Isole della memoria
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Isole della memoria
Isole della memoria di Adriana Lorenzi S ono i libri che mi hanno offerto le avventure più ardite prima da immaginare, poi da vivere e insegnandomi qualcosa che non ha prezzo. Quando il contesto storico e l’origine geografica, sociale e familiare non forniscono il terreno utile a far sbocciare possibilità, nelle pagine dei libri sono depositati personaggi-amici e strategie comportamentali salvifiche: basta avere il coraggio, oltre che il tempo, di aprire un volume e lasciarsi portare dalle sue righe d’inchiostro. Mi fido dei libri perché le parole stampate fanno da tramite verso il ricordo di quello che è stato e l’utopia di quello che potrebbe essere ancora. Le opere d’arte resistono al tempo senza patirne la corruzione. È dalla lettura in terza elementare di Piccole donne di Louisa May Alcott che so quanto una figura di carta riesca a incarnare il fascino della discontinuità da ruoli preconfezionati e della proiezione verso altri scenari: Jo non mi ha fatto solo compagnia, è stata piuttosto un vento scardinante come un progetto politico. La verità appartiene a chi la crea scrivendo e a chi la ricrea leggendola. Vale per le scritture romanzate, ma anche per quelle autobiografiche. In fondo anche Jo March di Piccole donne non è che la versione narrativa di Louisa May Alcott che rifiutato il modello offerto alle donne dalla società della sua epoca per realizzare il proprio sogno: scrivere e insegnare ad altre ragazze a guadagnarsi da vivere con la scrittura. Questa la questione cruciale: scoprire ciò che si vuole essere e adoperarsi per arrivare fino in fondo all’idea di sé dentro il proprio mondo, l’assunzione della responsabilità di fare bene il proprio dovere, perché il mondo benedica la nostra esistenza. Per noi della redazione di Alterego significa interpretare la stagione che si vive in carcere, comprenderla e farla conoscere all’esterno. Io e Catia Ortolani abbiamo promosso la lettura del libro di Umberto Ambrosoli e lo abbiamo poi invitato a parlarne con noi, in redazione, perché le pagine di Qualunque cosa succeda, avevano mosso discussioni accese attorno alla necessità o meno di fare bene per sé e anche per altri; di dire dei No per salvare il rispetto e la dignità personali. È il libro che ha ispirato la nostra scrittura, i nostri ricordi sulla famiglia della nostra infanzia. Sono state poi alcune parole dello stesso Umberto Ambrosoli – alibi, sacrificio, abitudini - a stimolare la riflessione successiva. È accaduto lo stesso con Junio Rinaldi che aveva accompagnato lo scrittore Hans Tuzzi e ci aveva regalato i suoi libri, Uno strappo nel tempo e Disperanza. Anche per lui abbiamo scritto partendo da alcune parole che ci erano piaciute: disperanza, ricordi, rimorsi. I libri, per dirla con Marisa Bulgheroni, sono isole della memoria dove chi approda incontra se stesso, la propria storia e non può più fare finta di niente. Alcune detenute hanno deciso di intervistare il direttore del carcere Antonino Porcino, la responsabile dell’Area Trattamentale Anna Maioli e l’Ispettore Giuseppe Randazzo. Un modo per mettere in pratica le lezioni di giornalismo impartite da Andrea Valesini (L’Eco di Bergamo), ma anche per offrire al pubblico lettore del nostro giornale il punto di vista di chi abita il carcere perché ci lavora e si deve confrontare quotidianamente con la popolazione ristretta in via Monte Gleno. Alle voci della redazione si aggiungono ormai altre voci, quella di una studentessa, Klaudia, che partecipa alle nostre iniziative insieme alla sua classe di liceo; quella di Lillo che ha deciso di scrivere per raccontarci il suo lavoro all’interno della M.O.F. e quella di Giuseppe, impegnato nella squadra di calcio di Via Monte Gleno in trasferta a Bollate per un torneo. Ancora una volta frammenti di vite incuneati saldamente dentro il carcere che sta tra il passato e il futuro e forgia il presente più duro che non può resistere senza legami e voci che vengono dall’esterno, senza progetti capaci di impegnare la mente e il corpo. Pagina 2 « CATIA ORTOLANI Il sorriso di mio padre dice che non è affatto scontato che tutti abbiano un prezzo di scambio. Non bisogna fare l'errore di pensarlo, perché c'è una parte del Paese, che senza guerre sante, anche nella solitudine, sa essere libera, consapevole, coerente, qualunque cosa succeda». Non parla di sacrificio Umberto Ambrosoli quando pensa all'omicidio del padre, lo sarebbe stato se avesse dovuto rinunciare alla sua integrità, al suo dovere, alla sua libertà di scelta. Giorgio Ambrosoli invece non rinuncia a niente, fa una scelta e la porta avanti fino in fondo, qualunque cosa succeda. Giorgio Ambrosoli è un uomo libero che non si nasconde dietro agli alibi e il suo eroismo è nel significato della sua scelta, la sua storia ci insegna che è possibile mantenere la capacità di decidere liberamente anche quando cercano di condizionarti, di comprarti o di minacciarti di morte. Noi, ci spiega Umberto Ambrosoli, creiamo una distanza tra noi e l'eroe, lo riteniamo irraggiungibile, ne marchiamo la differenza, mentre l'atteggiamento giusto è quello di dire io posso, perché queste storie ci dicono che appartiene alla natura umana conservare la propria libertà. Io e Adriana siamo state liete di condividere questo evento con gli studenti del liceo “Federici” di Trescore e con il liceo Amaldi di Alzano Lombardo e con gli studenti dell'Università. Naturalmente abbiamo invitato il magistrato di sorveglianza, Alessandro Zaniboni, e il presidente del Tribunale di Brescia, Monica Lazzaroni. Non si può non dare ragione a Rosario quando dice che Ambrosoli va contro corrente: in un periodo in cui si parla di svuotare il carcere, lui lo riempie. ALTEREGO Le parole di Umberto Ambrosoli sono quelle che lasciano il segno, forse le conoscevamo già, ma Ambrosoli ce le ricorda, le riporta urgentemente all'attualità e quello che dice ci costringe a guardarci dentro e a fare i conti con le nostre scelte, con i nostri comportamenti, con le nostre debolezze. Alla fine non puoi non dargli ragione. Sì è vero, si può fare. La rassegnazione, il senso di impotenza, l'attribuire le responsabilità agli altri, alla generazione passata, alla classe dirigente, è solo uno dei tanti alibi dietro i quali continuiamo a nasconderci. C'è sempre una scusa buona per non provarci, ci sarà sempre un ottimo motivo per sottrarsi, ci sono mille giustificazioni a cui possiamo attingere per spiegare ciò che facciamo o ciò che non facciamo. Sono alibi. L'alibi cancella la responsabilità, rende legale l'intero codice penale. Dipende da noi, non dipende dagli altri. Fosse dipeso dagli altri, mio padre non avrebbe fatto niente, se la responsabilità non fosse stata sua, la sua possibilità di cambiare un pochino le cose, non avrebbe neanche iniziato, ma il bello della responsabilità, di questa forza che abbiamo di rispondere alle domande che ci arrivano da noi stessi e dagli altri, è proprio quello di esercitarsi senza alibi, senza scuse, senza farsi condizionare dalla rabbia che viene dallo sconforto. Il tema della responsabilità torna costantemente nei suoi discorsi ed è inscindibile dal concetto di libertà ed è proprio in questo connubio che risiede il potere di ognuno di noi: «Il mondo, in una certa misura, va nella direzione in cui noi vogliamo che vada. Ciascuno di noi è responsabile per qualche grado di questa direzione, secondo l'inclinazione che NUMERO 16 attraversa la nostra quotidianità e che possiamo cambiare con le nostre scelte e con il nostro agire. Nelle piccole e nelle grandi cose: nell'accettare di non fare o non pretendere una fattura, di chiedere o non chiedere un permesso che una norma impone, di rispettare o meno i diritti del nostro prossimo, o per esempio delegando ad altri le scelte che dovrebbero impegnarci. Questo è il potere che ha ciascuno di noi». Nel momento in cui siamo liberi di fare delle scelte diventiamo responsabili di quelle scelte, ecco perché la libertà è così difficile da gestire, ecco perché diventa molto più facile cedere alla tentazione di delegare gli altri. Nell'esercitare il diritto di scelta si afferma la libertà, una responsabilità personale che diventa collettiva: noi diventiamo le scelte e i gesti che facciamo. La libertà è anche la libertà di avere paura. Ambrosoli mette l'accento sul senso della collettività che deve prevalere sull'interesse personale. La nostra natura ci porta ad anteporre l'io al Noi, al considerare la nostra necessità una priorità su tutto. La sua è una riflessione dal sapore roussoniano: ciascuno di noi vede prima la strada del proprio interesse, immediato, diretto, non quell'interesse, più difficile da raggiungere, che è quello collettivo attraverso il quale si raggiunge l'interesse di ciascuno, vede il proprio in antitesi a quello degli altri. L'esempio è importante per dimostrare che si può credere in una società basata sul rispetto degli altri e che quel rispetto lo si pretende dagli altri solo dopo averlo dato. Stimolato dalle domande, Ambrosoli ci invita nella sua vita privata e ci parla della madre che a solo 31 anni ha dovuto fare i conti con un futuro da vedova. In quella circostanza mia madre è stata capace, anche con il paragone dell'operaio che muore per mettere il depuratore, di trovare il significato positivo delle cose e di far crescere i miei fratelli e me con questo esempio. Sarebbe stato legittimo, perfettamente comprensibile e non giudicabile anteporre l'odio, ma non ha voluto insegnarci questo, non ha voluto permettere a se stessa di scegliere l'odio, perché l'esempio di mio padre non le ha insegnato questo. Mia madre ha avuto una vita difficile, ma ogni volta lei è riuscita ad alzarsi e a trovare il senso positivo delle cose. L'esempio positivo di mio padre sarebbe impossibile senza il supporto anche tacito di mia madre. Le ultime parole sono per i giovani in sala. L'invito è di allontanare il confine. Ricorda una lettera scritta da un giovane partigiano condannato a morte, Giangiacomo Ulivi. Quando la sua prospettiva di vita è di appena 48 ore, parla del futuro, delle cose che bisogna fare, cambiare. È un invito a non rassegnarsi, un'urgenza immediata, ma è anche la necessità di non limitare il nostro obiettivo a un confine troppo vicino. Guardare a chi è libero dai confini che noi stessi ci siamo dati, magari perché ha dei confini più lontani. È un invito a osare e a non rassegnarsi. Ci lascia con queste parole Umberto Ambrosoli e tutti noi usciamo dal teatro portandoci a casa, o in cella, il peso di quelle riflessioni che ci costringono a rivedere i nostri comportamenti. Sentir parlare Ambrosoli è veramente un antidoto contro la rassegnazione, un balsamo per l'anima, una sveglia che ridesta la coscienza addormentata. Un riattivare la memoria su quello che conta veramente e che troppo spesso trala- Pagina 3 sciamo. Ascoltare Ambrosoli, rileggere la storia del padre è come entrare in una beauty farm per la mente. Quando si esce, ci si sente più belli. Grazie Giorgio, grazie Umberto. ••• G. B. novembre ore 8,30. La sala teatro del carcere è gremita, noi, una trentina tra redazione di Alterego e studenti, siamo in prima fila per vivere questo incontro con l'autore a cui ci siamo preparati da più di un mese. In primo luogo leggendo il suo libro Qualunque cosa succeda e poi documentandoci sui fatti che hanno avuto come protagonista “involontario” l'avvocato Giorgio Ambrosoli, padre di Umberto. Abbiamo utilizzato libri come Un eroe borghese da cui è stato tratto l'omonimo film e Il caffè di Sindona. L'incontro, guidato da un'emozionata Catia, non si è sviluppato attorno al rapporto padre-figlio, ma è stata una lezione sulla legalità. In una società dove il sistema mediatico non aiuta a coltivare il senso della collettività, ciascuno di noi mette al primo posto il proprio interesse, il proprio vantaggio a scapito di quello altrui; la cultura dell'individuo che supera quella della collettività che crea il nucleo sociale che dovrebbe riconoscersi nello Stato come regolatore della civile convivenza basata sul rispetto degli altri. Ambrosoli ci richiama alla responsabilità delle scelte che siamo chiamati a fare giorno per giorno per vincere questa cultura. Ambrosoli ci richiama a non trovare l'alibi nel pensare di non poter modificare la società, di essere soli, deboli e quindi di non potere fare scelte diverse da quelle che ci omologano alla cultura dominante. Ambrosoli ci dà testimonianza che siamo liberi di decidere ed è nel significato delle scelte che facciamo giorno per giorno che noi possiamo manifestare la nostra libertà di essere arbitri della nostra vita e poterci confrontare con la nostra coscienza mentre ci guardiamo allo specchio. Ed è una persona che con le sue parole ricche di ottimismo e di fiducia ci dice di non avere paura e non nasconderci dietro gli alibi, ma di aderire a quelle scelte che prima dell'interesse personale tengono conto dell'Altro, senza rinunciare alle nostre aspirazioni purché non siano contro l'Altro. Tutto dipende da noi, non dagli altri, a noi spetta la responsabilità di cambiare le cose un poco alla volta, con tutto l'impegno che potremo metterci, anche sbagliando, ma cercando di fare del nostro meglio. Non siamo chiamati a cambiamenti radicali, ma alla creazione lenta ma costante di quella coscienza civile fatta per legare responsabilmente l'individuo alla società. La testimonianza di Umberto Ambrosoli deriva dai valori che la sua famiglia gli ha trasmesso, dall'esempio di suo padre e dal lascito di sua madre che gli hanno permesso di ritrovare il senso positivo delle cose, di mettere al centro quello spirito di servizio che significa responsabilità verso se stessi, ma anche verso gli altri. L'incontro con Ambrosoli ci fa uscire dal teatro con l'animo pieno di speranza e con la certezza che anche noi, con la responsabilità delle nostre scelte siamo