermo, era uscito dall’abitazione
paterna di Sciacca, diretto nella cartiera di Menfi,
amministrata dalla società ISCA, e di cui il padre era il
maggiore azionista. La cartiera è sulla strada statale
115 a circa sette chilometri da Menfi.
Il padre a mezzogiorno, non vedendolo arrivare,
telefonò a casa apprendendo così che il figlio era
partito da un’ora e mezzo. Si ipotizzò subito il
sequestro di persona a scopo di estorsione. La
conferma si ebbe il giorno dopo, quando il camionista
Gregorio Verderame di 29 anni di Sciacca, avendo
letto la notizia della scomparsa di Campisi sul
“Giornale di Sicilia”, rivelò ai carabinieri di essere
stato inconsapevole testimone del sequestro.
Raccontò che, verso le 10,30 di quella mattina,
percorrendo in camion la “113” in direzione Sciacca –
Menfi, in contrada Calì, nei pressi di Quisisana, aveva
notato una Mini-minor chiara targata Palermo ferma
sul ciglio della strada. Vicino all’utilitaria c’erano altre
due macchine, una Fiat 124 color sabbia e una A-112
di colore celestino. Pensando che ci fosse stato un
incidente stradale, si fermò per chiedere se qualcuno
avesse bisogno di aiuto. Ma in quel momento la 124 e
la A-112 ripartirono a gran velocità. Verderame ebbe
l’impressione che una delle due auto avesse preso a
bordo il ferito della Mini-minor.
La “124” fu poi trovata abbandonata a pochi
chilometri da Menfi. Sui sedili c’erano dei batuffoli
di cotone imbevuti di cloroformio. Nessun dubbio
quindi che il professor Campisi era stato sequestrato
a scopo di estorsione. E pochi giorni dopo giunsero
all’avvocato Remo Campisi le prime richieste anonime:
i banditi volevano un miliardo.
Verderame, interrogato a lungo, in una foto
segnaletica notò una certa somiglianza tra un
pregiudicato e l’autista di una delle due macchine
fuggite a tutta velocità quella mattina. Si trattava di
un autotrasportatore residente a Modena, Antonino
Pollina, 44 anni, denunciato nel luglio 1968 per
omicidio e associazione a delinquere ma prosciolto,
per insufficienza di prove, il 5 gennaio 1969 al termine
48
dell’istruttoria.
Mentre erano in corso le indagini sul rapimento del
professor Campisi, da Salemi giunse notizia di un altro
sequestro, quello del big delle esattorie Luigi Corleo,
71 anni, abitante nel Palazzo Filaccia di via Matteotti
a Salemi.
Era stato rapito verso le 13,55 del 17 luglio 1975,
mentre si trovava in una sua villa di contrada
Gargazzo, vicino a Salemi.
Si trattava di un sequestro clamoroso, conosciuto
come era Corleo, suocero di Nino Salvo, titolare di una
società che ha in appalto uffici esattoriali a Salemi,
Marsala ed altre cittadine del trapanese.
Vecchio amico di Francesco Cambria, big delle
esattorie di Palermo, Messina e Catania, Corleo era
riuscito a determinare uno stretto collegamento tra
Giuseppe Cambria, il figlio di “don Francesco”, con
suo genero Nino Salvo. Un duo che, facendo leva
sull’esperienza di Francesco Cambria, oriundo di
Floresta (Messina) e di Luigi Corleo ha dato vita a
Palermo alla SATRIS, l’esattoria che introita i tributi
dovuti dai cittadini al Comune.
La tradizione del gruppo Cambria – Corleo – Salvo
nella gestione delle esattorie comunali è trentennale.
Venne alla ribalta della cronaca soprattutto tra
il 1958 e il 1961, quando Silvio Milazzo, deputato
regionale della circoscrizione di Caltagirone e già
assessore regionale all’Agricoltura e alle Foreste,
lasciò clamorosamente la Democrazia cristiana
determinando una grossa frattura all’interno del
suo partito e fondando l’Unione separatista cattolici
siciliani (USCS).
Presidente dell’USCS, protetto dall’esterno dal PCI,
Milazzo per l’imponente numero di voti riportato nelle
elezioni del 1957, divenne presidente della Regione
formando una maggioranza eterogenea, battezzata col
nome di “milazzismo”.
In quel tormentato periodo della vita politica siciliana,
il gruppo Cambria-Corleo, già economicamente
potente, appoggiò incondizionatamente la DC e il
segretario regionale del tempo, Giuseppe D’Angelo, per
scalzare l’USCS e riportare i democristiani al governo.
Una lotta dura protrattasi per tre anni, durante i quali
Milazzo riuscì a governare con l’appoggio esterno delle
sinistre e con la partecipazione, nella giunta regionale
da lui presieduta, di deputati missini e monarchici.
Fu appunto il gruppo Cambria – Corleo – Salvo, con
quartier generale all’Hotel des Palmes di Palermo,
49
a provocare l’esodo dall’USCS del barone catanese
Benedetto Majorana e il crollo definitivo dell’USCS di
Silvio Milazzo nei primi mesi del 1961.
Milazzo cadde indecorosamente e alla presidenza
della Regione lo sostituì, per oltre un anno, Majorana
della Nicchiara, presidente di una giunta provvisoria
composta pure da democristiani.
Il gruppo degli esattori acquisì quindi notevoli
benemerenze all’interno della DC, sostenuta
economicamente nelle elezioni regionali del 1962 che
segnarono il definitivo tracollo di Milazzo. Non è un
caso se, proprio in quegli anni, il gruppo consolidò
la sua posizione economica nell’isola ottenendo la
gestione di moltissime esattorie comunali siciliane.
Quando fu sequestrato, Luigi Corleo aveva già passato
la mano al genero Nino Salvo. E la stessa cosa aveva
fatto Francesco Cambria con il figlio Giuseppe.
L’esperienza dei due “giovani” d’altronde era ormai
ventennale avendo partecipato alla solidificazione
di un impero economico indubbiamente costruito col
benestare della vecchia mafia del Trapanese e del
Palermitano, quelle – per intenderci – rappresentate
dai Rimi di Alcamo, dai Bua di Marsala, da Giuseppe
Garda, ma anche dalle vecchie leve della Democrazia
cristiana.
Come il sequestro di Franco Madonia aveva colpito
la potenza economicamente di Giuseppe Garda e dei
suoi “amici” per sconvolgere l’equilibrio realizzato nel
Monrealese dalla mafia tradizionale, così il sequestro
di Luigi Corleo è stato interpretato come un atto di
ribellione della nuova mafia ad un impero economico
basato su vecchi equilibri. Si voleva quindi sconvolgere
la zona della Valle del Belice dove la mafia tradizionale
e i vecchi imperi economici da essa sostenuti avevano
il controllo sui lavori di ricostruzione dei paesi colpiti
dal terremoto del gennaio 1968.
In questo ambiente, in fermento dal primo luglio
del 1975, il giorno del sequestro di Luigi Corleo, era
piombato il colonnello Giuseppe Russo che sarà poi
ucciso dalla mafia il 20 agosto 1977 a Ficuzza. Russo
conosceva benissimo l’ambiente. Era stato tenente
della compagnia di Alcamo dal gennaio al dicembre
1956 e, con lo stesso grado, a Castelvetrano dal
gennaio 1957 all’ottobre 1958. Poi, fino al marzo
1962, aveva coordinato le squadriglie formate per
la vigilanza delle campagne per prevenire abigeati e
catturare latitanti.
All’epoca dei sequestri Campisi e Corleo, Russo
50
comandava il nucleo investigativo di Palermo,
incarico affidatogli l’8 gennaio 1969 e mantenuto fino
al 15 ottobre 1976, giorno in cui passò alla Legione
dei carabinieri, prima di chiedere un periodo di
convalescenza a causa di una sciatalgia bilaterale,
otite e bronchite cronica, malattie acquisite in
vent’anni di carriera durante i quali gli furono
riconosciuti 16 encomi solenni.
Russo mise in moto il suo apparato investigativo.
Il punto di partenza era la richiesta di un riscatto di
20 miliardi pervenuta al genero di Luigi Corleo, Nino
Salvo. L’esattore chiese però la garanzia che il suocero
fosse in vita e i banditi non si fecero più sentire. Da
allora di Corleo non se ne è saputo più niente. È morto
nelle mani dei suoi carcerieri per malattia dopo pochi
giorni dal rapimento? Ovvero, è morto di inedia
abbandonato nella sua cella? Un mistero. Nessuno
potrà mai dire se Corleo fu subito ucciso appena si
misero in moto gli amici dei Salvo e gli uomini di
polizia e carabinieri.
Una domanda però è d’obbligo: perché i Salvo chiesero
garanzie per essere certi che Luigi Corleo non fosse
morto?
