Leon Degrelle - thule

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Leon Degrelle - thule
Associazione Culturale “Amigos de Léon Degrelle”
LÉON DEGRELLE
L'ULTIMO CAVALIERE
Nato da una famiglia di origine francese espatriata nel 1901, dopo l’espulsione dei gesuiti
di Francia, Leon Degrelle frequentò la scuola al Collegio di Notre Dame de la Paix a Namur
(Belgio). Durante il periodo degli studi a Loviano (1927 – 1930) inizia ad occuparsi di
giornalismo (L’Avant Garde), di letteratura e di poesia. Nel 1929 diventa redattore capo del
quotidiano "Il XX Secolo" di Bruxelles. Viaggia in Italia, conosce il Fascismo e l’Azione
Cattolica. Vive qualche tempo in Messico, clandestino, in mezzo ai partigiani cattolici, i
"Cristeros". Tornato nel 1931 dirige l’Azione Cattolica belga e poi, nel 1935, fonda il
movimento Rex. Come nella maggior parte degli Stati europei, negli anni tra i due conflitti
mondiali, la democrazia parlamentare fu messa in causa da molti settori politici perché non
riusciva a risolvere lo stato di crisi del Belgio. Dentro al partito cattolico i tentativi di
rinnovamento si diversificarono in varie direzioni: la decristianizzazione voluta da Picard
cercava di raccogliere simpatie a sinistra, mentre l’altra corrente, di carattere borghese, seguiva
una linea politica filo – francese ed antitedesca. Solo Degrelle riuscì a superare questa crisi
grazie alla sua figura di leader oratore, giornalista, poeta, deputato e soldato. Appoggiò in pieno
la causa Nazionalsocialista, tanto che decise di partire con un gruppo di volontari per il fronte
dell’Est l’8 agosto 1941 come soldato semplice. Tra il ’41 ed il ’43 combattè sul Caucaso,
conquistando i gradi sul campo di battaglia fino a diventare un comandante della Waffen SS.
Continuò la sua scalata nella scuola di Bad Tolz. Tornato in Russia, si distinse nel rompere
l’accerchiamento sovietico a Tcherkassy. Fu convocato da Hitler che lo designò Cavaliere della
Croce di ferro, rendendolo popolarissimo anche in Germania. A guerra ormai perduta riuscì
rocambolescamente a raggiungere le coste spagnole dove iniziò il suo dopoguerra fra alti e bassi
finanziari, ma sempre fermo nella sua fede. Riportiamo di seguito alcuni brani tratti da
un’intervista avvenuta nella sua casa di Malaga il 1°marzo 1988.
"Noi (…) eravamo soldati che proiettavano nella lotta le loro idee, e che si preparavano alla
costruzione dell’Europa. Ma questa concezione dell’Europa non è arrivata subito (…). È stata la
guerra che, spingendo i Tedeschi fuori dal proprio Paese ha fatto capire loro cosa succedeva
negli altri Paesi. Ha fatto anche sì che negli altri Paesi vedessero i Tedeschi e potessero rendersi
conto di cosa fossero, e che eravamo tutti degli europei, nonostante tutte le lotte e gli odi
eravamo tutti la stessa gente (…). C’era il grande motore germanico, la Germania è nel centro
dell’Europa, è un Paese che ha il senso dell’organizzazione, del lavoro, della perfezione, vi stava
benissimo come elemento trainante. Ma accanto esisteva tutto questo meraviglioso mondo
occidentale e la sua civiltà bimillenaria. Che cos’era Berlino con i maiali che camminavano nella
sabbia della strada, mentre Parigi era uno dei centri maggiori dell’universo, 1500 anni dopo che
Roma era stata la capitale del Mondo? Era evidente che questo progetto germanico da solo non
avrebbe mai potuto fare l’Europa, aveva bisogno del grande sostegno occidentale, ed è lì che ho
concentrato i miei sforzi, per far risorgere una grande unità occidentale da unire al centro Europa
ma anche all’universo mondo slavo (…). Questo è sempre stato il mio progetto (…). L’Europa
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dal Mare del Nord fino a Vladivostok. Un’Europa che avrebbe dato ai giovani di oggi qualsiasi
possibilità, un’Europa di 10000 Km di estensione per le attività di tutta la gioventù, invece di
avere, come oggi, 16 milioni di disoccupati nel mercato comune. Tutti questi giovani avrebbero
potuto realizzare qualsiasi cosa passasse loro per la testa (…)
Chiaramente, noi abbiamo perso la guerra non perché ci mancasse coraggio; per quattro anni
l’epopea dell’Europa sul fronte russo è stata la più grande avventura militare della storia. Anche