chiamati alla costruzione di quel cambiamento che ci permette di caricarci sulle nostre spalle “l'altro” e avviare un percorso di reciproco aiuto. Un incontro che ci aiuta a meditare sui nostri errori, ma che ci dice “puoi cambiare, dipende da te, non crearti alibi per non 4 Pagina 4 ALTEREGO assumerti la responsabilità di cambiare”. Un rimpianto: all'incontro eravamo poco più di una trentina di detenuti e il resto studenti di altre scuole, ma occasioni così avrebbero giovato a tutti i detenuti perché è la testimonianza che stimola al cambiamento di ciascuno. ••• FEDERICO INVERNIZZI aro dottor Ambrosoli, devo dirle che è stato un vero piacere ascoltarla e la ringrazio per i messaggi che ha portato all’interno di questo Istituto e cercherò di farne tesoro. Sentiamo tutti i giorni di essere vittime di uno Stato che ruba e chi ha il potere non vede altro che il proprio interesse. Lei però mi ha dato molto e un appunto che ho preso mi sembra particolarmente significativo: “Dare senso alla vita nel rispetto della comunità in cui viviamo”. L’incontro ha stimolato una riflessione sulla responsabilità che noi abbiamo abbandonato quando eravamo fuori e così ci siamo ritrovati in carcere. E allora dobbiamo credere nel cambiamento quale punto di partenza. Bisogna imparare ad assumere le nostre responsabilità e prima di dire che gli altri hanno fatto qualcosa, bisogna guardare dentro di noi perché tutto dipende da noi e non dagli altri. C ••• KLAUDIA, studentessa Liceo Scientifico E. Amaldi ualunque cosa succeda è il titolo del libro scritto da un figlio per il padre Giorgio che è stato ucciso. Nel momento stesso in cui l’ho visto, mi sono subito chiesta che valenza potesse mai avere un titolo così, ma ora, dopo averlo letto tutto si spiega. Nel titolo c’è la chiave per capire che tipo di persona fosse Giorgio Ambrosoli. Mi ha stupito molto il fatto di non aver mai sentito parlare di una vicenda così tragica ed eroica allo stesso tempo. A quanti è mai capitato di passeggiare per qualche città e trovare vie o piazze intitolate all’“Avvocato Ambrosoli”? Penso che nessuno si sia mai spinto a indagare che cosa questo personaggio sia arrivato a fare, che cosa sia arrivato a sacrificare per quei principi che tuttora, nella società odierna, sembrano essere sfacciatamente calpestati da tanti senza alcuno scrupolo. Giorgio Ambrosoli era un uomo borghese, marito e padre di tre figli, una persona ordinaria che però ci teneva a fare le cose nel rispetto delle regole, qualunque cosa succedesse. Messa così sembra qualcosa di semplice, continuare a condurre la propria vita rispettando la legge e le regole di convivenza civile, ma nel momento in cui ci si ritrova a dover sacrificare tutto ciò che si è costruito e a dover rischiare la propria vita, quanti sarebbero disposti a correre questo rischio pur di portare avanti i propri principi? Giorgio Ambrosoli sicuramente è stato una di queste persone. Dalla nomina di commissario liquidatore unico della Banca di Michele Sindona, si è prefissato di assolvere il suo incarico nel miglior modo possibile, andando a indagare tutte le verità nascoste. Ambrosoli va ricordato non per la sua tragica morte, ma per quello che ha fatto in vita, per come si è comportato insegnando a fare bene il proprio lavoro. E’ onore leggere la storia di Giorgio Ambrosoli narrata dal figlio: la storia di un legame speciale, di un amore che continua a unire padre e figlio, qualunque cosa sia successa. Q A l diavolo la Giustizia Italiana, al diavolo la politica italiana. Al diavolo i potenti, i mendicanti, le religioni. Al diavolo tutti i predicatori, quelli che vogliono un mondo migliore: al diavolo perché sono proprio quelli che lo rendono peggiore. Al diavolo i magistrati, gli avvocati, i lavoratori, i disoccupati. Al diavolo le case farmaceutiche e chi usa farmaci. Al diavolo gli animalisti e gli animali. Al diavolo i produttori di droga e chi usa droga. Al diavolo le televisioni, Berlusconi e i seicento e più lazzaroni che ci han portato alle elezioni. Al diavolo i carcerati, i carcerieri, al diavolo più di tutti i Carabinieri e gli assistenti sociali perché sono loro i veri criminali. Al diavolo tutte le associazioni che ci prendono per idioti, al diavolo gli operai e chi li sfrutta senza averne mai abbastanza. Al diavolo chi muore di stenti, al diavolo chi mastica in continuazione di tutto con i propri denti. Al diavolo la casa, la chiesa e tutte le cose inutili che non servono nella vita. Al diavolo i fabbricanti d’armi e chi usa armi, al diavolo chi ha la verità in tasca e a chi non ce l’ha nemmeno in tasca. Al diavolo la ricchezza e la povertà. Al diavolo chi vive e chi vorrebbe morire. Al diavolo tutto e tutti perché abbiamo tutto e per tutti. Al diavolo anch’io che non sono diverso da te. Al diavolo i terroristi, tutti i santi e chi crede che siano importanti. Al diavolo le ricchezze, il mondo con le sue bellezze, gli speranzosi e i rassegnati perché tutti al diavolo siamo mandati. Al diavolo gli amici perché appena ti giri diventano nemici. Al diavolo i religiosi perché comunque una volta morti non ci rimane altro che venir sepolti. Al diavolo chi dice di sapere e chi sta lì a sentire. Al diavolo chi vende illusioni, basterebbe essere tutti uguali per non avere problemi. Al diavolo i problemi e le soluzioni, le manifestazioni e chi crede nelle rivoluzioni. Andiamo al diavolo tutti e riaccendiamo il fuoco con un rametto come è successo quando l’uomo è comparso, quando l’egoismo, l’ignoranza, l’indifferenza, la fame, la sete, le guerre, l’Aids, il petrolio, il denaro, la falsità, Internet non esistevano, bastava una foglia di fico e tutto era perfetto. Nessuno per questo si senta offeso, ho solo espresso quello che penso, mando tutti al diavolo con l’illusione che si possa ricominciare. Con questo al diavolo mi sfogo: sono arrabbiato e questo è il mio modo per sentirmi liberato. Penso che tutti debbano andarsene al diavolo per poi tornare e non avere più niente di cui lamentarsi. Dopo un bel al diavolo possiamo ricominciare. Gianluigi NUMERO 16 Pagina 5 STEFANIA COLOMBO entire la risposta ‘No’, genera automaticamente una domanda da parte di chi l’ascolta. Perché No? È una domanda che sorge spontanea perché un No deve essere sempre accompagnato da una motivazione valida per essere accettato da parte di chi non vuole sentirselo dire. Sin da bambini ci sentiamo ripetere questa parola sgradita perché corrisponde sempre a un rifiuto e con l’innocenza di bimbi chiediamo: “Perché No?”. E se scaviamo nella nostra memoria ognuno di noi ricorderà l’arrabattarsi dei genitori per trovare le parole giuste per darci spiegazioni valide con parole comprensibili. Personalmente non mi piace sentirmi dire di No, ma nell’ambiente nel quale mi trovo, purtroppo me lo sento dire spesso. E la cosa peggiore è che i No non sono sempre seguiti da motivazioni valide e il risultato è che sono ancora meno accettabili. In genere si dice che i No aiutano a crescere, nel contesto carcerario, invece, creano solo confusione e così passi gran parte del tempo libero che hai a cercare di dare una spiegazione logica che generalmente non trovi. cherebbe prendere una posizione e mantenerla. Per me il No non deve essere una negazione del nostro essere qui e ora. Non si deve dire No così alla leggera o magari in preda alla rabbia. Il No è una decisione che va portata avanti. Mi viene spontaneo pensare a come tutti i giorni cerco di lasciare andare le cose senza stare da una parte o dall’altra, per evitare conseguenze negative, per il cosiddetto quieto vivere e lascio correre. Eppure la forza che comunque ci vuole per lasciar correre si accumula e diventa poi impossibile fermare quell’esplosione tanto a lungo trattenuta dentro pur di evitare di dire No. Ma c’è il giorno in cui arriva l’inevitabile presa di posizione per salvaguardare me stessa e anche gli altri, i rapporti che voglio coltivare e che, se ben curati, mi daranno amore e mi insegneranno certo a non portarmi appresso quel bagaglio emotivo negativo relativo a quando avrei voluto dire No, ma non l’ho detto. L’uomo è un animale sociale che deve però dire di No quando si tratta di difendersi dai legami capaci di prevaricare, minacciare la sua esistenza. Le forze che minacciano la nostra vita ci rendono più fragili e allora dobbiamo dire di No, mentre ci apriamo a quelle presenze amiche che sanno aiutarci e raccoglierci anche quando siamo a pezzi. Si impara a dire No: io almeno adesso sto cercando d’imparare. ••• ••• MARTA ’è chi dice No, sì c’è chi lo dice. Imparare a dire No è un esercizio di volontà. Esercizio al quale tante volte per comodità si rinuncia perché signifi- MONICA mparare a dire No, penso che sia una delle cose più difficili da fare. Implica profonda autostima e fiducia in se stessi, consapevolezza di sé e di ciò che si vuole, delle proprie >>> C’E’ CHI DICE NO <<< S C I Pagina 6 ALTEREGO risorse e dei propri limiti. Limiti, fragilità su cui gli altri possono far leva per ottenere ciò che vogliono attraverso la prevaricazione. Imparare a dire No è quello che cerco di fare da una vita, passando attraverso tanta sofferenza perché non riesco a manifestare la mia volontà, il mio dissenso e ci sto male. Sento il conflitto dentro di me tra quello che vorrei fare o dire e quella forza che non mi permette di farlo o dirlo. Penso che la paura sia essenzialmente ciò che mi frena: paura del conflitto, di non essere capita, di essere fraintesa. Paura di essere lasciata sola. So che sarebbe importante chiedermi da chi, poi, sarei lasciata sola? Se coloro che ci amano incondizionatamente si contano sulle dita di una mano: cosa temiamo profondamente? Esiste una sola persona nella mia vita di cui mi interessa il pensiero e l’amore, cioè mia madre. La maggior parte delle altre persone, se mi stanno accanto, lo fanno solo per un ritorno personale, mai per purezza d’animo, mai senza pretendere qualcosa in cambio, mai per me. Imparare a dire No, so che mi farà stare bene, mi farà crescere libera. So anche che non può avvenire dall’oggi al domani: si tratta di un cambiamento lento, ma se costantemente perseguito, pur sbagliando, darà senso alla mia fatica, a ogni mia lacrima versata. ••• LASSAAD T. o ho detto No all’apatia, per non perdere mai la speranza di diventare quello che voglio essere veramente, per non mollare mai, come mi dice sempre mio figlio che ha 14 anni e in una lettera mi ha scritto queste righe: «Cerca di usare meglio il tempo per capire gli errori e non ripeterli mai più e per riflettere su quanto è preziosa la libertà». Io che ora ho 41 anni, ho cominciato adesso a capire cosa significa la libertà e la speranza e posso dire che le cose che ho imparato qui dentro mi rendono forte, sicuro e capace di costruire un futuro migliore e affrontare la vita a testa alta. Cerco di spendere questo tempo per migliorarmi e aiutare chi ha bisogno, perché un giorno potrei essere io ad avere bisogno di aiuto. Cerco di approfittare di tutte le attività che offre il carcere, di capire i diversi punti di vista, cerco di rimanere in contatto con il mondo esterno e con le persone che vengono dalla libertà, come gli assistenti volontari e gli insegnanti della scuola che io ringrazio per il tempo che ci dedicano. Adesso è l'ora di pregare e lo devo fare perché è l’unica cosa che mi dà forza e coraggio di andare avanti. Mi auguro un futuro migliore fuori da qui, per me, per i miei concellini e per tutti quelli che incontro tutti i giorni, io prego sempre il nostro Dio. I ••• ELENA o sinceramente non ho detto spesso di No nella mia vita, anzi a dir la verità sono più le volte che non ci sono riuscita. Infatti questo mi ha procurato molti problemi. La volta a cui tenevo di più è stata quando ho chiesto un favore a Dio. Ho pregato veramente tanto, ho fatto una semplice domanda: “Non far morire la mia mamma. Ho bisogno di lei”. Ma lui non mi ha ascoltato. Ha detto No. Anche i Grandi dicono di I No. Così ho cominciato a credere che un Dio non esista, altrimenti non avrebbe potuto rispondermi così. ••• FEDERICO INVERNIZZI ’è chi dice no è una famosissima canzone di Vasco Rossi che ascoltavo nella mia adolescenza, ma se penso a quell’adolescenza di No ne ho ricevuti ben pochi, quindi vorrei passare a un’altra tipologia di No che ho detto io nelle situazioni difficili della mia vita come il collegio prima e poi il carcere. Ci sono entrato con paura ma poi mi sono trovato a riflettere e a dirmi: “E adesso che sono in carcere cosa faccio? Devo reagire”. E a quel punto ho trovato tutto ciò che m’impegna come lo studio, la lettura, lo sport. Ecco qui il mio No. Non mi piego alle situazioni difficili, ma le affronto nel migliore dei modi e do un consiglio a tutte quelle persone che si sentono vittime di una situazione restrittiva. Reagite perché questo è solo un periodo della vostra vita, fatene tesoro e credete nel cambiamento. Insieme credere è più semplice. C ••• GIUSY ul titolo della canzone C’è chi dice no c’è da scrivere sia in maniera autobiografica sia generale. Cosa non facilissima, personalmente – e qui si entra nell’autobiografico – io generalmente dico di No a persone che sento non sincere, uomini il più delle volte che hanno uno scopo, posso sbagliare, ma in genere è palese la loro richiesta. Non dico No ad esempio a un bimbo vestito di stracci con occhi che dicono tutto e ti tende la sua piccola mano. Posso dire No, anzi vorrei dire No a cattive amicizie, però non è sempre facile. Ora, per non aver detto questo fatidico No, mi ritrovo qui e occasioni certo ne avrei avute per dire il mio No! S ••• MERIEM o tante difficoltà a dire No. Ogni tanto mi vergogno a rispondere No, se qualcuno mi chiede qualcosa, ma dopo me ne pento. Ma in carcere si imparano tante cose e quello che ho imparato è stato dire No ogni tanto e mi fa stare bene e in pace con me stessa, così evito tante cose fastidiose e tanti casini. La volta che più mi ha fatto male nel