L’esattore soffriva effettivamente di gravi disturbi
renali ma nasce il sospetto che i suoi congiunti siano
stato subito informati, chissà attraverso quali canali,
della fine del big delle esattorie.
51
M
22 aprile 1979
Militari
e magistrati,
due modi
di vedere
52
entre polizia e carabinieri
tentavano di individuare le
prigioni del prof. Nicola Campisi
e dell’esattore Luigi Corleo si
accertò che nelle province di
Palermo e Trapani si era costituito un clan che
aveva in programma una serie di sequestri. Era
stata selezionata una rosa di nomi che, oltre a
Campisi e Corleo, comprendeva Antonino Fiore
nato a Castelvetrano nel 1920 e residente a Menfi,
commerciante di tessuti, Andrea Palermo di Partanna
residente a Menfi, notaio, Diego Planeta residente a
Menfi, possidente e presidente della cantina sociale
“Settesoli” di Menfi.
Da non dimenticare che in quel periodo la mafia aveva
subito dei consistenti contraccolpi. In Canada era
stato arrestato un fratello del capomafia di Salemi,
Salvatore Zizzo, perché trovato in possesso di una
grossa partita di droga. A Cittadella si trovò un altro
quantitativo di droga nelle mani di Giuseppe Palmeri
di Santa Ninfa, socio dello Zizzo.
A Palermo gran parte dei contrabbandieri di sigarette
erano stati allontanati dalla città ovvero arrestati
in seguito allo scandalo del furto dei 15 MAB nella
caserma di Torre del Corsaro. Nei pressi di Roma le
forze di polizia sequestrarono in un grande magazzino
di Fernando Lena, noto col nome di “Nando”,
macchinari tipografici per la stampa di falsi traveller
cheques. In un angolo fu trovata carta speciale
stampata per oltre tre milioni di dollari statunitensi in
traveller cheques della Bank of America.
In crisi anche il settore della sofisticazione del vino
dopo le operazioni di polizia con cui si scoprì una
organizzazione che comprendeva pure il boss di
Bagheria, Tommaso Scaduto, riuscito a fuggire dal
soggiorno obbligato dell’Asinara.
In crisi anche il vertice della mafia per gli arresti di
Luciano Liggio a Milano, di padre Agostino Coppola
e dei suoi fratelli a Partinico, di Gerlando Alberti a
Napoli.
Si tratta di consistenti contraccolpi che provocano un
certo sbandamento nell’“organizzazione” e la ricerca
di quattrini da parte di tanti gregari.
Si giunge così alla costituzione di quel clan che
è praticamente una nuova “Anonima sequestri”
siciliana, a capo della quale secondo voci confidenziali
si sarebbe trovato Vito Cordio, 42 anni, figlioccio di
Salvatore Zizzo e capo della famiglia mafiosa di Santa
Ninfa.
Si tratta di confidenze che si ebbero dopo l’arresto
del boss di Partanna (Trapani), Stefano Accardo, un
personaggio di primo piano in materia di sequestri,
appalti e subappalti nella Valle del Belice, e – quel
che più conta – nelle vicende della diga di Garcia. Un
aspetto sul quale torneremo.
Subito dopo il sequestro di Luigi Corleo, Accardo
fu arrestato perché trovato in possesso di una
pistola. Non fu però condannato perché in suo favore
testimoniò il maresciallo dei carabinieri Guazzelli,
braccio destro del colonnello Russo nel Trapanese. Ci
si chiede quale sia stato il prezzo pagato da Accardo
per quella testimonianza che gli consentì di tornare
libero.
Al quesito non c’è risposta. È certo che, dopo la
scarcerazione di Accardo, scomparve misteriosamente
il boss di Santa Ninfa Vito Cordio, l’anima
dell’“Anonima sequestri”. Ed è anche certo che
Accardo in quel periodo si incontrò spesso con il
colonnello Russo. Si dice che Corleo sia morto di fame
e di sete subito dopo la scomparsa di Vito Cordio
perché, dopo la fine del capo, nessun componente del
clan avrebbe rifornito di viveri il prigioniero. È una
voce non controllabile che riferiamo per completezza.
I rapporti tra Vito Cordio e Stefano Accardo avevano
fatto registrare nell’ultimo decennio profonde
spaccature. Cordio aveva cercato di imporre nella
zona del Belice la legge del suo gruppo. E si accertò
poi che la nuova “anonima sequestri” era composta da
“famiglie” di Trapani, Agrigento e Palermo coordinate
da Vito Cordio che aveva ottenuto lo “sta bene” della
mafia contraria, però, al sequestro Corleo. A questo
sequestro la mafia aveva detto “no”. Lapidaria, ma
anche storica, l’espressione attribuita a Vito Cordio: “A
me hanno detto di no per Corleo, ma si sa che loro lo
fanno lo stesso”.
E di Cordio, probabilmente ritenuto incapace di
garantire gli equilibri e l’ordine nella zona, si perdono
le tracce.
Proprio nel periodo dei sequestri Corleo e Campisi,
un gruppo di forestieri viene ospitato a Menfi nella
baracca di un cantiere edile dell’impresa Paralisi.
Li ospita Gaspare Biundo, di Partanna, che spesso
accompagna gli amici al ristorante “La Fattoria” di
Monreale di Settimo Failla.
Le indagini del colonnello Russo portano
all’identificazione dei “forestieri”. Sono gli evasi Dante
53
Anzi di Roma e Pasquale Bianchini di Albano Laziale:
un terzo sarebbe Giorgio Graziani soprannominato
“dracula” abitante a Roma in via Genoano 194, dove,
nel corso di una perquisizione, vengono trovati due
assegni della Banca agricola commerciale di Reggio
Emilia, agenzia città Valle Ospizio, entrambi emessi sul
conto corrente di Girolamo Scaglione, nato ad Alcamo
nel ’45 e residente a Reggio Emilia. Sono assegni
da uno e due milioni. Si indaga così per scoprire i
collegamenti fra “dracula” e Scaglione il quale aveva
ospitato alcuni ricercati, compreso Pasquale Bianchini
detto “Castrici” e i suoi compaesani Giuseppe Ferro
e Giuseppe Renda, ricercati per i sequestri Campisi e
Corleo.
Scaglione e il francese
Scaglione in quel periodo conviveva con Marie Pierre
Monito, francese che aveva depositato nel ’75 diciotto
milioni in una banca di Cavirago (Reggio Emilia).
Saltarono fuori i rapporti di amicizia di Scaglione con
Pietro Salerno, un mediatore di bestiame originario di
Paceco (Trapani) dov’era nato nel 1917, che si costruì
una villa del valore di cento milioni.
Una svolta nelle indagini si ebbe comunque con il
rilascio del professor Nicola Campisi liberato all’alba
dell’11 agosto 1975 dopo il pagamento di un riscatto di
700 milioni. La prigionia era durata 41 giorni.
Campisi fu lasciato dai banditi intorno alle 2,30 del
mattino alle porte di San Cipirello. Una pattuglia dei
carabinieri sorprese una lambretta che procedeva
a fari spenti con due uomini a bordo che, vedendo i
militari, tentarono invano la fuga. Mentre i carabinieri
stavano controllando i documenti, uno dei fermati, poi
identificato per Giuseppe Renda di Alcamo, riuscì a
fuggire. L’altro, portato alla caserma di San Cipirello,
era Giuseppe Filippi, anch’egli di Alcamo.
Secondo le prime testimonianze del professor Nicola
Campisi, lo avrebbero accompagnato alle porte del
paese due uomini proprio su una lambretta.
L’interrogatorio di Filippi si protrasse a lungo. Passò
da una versione all’altra. Disse prima di trovarsi
vicino a San Cipirello per comprare della paglia
insieme a Giuseppe Renda. Poi sostenne di essere
stato fermato da alcuni uomini incappucciati che gli
ordinarono di accompagnare il professor Campisi in
paese e di averlo fatto soltanto per paura. Ammise,
infine, la sua partecipazione al sequestro affermando
di essere disponibile per fare recuperare il bottino,
54
nascosto in un casolare di campagna sotto alcune balle
di paglia.
Le dichiarazioni di Filippi non furono verbalizzate
perché forse i carabinieri avrebbero voluto farlo
confessare davanti al sostituto procuratore della
Repubblica, Vincenzo Geraci, che conduceva le
indagini.
La stessa sera dell’11 agosto, Filippi fu accompagnato
in contrada Montagnola di Camporeale. In un casolare
di proprietà di Giuseppe Renda, probabilmente la
prigione di Campisi. E la mattina del 12 agosto Filippi
condusse il colonnello Russo, il maresciallo Scibilia
ed altri carabinieri in un suo deposito di paglia, in
contrada Canapè, fra Alcamo e Camporeale.