questo è incredibile, che la gente non dia importanza ad un fatto del genere (…), che per quattro
anni ci sia stato un fronte favoloso, di 3000 Km di lunghezza, una lotta che ha messo di fronte
decine di milioni di uomini; il caso delle Waffen SS, un esercito di un milione di volontari, non
si era mai vista una cosa simile. Di questo non se ne parla, né dell’eroismo inaudito che è stato
dimostrato. Si pensi solo al percorso da Stalingrado a Berlino; abbiamo resistito 1000 giorni,
1000 giorni resistendo palmo a palmo, sacrificio dopo sacrificio, centinaia di migliaia di uomini
che morivano per impedire che i sovietici avanzassero troppo in fretta. Con Stalin che diceva:
"Lo zar è andato a Parigi. Ci andrò anch’io". Era evidente che se avessimo fatto come i francesi
nel 1940, squagliarcela quando la lotta diventava troppo pericolosa, i russi avrebbero conquistato
tutta l’Europa in un batter d’occhio, molto prima che gli americani sbarcassero in Normandia,
1000 giorni! E se avessimo resistito soltanto 100 giorni, sarebbero arrivati a Parigi o sarebbero
andati a dormire nel letto del maresciallo Petain a Vichy. Noi abbiamo salvato l’Europa o quanto
ne rimane ancora adesso. Se i francesi non sono come i cecoslovacchi è unicamente perché
siamo morti a migliaia per loro. E allora invece di insultarci dalla mattina alla sera ci dovrebbero
dire: "Siete stati veramente bravi, grazie!" (…). Si dice sempre: "Ma perché Hitler si è lanciato in
questa avventura?". Si è lanciato perché, se avesse aspettato un anno o due, Stalin sarebbe
arrivato di corsa. Ora ci sono tutti i documenti che stabiliscono che aveva creato più di 120
nuove divisioni, 60 nuovi campi di aviazione. Che già allora era arrivato ad avere 32000 carri
armati contro i 3000 dei tedeschi; è in quel momento che hanno preteso i Balcani e abbiamo
capito che era finita. (…) La vittoria degli altri è stata un disastro. Tutto quello che hanno portato
è una falsa civiltà, la civiltà americana, purtroppo, la civiltà dei consumi, del piacere, si pensa
solo ad andare a divertirsi, gioie passeggere; la vita di famiglia è stata annientata, la vita religiosa
distrutta: tutto questo è molto demoralizzante. Un giovane si chiede: "Ma cosa si può fare? (…)
Ma si può ancora sperare?". Rispondo loro: in tutte le epoche nel mondo ci sono state grandi crisi
e a volte quando non è stato fatto uno sforzo tutto è crollato, come ad esempio la caduta
dell’Impero Romano; prima c’era stata quella della Grecia, prima quella dell’Egitto. Ma ci sono
state anche grandi rinascite, come ad esempio l’Italia che ha vissuto la decomposizione e ora è
più importante dell’Inghilterra; la Germania, che 50 anni fa non era altro che rovine, ora è un
Paese fiorente. Significa che si può sempre ricreare. Diranno: "Ma non siamo numerosi", ma non
è un numero a fare la forza dei popoli e dei grandi movimenti rivoluzionari, è la potenza
dell’anima, è la gente con una grande volontà, un grande ideale che si vuole vedere trionfare
(…). Ebbene è a questo che bisogna credere, credere che tutte le possibilità sono nell’uomo, che
se i giovani le vogliono e lo vogliono, un giorno troveranno l’opportunità e un giorno nascerà
l’uomo, perché tutto è una questione di uomini. È il grande uomo a raccogliere le aspirazioni di
tutti e a farle vincere. E la sfortuna dell’Europa di oggi è che non c’è nessuno. Ai nostri tempi ce
n’erano finché si voleva: c’era Hitler, c’era Mussolini, c’ero io in Belgio, c’era Franco, c’erano i
polacchi, c’erano i turchi, tutti avevano un capo, era sorprendente; ora non ci sono più che larve
politiche (…). Per 50 anni l’Europa sono stati incapaci di farla, dopo 50 anni sono ancora lì che
dissertano di miserabili questioni finanziarie, questioni di salami e maiali, di polli; sono ancora
lì. Così si vede che questa soluzione è falsa; la sola vera è quella che abbiamo avuto noi (…). Sul
caminetto del mio esilio ho fatto incidere queste parole: "Un po’ di fuoco in un angolino del
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mondo e tutti i miracoli di grandezza restano possibili." Tutto è possibile, ragazzo ragazza che mi
ascolti, fede nella vita!".
Antonello Piccone
Degrelle: l'Angelo Guerriero.