sentirmi dire No: quando mi è arrivato il rigetto per uscire. In quel momento mi sono davvero resa conto che la mia vita è in mano a qualcun altro che decide se e quando posso cambiare e rifarmi una vita. In quel preciso momento ho compreso che c’è chi mi ha detto No. H ••• GIANLUIGI on mi sento la persona adatta a dire di No. Per esempio, ieri, ho sentito mio figlio disperato perché aveva preso un cinque in matematica. Io so benissimo perché era disperato, perché temeva la reazione della madre. Perché mio figlio al telefono mi ha raccontato la sua disperazione? Lo dico su- N NUMERO 16 Pagina 7 bito, perché gli ho detto di sì: «Va bene, chi se ne frega – gli ho detto – la prossima volta prendi sette, lo sommi al cinque, dividi per due e ti resta un bel sei e il gioco è fatto». Con questo non voglio insegnare a mio figlio a essere uno che se fa una cosa sbagliata, non importa anzi: se fa cose sbagliate, poi deve rimediare in qualsiasi modo, anche scorretto, per esempio copiando, naturalmente senza farsi beccare, questo è scontato. ••• SIMONE o ho sempre detto di sì anche quando era no, è una cosa più forte di me, forse è un bene forse è un male, ma io sono fatto così. Mi sono accorto di una semplice cosa che il sì ti fa avvicinare quelli che pensi che siano tuoi amici che invece ti usano come loro burattino, ma quando una volta ho detto No, sono rimasto solo. Una volta ho detto un No deciso ed ecco dove sono finito, dietro alle sbarre, ma io mi chiedo: «Perché la vita di una persona deve essere fatta sempre di sì? Non deve invece dire qualche volta anche dei No?». A questa domanda non sono ancora riuscito a dare una risposta. I Ecco la consapevolezza del mio errore sta nel non aver cercato il bene comune all’interno delle regole ••• STEFANIA COLOMBO econdo me un alibi è la scusa per nascondersi. Si trovano degli alibi per giustificare un’azione che non si è compiuta perché non avevamo voglia di fare una data cosa, giustificando questa mancanza con delle falsità. Usare un alibi significa non assumersi le proprie responsabilità cercando di scaricare addosso agli altri le nostre colpe. Ognuno di noi usa continuamente degli alibi per giustificare le proprie mancanze. Quando ero a casa e volevo dedicarmi solo a me stessa, se mi chiamava un’amica che mi proponeva di vederci, io usavo l’alibi di essere in un luogo che non potevo abbandonare per un po’. Non avevo il coraggio di dire che volevo stare da sola, anche per non ferire i sentimenti della mia amica e non dare troppe spiegazioni. L’alibi ci serve per convincerci che siamo nel giusto anche quando sappiamo benissimo che non è così. S ••• ••• >>> SACRIFICIO <<< >>> ALIBI <<< G. B. N ella ristrettezza del carcere penso alla vita vissuta, alle scelte che mi hanno portato a vivere questa esperienza. Nel ripensare alle motivazioni che hanno determinato le mie scelte, mi accorgo sempre più che il mio egoismo nel voler vivere una posizione di prestigio, di benessere ha avuto l’alibi, la giustificazione della famiglia. Le scelte consapevolmente fuori dalle leggi che andavo a prendere erano falsamente motivate dal pensare al bene della famiglia, dal voler provvedere ai bisogni economici, garantire lo studio alle figlie, consentire loro quelle opportunità che la vita poteva riservare. A questo pensiero si aggiungeva quello relativo al mantenimento dei miei privilegi e al mantenimento del posto di lavoro e dello stipendio di altre 200 persone: altro alibi per giustificare il mio essere fuori dalla legge. No, non fai male a nessuno, anzi! Ma essere fuori dalla legge non ha portato a risultati positivi: sì, certo, la famiglia è sistemata, le figlie hanno raggiunto quanto volevano, ma quanto è stato tolto con la mia mancanza, con la mia reclusione. Non vi erano altre strade nella legge che potevano essere percorse e cercate da me senza che gli alibi mi convincessero della scelta più comoda. Di una cosa sono convinto comunque: di essere in pace con la mia coscienza e di potermi guardare allo specchio con il perdono della mia famiglia, sapendo di avere consapevolmente scelto di sbagliare e di avere responsabilmente assunto le conseguenze dell’errore. Un errore fatto a fin di bene ma forse anche questo è un alibi. Mi domando: la legge dovrebbe garantire il bene della società, fuori dalla legge non puoi ricercare questo bene? MERIEM er me il sacrificio significa rinunciare a virtù infinite. Sentivo spesso mia madre ripetermi: “Ho sacrificato tutto per te e il risultato è quello di trovarti in carcere”. Per me, sia io sia lei abbiamo fatto una scelta di vita consapevoli di tutte le conseguenze. Lei ha avuto tanti problemi con mio padre e non ha mai chiesto il divorzio per andarsene via da casa. Dice che l’ha fatto per me, all’epoca ero ancora figlia unica, ma credo che quella era la sua scelta. Perché ognuno di noi è libero di fare ciò che vuole. Io considero il sacrificio come il risparmio, la rinuncia a comprare qualcosa oggi per acquistare domani qualcosa di più importante. P ••• ENEA fogliando la Bibbia nell’Antico Testamento si trova spesso la parola sacrificio riferita a quando si offrivano a Dio animali, oggetti preziosi, frutti e cibi vari e in casi estremi S Pagina 8 ALTEREGO perfino una vita umana. Una pazzia, non c’è dubbio. Ma molti secoli dopo sembra che le cose, seppur sotto altre forme, non siano cambiate. Mi capita spesso di pensare a quanto diversa sarebbe stata la mia vita se avessi accettato di mettere la firma nell’Esercito al termine di quel movimentato e rocambolesco anno passato nelle truppe alpine. Col senno di poi, a volte rimpiango quel mio rifiuto, anche se, pensandoci più profondamente, mi rendo conto che non è detto che la mia sarebbe stata una sorte migliore. Potrei già essere morto in una di quelle guerre camuffate da missioni umanitarie oppure operazioni di pace all’estero dove cadono migliaia di giovani vite in nome di interessi religiosi, economici che vanno dallo sfruttamento delle risorse di un territorio al mercato degli armamenti. ••• STEFANIA COLOMBO acrificio ha due diversi usi e significati: c’è chi si sacrifica per raggiungere un preciso obiettivo, quindi è una scelta, quella di rinunciare a qualcosa per ottenere qualcos’altro. C’è invece chi usa il sacrificio per nascondere una sua scelta, oppure la sua mancanza di volontà o le sue paure. Non condivido questo tipo di sacrificio perché è uno scudo usato per far sentire in colpa qualcun altro, per sentirsi più tranquilli con la propria coscienza. Un sacrificio è vero quando coinvolge solo la propria persona, ma è nocivo se le conseguenze di una scelta ricadono sugli altri. Un genitore può dire al proprio figlio “Mi sto sacrificando per te per crescerti nel migliore dei modi”. Questo non è un sacrificio ma il dovere da parte di chi ti ha messo al mondo. Un genitore si sacrifica e continua un matrimonio ormai finito per il bene dei figli: non è vero e nemmeno giusto nascondersi dietro quella scusa. Credo che si tratti di paura di ricominciare e di mancanza di volontà di voltare pagina. Il risultato poi è che sono gli altri a sentirsi in colpa. S ••• VINCENZA LEONE rima di entrare in carcere vivevo da otto anni da sola con mia figlia Filomena e di rinunce e sacrifici per crescerla ne ho fatti veramente tanti. A mio parere il più grande sacrificio è stata la decisione di entrare in carcere per pagare il mio debito con la giustizia. Avendo una condanna alta da espiare, tante persone mi consigliavano di trasferirmi all'estero, di rifarmi una vita altrove. Ciò significava diventare latitante. Il pensiero di entrare in carcere mi angosciava, ero disperata. Se ci fosse stato in gioco solo la mia vita, avrei fatto subito le valige e sarei sparita, ma avevo una figlia, allora tredicenne, e portarla con me significava esporla a chissà quali pericoli, mentre se fossi andata via da sola, non mi sarebbe più stato possibile rivederla. Amavo la mia libertà, ma in quella libertà era compresa anche mia figlia che amavo più della mia stessa libertà. Senza di lei non avrebbe avuto senso. Così ho deciso di sacrificarmi e pagare il mio debito con la giustizia. La carcerazione non mi ha permesso di starle accanto giorno dopo giorno, in compenso le nostre strade non si sono divise: mia figlia è sempre venuta a trovarmi. In quelle poche ore l’abbraccio forte, la colmo di baci, mi racconta P della sua vita seppure difficile senza il mio appoggio. Tempo fa ho conosciuto anche il suo ragazzo. Il mio sacrificio non è stato vano. So con certezza di non aver perso mia figlia. Adesso spero solo di poter tornare presto a casa da lei. ••• >>> RICORDI DI FAMIGLIA <<< STEFANIA COLOMBO ensando al mio passato di bambina, mi ricordo due tradizioni particolari che vivevo in famiglia e quando le rivivo con la mente, sorrido con felicità a quegli episodi così semplici ma che mi riempivano di gioia e di serenità. Uno di questi ricordi è legato al bagnetto che mi faceva mia mamma. Prima mi riempiva la vasca e mi ci faceva sguazzare un po’ giocando e, dopo avermi lavata, se mio papà era a casa, mi avvolgeva in un ampio asciugamano e mi portava da lui che era seduto in poltrona a guardare la Tv e io me ne stavo accoccolata tra le sue braccia fino a quando mia mamma, riordinato il bagno, veniva a riprendermi per vestirmi. La seconda tradizione invece era legata alla promozione alla fine di ogni anno scolastico. Ed è iniziata sin dalla prima elementare. Il primo sabato successivo al ritiro della pagella, si usciva a cena. Alcune mie amiche ricevevano veri e propri regali per la promozione e forse anche io qualche volta ho desiderato un regalo anziché la cena, ma oggi con il senno di poi, sono contenta di quella tradizione. Quel regalo che mi facevano è rimasto ben impresso nella mia mente per tutti questi anni; se invece mi fosse stato dato un oggetto qualsiasi anche se tanto desiderato in quegli anni, oggi di sicuro non me lo ricorderei. Quindi preferisco avere questi valori che riempiono il bagaglio dei miei ricordi perché anche se semplici restano indelebili nel tempo. P ••• VINCENZA LEONE i ricordo che da piccola ogni anno e precisamente il giorno dell’Immacolata mio padre faceva l’albero di Natale e un piccolo presepe. Una volta gli chiedevo perché proprio l’8 dicembre piuttosto che un altro giorno, che cosa cambiava? Lui mi rispondeva che quella era la tradizione ma non l’unica. La sera del 24 dicembre nessun componente della famiglia poteva mancare per il cenone della Vigilia. Al termine gli uomini si riunivano in una stanza a giocare a carte e le donne in un’altra per la tombola a volte fino all’alba. Allora mi chiedevo a che cosa servisse questa tradizione, quest’obbligo di stare insieme. Adesso che vivo da tanti anni lontana dalla mia famiglia, devo dire che questa tradizione mi manca molto. Ho capito che era un’occasione per sentire il calore e l’affetto delle persone care. M ••• NUMERO 16 Pagina 9 SIMONE io padre lo ricordo quotidianamente, con piccole azioni, quelle che faccio ogni volta che mi offro di aiutare il prossimo. Mio padre ed io avevamo (lui mi ha lasciato dopo una malattia incurabile) lo stesso carattere: indole buona, forse troppo, disposti ad aiutare il prossimo in qualsiasi cosa, dal lavoro a un consiglio, la disponibilità a risolvere i problemi. Ricordo quando mi diceva di essere sincero e rispettoso verso gli altri e sarei stato stimato, di non aver paura di fare qualsiasi cosa purché fosse una mia scelta e non un obbligo, di essere disponibile sempre e avrei trovato disponibilità nel prossimo. Porterò per sempre nel mio cuore il ricordo di mio padre per la sua semplicità e il suo carattere di persona disponibile con tutti, grandi o piccoli che fossero, spero di diventare sempre più simile a lui per poterlo ricordare ogni giorno. M ••• conto di come io sia cambiata, maturata e di come ora sia possibile affrontare qualsiasi tipo di discussione senza necessariamente finire a litigare. Non pensiate che però sia tutto e rose e fiori, non è affatto così perché a momenti di condivisione e tranquillità si contrappongono parecchi momenti di discussione anche piuttosto animati. Quando dico di vedermi rispecchiata in lui è proprio per quegli aspetti più duri e rigidi del suo carattere. Testardaggine, rigidità, grandi aspettative, zero margine di errore: immaginate come possa essere vederci discutere! Eppure lui rimane il mio papà e io rimango la sua bambina. Sembra quasi ossimorico quello che ho appena scritto, me ne rendo conto, ma in un rapporto così complesso che vede protagonisti una figlia e un padre è impossibile vedere tutto nero o tutto bianco, qualsiasi cosa è costituita da tante sfumature e così siamo io e lui. Due sfumature a volte opposte e a volte simili, indistinguibili l’una dall’altra: un padre e una figlia. ••• KLAUDIA, Studentessa del Liceo Scientifico E. Amaldi La mia bambina” “Mamma o papà? A chi vuoi più bene?” Ho sempre visto rispondere i miei fratelli minori che il genitore “preferito” era, ed è, la mamma. Io in realtà non ho mai risposto, sarà che temevo di fare un torto all’uno o all’altro quindi me ne stavo zitta a cercare di darmi una risposta che in realtà non arrivava mai. A partire dalla domanda direi che in realtà la chiave non sta nel dire un nome piuttosto che un altro, bensì pensare a che tipo di rapporto si ha con ciascuno dei due genitori. La mamma solitamente è sempre la persona più vicina, sia dal punto di vista affettivo che confidenziale, con la mamma è sempre un po’ più facile parlare, di qualsiasi cosa. “ Il padre invece, riferendoci a quello che è il topos che rappresenta, viene sempre visto come la figura più autoritaria e se vogliamo anche più distaccata. Per quanto mi riguarda devo dire che mi ci è voluto del tempo per cercare di capire, o anche solo delineare, quello che la figura di mio padre rappresentava per me. Fin dall’infanzia ho avuto sempre un po’ di soggezione nei suoi confronti, quando dovevo dire di un