Lì – disse – avrebbero trovato il riscatto nascosto
in mezzo alle balle di paglia. Una volta dentro il
magazzino, Filippi chiese che gli fossero tolte le
manette. Il colonnello Russo si guardò intorno, vide
che c’era soltanto una piccola finestra sbarrata da una
grata di ferro, e consentì.
Ma, appena libero, Filippi si inerpicò sulla catasta di
balle che toccava quasi il tetto, con un colpo di testa
fece saltare alcune tegole e fuggì lasciando di stucco i
carabinieri che lo riacciuffarono soltanto otto giorni
dopo in casa di una sorella ad Alcamo.
Un elemento al quale si diede una grande importanza
fu il ritrovamento nel casolare di campagna di
Giuseppe Renda dei frammenti di una busta
arancione. Ricostruiti, misero in evidenza una scritta:
“Ugo Testoni – Sciacca”. Il professor Nicola Campisi di
lettere con busta arancione indirizzate allo zio Ugo ne
scrisse due. Ma a Testoni una delle due lettere giunse
dentro una busta aerea con l’indirizzo scritto con un
normografo. Da qui la convinzione che i banditi, prima
di recapitarla, ne aprirono una e sostituirono la busta.
D’altronde lo stesso Campisi riconobbe come sua la
grafia dei frammenti di busta arancione trovati nel
casolare di Renda. In sede giudiziaria, sulla validità
di questa “prova” si è scatenata una schermaglia
destinata a far saltare a tempo indeterminato il
processo per il sequestro Campisi. Chiese la perizia
tecnica e grafica il difensore di Renda, l’avvocato Paolo
Seminara.
Un tassello dopo l’altro
I carabinieri un tassello dopo l’altro tentavano di
ricostruire il mosaico. Ecco altri elementi ritenuti
importanti. L’otto agosto 1975, quaranta minuti dopo
55
mezzanotte, una pattuglia dei carabinieri bloccò sulla
strada Montelongo il pregiudicato Giuseppe Ferro
di Alcamo. Proprio in quella zona era passato quella
sera il padre di Nicola Campisi che avrebbe dovuto
consegnare i 700 milioni di riscatto ai banditi, secondo
le indicazioni ricevute. Ma l’avvocato Renzo Campisi
non incontrò nessuno.
Giuseppe Ferro raccontò ai militari che stava
tornando da un suo podere in contrada Pigno e fu
rilasciato. Ma i carabinieri non lo persero di vista e, il
giorno dopo, lo scoprirono mentre telefonava dal bar
Vacano di Alcamo Marina in casa Campisi a Sciacca.
Non lo arrestarono subito. Decisero di farlo due giorni
dopo quando Ferro era già sparito. La sua presenza,
insieme a quella di Renda, sarà poi segnalata a Reggio
Emilia in casa di Scaglione e di Salerno.
Al termine delle indagini per il sequestro Campisi
i carabinieri denunciarono 20 persone di cui due
identificate soltanto con i soprannomi. Di queste ne
furono arrestate otto. Ventidue le persone denunciate
invece per il sequestro Campisi.
I due processi comunque si dividono non ravvisando
né la procura della Repubblica di Marsala, né quella di
Palermo, elementi di connessione. Il fascicolo su Luigi
Corleo finisce così a Marsala e quello su Nicola Campisi
a Palermo.
Un mese dopo la stesura dei rapporti di denuncia si
scatena nel palermitano e nel trapanese una guerra
spietata fra le cosche implicate nei due sequestri. È
una diretta conseguenza dei primi provvedimenti
adottati dalla magistratura di Palermo. Il riferimento
corre agli ordini di cattura emessi dal sostituto
procuratore Vincenzo Geraci nei confronti di Giuseppe
Ferro, Giuseppe Filippi, Giuseppe Renda. Tutti gli
altri denunciati dai carabinieri hanno così via libera.
Questo tra la fine del ’75 e l’inizio del ’76.
Dal canto suo, la procura della Repubblica di
Marsala il 2 febbraio ’76 emette ordini di cattura
per associazione a delinquere contro Giovanni Lala,
Nicolò Mangiaracina, Silvestro Messina, Angelo
Caravà, Gregorio Gulli, Girolamo Scaglione, Salvatore
Secolonovo, Mario Stella, Gaspare Biundo, Natale
Lala, Leonardo Messina, Antonino Genco, Baldassare
Nastasi, Andrea Terranova, Giuseppe Zummo,
Silvestro Leopardi, Vittorio Carpino, Giorgio Graziani.
Colpiti dai mandati di cattura, inoltre, Vito Gondola,
Vito Cordio (scomparso), Antonino Messina, Salvatore
Invoglia e Paolo Saladino.
56
Una selezione
Al termine della prima fase istruttoria si ha però
una selezione con la scarcerazione “per mancanza di
indizi” di Gregorio Gulli, Girolamo Scaglione, Gaspare
Biundo, Natale Lala, Leonardo Messina, Antonino
Genco, Andrea Terranova, Giuseppe Zummo, Silvestro
Leopardi, Vittorio Carpino e Giorgio Graziani.
Comincia nei giorni in cui questi ultimi tornano in
libertà la “guerra” tra le due cosche.
È il 27 febbraio 1976. In un ristorante di Mazara del
Vallo c’è un banchetto. Presenti l’imprenditore di
Montevago Rosario Cascio, il suo protettore Stefano
Accardo di Partanna, l’ingegner Ero Bolzoni direttore
per conto della Lodigiani dei lavori di costruzione
della diga Garcia e il geometra Paolo Lombardino,
imprenditore edile anch’egli.
Rosario Cascio festeggia così il contratto stipulato con
la Lodigiani per costruire il cantiere-operai per la diga
e per realizzare la galleria destinata a deviare, fino
al termine dei lavori, il corso del fiume Belice. È un
banchetto di cui bisognerà ricordarsi, come punto di
partenza, nelle indagini per l’omicidio a Ficuzza del
colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.
57
D
29 aprile 1979
La “guerra
del dopo
CampisiCorleo”
58
el banchetto organizzato in un ristorante
di Mazara del Vallo il 27 febbraio 1976
da Rosario Cascio (festeggiò così il
contratto stipulato con la Lodigiani per
costruire il cantiere-operai per la diga e
per realizzare la galleria destinata a deviare il corso
del fiume Belice fino al termine dei lavori) bisognerà
ricordarsi come punto di partenza nelle indagini per
l’omicidio a Ficuzza del colonnello dei carabinieri
Giuseppe Russo.
Quel giorno resterà una data importante perché,
ancora una volta, si tentò di uccidere.
La comitiva si divise nel primo pomeriggio. I tecnici
della Lodigiani tornarono a Garcia con le loro auto.
Cascio si diresse con altri tecnici verso Montevago
e Stefano Accardo si mise alla guida della sua
“Mercedes” diretto a Partanna insieme al geometra
Paolo Lombardino. Prima di lasciare Mazara, Accardo
fece il pieno di benzina presso un distributore gestito
da Antonino Luppino, un uomo con il quale scambiò
qualche parola. Fatto il pieno la “Mercedes” partì per
l’autostrada Mazara-Punta Raisi.
Secondo una ricostruzione attendibile, Luppino –
subito dopo la partenza di Accardo e del suo compagno
di viaggio – avrebbe informato qualcuno sull’itinerario
della “Mercedes”. È certo comunque che, quando
l’auto del boss giunse all’altezza dell’abitato di
Castelvetrano, da una macchina affiancatasi in
velocità furono sparati colpi di mitra e di pistola.
La “Mercedes” fu ridotta ad un colabrodo ma sia
Accardo che Lombardino rimasero feriti soltanto di
striscio tanto che – dopo avere finto di essere morti –
proseguirono verso Palermo.
Due le versioni sull’attentato fallito: Accardo doveva
morire perché punito da chi lo ritiene autore della
soppressione di Vito Cordio ovvero doveva essere
eliminato perché le sue confidenze al colonnello
Russo avevano consentito la denuncia degli autori dei
sequestri Campisi e Corleo.
La risposta all’attentato non si fece attendere. Il 5
aprile, in contrada Ciaccio di Marsala, un “commando”
a bordo di un’auto di grossa cilindrata assalì una “131”
uccidendo il latitante Silvestro Messina e ferendo il
fratello di Vito Cordio, Ernesto Paolo; si salvarono
anche Giuseppe Ferro e Vito Vannutelli.
La paternità dell’agguato viene affibbiata ad Accardo,
denunciato ma subito dopo scarcerato.
La serie continua con l’uccisione di Antonino Luppino,
proprio il benzinaio di Marsala, probabilmente punito
per le informazioni fornite al gruppo Messina-FerroVannutelli.
Lunghissima la catena di sangue contrassegnata da
nomi non sempre di spicco: Cucchiara, Ingrassia,
Piazza, Nicolò Messina, Mario Cordio, Casano. Fino
all’assassinio di Vito Vannutelli, fatto fuori non
appena uscito dal Palazzo di Giustizia di Palermo dopo
un rinvio del processo nel quale figurava imputato
insieme a Giuseppe Ferro, a Nicolò Messina (ucciso a
Mazara il 16 luglio ’77) e al latitante Giuseppe Renda.