brutto voto a scuola o chiedere di uscire sembrava quasi un ostacolo insormontabile, anche solo il dover affrontare un qualsivoglia discorso riguardo anche alla cosa più futile. Col tempo invece sono cambiata io e soprattutto è cambiato anche lui: io sono maturata e lui ha cominciato a capire quelle che erano e sono le mie esigenze. Fondamentalmente è cominciato il dialogo tra noi e mi meraviglia ancora. Penso che sia tutto cominciato tre o quattro anni fa. Una volta è capitato che ci trovassimo in riva al mare a parlare, eravamo usciti insieme all’alba a fare due passi lasciando il resto della famiglia a dormire, e come se fosse una cosa quotidiana, a cui eravamo abituati, continuavamo a discutere e confrontarci sui nostri rispettivi punti di vista. Da quell’episodio per me è cambiato tutto ed è per questo che porto il ricordo così vivido ancora nel cuore. È sparita la soggezione che mi aveva messo tanto in difficoltà nei suoi confronti in precedenza e, soprattutto, mi son resa conto che anche lui aveva cambiato atteggiamento nei miei. Difatti, benché lui ribadisca spesso (molto spesso) che resterò sempre “La sua bambina”, credo che nel corso degli anni si sia reso RESPONSABILE PROGETTO Mimma Pelleriti (Cisl Bergamo) DIRETTRICE EDITORIALE Adriana Lorenzi REDAZIONE Giovanni Bossi, Elina Carrara, Stefania Colombo, Angela Ghidotti, Ingrid, Federico Invernizzi, Lino Martemucci, Catia Ortolani, Antonio Peluso, Vincenzo Santisi GRAFICA E IMPAGINAZIONE Bruno Silini (Ufficio Conunicazione Cisl Bg) Pagina 10 Intervista al Direttore del carcere dott. Antonino Porcino di VINCENZA LEONE V.L.: Perché ha scelto questo mestiere? A.P.: Una bella domanda. I mestieri non si scelgono, s’incontrano lungo la vita. Sperimenti tante cose e poi fai le tue scelte. Quando si decide di iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza, non si ha l’idea di fare un mestiere come quello di Direttore del carcere, ci si vuole piuttosto interessare ad alcuni problemi di tipo sociale, mettendosi dal punto di vista del più debole. La figura del Principe del Foro, dell’avvocato che nelle aule difende gli interessi dei più deboli è quello che affascina. Poi ti rendi conto che così non è e intanto incontri il concorso per Direttore di carceri, lo fai e lo vinci. Dopo un primo periodo nel quale ti interroghi e ti dici “Ma chi me l’ha fatto fare!?”, ti trovi a risponderti “Si può fare!”. Esistono delle coincidenze che ti guidano: ho fatto l’Università con il figlio del direttore di un carcere, lui era innamorato di questo mestiere e io non ne volevo sapere, c’era stato il blocco dell’assunzione da parte dello Stato, avevo fatto un altro concorso, nel frattempo era morto mio padre. Sono i casi della vita che poi ti spingono a fare questo mestiere. A venticinque anni ero già direttore a Novara. È un mestiere come tanti altri. Ti appassioni ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri e lo interpreti in un certo modo che non è detto che sia quello che vale anche per altri. ALTEREGO È un mestiere che dà spazio all’organizzare la vita degli altri, una struttura, una serie di progetti che vanno oltre il carcere. Gli fai prendere corpo attraverso gli altri, i collaboratori. Il direttore non ha un unico mestiere: non sa fare l’insegnante, non ha una laurea scientifica, neppure in Medicina, né in Scienze dell’educazione, ma deve avere la capacità di mettere in relazione le varie professioni affinché lavorino al meglio. Se non si ha questa capacità si fallisce nel mestiere di direttore. V.L: Il direttore fa il carcere? A.P.: No. Non lo fa. Da solo il direttore non fa nulla. Può agevolare, essere da stimolo. Può fare da motore di propulsione che serve al carcere per andare avanti. Il carcere è fatto di tanti segmenti: i detenuti sono il segmento più importante perché sono loro che decidono di vivere con responsabilità il momento della carcerazione e noi come operatori penitenziari dobbiamo e possiamo proporre e accompagnarli nella carcerazione, agevolare il loro reinserimento sociale. Può guidare una nave il direttore, ma all’interno di una cabina di comando abitata da altri. Forse, se avesse funzionato la cabina di comando di Schettino le cose sarebbero andate diversamente. V.L.: Crede di svolgere sempre il suo lavoro in modo giusto? Si è trovato a prendere decisioni delle quali si è poi pentito? A.P.: Accade spesso anche nella vita di prendere delle decisioni che poi vanno in una direzione che non avresti mai pensato. La decisione che prendiamo noi è nell’immediato, NUMERO 16 nell’imprevisto perché tutto ciò che è prevedibile è già organizzato, deciso. Nell’immediato di fronte al bisogno concreto, quello che fa la differenza nell’andare a valutare anche ciò che agli occhi degli altri può essere considerato ingiusto. È l’eccezione che conferma la regola. Le regole sono fatte perché riguardano la maggior parte delle persone e poi c’è l’eccezione che come tale va trattata. È importante che resti un’eccezione e che non diventi l’ordinarietà. Ho coniato una massima: in carcere la prima volta la novità la fai perché è indispensabile, per necessità: non hai altra scelta. Poi se si presenta un caso similare e tu, per similitudine di situazione, estendi la ‘novità’, questa diventa depravazione. È una massima che tengo ben presente e tante volte non faccio eccezioni proprio per evitare eventuali degenerazioni: così è stato fatto ieri, allora possiamo fare oggi e faremo anche domani. La gente non capisce la differenza tra regole ed eccezioni, non capisce perché ciascuno è preso dal suo bisogno, interesse. Capisco che non posso chiedere a uno di capire i problemi di un altro – e non voglio neppure - perché ha già i suoi. Mettere in concorrenza i bisogni delle persone significa in qualche modo danneggiarli. Siamo noi che non dobbiamo essere concorrenziali nel valutare oggettivamente le situazioni, nel considerare i maggiori bisogni. Posso mettere in concorrenza l’interesse di una a farsi una carcerazione tranquilla con quello di un’altra detenuta, una povera disgraziata che non c’è mai con la testa? Sono io che vi obbligo a convivere, è giusto che sia io a prendere questa decisione piuttosto che lasciarla a voi. V.L.: Il sovraffollamento è giusto risolverlo con il trasferimento dei detenuti da un carcere all’altro? Come risolverebbe lei il problema del sovraffollamento? A.P.: Non si risolve il sovraffollamento trasferendo i detenuti in un altro carcere. Il sovraffollamento ha sempre caratterizzato la realtà carceraria e non si risolve certo con i provvedimenti di tipo amministrativo. È chiaro che i posti sono quelli che sono. Io non credo che trasferendo i detenuti da una struttura all’altra si stia adottando una soluzione, piuttosto se i posti non ci sono, stiamo soltanto trasferendo un problema. Io credo che si debba lavorare sul sovraffollamento attraverso le misure alternative, all’interno di una gestione più aperta nel senso di ampliamento degli spazi per dare una dignità al vivere quotidiano. Questa amministrazione ha preso la decisione di ampliare gli spazi e lo può fare a fronte di una popolazione di media sicurezza, con progetti e programmi seri senza gravare eccessivamente sul personale di Polizia. Stiamo parlando di alcune attività dinamiche dove tutti gli operatori – educatori e insegnanti – prestano un’opera di custodia e trattamentale. Senza fare gli agenti, realizziamo un’apertura maggiore e una maggiore disponibilità e fruibilità degli spazi a disposizione. Questa intervista viene fatta a mezzogiorno in un’aula della sezione femminile, ciascuno di noi ha scelto di essere presente, di sfruttare il tempo in modo proficuo e nessuno di noi pesa sul pranzo degli agenti e degli altri detenuti che a quest’ora stanno mangiando. V.L.: Il carcere di Bollate è considerato un modello. Quanto si avvicina la nostra Casa Circondariale a quel modello? A.P.: Bisognerebbe conoscere Bollate. Modello di che? Mi Pagina 11 chiedo. Di trattamento? Modello di reinserimento? Personalmente io ho paura di prendere a modello qualcosa o qualcuno. Ognuno può essere modello di se stesso. Se mandassi lei a Bollate domani e arrivando là, non avesse nessuna attività da fare, lavorativa o di altro genere, Bollate non sarebbe un modello. Sentirebbe di essere stata danneggiata perché era partita da una realtà nella quale, bene o male, aveva trovato una sua dimensione, aveva organizzato il tempo-galera in modo che fosse utile a sé e anche alla famiglia, coltivando quel minimo di interesse che si può coltivare in carcere. Delle scelte bisogna farne. Bollate: su 1200 detenuti 450 impegnati, fate voi la differenza. Può essere modello per via degli spazi aperti. Ma non credo che possa costituire un punto di arrivo, è un punto di partenza per un futuro. Sempre un carcere è con le dinamiche tipiche del carcere. Cose che si possono fare e altre che non si possono fare. V.L.: Non ha mai pensato di fare il penale anche per il femminile. A.P.: E come si fa a farlo più penale di quello è!? Che significa penale? Cosa vi rappresentate con il termine penale? I luoghi comuni vanno sfatati. Il numero delle detenute non giustificherebbe una separazione tra giudicabili e definitive. Non sempre poi è opportuno fare questa distinzione per posizioni giuridiche. Perché andare a ghettizzare quando il numero è basso? È basso in tutta Italia il numero delle donne che delinquono. Sono l’8, il 10%. Anche qui che abbiamo una sezione penale per il maschile con 80, 90 detenuti, abbiamo necessità di aprire certe attività del penale anche al circondariale: vale per l’attività teatrale per esempio ma anche per una partita al pallone. Più alti sono i numeri, più alte le potenzialità. I detenuti sono delle risorse che devono essere riconosciute come tali per poi accompagnarle. L’appiattimento non giova a nessuno, non riuscire a fare differenze tra chi ha qualcosa da dare, esprimere e chi non vuole farlo. Anche dal laboratorio di ceramica sono usciti dei pezzi che possono avere un valore artistico maggiore rispetto ad altri, ma per tutte le detenute il laboratorio di ceramica è stato un modo per tirarsi fuori dai problemi del quotidiano. V.L.: Come mai ci sono per le donne minori possibilità di lavoro all’esterno? A.P.: In termini di percentuale non ci sono meno opportunità di lavoro per le donne che per gli uomini. È vero però che chi sul territorio si avvicina alla realtà carceraria, pensa a un carcere maschile e ad attività lavorative per soddisfare gli uomi- Pagina 12 ni. Noi raccogliamo le offerte e non possiamo imporre le nostre esigenze alla Cooperativa che vuole braccia per zappare la terra. Abbiamo inviato donne per la raccolta differenziata, per esempio. Impieghiamo le donne per i lavori all’interno del carcere, per la pulizia degli uffici, la lavanderia. Impieghiamo la metà delle detenute presenti in sezione all’interno di un turn-over alto perché le detenute restano in sezione per una media di sette, otto mesi, tranne chi ha deciso di fare qui la detenzione. V. L.: Secondo lei serve il carcere? A. P.: Credo che serva come momento di riflessione soprattutto per chi vuole reimpostare una vita diversa. Serve perché ti obbliga a fermarti e riflettere su quella che è stata la tua vita passata. Ogni riflessione non porta poi a non commettere gli stessi errori, puoi tornare ancora a fare quello che facevi prima di entrare in carcere. È chiaro che è un percorso che fai da solo. Puoi essere accompagnato, ma non puoi essere obbligato a fare questa riflessione. Sei obbligato nel senso che la galera ti obbliga a fermarti e a riscoprire alcuni valori che pensavi di non avere in te, di non essere in grado di realizzarli. Qualcuno fa cose che non avrebbe mai pensato di fare da persona libera – teatro, scrittura, scuola. Qualcuno si avvicina al teatro e fuori non avrebbe mai pensato di avvicinarsi al teatro neppure come spettatore. È un’occasione per misurarsi con le proprie capacità e tentando di recuperare il tempo perduto, quel tempo non dedicato a cose importanti. Da liberi si dedica il proprio tempo a cose futili, mentre qui il tempo è dedicato a cose importanti. Obbliga a essere impegnato: obbligo morale nei confronti della propria concellina, anche soltanto per lasciarla un po’ da sola in cella, altrimenti si vive malamente il carcere e si diventa un arredo del carcere e allora diventa poco utile. Utile nel momento in cui il detenuto usa il tempo in modo sensato. Imporsi la mattina di alzarsi, accettare la scansione del tempo data dagli impegni. Organizzarsi la giornata e la settimana e operare le scelte di questo tipo ti serve anche fuori, dove si tratta sempre e comunque di fare delle scelte. Se sono impegnata con il lavoro, posso anche rimandare un colloquio. Anche fuori devi fare delle scelte e organizzarti in tal senso. Vivere responsabilmente significa anche questo: organizzare le scelte quotidiane, onorare le scelte e gli impegni presi. Mi colpisce che non emergano dai detenuti delle richieste di attività che rispondano a degli interessi. Il risultato è che abbiamo provato a fare dei corsi per le detenute che sono stati disertati: un corso di cucito, quello di estetista. ALTEREGO V.L.: Non pensa che sarebbe possibile fare e vendere dei prodotti in carcere? A.P.: Il problema non è la produzione, neppure la lavorazione in carcere ma il problema è la commercializzare. Non si riesce a penetrare in un mercato già organizzato con prezzi per noi non concorrenziali soprattutto quelli della grande produzione. Anche per la produzione interna abbiamo visto che ci costa troppo rispetto alla grande distribuzione, per esempio il pane ci costa più prepararlo che acquistarlo. Lo stesso è accaduto per i biscotti per i quali avevo anche coniato il nome: Bocca büna della galera. Il problema è entrare in competizione con il mercato della grande distribuzione. ••• Intervista alla dott.ssa Anna Maioli, Responsabile Area Trattamentale di STEFANIA COLOMBO S.C.: È