Vediamo come i carabinieri individuarono le
responsabilità di Vannutelli, colpito da due ordini
di cattura per il sequestro Corleo e per l’attentato a
Stefano Accardo e Paolo Lombardino. Lo arrestarono
per caso insieme a Nicolò Messina e a Giuseppe Ferro,
anch’essi ricercati per i sequestri Corleo e Campisi.
I militari avevano organizzato in contrada Marchese,
al confine tra il territorio di Monreale e quello di
Camporeale, una battuta nel tentativo di rintracciare
gli undici bovini rubati la notte tra il 18 e il 19 agosto
’76 al pastore Vito Sciortino. Ad un tratto avvistarono
due individui accovacciati e armati in mezzo ad un
vigneto, a due passi da un casolare.
Appena videro le divise, i due fuggirono abbandonando
una pistola ed un fucile a canne mozze. I carabinieri
non riuscirono ad acciuffarli ma li riconobbero: erano
Giuseppe Ferro e Giuseppe Renda. Poco dopo sul posto
giunse una “126” con a bordo Vito Vannutelli e Nicolò
Messina. Avevano un fucile a canne mozze, munizioni
e due coltelli. Arrestati i due, si riuscì a mettere le
mani addosso a Giuseppe Ferro, latitante da diverso
tempo. A Vannutelli fu notificato un ordine di cattura
per l’attentato ad Accardo e Lombardino e presentata
una notificazione giudiziaria per il sequestro Campisi.
Per le armi di cui furono trovati in possesso al
momento dell’arresto, Vito Vannutelli, Nicolò
Messina e Giuseppe Renda furono rinviati a giudizio
il primo febbraio 1977 dal giudice istruttore Mario
Fratantonio. Ferro, fu poi condannato a due anni e sei
mesi di reclusione, Vannutelli a due anni e Messina a
un mese di arresto per favoreggiamento. Quest’ultimo,
ritornato a Mazara, sarà ucciso il 16 luglio ’77, quattro
giorni dopo la sua scarcerazione.
È l’ottavo omicidio della “catena”. Contrastanti le tesi
sul movente. Si è ventilata l’ipotesi di un seguito nella
guerra fratricida in seno alla stessa cosca dei sequestri
per la mancata divisione dei settecento milioni del
59
riscatto Campisi. Effettivamente ci furono difficoltà
per il riciclaggio del denaro a causa delle traversie
giudiziarie delle persone che avevano i soldi.
Non manca chi sostiene che Nicolò Messina fu fatto
fuori da un clan avverso e vicino a Stefano Accardo.
Né si può trascurare l’ipotesi che Nicolò Messina e,
dopo, Vito Vannutelli siano stati eliminati perché
ritenuti responsabili dell’identificazione di Giuseppe
Ferro e di Giuseppe Renda in occasione del loro
arresto in contrada Marchese a Monreale. Una
delazione che avrebbe consentito ai carabinieri di
individuare subito il nascondiglio di Ferro, arrestato
mentre Giuseppe Renda, per la seconda volta, riusciva
a sottrarsi alla cattura.
Una tesi non trascurabile quest’ultima. Di rilievo
un particolare: quando il 5 luglio 1977 cominciò
il processo per le armi trovategli al momento
dell’arresto, Ferro non si presentò in aula per non
incontrarsi con Vannutelli e Silvestro Messina,
anch’essi detenuti.
Comparve in aula, invece, nel gennaio 1978 insieme al
compaesano Giuseppe Filippi in occasione del processo
per il sequestro Campisi. Notata, infine, la sua assenza
dall’aula il 7 marzo 1978, in occasione del processo di
secondo grado per cui era stato condannato a due anni
e sei mesi di reclusione. Anche questa volta avrebbe
così evitato di incontrare sul banco degli imputati Vito
Vannutelli.
Alcuni particolari meritano attenzione. Nicolò Messina
venne ucciso subito dopo la sua scarcerazione. Vito
Vannutelli, scarcerato per decorrenza di termini
nel febbraio 1978, fu inviato al soggiorno obbligato
a Favignana, dove i killer non avrebbero potuto
raggiungerlo per le difficoltà che avrebbero incontrato
al momento della fuga dall’isola.
Vannutelli è stato quindi atteso ad un varco obbligato.
Chi ha decretato la sua morte sapeva che sarebbe
venuto a Palermo per il processo di secondo grado.
All’andata Vannutelli avrà colto alla sprovvista i killer
raggiungendo Palermo con la “Ford Capri” di un’amica,
Concetta Patti. I killer lo hanno atteso all’uscita
dal Palazzo di Giustizia. Vannutelli, alla guida della
“Ford Capri” in compagnia della Patti e della sua
amante Rosalia Signorello, appena fuori dal tribunale
si è diretto verso il Teatro Massimo. Ed è lì che gli
assassini, a bordo di una “127” celestina, affiancarono
l’auto. Con rara precisione spararono a lupara contro
Vannutelli senza colpire le due donne. La “Ford Capri”
60
rimasta senza guida e piombata sul marciapiede,
schiacciò contro la cancellata una studentessa
ribaltando poi sul giardinetto del Teatro. La sentenza
era compiuta.
Con il delitto Vannutelli siamo giunti al marzo ’78,
ma di un vero e proprio giallo non abbiamo ancora
parlato: quello del sequestro di Graziella Mandalà,
avvenuto il 21 luglio 1976. Un sequestro clamoroso
perché si tratta della moglie dell’ex costruttore di
Monreale Giuseppe Quartuccio. Un sequestro atipico
perché mai prima di allora la mafia aveva rapito in
Sicilia una donna a scopo di estorsione.
Le date acquistano rilievo. Siamo nel luglio del ’76. Un
anno prima sono stati sequestrati Corleo e Campisi,
vicende successive al sequestro di Franco Madonia,
nipote di un personaggio “intoccabile” eppure colpito.
I gregari, come si disse, alzavano la testa. La “nuova
mafia” squinternava così un sistema basato su
equilibri raggiunti dopo anni di lotte interne.
61
L
6 maggio 1979
Dietro
Mandalà
otto nomi,
otto delitti
62
a notizia del sequestro di Graziella
Mandalà viene pubblicata dal Giornale di
Sicilia la mattina del 21 luglio 1976. Un
sequestro che fa sensazione. Atipico: mai
prima di allora la mafia aveva rapito in
Sicilia, a scopo di estorsione, una donna. E per di più
si tratta della moglie dell’ex costruttore di Monreale
Giuseppe Quartuccio, ex socio di don Peppino Garda, il
possidente al quale rapirono il nipote Franco Madonia.
Questi i fatti: è da poco trascorsa la mezzanotte del
20 luglio. Cinque banditi armati di mitra e di pistola
bussano al villino di via San Martino delle Scale,
residenza estiva della famiglia Quartuccio. L’ex
costruttore sta per mettersi a letto, apre la porta e si
ritrova di fronte un giovane che gli dice: “L’Opel di suo
cognato si è scontrata con un’altra macchina. Corra
all’ospedale”.
Quartuccio si precipita verso la camera da letto per
informare la moglie sofferente di cuore, e i cinque
malviventi piombano dentro. Con il calcio di un mitra
colpiscono al capo Quartuccio, lo legano mani e piedi e
gli tappano la bocca con una striscia di carta adesiva.
Mentre un bandito tiene a bada l’ex costruttore, gli
altri prendono di peso la Mandalà e la portano fuori
per strada dove c’è un’auto con un complice alla guida.
Quindi la fuga con la “124” rossa, una scena alla quale
assiste un villeggiante di San Martino che abita vicino.
Il clamoroso sequestro viene indagato dalla polizia
e dai carabinieri nello scenario di cronaca nera, che
in quel periodo sconvolge il Palermitano: fatti allora
ancora oscuri.
In particolare, i carabinieri collegano il rapimento
della Mandalà con il sequestro dell’enologo Franco
Madonia, rapito a Roccamena l’8 settembre 1974, per
i rapporti avuti in passato tra Garda e Quartuccio,
presidente e amministratore rispettivamente della
disciolta società edilizia “Conca d’Oro”.
Insomma, un altro colpo della “nuova mafia” che
tenta di far soldi e, contemporaneamente, di umiliare
esponenti rappresentativi della vecchia guardia.
Non mancano le tesi alternative. Fra le altre, quella
secondo cui il sequestro colpisce direttamente
Quartuccio, ritenuto – non si sa ancora se a torto o a
ragione – il cassiere dell’“Anonima sequestri” e, come
tale, responsabile di qualche torto. È una tesi avallata
dalla circostanza che i fratelli della seconda moglie di
Quartuccio, tra i quali Pietro Mandalà, sono in odore di
mafia, anche se ufficialmente impegnati nella gestione
di una avviata pizzeria in piazza Duomo a Monreale
Gli uomini che seguono le indagini sin dalle prime
battute (fra gli altri, il questore Domenico Migliorini,
il capo della squadra mobile Bruno Contrada e il
colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo) pensano
subito ad un sequestro per vendetta senza, però,
riuscire a chiarire di che tipo di vendetta si tratti.
Giuseppe Quartuccio riceve la prima telefonata
dei banditi tre giorni dopo il rapimento alle 13:
“Quartuccio, prepara un miliardo e mezzo se vuoi viva
tua moglie”, gli dice una voce con inflessione dialettale
interrompendo subito la comunicazione.
Da quel giorno i rapitori si fanno vivi con qualche
telefonata all’avvocato Giuseppe Candido, amico di
Quartuccio. Non si saprà mai chi ha segnalato loro
questo nominativo. Quartuccio ritiene che sia stata la
moglie: ma la Mandalà, dopo la liberazione, sosterrà di
non essere stata lei.
L’ex costruttore riceve anch’egli un paio di telefonate
a casa, ma, ogni volta, non gli lasciano il tempo di
rispondere.
Mi dice in quei giorni Quartuccio: “Non riesco mai a
dire una parola perché non me ne danno il tempo.
Tramite l’avvocato Candido ho così fatto sapere ai
banditi che tutte le mie proprietà possono valere 200
milioni”.
Una somma che non basta ai rapitori. Altra telefonata:
“Dunque, Quartuccio – dice la voce con tono sarcastico
– lo dobbiamo fare questo concordato?”.
Terza ed ultima telefonata all’ex costruttore, fatta fra
il 26 ed il 27 luglio: “Quartuccio, la signora sta male,
dovete sbrigarvi se ci tenete a volerla viva”.
Ma, attraverso l’avvocato Candido, Quartuccio
comunica ai banditi che può subito approntare
soltanto 15 milioni. “Allora – è la risposta – Quartuccio
non ci tiene ad avere sua moglie viva”. È l’ultimo
contatto con i banditi.
Colpo di scena il 29 luglio alle 23,30. Un funzionario
di banca ha appena parcheggiato la sua auto in piazza
Don Bosco, sta per rientrare a casa quando una donna
barcollando gli viene incontro. Pensa che si tratta
di una ubriaca ma lei si presenta: “Sono Graziella
Mandalà per favore mi aiuti”. Pochi minuti dopo arriva
un parente della signora e viene avvertito il marito a
Monreale.
I banditi abbandonano la donna su una 128 blu,
accostata ad un marciapiedi di piazza Don Bosco. Le
dicono di non muoversi e, per precauzione, prima di
63
lasciarla, le coprono gli occhi con dei cerotti.
A piazza Don Bosco arrivano immediatamente
decine e decine di gazzelle e volanti con carabinieri
e funzionari di polizia ai quali Quartuccio dichiara di
non avere sborsato una lira per il rilascio. Inizia così il
giallo del dopo-sequestro.
Poco dopo la liberazione della signora Mandalà un
anonimo telefona al giornale “L’Ora”: dice che alla
circonvallazione, dietro il palazzo dell’Ente minerario
siciliano, c’è un “pacco” con un cadavere. La polizia
compie una perlustrazione nella zona ma del “pacco”
non si trova traccia. Dall’interrogatorio della Mandalà
frattanto saltano fuori vistose contraddizioni che
tingono ancor più di giallo le fasi del rilascio della
donna.
Sono trascorse dodici ore dal rilascio. Siamo in casa
Quartuccio, in via Marsala a Monreale. È piena di
amici che si congratulano per la felice conclusione
della vicenda. Dall’orologio del Duomo si sentono
rimbombare dodici rintocchi. Quartuccio dà
un’occhiata al suo orologio, lascia la moglie sofferente
a letto ed esce.
Mezz’ora dopo alcune persone lo vedono dirigersi
verso la piazza dove si trova l’oreficeria di Elio Ganci.
L’ex costruttore passa davanti al negozio, si ferma
col pretesto di guardare un amico che passa da lì. I
carabinieri diranno poi che voleva farsi notare da
Ganci. E ci riesce. Il gioielliere esce fuori e si avvicina
a Quartuccio, si complimenta per la liberazione
della moglie. Alcune persone assistono alla scena.
Quartuccio e Ganci si abbracciano e si baciano. I
carabinieri diranno che il marito della Mandalà si era
voluto “godere” l’imbarazzo della “sua vittima”, Ganci,
che ritiene implicato nel sequestro della moglie.
Non esiste un pronunciamento della magistratura,
ma certe coincidenze lasciano perplessi. Pochi minuti
dopo che Quartuccio ha abbracciato e baciato Ganci,
una 128 (del tutto identica a quella utilizzata dai
rapitori della Mandalà per liberarla a piazza Don
Bosco) procede lentamente per via Repubblica. Elio
Ganci è soprappensiero davanti al suo negozio. Ad
un tratto dalla macchina schizzano fuori due killer
armati di calibro 38 e lupara. Una raffica di colpi e,
per il gioielliere, è la fine. Senza riuscire a dare una
risposta i carabinieri si chiederanno: “Quartuccio ha
assistito all’esecuzione?”.
“Esecuzione” avvenuta mentre il sostituto procuratore
della Repubblica Domenico Signorino, sulla
64
circonvallazione si trova davanti al cadavere di uno
sconosciuto scoperto in seguito ad una segnalazione
anonima, più precisa di quella giunta al giornale
“L’Ora”. Il “pacco” è appoggiato ad un montante di
tufo davanti al cancelletto di via Collegio Romano,
una piccola traversa della circonvallazione, quasi
all’altezza di un grande magazzino, il Sigros.
Il giorno dopo, il 31 luglio, all’istituto di medicina
legale, il cadavere viene riconosciuto da una donna
di Borgo Nuovo per quello del marito, Francesco
Renda. Il medico legale, Alfonso Verde, fa risalire
la morte a circa 20 ore prima del ritrovamento e
quindi a pochissime ore prima del rilascio di Graziella
Mandalà.
Il corpo senza vita viene ritrovato legato mani e piedi
dietro la schiena.
Renda, 41 anni, abitante in via Assoro 2 a Borgo
Nuovo, sposato con Angela Rizzato, padre di due
bambine, era una vecchia conoscenza di polizia e
carabinieri. Il 30 gennaio 1976 fra l’altro era stato
bloccato su una Mercedes nuova di zecca insieme a
Salvatore Enea, 39 anni, anch’egli di Borgo Nuovo, e
di Giovanni Orofino, fratello di Michele, imputato di
omicidio. In quell’occasione in casa Orofino furono
sequestrate delle armi.
I delitti Renda e Ganci vengono subito collegati
da carabinieri e polizia, che non ne fanno un
mistero, al sequestro Mandalà. Comincia, infatti,
a farsi strada l’ipotesi di omicidi commissionati
addirittura da Quartuccio e dal cognato, Pietro
Mandalà, per vendicare l’affronto. In casa Quartuccio
viene effettuata una perquisizione e i carabinieri
sequestrano 15 milioni, in contanti, probabilmente il
denaro che l’ex costruttore avrebbe voluto offrire ai
banditi come acconto.
Mentre si tenta di far luce sui punti oscuri che
trasformano in un vero e proprio giallo il rilascio della
Mandalà, ecco altri due omicidi. La catena di sangue si
allunga.
È il dieci agosto 1976. Nicolò Malfattore e Vincenzo
Schifaudo, 23 anni il primo, 22 il secondo, entrambi
sorvegliati speciali, poco prima delle 17 sono in un
circolo ricreativo nei pressi di piazza Scaffa. Qualcuno
si avvicina e dice loro di essere attesi al bar vicino.
Appena fuori, a due passi da piazza Scaffa, da una
128 rossa scendono due killer armati di calibro 38 e
fucile a canne mozze. La “sentenza” viene eseguita
con facilità: Malfattore muore subito, Schifano viene
65
inutilmente trasportato all’ospedale dove arriva senza
vita.
Gli inquirenti navigano nel buio. Per altri 23 giorni
non accade nulla. Colpo di scena il 2 settembre:
alle 5,15 un gruppo di killer sorprende Salvatore e
Filippo Ganci, 56 anni il primo, 50 il secondo, fratelli
del gioielliere Elio, assassinato 33 giorni prima a
Monreale. L’agguato viene teso proprio davanti allo
stand dei Ganci al mercato ortofrutticolo di Palermo
mentre i due fratelli, insieme ad alcuni dipendenti,
scaricano meloni da un camion.
Non è difficile abbatterli perché i killer giocano sulla
sorpresa. Un altro loro fratello, Vincenzo, 52 anni,
titolare dello stand, riesce a salvare la pelle perché al
riparo, dentro lo stand.