possibile chiederle una lista delle cose che fa per la rieducazione dei detenuti? A.M.: A me non piace il termine rieducazione. Educazione vuole dire tirar fuori e ci può stare, forse, se pensiamo di poter aiutare una persona a tirar fuori delle potenzialità che non pensava di possedere. Educazione però è riferita a persone giovani, agli adolescenti. Noi, invece, abbiamo a che fare con gli adulti, ossia con persone già strutturate che devono, piuttosto, essere aiutate a recuperare certi aspetti della loro vita, a incanalarli diversamente. Risocializzare è un termine che ritengo più pertinente: quello è l’aspetto preponderante sul quale possiamo andare a lavorare. Si tratta di aiutare le persone a reinserirsi nel momento in cui la pena finisce, perché la pena finisce per tutti. Più è lunga la pena, più il lavoro diventa fondamentale e va accompagnato per tutto il percorso di avvicinamento del detenuto all’uscita. La legge del ’75 – che forse è già un po’ datata, ma ancora valida – prevede un percorso a tappe lungo il quale la persona deve essere accompagnata. Non è facile per chi è in carcere, ritrovarsi fuori, può avere delle difficoltà: ritrovarsi in spazi aperti significa per alcuni dopo anni di detenzione non riuscire a muoversi, a camminare perché disorientata fisicamente e a relazionarsi con l’euro. Qualcuno non l’ha ancora utilizzato. Ritornare in famiglia, nel posto di lavoro. Il tempo passa sia per chi è dentro il carcere sia per chi sta fuori. Si tratta quindi di accompagnare il detenuto a ritrovare una posizione dentro la sua condizione familiare, dentro la società. L’area educativa si occupa della quotidianità del detenuto, ossia come passare la giornata: attività scolastica, sportiva, ludica, incontri con figure dell’esterno, con i bambini a sostegno della genitorialità. È un impegno di non poco conto se non si vuole riempire di niente la giornata, ma stimolare il detenuto, comprendere i suoi bisogni e adattarli alle offerte che ci sono. Da una parte ci sono le richieste dei detenuti e dall’altra le offerte che vengono dal territorio. La comunità all’esterno va sollecitata in modo che risponda alle richieste dei detenuti. Bergamo è l’unico Istituto penitenziario in Italia con un Centro Eda interno. È stata una bella parabola. Quando NUMERO 16 sono arrivata qui a Bergamo c’erano 180 detenuti (e non gli odierni 540) e c’era il maestro elementare che compilava le istante per i detenuti, sto parlando del 1983. C’erano le prime misure alternative e il maestro aiutava a scrivere le lettere che i detenuti volevano mandare all’esterno. I 180 detenuti erano bergamaschi e parlavano il dialetto che io, piemontese, non capivo. La popolazione è cambiata. Il maestro elementare è andato in pensione e ci siamo accorti che le esigenze scolastiche si erano modificate. I detenuti cominciavano a essere tossicodipendenti con un abbandono scolastico altissimo. Allora abbiamo contattato il Provveditore agli studi e pensato con lui di organizzare i corsi delle 150 ore così come venivano fatti la sera per chi, all’esterno, voleva conseguire il diploma di terza media. La normativa poi è cambiata e i corsi delle 150 sono stati inglobati nei Corsi di Educazione agli Adulti - Centri EDA e poiché noi, nel frattempo, eravamo lievitati a 500 detenuti, l’allora Provveditore agli studi durante una visita in carcere ci ha detto che 500 era il numero minimo di fruitori di un Centro Eda esterno per di più con le caratteristiche che noi avevamo: presenza di stranieri e di soggetti che volevano affrontare anche le scuole superiori. Così quindici anni fa abbiamo organizzato il Centro Eda all’interno del carcere con la presenza di tre alfabetizzatori, di un corso di scuola media e di scuola superiore - Istituto Tecnico Commerciale. Da ultimo è arrivata anche l’Università con la quale abbiamo fatto una convezione. Questo ci consente di avere qui i docenti a tempo pieno, di non far sostenere agli studenti/detenuti al termine dell’anno scolastico gli esami di ammissione all’anno successivo, perché vengono soltanto scrutinati. Posso dire che siamo così riusciti a costruire un’offerta formativa scolastica completa. Per i corsi di formazione professionale abbiamo cercato di tenere presente le esigenze lavorative del territorio e dei detenuti. Pensiamo sempre a dei corsi che diano una formazione spendibile ovunque: il panettiere fa il pane ovunque, il falegname, il muratore fanno lo stesso mestiere ovunque. Le attività vengono proposte a tutti, non mettiamo alcun limite alla partecipazione: ci sono gli avvisi e sta poi al singolo aderire o meno alla proposta. Può anche iscriversi e poi lasciare accorgendosi che non è tagliato per quel mestiere. Non mettiamo alcun limite alla partecipazione, anche i giudicabili – avuto il nullaosta del giudice – possono fare tutto. La seconda cosa della quale ci occupiamo è l’osservazione che comincia dal momento in cui una persona mette il piede in carcere e finisce quando questa mette il piede fuori, a fine pena. L’osservazione viene fatta in équipe, come da regolamento, infatti si chiama Osservazione di equipe e trattamento e vale per le persone già definite colpevoli e costrette all’espiazione di una condanna. L’osservazione viene accettata o meno dalla persona detenuta. Noi gli chiediamo se vuole essere sottoposto a osservazione e può accettare oppure rifiutare. Se non accetta, però, noi possiamo fare una relazione comportamentale e quando va a chiedere i benefici, il Magistrato ne tiene sicuramente conto. Nell’osservazione sono coinvolti più operatori: l’assistente sociale dell’Uepe, lo psicologo, il criminologo e redigiamo la relazione di sintesi che è lo strumento che va al Magistrato di Sorveglianza o al Tribunale di Sorve- Pagina 13 glianza e diventa un elemento fondamentale della persona. Il Magistrato non può avere una conoscenza approfondita della persona – cosa faceva prima, come ha vissuto la detenzione, quali prospettive per il futuro – che invece fanno parte della relazione di sintesi che diventa uno strumento importante per la conoscenza della persona. Questa è la seconda parte di nostra competenza: conoscere una persona, il suo trascorso, quello che fa durante la carcerazione e la cura delle prospettive future. Non mi è mai capitato che un detenuto non accettasse l’osservazione perché indica una collaborazione alle attività definite per l’osservazione. È il nostro tempo-lavoro ma sono i detenuti che ci devono mettere nelle condizioni di poterlo svolgere. Se qualcuno non vuole collaborare, è inutile che io perda il mio tempo. I definitivi sono comunque 250 da seguire. S.C.: I corsi, la scuola, le ore d’aria, il lavoro, spesso si accavallano come orari: è giusto che i detenuti si trovino nelle condizioni di dover scegliere una proposta piuttosto che un’altra? A.M.: Le sovrapposizioni sono determinate dai tempi previsti dal regolamento d’esecuzione. Però io mi chiedo: noi fuori dobbiamo sempre fare tutto? Anche noi qui dentro ci mettiamo le mani nei capelli perché dobbiamo fare più cose nello stesso tempo: lavoro, scuola, colloqui. Là dove possiamo, abbiamo fatto anche l’apertura dalle 16,15 alle 18,00 tra la conta e il carrello della cena. Al Femminile la biblioteca è aperta a quell’ora e anche la palestra. Al Penale alcune attività sono a quell’ora perché c’è una condizione tale che ci permette questa organizzazione dei tempi. Non è vietato fare attività in altre fasce orarie compatibilmente con le esigenze di servizio. Per fare tutte le attività c’è un discorso di personale. Il nostro orario di servizio è sulla carta di sette ore e mezzo al giorno. Di più non possiamo fare. Lo stesso vale per il personale di Polizia penitenziaria che nella fascia 8.00 – 14.00 è tre volte quello che fa le altre due fasce dalle 16.00 alle 24.00 e dalle 24.00 alle 8.00 per poter garantire la massa di attività che si fanno. Nel Circondariale non c’è una situazione ottimale come al Penale e al Femminile dove le sezioni sono aperte e se andassimo ad aprire in quella fascia oraria ci sarebbe necessità di personale che non abbiamo. Fuori comunque io stessa mi trovo a dover decidere cosa fare e cosa no: non riesco a fare tutto. Credo che la dimensione della scelta sia fondamentale all’interno del percorso che ogni detenuto deve compiere: organizzare il tempo, le attività, gli impegni che prende e che deve portare a termine. In carcere Pagina 14 c’è la tendenza a delegare agli altri quello che uno dovrebbe fare. “Non posso perché si soprappone come orario” e così non fai niente. Di fatto si deresponsabilizza. S.C.: In carcere non esistono obblighi particolari per i detenuti, su cosa si basa quindi la rieducazione? Io vedo persone che stanno in cella e non fanno nulla, non partecipano a nulla. Non c’è un obbligo di lavoro e alcune detenute lo rifiutano. Non c’è obbligo di fare alcune attività e vedo donne che rimangono stese a letto dalla mattina alla sera. A.M.: Posto che hanno compiuto i diciotto anni, sono persone adulte… posso dare a mio figlio di sei anni uno scappellotto e costringerlo a fare una cosa che reputo giusta, in quanto educatore devo dargli delle regole. Il discorso è diverso quando ho di fronte delle persone adulte alle quali posso offrire una possibilità. È un po’ come i programmi di recupero del Sert per le persone che hanno problemi di dipendenza. Io ti offro il programma, se vuoi affrancarti dalla tua dipendenza devi fare questo, questo e quest’altro, scegli se farlo oppure no. Se non vuoi fare niente, questa è una tua scelta. Anche la non scelta è oggetto di valutazione. Mi dimostri che la tua maturazione deve ancora venire. Non posso certo prendere per le orecchie le persone adulte e imporre alcune cose. Io ti offro la possibilità di agire in un certo modo, sei tu che devi assumerti la responsabilità di perseguire un percorso di cambiamento oppure no. Quando mi dicono: “Non mi danno il permesso”, a volte vorrei rispondere “Si guardi allo specchio e si dia la risposta”. Se non mi dimostri di avere raggiunto quel minimo per accedere a quei benefici che sono stabiliti per legge per tutti, e quindi anche per te, non puoi andare in permesso. Per poterci andare, devi dimostrami di avere fatto una parte di percorso. Se il tuo percorso è fatto solo di ‘letto’ fin dall’inizio, come posso ipotizzare una fine diversa per te? Noi cerchiamo di stimolare anche queste persone con colloqui più mirati per non lasciarli nella loro cella. Queste persone così inattive sono spesso portatrici di patologie particolari e quindi c’è bisogno dell’intervento di specialisti. Periodicamente noi facciamo l’equipe di sezione: più o meno una volta al mese, o mese e mezzo, tutti gli operatori delle diverse area - sanitaria, educativa, psicologica, - prendono in esame tutti i detenuti che sono in quella sezione. E si fa uno stato dell’arte delle situazioni dei diversi detenuti presenti. Si va a vedere la situazione di ogni detenuto per valutare a che punto è. Vogliamo vedere per esempio a che punto è chi è uscito dall’accoglienza, come vanno quelli che sono in osservazione, se ci sono novità, ci chiediamo come mai qualcuno stia sempre rintanato e vediamo chi si prende la responsabilità di andare a vedere cosa succede. Noi abbiamo a che fare con delle perso- ALTEREGO ne che vanno un po’ stimolate, oppure calmate se sono troppo esuberanti. Nei confronti di chi sembra non voler partecipare a nulla, cerchiamo di smuoverlo un po’, magari di affiancargli un volontario però ci sono dei casi di fronte ai quali dobbiamo arrenderci. Ci sono persone che sono portatrici di patologie psichiatriche di fronte alle quali non sappiamo cosa sia giusto o sbagliato fare. Sono quei casi nei quali la parte medica è preponderante perché sono persone malate e forse sono in carcere per via di questa loro malattia per quale non è stata trovata una cura adeguata. Sono quelle che sopravvivono in carcere ma anche fuori dal carcere e per le quali si tratta spesso di trovare qualche occupazione che dia sollievo anche alla famiglia. S.C.: Il tempo della detenzione è determinante per la rieducazione? A.M.: Mi rendo conto che laddove dovremmo fare di più, riusciamo a fare di meno. I giovani di 18, 19, 20 anni entrano per stupidate, il tempo che si fermano in carcere è di qualche mese e lì si potrebbe fare molto e invece noi non ci arriviamo. In quel periodo ci sarebbe più bisogno del nostro intervento educativo e preventivo, potremmo sfruttare quel tempo per dare inizio a quella rete di aiuto anche esterna, però noi non ci arriviamo. Riusciamo solo a risolvere quelle piccole necessità, l’organizzazione della giornata e basta. Ma una presa in carico con l’osservazione e la relazione d’aiuto può avvenire solo con la condanna definitiva e quindi con pene così brevi non arriviamo in tempo. Prendono dieci, dodici mesi, a volte escono che sono appellanti e decorrenti. Lì rimane un po’ di amaro in bocca perché quando il giovane torna, tu ti dici proprio “Accidenti se fossi riuscita a fare qualcosa prima, forse non sarebbe ritornato una seconda volta!”. Però purtroppo è così e non riusciamo ad arrivare in tempo. Invece dove ci sono pene medio-lunghe solitamente riusciamo a fare un percorso abbastanza buono per arrivare a sfruttare i benefici di legge che sono sicuramente importantissimi: si comincia con i permessi premio, poi permessi un po’ più lunghi, semilibertà, affidamento. Così si realizza il percorso che serve sia per la persona detenuta che per i familiari in attesa fuori. S.C.: Come vi sentite quando una persona torna in carcere per un altro reato o per lo stesso reato? A.M.: Si arriva a quello che si chiama il burn-out, quell’incendiarsi dell’operatore che si dispera: “Ma no, di nuovo qui?!”. Ci sono proprio quegli elementi di criticità per ogni operatore che pensa di aver lavorato bene con la persona che, invece, torna e si deve ricominciare tutto da capo. Non si smette di provare a fare qualcosa. Certo mi gratifica di più NUMERO 16 quando ritrovo al supermercato le persone con le quali ho lavorato e mi fermano a chiacchierare. E per fortuna non sono poche. Devo ammettere che va anche un po’ a categorie: il tossicodipendente è quasi fisiologico rivederlo due o tre, vero L.? È un dato di realtà. Ci sono categorie che sono più a rischio recidiva e questo lo dobbiamo mettere in conto. Mentre per altre categorie comprendiamo subito che usciti dal percorso per quella persona non ci sarà un ritorno. È strutturata in un certo modo, si è trattato di uno sbaglio che, per quanto possa essere brutto, non si ripeterà. Noi siamo aperti 365 giorni all’anno, il biglietto “Tutto esaurito” non lo possiamo mettere. Siamo qui, a disposizione e ci sono anche detenuti che erano qui trent’anni fa e stiamo invecchiando insieme. S.C.: Per chi ha avuto sempre una vita regolare – lavoro, casa, famiglia – e ha compiuto un gesto imperdonabile quale è il progetto rieducativo che serve? A.M.: I progetti educativi sono sempre soggettivi. Una persona non è mai uguale a un’altra. Ogni progetto è tagliato sulla persona, non possiamo andare per categorie né per similitudini. Ogni persona è a sé e ogni progetto rieducativo, risocializzante può essere utile solo per quella persona. Nei percorsi di recupero per i tossicodipendenti, ciascuno ha il suo perché ognuno è portatore di determinate necessità non uguali agli altri. Ogni persona è a sé e quindi con un progetto individualizzato di reinserimento. Non c’è mai un programma uguale a un altro e ciascuno ha la sua storia. S.C.: Noi viviamo un forte disagio con la famiglia – telefonate brevi e una sola volta per settimana, spesso caotici per la presenza di tante persone contemporaneamente con gli occhi degli agenti puntati addosso. Possiamo vivere la famiglia con il contagocce? I familiari non hanno commesso alcun reato perché devono pagare il prezzo della nostra detenzione? A.M.: Mi vengono in mente tante cose: quelle mamme o fidanzate che, quando salutano il figlio o il marito, approfittano del bacio per passare la dose. Noi dobbiamo fare i conti con queste cose qui. Non sempre chi viene da fuori si comporta correttamente. Quando vengono i cani, trovano sempre qualcosa al ‘rilascio colloqui’. Noi dobbiamo tutelare anche questo. Le telefonate potrebbero sicuramente essere di più. In America ci sono i telefoni a scheda, la telefonata è a carico del detenuto e il telefono è all’interno delle sezioni. Noi non abbiamo questa situazione. Noi abbiamo anche problemi di organizzazione: tutti devono telefonare. Con bambini inferiori a dieci anni garantiamo una/due presenze settimanali in casa via telefono. Laddove fuori i papà lavorano distanti le situazioni sono uguali. Sei ore di colloquio al mese, ti puoi ‘bruciare’ le sei ore nei primi quindici giorni, a meno che il familiare non venga dal Marocco e quindi per forza unisce le ore a disposizione, altrimenti è bene che si razionalizzi il tempo, lo si distribuisca nelle settimane tra colloqui e telefonate per mantenere il filo con la famiglia e non interromperlo. Anche fuori per scelte lavorative la famiglia vive condizioni di ‘sparpagliamento’. Noi cerchiamo con la socializzazione di organizzare momenti con la famiglia in aggiunta al tempo del colloquio. ••• Pagina 15 Intervista all’Ispettore Giuseppe Randazzo di LAURA P. L. P.: Come ha scelto di diventare agente di Polizia Penitenziaria? G.R.: Ero disoccupato, non c’era lavoro in Sicilia e avevo alcuni amici che erano diventati agenti di custodia, allora si chiamavano così e feci anch’io la domanda e mi arruolai. L.P.: Ci spiega i ruoli, i gradi, le mansioni di un agente di polizia? G.R.: Ci sono Agenti, Assistenti, Sovrintendenti, Ispettori e Commissari (Comandanti di reparto e nuclei di traduzione), Ispettori che a loro volta sono suddivisi in viceispettore, ispettore, ispettore capo, ispettore superiore, sostituto commissario. Io sono Ispettore capo e la mia mansione è di concetto, svolgo mansioni di coordinamento delle unità operative, impartisco disposizioni agli agenti, sono responsabile del turno di servizio e rispondo direttamente al comandante. L.P.: Come si diventa Ispettore? G.R.: C’è un concorso interno e uno esterno con età minima riservati a chi ha compiuto i 28 anni. Il concorso interno è riservato al personale dell’Amministrazione penitenziaria che deve avere un titolo di studio di scuola media superiore. L.P.: Come pensa che sia possibile insegnare a rispettare le regole? G. R.: Si inizia in famiglia – e poi anche a scuola - a insegnare ai propri figli a rispettare le regole: essere puntuali per l’inizio delle lezioni scolastiche, al momento di sedersi a tavola quale momento di importante comunione e condivisione. L.P.: Chi è l’agente di Polizia penitenziaria? G.R.: L’agente svolge un ruolo difficile. Noi facciamo sempre parte di un Corpo di Polizia e quindi oltre a essere poliziotti, dobbiamo accompagnare le esigenze delle persone a noi affidate, ascoltando il loro vissuto. I detenuti sono persone e il carcere è un luogo di sofferenza e noi spesso ci portiamo a casa il dolore di queste persone. Il nostro è un compito difficile, necessita di un lavoro di squadra e gli agenti fanno parte dell’equipe trattamentale che accompagna la persona per tutto il periodo della sua detenzione. L.P.: Fino a che punto è coinvolto umanamente? G.R.: Sono coinvolto abbastanza. Da 1 a 10: 8. Si cerca sempre di dare una speranza al detenuto. Il carcere è un passaggio che può far riflettere il detenuto. Il carcere per alcune persone diventa casa: qui sanno come muoversi e diventa la loro vita ed è brutto che sia così, ma forse dipende dal fatto che fuori non hanno nulla. Fortunatamente la cosa non vale per tutti. L.P.: Voi dovreste occuparvi di sicurezza e rieducazione del detenuto: come è possibile unire questi due obiettivi? G.R.: Entrambe devono camminare di pari passo: sicurezza, Pagina 16 ALTEREGO rispetto delle regole, trattamento e rieducazione. Non siamo tutti uguali. C’è chi recepisce il messaggio in un modo e chi in un altro e ciascuno di noi agenti ha una sensibilità diversa. Segnaliamo il problema del detenuto. Siamo esseri umani e bisogna essere elastici e capire la situazione. Lo dico sempre: non si può avere tutto e subito, mi devo adeguare al sistema. La società è così. Non siamo tutti fatti allo stesso modo, anche a me piacerebbe risolvere tutti i problemi, ma non posso farlo. Ognuno ha un suo modo di approcciare le situazioni e i problemi. Ci sono detenuti con problemi sanitari, psicologici ecc. Io quando mi segnalano un problema, chiamo il detenuto. Quando siamo in chiesa a me capita di dare la mano al detenuto, anche a chi ha fatto l’opposto di quello che avrebbe dovuto fare davanti a Dio: in quel momento non c’è distinzione tra guardia e ladro. L.P.: Il carcere permette di riparare l’errore commesso? Quanto serve il carcere al detenuto? G.R.: Dipende dal tipo di reato. Il carcere serve, è giusto che ci sia anche per la sicurezza sociale. Il codice penale lo prevede. La mia idea è che “recuperano” di più le forme alternative al carcere. L.P.: Chi è il detenuto? G.R.: Una persona. Ci sono piccolezze che dentro diventano tanto. Se uno dice che sta bene in galera c’è qualcosa che non va. Il carcere è aperto per vedere come lavora, come sta il detenuto. Si deve sapere, si deve comunicare. Purtroppo da fuori non arrivano le informazioni. Gli affetti, i colloqui, una carezza sono importanti. L.P.: Se le capitasse di trovarsi di fronte in carcere un figlio, una figlia come si comporterebbe? Come si sentirebbe? G.R.: Mi chiederei cosa e dove ho sbagliato. Se mio figlio o mia figlia si trovasse qui, sarebbe un trauma. Mi farei tremila domande e gli starei vicino. L.P.: Cosa pensa rispetto alla pena di morte che continua a esistere in alcuni stati? G.R.: Sono contrario alla pena di morte. La vita è un diritto e un dono. L.P.: Cosa farebbe per migliorare la struttura carceraria? G.R.: Per quanto riguarda la struttura ci vogliono ristrutturazioni e migliorie all’aspetto delle celle, alle docce in cella. Il sovraffollamento si combatte con le pene alternative, l’amministrazione penitenziaria è sensibile in tal senso anche nel cercare confort in più come per esempio per il momento dei colloqui con spazi adeguati ai minori. L.P.: Quando finisce il suo turno e si lascia alle spalle il cancello del carcere, cosa si porta a casa? G.R.: Uscendo mi rimane sempre qualcosa addosso. Lavoro con le persone e non con le macchine. Anche quando siamo fuori servizio e ci incontriamo fra colleghi parliamo di alcune situazioni, quelle più delicate. Io, per esempio, quando sono di turno, giro sempre con un’agendina dove annoto le cose che ritengo siano importanti e ogni giorno me le rileggo per cercare di risolvere qualche richiesta che mi viene fatta dai detenuti. I baghèt di Casnigo da anni allietano la vigilia di Natale dei detenuti della Casa Circondariale di Bergamo con le loro antiche cornamuse bergamasche. NUMERO 16 Pagina 17 di Lillo C osa significa lavorare alla M.O.F.? Una domanda apparentemente semplice, ma pensandoci bene non lo è affatto. Iniziamo col dare un significato a questo acronimo: M.O.F vuol dire Manutenzione Ordinaria dei Fabbricati. Una volta svelato questo mistero, possiamo proseguire. Per me, e credo per tutti i miei compagni, lavorare è una delle cose fondamentali durante la permanenza in carcere. Lavorare significa avere un obiettivo e uno scopo giornaliero da conseguire e portare a termine. Lavorare significa essere indipendente sul piano economico e conquistare un po’ di dignità nel non pesare sui familiari e sulla società. Lavorare significa occupare parte della giornata creando e vedendo un risultato alla fine del lavoro, rimanendo soddisfatti del risultato raggiunto grazie all’impegno speso. Lavorare significa essere “liberi” di muoversi girando per l’Istituto e sentirsi di nuovo, in quelle ore, persone “normali” e autonome, senza bisogno che nessuno ci accompagni pensando che ci possiamo perdere. Si potrebbe andare avanti per ore a descrivere sensazioni, ma non sarebbe più un articolo per un giornale ma un best-seller. Credo di essere uno dei pochi, se non l’unico, che lavora alla M.O.F. da così tempo per via, purtroppo, della lunga condanna da scontare e in sei anni ne ho visti tanti di cambiamenti. La crisi in questi ultimi anni, oltre ad aver fatto danni nella società esterna, ha intaccato anche gli Istituti di pena. Però, che cosa si può fare? Niente. Ci si adatta al tempo in cui viviamo e abbassando la testa si va avanti proseguendo il cammino. Io sono in questo Istituto da un tempo relativamente lungo, quasi 12 anni e non ricordo un tempo senza un qualche cantiere aperto dentro le mura circondariali: una volta per automatizzare i cancelli, un’altra per rifare le docce, un’altra ancora per portare l’acqua calda e le docce all’intero delle celle.. Paragono questo carcere a un piccolo paesino che si modifica e si evolve con il passare dei giorni e le esigenze dell’epoca. Essendo qua da così tanto tempo, mi sento un po’ “a casa” – so bene che non lo è – ma credo che sia inevitabile e, sentendo il posto come mio, ci tengo che tutto funzioni. Anche questa è un’utopia però credo che ognuno di noi dovrebbe prendersi cura di quello spazio dove, chi per tanto chi per poco tempo, vi risiede, ci vive. Così facendo, dovremmo renderlo più pulito e vivibile per noi e per gli altri. Ecco cosa significa per me lavorare alla M.O.F. Pagina 18 ALTEREGO >>> Ricordi <<< G.B. N uovo anno scolastico e noi di Alterego riprendiamo da dove ci eravamo lasciati alla fine di giugno per incontrare un nuovo autore in redazione. Junio Rinaldi - autore di Uno strappo nel tempo e Disperanza – era già venuto a trovarci insieme a Hans Tuzzi e a lui tocca il compito di presentarcelo. Abbiamo letto con facilità i due libri che hanno una scrittura lineare e diretta. Uno strappo nel tempo ha una dimensione quasi autobiografica, dove l’autore esprime la difficoltà di trasmettere un sentimento se non ne ha fatto prima esperienza. Disperanza acquista una dimensione più narrativa dove un padre cerca di superare il senso di colpa per l’improvvisa e volontaria sparizione della figlia esplorando quelle zone dell’anima dove i sentimenti più reconditi si piegano e a fatica vengono riportati alla coscienza vincendo le reticenze e i silenzi che cercano di assolvere dall’errore. L’autore si addentra anche nella rappresentazione di quella parte di società abitata dai deboli, umiliati, emarginati, offesi alla quale si presta sempre meno attenzione. Rinaldi ha condiviso con noi aneddoti della sua vita privata e le esperienze che lo hanno portato alla stesura dei suoi volumi. Noi che siamo parte di quei deboli che la società emargina siamo grati della disponibilità dimostrata nell’aiutarci, come dice Hans Tuzzi a ritagliare quel “pezzetto di cielo” utile al nostro riscatto interiore, umano prima che sociale. G. B. U n oggetto, una cosa, una parola, un’emozione generano un ricordo che spesso riapre attimi di vita vissuta, a cui si legano stati d’animo di felicità e serenità che la vita mi ha dato: l’innamoramento, la nascita delle figlie, lo svago con gli amici. Ma spesso i ricordi sono momenti di dolore per la perdita del padre, le persone care, gli amici che quando avevo – e avevamo – vent’anni mi hanno lasciato chi per un incidente, chi per una malattia (leucemia): in un attimo si sono spezzate le loro vite. Ma altri ricordi si affacciano spesso alla memoria riportati da un incontro, una parola e sono rimpianti, o meglio negazioni di quelle scelte fatte che dovevano essere diverse e mi ritrovo a pensare a come sarebbe cambiata la mia vita. Ma poi il rimpianto svanisce nella concretezza che ora devo vivere il presente e fare tesoro degli errori per non perseverare negli stessi. ••• ENEA i ricordi? È la domanda breve ma densa di significato e importanza che risuona spesso