Non si registrava un delitto all’“ortofrutta” da 18 anni:
dal 1958, quando venne ucciso a raffiche di lupara
Gaetano Galatolo, “zu Tanu Alati”, il “re” della zona
Acquasanta-Montalbo: da quel giorno prese il suo
posto Michele Cavataio, uno dei quattro assassinati
negli uffici Moncada di via Lazio il 10 dicembre 1969.
Anche il duplice omicidio dell’“ortofrutta” viene
inquadrato nell’ambito delle vendette seguite al
sequestro e al rilascio di Graziella Mandalà. Strenuo
assertore di questa tesi è proprio il colonnello dei
carabinieri Giuseppe Russo.
Il contadino Calogero Mannino, conduttore di un fondo
a “Piano dell’Occhio”, tra Montelepre e Torretta, di
proprietà di Lucrezia Prestigiacomo, residente in
America, mentre ara il suo terreno coltivato ad uliveto
si accorge che la pala del trattore rimane impigliata
in un sacco. È una scena macabra. Dentro una
buca larga circa 60 centimetri e profonda 80 c’è un
cadavere avvolto a metà dentro un sacco. Il corpo, con
le braccia e le gambe legate dietro il tronco con una
fettuccia di canapa, era stato infilato nel sacco dalla
testa fino all’addome.
Il riconoscimento, all’istituto di medicina legale, è
facilitato da due tatuaggi: una farfalla ed una sirena. È
proprio Stefano Diaconia, 42 anni, scomparso un paio
di giorni prima. La conferma la dà la moglie, Maria
Sarchina, abitante in via Re Federico.
La cronaca si era occupata di Diaconia il 23 aprile
1963 quando davanti alla sua pescheria di via
Empedocle Restivo, un gruppo di killer sparò delle
raffiche di mitra contro il boss Angelo La Barbera, in
quel momento fermo sul marciapiedi a parlare con
lui. La Barbera non fu colpito, invece Diaconia e due
66
suoi dipendenti rimasero feriti. Un attentato che fece
storia perché segnò la fine di La Barbera, costretto
a fuggire prima a Roma e poi a Milano. Gli assassini
continuarono a cercarlo e tentarono di ucciderlo
proprio a Milano in viale Regina Giovanna. Ma La
Barbera se la cavò con qualche ferita.
Giaconia, dal canto suo, dopo l’agguato di via
Empedocle Restivo, finì all’Ucciardone dove rimase
fino al famoso processo di Catanzaro, quello contro le
cosche mafiose del Palermitano.
Il 22 settembre 1976, giorno della sua scomparsa,
Stefano Giaconia, al soggiorno obbligato nel comune
di Lanciano, si trova a Palermo essendo riuscito ad
ottenere un permesso. Riusciva ad ottenerli spesso.
Proprio il 22 scade la sua “vacanza” in famiglia. Di
buon mattino esce da casa per andare alla stazione,
poi nessuno ne ha notizia. Dopo quattro giorni il suo
cadavere viene trovato in quel sacco sepolto dalla
terra in una buca di “Piano dell’Occhio”.
I carabinieri effettuano dei sondaggi nei pressi della
“fossa” dove era stato seppellito Giaconia, trovano
a qualche metro di distanza un altro cadavere in
avanzato stato di decomposizione.
Per gli ufficiali dei carabinieri, alla medicina legale,
non ci sono dubbi: si tratta del pregiudicato Salvatore
Spaduzza, latitante da due anni; lo riconoscono perché
ha un dente fratturato ed annerito. Ma, prima ancora
di vedere il cadavere, quella stessa sera, i familiari di
Spaduzza sostengono che non può trattarsi di lui. Il
giorno dopo genitori, fratelli, parenti ed amici della
vittima vanno tutti all’istituto di medicina legale del
Policlinico. Pur traditi da una certa emozione, dicono
tutti di non riconoscere Salvatore Spaduzza in quel
cadavere.
I carabinieri pensano che soprattutto i genitori di
Spaduzza abbiano così tentato di evitare ulteriori
danni alla loro famiglia e agli altri fratelli della vitima.
Per i rapporti di amicizia tra Spaduzza, Francesco
Renda (il primo morto della catena), Salvatore Enea
e le due vittime di piazza Scaffa, Nicolò Malfattore e
Vincenzo Schifaudo, i carabinieri collegano anche le
due ultime vittime col sequestro della Mandalà.
Renda, i tre fratelli Ganci, Schifaudo, Malfattore,
Spaduzza, Giaconia: otto nomi, otto delitti. Il giallo si
infittisce. Le ipotesi di un collegamento al sequestro
della moglie di Giuseppe Quartuccio si concretizzano.
Ma l’inchiesta riserva delle sorprese.
67
S
13 maggio 1979
Quando
la “mala”
tocca
un
intoccabile
68
ul sequestro e sul rilascio della moglie
dell’ex costruttore Giuseppe Quartuccio,
sugli otto morti che seguirono alla
liberazione di Graziella Mandalà, il
colonnello Giuseppe Russo presentò un
rapporto alla magistratura, l’ultimo della sua lunga
carriera prima di lasciare il comando del nucleo
investigativo dei carabinieri (26 ottobre 1976) per
venire trasferito alla Legione di Palermo.
Russo presentò il rapporto ma non arrestò
Quartuccio. Proprio al contrario di come si comportò
il suo successore, il maggiore Antonio Subranni.
Quest’ultimo il 23 dicembre dello stesso anno con un
suo primo rapporto all’autorità giudiziaria arrestò
Giuseppe Quartuccio come mandante degli omicidi di
Francesco Renda, Elio Ganci, Schifaudo, Malfattore,
Spaduzza, Giaconia, Filippo e Salvatore Ganci. Arresto
confermato dal giudice istruttore Marcantonio
Motisi, che contestò all’ex costruttore il concorso in
sei omicidi: Renda, Elio, Filippo e Salvatore Ganci,
Schifaudo e Malfattore. Come si vede, pur essendone
indiziato, non ha avuto ufficialmente contestati né gli
omicidi Giaconia e Spaduzza, né la scomparsa di Vito
Mangione, volatilizzatosi subito dopo il rilascio della
Mandalà.
Vediamo come Subranni giunge alla determinazione
di arrestare Quartuccio. Il suo rapporto rivela anche
nei dettagli le sequenze del più eclatante giallo della
malavita organizzata.
È stato accertato che subito dopo il rapimento della
moglie, Giuseppe Quartuccio “bussò” alla porta di un
noto boss del triangolo Monreale-Uditore-Borgo Nuovo.
C’è chi in quei giorni consigliò a Quartuccio di
rivolgersi al gioielliere di Monreale, Elio Ganci, famoso
in certi ambienti per avere avuto un ruolo nella
scomparsa del gestore del “bar Massimo” Vincenzo
Guercio, rapito sotto la sua abitazione di Corso
Calatafimi, il 10 luglio 1971. Il gioielliere, secondo
le indicazioni dei carabinieri, era legato al clan di
Gerlando Alberti e di Loreto Sordi, il capo della rivolta
dell’Ucciardone nel 1957.
Quartuccio avrebbe chiarito le idee a se stesso il 23
luglio 1976, giorno in cui si recò nella gioielleria di via
della Repubblica di Monreale.
“La prego – disse a Elio Ganci – mi aiuti a riavere mia
moglie che è ammalata”. Ganci choccato e turbato
dall’inaspettata richiesta rispose confuso: “Ma… che
c’entro io? Che ne so di questi fatti?”. Dal turbamento
di Ganci l’ex costruttore si sarebbe convinto che il
gioielliere era proprio uno degli organizzatori del
sequestro.
I carabinieri sono riusciti a ricostruire attraverso le
dichiarazioni di alcuni protagonisti le fasi misteriose
della liberazione della Mandalà.
Testi chiave dell’accusa sono Rachela Finocchio in
Rizzo titolare di un esercizio di generi alimentari a
Borgo Nuovo, e Francesca Calì ex amante di Vittorio
Manno, il meccanico assassinato alla circonvallazione
nel ’74, e amica di Francesco Renda, Giovanni Orofino
e Salvatore Enea, tre dei protagonisti del “gialloMandalà”.
Francesca Calì, madre di un bambino nato dalla
relazione con Manno, abita in una villetta a Partanna
Mondello, dove in una stanza al primo piano la
Mandalà viene tenuta prigioniera durante gli otto
giorni del sequestro.
Erano stati Renda ed Enea ad imporre la presenza
della signora Quartuccio alla Calì obbligandola a vivere
per quei giorni al piano terra e lasciando disponibili le
tre stanzette del primo piano. Si tratta di circostanze
confermate da Francesca Calì che sostiene però di
non aver mai visto la prigioniera e di aver intuito che
Renda, Enea e Orofino avevano il ruolo di coordinatori
di tutte le operazioni.