nei dialoghi familiari e nelle conversazioni tra amici e conoscenti. Personalmente mi sono rimasti più impressi tutti quegli episodi della mia vita che mi hanno maggiormente emozionato, sia in senso positivo che negativo. Positive sono le soddisfazioni, le gioie individuali e le risate; negativi i lutti, le sconfitte e i dolori. Un ricordo particolare che mi perseguita da quando ero bambino rappresenta marcatamente la contrapposizione tra due stati d'animo. T NUMERO 16 Pagina 19 Avevo sei o sette anni, la mia casa era lontana dal centro del paese, circondata da prati che si estendevano fino al fiume da una parte e dall’altra della strada provinciale in una zona di campagna che oggi, con la costruzione di numerosi capannoni, è diventata zona industriale. Poco distante dalla casa c'era la stalla dei miei nonni, con mucche, maiali, galline e conigli, con sopra il fienile e accanto un grande orto dove si trovava ogni varietà di verdure. Un giorno fui testimone di un avvenimento che mi turbò profondamente e, al tempo stesso, mi ha lasciato un duro e fervido insegnamento esistenziale: la “metafora” della gioia e del dolore e, in estrema sintesi, della vita e della morte. Quel giorno una mucca stava per partorire e io, il mio fratellino e i miei cuginetti eravamo molto felici e ansiosi di vedere e poi di poter giocare con il nuovo nato. Purtroppo però, c'era qualcosa che non andava nel verso giusto e lo intuii dall'umore del nonno, dei miei genitori e degli zii e dalla presenza inconsueta del veterinario. Infatti, mio papà mi disse subito che il vitellino era nato morto. Un dispiacere atroce, piansi a dirotto quando lo vidi e i miei cugini con mio fratello piansero ancora di più, perché loro erano più piccoli e gli fu impedito di guardare quell'esserino senza vita. ••• >>> Disperanza <<< NICOLO’ DEL VESCOVO, Insegnante ivo continuamente una sorta di dicotomia esistenziale. Disperazione e speranza, Bergamo e Bari, valli e mare. Un’oscillazione di pensieri, stati d’animo, emozioni. Sbalzi di un umore che s’inerpica sulla speranza, famiglia, affetti, amore, radici ma resta ancorato alla disperazione, la lontananza, la logica, il lavoro, il futuro. Mi torna in mente la tanto odiata parola “precario”, alla quale forse mi sono talmente abituato da non poterne più fare a meno. È nell’indecisione che cerco la stabilità, in un incessante moto “disperanzoso”. V ••• VINCENZA LEONE peranza e disperazione sono gli stati d’animo che più si alternano in me. Ad accentuare la mia disperazione sono i ricordi, spesso mi rifiuto di pensare alle persone care e a tutto quello che è stata la ma vita. Faccio finta di essere sola al mondo e questo mi fa sentire in colpa. Ma è il mio rifugio per non sentire troppo il peso della disperazione. Per fortuna ogni tanto si fa avanti l’altro stato d’animo, la speranza e allora mi torna di nuovo la gioia di vivere, di continuare una nuova possibilità, tornare di nuovo ad amare, di essere di nuovo mamma. E, soprattutto, libera. S LINO MARTEMUCCI l ricordo è un'arma a doppio taglio, ma senza non saresti nessuno. Ciò vuol dire che hai vissuto il tuo passato. Il ricordo è sinonimo di maturazione, quello che non fa il nostro Paese. È importante ricordare la storia per non commettere gli stessi errori. Questo è quello che sto cercando di fare adesso: ricordo chi ero e sto lavorando per chi voglio essere al termine della mia detenzione. Un uomo che si alza al mattino presto e coltiva la terra di una cooperativa agricola. LINO MARTEMUCCI isperare é un verbo che non mi appartiene. Non dispero mai. Ogni giorno la vita mi può regalare emozioni diverse, o situazioni diverse. Una politica che ho sempre intrapreso è quella di guardare il bicchiere mezzo pieno. Chi si perde d'animo si dispera. E io l’animo non lo perdo. ••• ••• GIUSY miei ricordi sono davvero tanti. La nascita di mio figlio Ale, un ricordo dolcissimo vissuto con il mio compagno. Un piccolo fagottino che ci ha allietato la vita. Accanto alla nascita però c’è anche la morte e questo evento mi ha colpito come un uragano: mi ha lasciato per sempre il mio compagno, padre di Ale. Non so ancora come sono riuscita a sopravvivere a tutto questo. Tutto si è capovolto anche la mia vita fino al dolore del carcere. Lui era eccezionale, intelligente, ironico, generoso, ma il tumore al pancreas l’ha stroncato. Lo rivedo magro, pallido. Aveva capito tutto, non voleva soffrire e anche in quell’occasione pensava a me e ad Ale. Non riusciva a pronunciare bene le parole ma io lo capivo lo stesso. A volte lo sogno in Paradiso che mi accarezza la fronte con la sua mano calda e con un bacio lieve mi sfiora la guancia. Proteggimi, spero davvero di incontrarti, chissà? Ma quello sarà il giorno più bello >>> Abitudini <<< I I ••• ••• D CATIA ORTOLANI ivo con un cane da dodici anni, pertanto ho subito un lento e inesorabile processo di “caninizzazione” e siccome i cani sono animali abitudinari, anch'io ho preso l'abitudine di abituarmi alle abitudini. Piccole abitudini quotidiane che scandiscono la mia giornata e alle quali ho finito per affezionarmi. Quando, per qualche ragione, la quotidianità s’interrompe provvisoriamente, per un viaggio o una vacanza, pur non sentendo nostalgia dell'abitudine, mi piace pensare che presto ritornerà. Più che di abitudini si tratta di rituali, a volte assurdi: ho per esempio l'abitudine di non leggere l'ultimo articolo del giornale, per lasciarmelo la mattina successiva e leggerlo mentre bevo il primo caffè della giornata. Tutti i venerdì pulisco casa per godermela in ordine durante il fine settimana, quando non vado a lavorare. A ogni inizio stagione cambio il quadro di gommapiuma fatto da me che ho appeso alla porta di ingresso e che rappresenta appunto la stagione in corso. V Pagina 20 ALTEREGO L'ultima sigaretta della giornata la fumo sul terrazzo contemplando il cielo stellato o nuvoloso che sia. Ci sono anche delle abitudini che odio: i venti minuti di tapis roulant rigorosamente dalle 6.15 alle 6.35, i venti minuti più lunghi della mia vita. L'abitudine più piacevole, invece, è la pennichella pomeridiana che purtroppo, a causa del lavoro, faccio raramente. Trovo ingiusto che il lavoro, che pure mi piace, sia causa di tanta infelicità. Tante sono le abitudini che condivido con la mia abitudinaria cagnolina: le passeggiate giornaliere, le coccole. Le passeggiate giornaliere seguono un percorso preciso che prevede poche varianti, guai a cambiare itinerario, la Julius si impunta e il suo peso specifico diventa misteriosamente mille volte più alto. Tutto sommato posso definirmi un’abitudinaria fallita, perché raramente rispetto i programmi che mi prefiggo, anche se ragionati nei minimi dettagli. ••• LINO MARTEMUCCI bitudini: ebbene sì, forse è proprio per causa loro che mi trovo in questo “deposito di vite umane”. Per colpa di quelle maledette abitudini, mi sono addentrato nel vortice delle non-abitudini: alzarsi quando ne avevo voglia; partire, anche per una breve vacanza, senza programmare, semplicemente mettendomi in macchina e avviando il motore. Abitudini: c'è gente che ci passa una vita. Sono scelte. Però oggigiorno mi ritrovo a convivere con le abitudini. Ho fatto, detto, disfatto, ma loro mi sono venute a trovare. Adesso: abitualmente, mi sveglio alle 6,20, bevo il mio caffè, prendo la bicicletta e percorro la strada per recarmi al lavoro. Per strada incontro tante abitudini quotidiane: il pullman che passa alla stessa ora alla rotonda per Gorle, come un orologio svizzero; una ragazza che incontro tutte le mattine sul marciapiede opposto alla pista ciclabile che percorro. Il mio capo che abitualmente quando arrivo mi presenta il programma della mattinata, senza neanche darmi il tempo di scendere dalla bicicletta. Ah, ah! Adesso è arrivato il momento di convivere con certe abitudini e con la routine giornaliera. Con la consapevolezza che alcune abitudini me le porterò per tutta la vita. A ••• VINCENZO SANTISI gni mattina mi sveglio alle cinque, mi faccio la barba, la doccia, mi vesto, mi profumo e come al solito, aspetto il click del cancello. Saluto educatamente l'agente e mi avvio alla fermata del pullman. La mia abitudine è forzata, perché le circostanze m’impongono di fare sempre le stesse cose. Recarmi al lavoro. A mezzogiorno pranzo con tutti i compagni della cooperativa e dopo mi reco all'altra sede lavorativa. Per me è desolante continuare queste abitudini, forse l’Istituzione penitenziaria potrebbe fare meglio, trattando diversamente ogni singola persona. Il mio cervello frulla e vorrebbe cambiare queste abitudini forzate. A me piace stare con la gente semplice che s’incontra al mattino al bar, scambiare due chiacchiere, salutare la tua donna e ritrovarla la sera a O casa. Come sarebbe bello poter andare liberamente dove si vuole. Le abitudini della mia vita portano a semplificare il mio percorso. Vorrei tanto poter cambiare certe abitudini, per sentirmi più libero. Ma so che devo avere pazienza. ••• VINCENZA LEONE o dovuto modificare tante mie abitudini per adattarmi al posto in cui mi trovo. Una di queste abitudini che mi manca tantissimo è quella di ascoltare la musica ad alto volume. Quando ero ‘libera’, il primo gesto che facevo quando salivo in macchina era quello di accendere la radio, così pure quando ero a casa. E non mi accontentavo di ascoltare la musica ad alto volume, ma cantavo pure, anche se la mia intonazione non era delle migliori per la gioia dei miei vicini. Ecco questo non lo posso più fare qui, ma sono sicura che appena tornerò a casa, tornerà a essere una mia abitudine. Un buon caffè appena alzata è l’abitudine che invece mi è rimasta anche qui, altrimenti non riesco a ingranare la marcia e per continuare la giornata ho bisogno di una tazza di latte con i cereali. Questa è un’abitudine che mi porto dietro da bambina e non riesco proprio a farne a meno tanto che spesso la mattina mi prendo delle sgridate dagli Assistenti perché non sono mai pronta per andare a lavorare e la mia risposta al loro richiamo è sempre lo stesso: “Sto facendo colazione”. H ••• MARTA i sveglio al mattino, apro gli occhi e spalanco la finestra. Il rumore della battitura dei ferri sulle sbarre che all’inizio della mia carcerazione mi sembrava tanto strano ormai è diventato un suono abitudinario. Il primo caffè e a seguire la sigaretta è un’abitudine che può essere buona o cattiva. La giornata è scandita dagli annunci al microfono per il vitto, la conta, l’ora d’aria, la chiusura delle celle, mi sembrano ormai quasi scontate. E il brutto è che sta diventando un’abitudine. Come quella di leggere un libro e bere il caffè d’orzo per prendere sonno. Aspetto con ansia il momento in cui chiamano il mio nome verso le 16.00 perché potrebbe essere, come è generalmente, una lettera del padre di mio figlio. Un’abitudine che avevo abbandonato è quella di vedere quelle piccole cose che mi fanno comprendere che anche in questo piccolo angolo di mondo non sono abbandonata. E che esiste qualcosa, deve esistere. Le piccole cose diventano piccole gioie che qui sono dei miracoli operati da qualcuno più grande di noi. Allora prego guardando il cielo, pensando che l’universo è immenso e che Dio è grande. Può definirsi un’abitudine questa? Non so. So solo che ho bisogno di credere in un destino migliore dove l’abitudine a sopravvivere verrà cambiata in quella di vivere. Perché la vita è comunque troppo breve perché ci si possa concedere il lusso di viverla malamente. M ••• NUMERO 16 Pagina 21 STEFANIA COLOMBO a nostra mente è capace di adattarsi a qualsiasi cambiamento e lo si nota quando si cambia il proprio modo di vivere. Quando ero libera avevo tantissime abitudini per esempio andare a bere il caffè del bar tutte le mattine perché detestavo quello della moka. Così come l’abitudine di fare la spesa il venerdì, il parrucchiere il sabato, uscire a cena tre volte la settimana e molte altre ancora. L In carcere ho dovuto abbandonare queste abitudini. Per esempio la mattina devo bere il caffè della moka e se prima lo detestavo, adesso lo bramo appena sveglia. La spesa è programmata in determinati giorni e non posso uscire certo a cena e nemmeno a pranzo, se è per questo! Non esiste neppure il parrucchiere. Tutte le cose alle quali ero abituata non fanno più parte del mio nuovo modo di vivere, ma ho acquisito nuove abitudini che sono come dei rituali quotidiani che mi aiutano a scandire il lento trascorrere delle ore. ••• MERIEM ono abituata a mettere il rossetto prima di andare a letto perché mi fa sentire viva e dico che anche se sono in carcere, va bene. E ogni tanto anche il profumo, ma non sempre come il rossetto perché costa! Svegliarmi di notte e mangiare qualcosa di dolce, tipo crostatine, torta, merendine. Sento dire in giro che le persone si svegliano di notte, pensando ai loro problemi, alle loro disgrazie: io no. Io mangio e penso ai miei cari familiari che da anni non vedo e al mio fidanzato e intanto mangio con gli occhi chiusi e ho l’abitudine di prendere in giro le suore, soprattutto suor Simona dicendo le cose un po’ fuori del normale perché sono maliziosa e questo mi fa divertire. S ••• >>> Rimorso <<< MARTA o imparato tante cose nella vita, eppure penso che non si finisca mai di imparare. La vita mi ha insegnato che è meglio un rimorso che un rimpianto. Se non avessi agito come ho fatto in passato, certo non avrei avuto la conseguenza della carcerazione. Vivere per me è anche commettere degli errori perché talora senza commetterli, non avrei mai avuto la consapevolezza del giusto e dello sbagliato che tuttora si alternano in una sottile linea immaginaria. Nonostante questo penso che se tra il 25 e i 30 anni non avessi fatto le tante cose che ho fatto, avrei avuto molti rimpianti. Ho quindi imparato che se nella mia esistenza non avessi preso certe decisioni, non avrei mai incontrato quei momenti di felicità. Penso che bisognerebbe vivere sempre ogni giorno come se fosse