Queste ed altre testimonianze fanno credere ai
carabinieri che i carcerieri della Mandalà siano stati
nei primi giorni Renda, e successivamente Schifaudo,
Malfattore, Spaduzza e Mangione.
Arriviamo così alla ricostruzione delle ultime fasi. È
la sera del 29 luglio. Nella villa di Partanna Mondello,
oltre alla Calì, si trovano Salvatore Enea al piano terra
e, a quanto pare, Malfattore e Schifaudo di guardia al
primo piano.
Improvvisamente una persona bussa alla porta.
Risponde la Calì. Lo sconosciuto in modo autoritario
dice che deve consegnare un messaggio. Poi dice di
lasciarlo su uno dei tergicristalli dell’automobile di
Enea, parcheggiata davanti alla villa. La Calì, appena
lo sconosciuto si allontana, esce fuori per prendere
il messaggio. Lo trova però sul muretto della villa,
accanto al cancello. È un pezzo di carta doppia color
zucchero, come quella usata nei negozi di generi
alimentari.
Aperto il messaggio, la Calì legge: “Mi trovo in mano ad
amici. Liberate subito la donna perché sarà meglio per
me e per voi”. La firma è quella di “Francesco Renda”.
69
E non ci sono dubbi che sia la sua: qualcuno sulla carta
color zucchero ha incollato la tessera di identità del
Renda, quasi un’autenticazione della firma. Ciò che
avviene da quel momento nella villa i carabinieri lo
apprendono dalle dichiarazioni di Rachela Finocchio,
amica di famiglia dei Reina, titolare del negozio di
Borgo Nuovo dove – con tutta probabilità – Francesco
Renda acquistava i viveri per la Mandalà.
La Finocchio ha raccontato di avere incontrato
occasionalmente Vito Mangione, che terribilmente
scosso e preoccupato le ha fatto delle confidenze
ritenendo in pericolo la sua vita.
Un racconto drammatico, dalla notte del rapimento
della Mandalà fino alla notte della sua liberazione.
Secondo questa ricostruzione, la moglie dell’ex
costruttore è stata condotta direttamente da San
Martino delle Scale nella villa di Partanna Mondello.
Quella sera la Calì era stata invitata dagli amici del
suo ex amante Manno a non farsi trovare a casa. La
Mandalà fu così rinchiusa in una stanza al primo
piano mentre i suoi custodi alloggiavano in una stanza
attigua.
Il Mangione raccontò alla Finocchio della visita
ricevuta la sera del 29 luglio dello sconosciuto e del
messaggio.
Un messaggio che turbò profondamente Enea il cui
sgomento si accentuò quando – dopo qualche ora – lo
sconosciuto ritornò vicino alla villa gridando: “Ma,
non vi siete ancora decisi? Lo capite che dovete
liberare la donna”.
Sembra che lo sconosciuto abbia anche raccomandato
che i carcerieri avrebbero dovuto consegnare la
prigioniera ad un suo parente; lo avrebbero trovato
fermo a piazza Leoni, quasi all’ingresso della Favorita
verso le 23,30.
Questa seconda “visita” disorienta i rapitori. Non
sanno che fare. Decidono quindi di chiamare a raccolta
tutto il clan. Nel giro di poco tempo si svolge una
riunione, ma all’appello manca proprio Francesco
Renda, il firmatario del messaggio. Si preoccupano e
pensano che Renda possa essere caduto prigioniero
nelle mani della mafia ed abbia rivelato il nascondiglio
della Mandalà e i nomi dei complici.
Il “clan” decide di eseguire i consigli contenuti nel
messaggio di Renda. Viene rubata una “128”, si invita
la Calì ad allontanarsi dalla sua abitazione ma non
vengono eseguiti in tutto e per tutto i consigli dello
sconosciuto. I carcerieri, infatti, temono di cadere
70
anch’essi in un tranello. Invece di abbandonare l’auto
con la Mandalà in piazza Leoni, si fermano in piazza
Don Bosco.
Dirà poi Mangione a Rachela Finocchio: “Subito
dopo ci riunimmo nella villa di Partanna Mondello.
Eravamo preoccupati perché non avevamo più notizie
di Francesco Renda. Tutti temevamo per la nostra
pelle. Pensammo che della liberazione della Mandalà
si fosse interessata la mafia: qualcuno di noi pensò
alla mafia di Partanna Mondello. Il capomafia locale
chissà forse si era risentito perché non informato di
un sequestro che si svolgeva nella sua zona. Alla fine,
preoccupatissimi, telefonammo a Monreale a Elio
Ganci. Lo informammo di quanto era successo e Ganci
ci disse che se il giorno dopo non avessimo saputo
nulla su Renda ci saremmo dovuti recare a Monreale
per discuterne con lui”.
Secondo il racconto di Mangione alla Finocchio il
gruppo in effetti la sera dopo, il 30 luglio, andò a
Monreale. C’era una gran folla davanti alla gioielleria
di via della Repubblica: Elio Ganci da mezz’ora era
stato “giustiziato”.
Il gruppo, ancor più disorientato, tornò
frettolosamente a Palermo. Una volta uccisi Renda e
Ganci, dissero in macchina, la mafia poteva ritenersi
appagata in quanto loro avevano trattato bene la
Mandalà e, obbedendo agli ordini ricevuti, l’avevano
rilasciata appena ricevuto il messaggio di Renda.
Decisero quindi di separarsi.
71
è
20 maggio 1979
Da Garcia
a Russo
a Garcia
72
sera. Nella piccola casetta al primo piano
in piazza, a Ficuzza, il colonnello dei
carabinieri Giuseppe Russo, la moglie
Mercedes Berretti e la piccola Benedetta
hanno appena terminato di cenare.
Hanno lasciato Palermo nel pomeriggio. La signora
Mercedes è stanca, preferisce riordinare la cucina e
andare a letto. Russo invece vuol fare due passi. Esce e
chiama un amico che abita vicino, l’insegnante Filippo
Costa.
È la sera del 20 agosto 1977, ore 21.30.
In maglietta e pantaloncini, sotto il cielo stellato,
fiancheggiando il porticato della caserma della
Forestale, Russo e Costa passeggiano diretti verso il
bar della piazza. Nessuno saprà mai di cosa parlano.
Al bar entra soltanto Russo per fare una telefonata.
Costa attende fuori. Un minuto dopo i due amici
riprendono la loro passeggiata. Un teste interrogato
dai carabinieri, Felice Crosta, ha detto: “Alle 22 li ho
visti. Erano diretti verso la parte alta della piazza
lungo il viale parallelo a quello principale”.
Nello stesso momento c’è chi si accorge di una “128”
verde che procede lentamente per il viale principale,
evidentemente controllando i movimenti di Russo e
Costa. Divide i due viali un largo marciapiedi in parte
alberato. L’auto continua la sua marcia fino alla parte
alta della piazza, effettua una conversione ad “U” e
si ferma proprio davanti all’abitazione del colonnello
Russo.
I due amici sono vicini alla macchina degli assassini.
Non se ne rendono conto. Non possono. Si fermano,
Russo tira fuori dal taschino della camiciola una
sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di
“Minerva”.
Russo non ha il tempo di accendere la sua ultima
sigaretta. Sono le 22,15. Dalla 128 scendono tre o
quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente,
per non destare sospetti, camminano verso i due.
Appena sono vicini aprono il fuoco con le calibro 38.
Sparano tutti contro Russo, tranne uno, armato di
fucile che ha il compito di uccidere Costa.
Sono killer certamente molto tesi. Al punto che uno
di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cade
addosso. Si rialza immediatamente e, come in preda
ad un raptus, imbraccia il fucile sparando alla testa.
È il colpo di grazia. Il killer vuol essere certo che
l’esecuzione sia completa e mira anche alla testa
dell’insegnante Filippo Costa. È il secondo colpo di
grazia. Si può andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga
perde gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo
senza vita del colonnello Russo.
Numerose persone assistono a queste drammatiche
sequenze e, soprattutto, alla fuga perché i killer, a
bordo della 128, passano proprio davanti al bar.
Ci si convince subito che si tratta di un duplice delitto
di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno
da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre
chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo
il 25 luglio, appunto 26 giorni prima.
Fatti e misfatti di una diga
La scelta di Ficuzza come teatro di esecuzione non
è occasionale. Entrambi potevano essere uccisi più
facilmente in altri posti. Russo in via Ausonia sotto
casa a Palermo, Costa a Misilmeri dove abita. Invece
no. La mafia voleva una esecuzione spettacolare ed
esemplare.
I mandanti avranno fatto ricorso a killer che
conoscono zona ed abitudini del paese. Dovevano
sapere, per esempio, che quella sera il “posto” della
Forestale era sguarnito e non correvano alcun rischio
nel primo tratto di fuga: un chilometro che, senza
possibilità di deviazioni nel caso di sorprese, conduce
da Ficuzza alla biforcazione del fondo Marino: una
strada porta a Corleone e l’altro braccio a Marineo.