l’ultimo e il primo della nostra esistenza. E pensare alla nostra vita come se non avesse mai fine. H ••• STEFANIA COLOMBO e esperienze della vita mi hanno fatto conoscere il significato del rimorso soprattutto verso le persone a me care che non ci sono più, per esempio mia mamma e mio marito. Rimorso di non aver detto loro quanto erano importanti per me, di aver confessato i sentimenti profondi che provavo per loro. Rimorso di non aver detto loro ‘Grazie’ quando facevano qualcosa per me, oppure ‘Mi dispiace’ quando commettevo degli errori. Oggi ho tanti rimorsi accumulati nel passato, ma appunto perché non voglio che questa quantità aumenti ho imparato a esternare tutto ciò che penso e provo per le persone che amo. È bello poter dire a mia sorella ‘Ti voglio bene’, così come dire ‘Ti amo’ a mia nipote, dire loro ‘Grazie’ ogni volta che fanno qualcosa per me, anche il loro venirmi a trovare a colloquio e quanto mi mancano e che sono per me tanto importanti. Non voglio più vivere una vita di rimorsi e finalmente ho capito come fare. L VITTORIO T. nche oggi, alla fine del colloquio con i miei cari mi rimane, come sempre, quel duplice sentimento che ormai da tempo accompagna questa mia carcerazione. Un sentimento di gratitudine per l'affetto e la vicinanza che mi dimostrano a ogni incontro e telefonata, ma anche un sentimento di rimorso suscitato dal ricordo di tutto quel tempo che la mia vita lavorativa insieme al mio impegno politico hanno sottratto ai miei cari. A In particolare non ho potuto condividere i momenti di crescita di mia figlia, le gioie e i problemi dell'adolescenza, i suoi successi nello studio, il suo inserirsi nella vita. No, non sono fuori dalla sua vita, ma sono consapevole di tutto quel tempo che avrei potuto dedicare e che invece non potrò più recuperare. Il rimorso per ciò che ormai è passato e che ho perso, per quelle gioie che non potrò mai più condividere, il rimorso per quei ricordi mancati. I precedenti numeri di Alterego sono linkati e scaricabili in pdf sul sito internet della Cisl di Bergamo nella sezione “edicola” ••• www.bergamo.cisl.it Pagina 22 ALTEREGO di Giuseppe R. A vevo sempre sentito parlare dell'Istituto penitenziario di Bollate, ma non c'ero mai stato e quindi quando mi hanno proposto di andarci per disputare un torneo di calcio, ho accettato immediatamente perché mi piace molto giocare a calcio, ma soprattutto perché è un'esperienza più unica che rara: normalmente, non è così semplice arrivare a Bollate, servono alcuni requisiti di non poco conto. Ringrazio la direzione di aver concesso a me e ai miei compagni di sventura questa bella esperienza, insieme alla professoressa Damiana che ha fatto da tramite, e già che ci sono voglio sottolineare il comportamento di grande professionalità di tutti gli agenti che ci hanno accompagnato. Detto ciò, mi accingo a descrivere l'emozionante viaggio verso Bollate. Pronti per la partenza eravamo in quindici, dieci ragazzi del Circondariale e cinque della Sezione Penale sul pullman della Penitenziaria. Già dall'autostrada intravedevamo questi palazzoni immensi, sembrava una città, un grande quartiere di Milano. Una volta arrivati, ci siamo incamminati verso i reparti che c'erano stati assegnati dalla direzione di Bollate. Davanti a noi si presentava un corridoio lunghissimo, che sembrava non finire mai, ma la cosa che ci ha colpiti di più, è stato vedere tutta quella gente che camminava, come se fosse il corso di un qualche paese o città all'ora dell'aperitivo. Vengo condotto nel mio alloggio e dopo le presentazioni con gli altri abitanti, mi portano a visitare la sezione. A metà del lato si trovano i cosiddetti cellini, che vivono in una cella singola per via delle loro lunghe condanne. Nel frattempo ho incontrato alcuni ragazzi che già conoscevo che a loro volta avevano avvisato altri amici e così ci siamo rivisti dopo tanti anni ed è stato veramente bello: la solidarietà tra noi detenuti è veramente indescrivibile. Ho provato una sensazione di libertà in quelle poche ore, senza perdere la consapevolezza di trovarmi in un istituto penitenziario. Ma arriviamo a quello che è stato lo scopo di questa esperienza: 2 ottobre 2013 partita di calcio. La giornata è stata organizzata dal Coni, dal Comitato regio- nale della Lombardia che ha esposto uno striscione con la seguente frase: “lo sport contro la violenza” riportata anche sulle magliette che abbiamo indossato facendo la nostra entrata nel campo sportivo di Bollate. Quattro gli istituti protagonisti: Bollate, i padroni di casa; Como, Opera e ultimo, ma non meno importante, Bergamo. Modestamente eravamo meno organizzati, ma più forti, calcisticamente parlando, mentre la squadra di Bollate milita in terza categoria. La prima partita ci vedeva proprio contro Bollate. Faccio presente che il nostro gruppo non aveva mai giocato insieme, ma nonostante questo ne siamo usciti vincitori. Una bella soddisfazione battere non solo i padroni di casa, ma la squadra più organizzata di tutto il torneo. La finale dovevamo disputarla contro Opera che era uscita vincente contro il Como. Durante la pausa siamo andati a pranzare tutti insieme nel teatro allestito a mensa per l'occasione. Prima della partita abbiamo fatto una foto di gruppo insieme al dottor Porcino. La partita però non è andata bene, perché abbiamo perso 1 a 0 e stiamo ancora reclamando due goal del sottoscritto che sono stati dichiarati fuorigioco, anche se per tutti, compreso il direttore di Bollate, dottor Parisi, erano regolari. Abbiamo perso il primo posto, per usare una metafora, posso dire che ci hanno fatto “una rapina a volto scoperto”, ma alla fine quello che conta di più è stata la bella esperienza, tenendo presente che in questi luoghi di bello c'è ben poco e pertanto quel che di buono arriva bisogna accettarlo e farne tesoro. Comunque siamo tornati “a casa” con una coppa. NUMERO 16 Pagina 23 Poi, ecco il miracolo del “bene”; al di là di tante tastiere sonanti, ecco finalmente ci siamo annusati il Provveditorato ed io e poi ci siamo riconosciuti; perché al di sopra delle tastiere, dei monitor, delle scrivanie e delle tante e tante carte c’era ancora e solo l’Uomo c’era ancora e solo il cuore. E così, dopo questo anno e mezzo da pendolare in cui, comunque, ogni giorno sentivo il cuore pungere forte e sempre più forte il richiamo del carcere e dei suoi “abitanti” tutti, al di qua ed al di là delle sbarre, preparo ancora una volta le valige e il bagaglio è più grande ed è fatto di altri visi, di altre parole, di altre vite, di altri insegnamenti e lo porto e lo tengo stretto a me, come la calda coperta di Linus. Ancora una volta rispondo alla chiamata. Mi hanno commosso i miei più stretti collaboratori del Provveditorato con i loro tributi di stima e di affetto che mi hanno rivelato per l’ennesima volta, e se mai ce ne fosse stato bisogno, che sopra le spalle possiamo anche avere “gradi da generali di corpo d’armata”, ma se non mandiamo avanti il cuore saremo sempre e solo involucri vuoti, tronchi cavi destinati a suonare esclusivamente per noi stessi. E ccoci! Finalmente è arrivata la convocazione per il corso di formazione previsto in seguito alla vincita del concorso per vice ispettore. Sono attesa l’11 Novembre alla Scuola di Formazione e Aggiornamento per il Corpo di Polizia Penitenziaria. Attendo, sin da allora, proprio questo giorno. Ma se è vero quanto è vero che “tutto ciò che vale merita di essere atteso”, allora va bene così. E sono felice, tanto, e lo dico, forse per la prima volta nella mia vita, molto orgogliosa di me stessa e di quanto fatto sino a oggi. Ero partita circa un anno e mezzo fa dal mio amato “Via Gleno”, portando con me un bagaglio fatto di quindici anni di esperienze più o meno belle all’interno delle mura dell’istituto penitenziario, intrisa di rumori di chiavistelli, di vocii, di giornate scandite da attività frenetiche e millimetrate al secondo e spesso, invece, piene di dolore e silenzio, per andare a prestare la mia attività professionale a Milano presso il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Lombardia. Tutta un’altra realtà, mi viene da dire: il carcere non attraverso le sbarre, ma attraverso le carte. E un mondo fatto esclusivamente di carte è quello che, infatti, mi è apparso nei primi momenti a Milano e così per tanti mesi all’interno del Provveditorato. Eravamo due sconosciuti: io fatta assolutamente di cuore e abituata a lavorare con le persone, il Provveditorato “freddo” fatto di monitor, tastiere e una montagna di carte che, paradossalmente, producevano e producono tuttora altrettante carte. Parole scritte finalizzate a ricucire gli stessi strappi del mondo penitenziario così complesso e poliedrico e a cercare, faticosamente ogni giorno, di migliorarlo. Per tanti mesi mi sono sentita un’estranea, un pesce fuor d’acqua (e solo il vicino carcere di San Vittore mi faceva sentire ancora a casa) un’alunna che svolgeva il suo compitino e a cui spesso dicevano brava, ma mi mancava il cuore, non sentivo più i battiti, non “portavo a casa la giornata”, tanto che più di una volta, tra mille sofferenze interiori e stanchezza, mi sono chiesta se avessi fatto la scelta giusta. Mi hanno regalato parole scritte, sguardi, abbracci e calde strette di mano dense di “arrivederci Simona” che mi hanno fatto sentire unica e speciale e mi hanno ancora una volta dimostrato che, solo l’amore può, solo il bene e solo l’unione fanno nascere qualcosa di buono e trasformano semplici vite in capolavori. Soltanto insieme si può fare mentre da soli non siamo niente, anche se spesso molti di noi lo dimenticano e pensano di essere Superuomini o Dei in terra. Vado e non so dove porterà la mia strada, non conosco il progetto di Dio su di me, ma di una cosa sono ancora certa: il richiamo dell’Istituto penitenziario è sempre forte in me, spinta propulsiva a scegliere, come quindici anni fa, di fare parte di questo mondo così difficile, ma forse proprio per questo così affascinante. E così, ancora una volta, raccolgo la sfida e a quarantadue anni suonati, mi rimbocco nuovamente le maniche e vado e scelgo di affinarmi ancora e, attraverso nuove competenze, desidero impegnarmi al massimo per contribuire a migliorare il mondo penitenziario e studiare, insieme ad altri, nuove strategie affinché davvero la pena possa essere rieducativa e risocializzante e il carcere sia, come da sempre sostengo, un laboratorio dove gli uomini tutti si sentano di nuovo tali e si impegnino per lasciare vecchie spoglie per indossarne di nuove. È proprio tempo di andare e in me c’è forte e chiaro, forse come mai prima d’ora, un Arrivederci. SIMONA PILICHI (Sovrintendente di Polizia Penitenziaria) Pagina 24 Davide Cerullo, Parole evase, Edizioni Gruppo Aeper, Torre de’ Roveri, 2013 STEFANIA COLOMBO arole evase, una raccolta di voci maschili e femminili, di etnie diverse che si uniscono in una sola voce che esprime dolore, paura, sofferenza. Un’unica voce che, da diversi carceri, grida aiuto rivolgendosi a chi si trova all’esterno perché non si dimentichi di quel mondo che racchiude tante anime tristi e che la maggioranza definisce ‘sotterraneo’. Chi ascolta è però troppo lontano, o troppo sordo e allora la voce chiede aiuto a Davide Cerullo che ha vissuto l’esperienza del carcere e sa esattamente che cosa significa la disperazione. P I detenuti si rivolgono a lui non solo per essere ascoltati e capiti nei loro sfoghi, ma perché lui si faccia portavoce della loro condizione e tenda un filo di collegamento tra il carcere e l’esterno che preferisce dimenticarsi dell’esistenza del carcere. I detenuti vengono giudicati da una giustizia che punisce le loro colpe, ma che cessa di esistere oltre le porte del carcere e non si pone dalla parte di chi ha sbagliato perché viva con dignità la sua detenzione. Lo dimostra il degrado in cui sono obbligati a vivere i detenuti, le umiliazioni che devono subire giorno dopo giorno, la perdita della dignità, l’essere considerati solo dei numeri di matricola, delle pedine senza emozioni e sentimenti, in balia di decisioni altrui. Accade così quando vengono trasferiti per disposizioni ministeriali che non tengono conto della volontà di ciascuno, dei suoi legami familiari e della precarietà del suo equilibrio faticosamente raggiunto nell’ambiente che lo circonda. Il trasferimento da un carcere all’altro fa sentire il detenuto un pacco postale senza valore. Ogni volta deve ricominciare tutto daccapo, imparando nuove regole e nuove abitudini, adattandosi a nuovi compagni di ALTEREGO cella nel più breve tempo possibile per evitare guai. In queste pagine si aggiunge la voce dei familiari che patiscono il trasferimento dei loro cari detenuti non riuscendo a garantire l’impegno del colloquio settimanale facendo perdere loro sostegno e conforto. Le famiglie patiscono in misura sproporzionata la detenzione dei loro congiunti: oltre al dispiacere per la loro detenzione, si aggiunge il timore di non ritrovarli al colloquio successivo appunto perché trasferiti altrove senza alcun preavviso. Nessuno si prende la briga di informare la famiglia che viene a sapere del trasferimento solo quando è davanti allo sportello per l’ammissione al colloquio. Senza contare le umiliazioni che i familiari subiscono per via delle perquisizioni e delle lunghe attese in fila sotto il sole cocente o sotto la pioggia battente prima di vedere i loro cari. Familiari che pagano per colpe che non hanno commesso e tra questi ci sono bambini di ogni età in trepida attesa della loro mamma o papà. Le voci che parlano in queste pagine non negano di voler pagare per gli errori commessi, chiedono però condizioni dignitose di detenzione. Cerullo traghetta queste voci verso l’esterno perché la gente le ascolti e capisca che i detenuti sono prima di tutte persone che hanno qualcosa di importante da raccontare. Le parole riescono a evadere dal carcere perché qualcuno le raccolga e non le dimentichi.