Gli appunti trovati su Russo, sulla sua “127”, in casa
e alla Legione imprimono alle indagini sin dalle prime
battute un preciso indirizzo: la diga Garcia. Questa
la pista dei carabinieri, che si ritrovano davanti alla
formula: mafia-Garcia-sequestro Corleo.
Russo quando muore è al settimo mese di
convalescenza. Il mese successivo avrebbe dovuto
presentarsi ad una visita fiscale: se l’esito fosse stato
positivo si sarebbe definitivamente ritirato dall’Arma.
Ci si chiede quindi quale strada l’ufficiale avrebbe
voluto percorrere nel caso di congedo. Squadra mobile
e Criminalpol indagano sulle sue amicizie. Soprattutto
una, quella dell’imprenditore di Montevago Rosario
Cascio. Poi: il progetto di un’industria da realizzare in
Liberia, alcuni suoi viaggi a Roma con Cascio, la sua
partecipazione in una società, la Rudesci.
Tutti fatti sui quali si indaga. Alla fine, la polizia
e carabinieri concordano su un punto: Russo è
caduto per aver cercato di ripristinare l’ordine ed
evitare soprusi nella corsa dei gruppi mafiosi verso i
remunerativi subappalti ruotanti intorno ai lavori per
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la costruzione della diga Garcia (costo: 300 miliardi
circa).
In particolare, il colonnello Russo avrebbe tentato di
non far perdere al suo amico Rosario Cascio il lavoro
che si era legittimamente conquistato nella diga
Garcia, da dove alcuni gruppi di mafia lo avevano
cacciato con una serie di violenze.
Il tentativo di Russo non è stato però gradito dalla
mafia che intravide nella sua intromissione un serio
pericolo per la realizzazione dei programmi iniziati
nel ’74 con alcuni sequestri-monstre, finalizzati al
predominio assoluto nella zona di Garcia e nella valle
del Belice.
Un pericolo non infondato perché i gruppi di mafia
in fermento avevano già avuto modo di conoscere la
tenacia di Russo, soprattutto nella lotta alla “Anonima
sequestri”.
La nuova mafia ormai aveva preso il sopravvento. E
uno dei suoi obiettivi era quello di cancellare l’impresa
di Rosario Cascio, di escluderla dai numerosi appalti,
cominciando proprio dalle forniture alla Lodigiani, che
in quel periodo avrebbe dovuto eseguire lavori per 21
miliardi.
Cascio è considerato una pedina fondamentale dei
vecchi equilibri della zona, quelli che non piacciono
alla nuova mafia. Inoltre era amico di Russo e aveva le
spalle protette da Stefano Accardo, il boss di PartannaTrapani che sarebbe stato uno degli artefici del
fallimento del sequestro Corleo.
Rosario Cascio, nel corso dell’inchiesta giudiziaria poi
affidata al giudice istruttore Pietro Sirena, dichiara
di essere stato estromesso dall’ingegner Ratti
dell’impresa Lodigiani. Ma Ratti lo esclude. In marzo –
è la sua tesi – ci sono pervenute due offerte, una della
ditta Cascio e l’altra della “INCO”. Abbiamo ritenuto
più conveniente quella della “INCO”.
Soffermiamo la nostra attenzione su questa sigla: è
quella di una società con sede iniziale a Camporeale,
fondata il 26 giugno 1970, registrata a Monreale;
ha il programma di aprire cave, lavorare la pietra e
fornire materiale alle imprese che ne hanno bisogno.
Una società modesta la “INCO”, con capitale iniziale
di un milione e duecento mila lire. Ne fanno parte
l’imprenditore di Monreale Francesco La Barbera,
Giovanni Lanfranca di Camporeale e il cognato
di quest’ultimo, il geometra Giuseppe Modesto,
dipendente dell’amministrazione provinciale di
Palermo, segretario dell’assessore delegato alle
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opere finanziate dalla Cassa del Mezzogiorno. Strano
compito quello di Modesto che, fra l’altro, richiede
200 milioni alla “Cassa” proprio per potenziare le
attrezzature della “INCO”.
La società il 10 luglio 1971 porta il suo capitale a 150
milioni e il 22 luglio 1974 a 200 milioni. È l’anno in cui
Giuseppe Modesto assume la presidenza della “INCO”.
Negli ultimi mesi del ’76 la “INCO” è in crisi: “La
situazione redditizia – si legge nella relazione di fine
anno allegata al bilancio – è negativa per il ridotto
regime di attività degli impianti nel corso dell’esercizio
1976 e per la pesante incidenza degli oneri finanziari
per debiti a breve scadenza, oltre che per il ritardo del
contributo della Cassa del Mezzogiorno”.
Per la prima volta, la “INCO” così fa ricorso al fondo
di riserva. La società si presenta in queste condizioni
come alternativa all’impresa di Cascio concorrendo
all’appalto per le forniture alla Lodigiani.
Non si può escludere che il colonnello Russo, dopo
essersi tanto adoperato per far superare a Cascio una
serie di difficoltà poste da una precedente operazione
da effettuare in Liberia, abbia pensato che c’era un
solo modo di salvare l’amico reinserirlo nelle forniture
di Garcia.
Non avrà tentato il colonnello Russo di raggiungere un
compromesso con la “INCO” che, non essendo in grado
di garantire le forniture richieste dalla Lodigiani,
avrebbe potuto reinserire Cascio nel gioco?
Morto Russo, la risposta a questa domanda è finita
nella tomba con lui. C’è però una dichiarazione di
Rosario Cascio, che mi ha rilasciato subito dopo
l’interrogatorio del giudice Pietro Sirena, che val
la pena di rileggere. Dalle sue parole non si esclude
l’“ingerenza” di Russo.
“Non comprendo come i Lodigiani e i suoi tecnici – dice
– soltanto ora rivelano al giudice istruttore che io sono
stato estromesso perché l’impresa aveva ritenuto più
vantaggiose le offerte della INCO. Da maggio ad ora
nessuno aveva accennato ad offerte della INCO: né io,
come erroneamente sostenuto da Lodigiani, a marzo
ho fatto offerte per aggiudicarmi le forniture a Garcia
in concorrenza con la INCO. È vero che io già rifornivo
i Lodigiani e che a marzo avevo soltanto presentato
una variazione di prezzi adeguandoli ai nuovi costi.
Continuai le forniture anche dopo la presentazione
dei nuovi prezzi che non furono mai né respinti né
contestati, come dimostrano le fatture di pagamento.
L’offerta della INCO è spuntata dopo la morte di
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Russo e non posso neanche escludere che si tratti
di un’offerta perfezionata in un secondo momento
e, comunque, dopo i fatti di Ficuzza, magari per
togliere da ogni imbarazzo i Lodigiani e i suoi tecnici.
Comunque la INCO non potrà garantire le forniture
che soltanto la mia impresa riesce a produrre per
l’attrezzatura di cui è fornita e che le consentono di far
fronte contemporaneamente alle esigenze di tutte le
imprese che operano nel Belice”.
Alla luce di queste parole appare verosimile che Russo
chiedesse il rispetto della legalità a chi della legalità
è irriducibile nemico, il rispetto della giustizia per
Cascio a chi nell’ingiustizia prolifera.
“Russo si è spinto”, si sussurrò negli ambienti vicini
a Cascio. Il suo era un temperamente impulsivo ma
generoso. Si spingeva fino alle estreme conseguenze
quando era convinto di essere dalla parte della giusta
causa. Un temperamento che lo avrà indotto – magari
con durezza – a chiedere giustizia per un amico, cosa
che gli è costata la vita.
La magistratura, per avallare questa tesi, cerca
l’aggancio Russo-Costa alla causa di Cascio. Ma non
era forse Filippo Costa l’unico amico che l’ufficiale
aveva a Ficuzza e al quale poteva confidare, durante
le passeggiate, i suoi problemi? Russo non aveva
molti amici. Ma un amico era l’insegnante Costa,
probabilmente a conoscenza dell’affare-Cascio.
E, ammesso che Russo non avesse rivelato nulla a
Costa, chi avrebbe potuto convincere gli assassini?
Mario Fracese
al lavoro all’ufficio stampa
dell’assessorato
regionale ai Lavori pubblici
negli anni Sessanta
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Lunedì 26 gennaio 2009 - Ore 21
Palermo, Teatro Politeama
“Una vita per la cronaca
Mario Francese
trent'anni dopo”
Costanza Calabrese • Felice Cavallaro • Filippo D'Arpa •
Davide Enia • Silvia Francese • Francesco La Licata •
Franco Nicastro • Salvo Piparo • Ernesto Maria Ponte •
Gian Antonio Stella • Salvo Toscano
Ingresso libero