Militante della gioventù cattolica belga, Léon Degrelle fu il fondatore del movimento Christus
Rex, di ispirazione sociale fascista e di radici fortemente cattoliche e nazionaliste. A soli trent'
anni era già l' uomo politico più importante del Belgio, un autentico capo carismatico. Era il
contatto con la gente, il fluido che emanava durante i comizi, quella voce, quei gesti, che
consegnavano l' uditorio nelle sue mani. "La politica è un atto d' amore", diceva, uno scambio di
sensazioni tra il popolo ed il suo capo. Nel 1940 la Germania invase il Belgio e i Rexisti di
Degrelle cominciarono la guerra al fianco dei tedeschi. Per conservare l' indipendenza del Belgio
e per poter dimostrare il valore di quella gente nella lotta al nemico comune: il comunismo. Nel
1941 Degrelle creò la legione Vallonia, che nel '44 diverrà Waffen SS, e andò a combattere, da
soldato semplice, sul fronte russo. 75 combattimenti corpo a corpo, ferito 7 volte, Degrelle si
conquistò in breve la Croce di Ferro, il grado di Generale e l' enorme ammirazione del popolo
tedesco. "Partivo per primo all' assalto perché bisognava che i tedeschi sapessero che la gente del
mio paese si batteva bene e perché la gente si batta bene il capo deve andare avanti. E quando si
chiede a dei ragazzi di morire, bisogna essere pronti a morire per primi". Tutta la sua vita
Degrelle l' ha dedicata al sogno della realizzazione di un grande impero europeo dei popoli,
avendo ad esempio il mondo delle Waffen SS, nelle quali si battevano, fianco a fianco, volontari
di ogni parte d' Europa. Dopo la sconfitta militare del Terzo Reich cominciò il suo esilio in
Spagna, dove per molti anni, prima di morire il 31 marzo del '94, è rimasto guida spirituale per la
gioventù nazional-popolare europea.Perché Degrelle incarna lo spirito (geist) e l' ideale di vita
guerriero. La bellezza della lotta, il coraggio di dedicare sé stessi ad un ideale, la lotta contro la
stupidità e la vanità della vita di oggi, le sofferenze e i sacrifici che portano a gioie potenti. "Qui
risiede la felicità: nel donarsi completamente". Questo l' insegnamento di Degrelle. Grandi il suo
amore e la fiducia verso i giovani. La società di oggi rappresenta la massima caduta dei Valori e
dei grandi Ideali, una società amorfa e mercantilista: proprio ai giovani, quei pochi che hanno un
diverso stile di vita, che non cadono ammaliati dalle sirene ingannatrici della società di oggi,
quei pochi che hanno la volontà di diventare Uomini, Degrelle si rivolge, per la costruzione di un
mondo nuovo: "una favilla di fuoco in un qualsiasi angolo del mondo e tutti i miracoli di
grandezza diventano possibili" . Mai Degrelle rimpiangerà la sua dura giovinezza: "Scrivo vicino
a un barile arrugginito, in fondo al quale galleggiano gli ultimi fili d'erba della nostra acqua
ghiacciata.Questa povertà, questo isolamento, noi li conosciamo perché abbiamo voluto essere
dei puri. E, ora più che mai, in questa solitudine in cui i corpi e i cuori si sentono invasi da un
freddo mortale, io rinnovo i miei giuramenti di intransigenza. Ora più che mai, io camminerò
diritto, senza cedere in nulla, senza venire a patti, duro verso la mia anima, duro verso i miei
desideri, duro verso la mia giovinezza. Preferirei dieci anni di freddo, di abbandono, piuttosto
che sentire un giorno la mia anima vuota, sgomenta dei suoi sogni morti. Scrivo senza tremare
queste parole che pure mi fanno soffrire. Nell'ora della disfatta di un mondo, c'è bisogno di
anime rudi ed elevate come rocce contro cui s' infrangeranno invano le onde scatenate." Un
angelo-guerriero Léon Degrelle, un esempio per la nostra gioventù. ETSI MORTUUS URIT,
seppur morto arde, è stato scritto sulla sua tomba.
Leon Degrelle, l’ultimo cavaliere.
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Si può parlare di Leon Degrelle per ore oppure si può semplicemente nominare che l’effetto è
sempre il medesimo, un profondo stupore e un timore quasi reverenziale, quasi si trattasse di una
divinità.
Certo che pensare al fondatore di REX al volontario della Vallonie al Comandante della Vallonie
e successivamente all’esule non è come pensare alla partita di calcio domenicale.
Degrelle riuscì a conciliare il paganesimo germanico con l’intimismo cattolico in un modo così
semplice ma nel contempo così spirituale che è difficile comprenderlo.
"… ah il Diavolo marcia con noi in terra rossa…" cantavano i legionari e Degrelle pur cantando
con i suoi soldati rimase cattolico nel profondo.
Ma la grandezza di Degrelle, a mio giudizio, divenne immensa nel momento della sconfitta, nel
momento del totale annichilimento di tutto ciò per cui aveva lottato e in cui aveva creduto. In
esilio in terra di Spagna non si rinchiuse in arroganti silenzi o in tristi rimembranze. In altro
modo, in altre forme continuò la Sua battaglia ideale scrivendo, tenendo conferenze, accettando
anzi ricercando sempre il confronto su qualunque tema e su qualunque argomento con una
vitalità enorme.
Nel piccolo brano che segue Degrelle racconta ciò che erano i suoi sogni e ciò per cui ha
combattuto e perso. La grandiosità è che dal brano non traspare altro che un immensa spiritualità
gioiosa e un incrollabile fede nel futuro
" Noi abbiamo detto allo Stato: non occupatevi di quello che non vi riguarda: le coscienze non
sono affar vostro. Occupatevi delle riforme sociali, politiche, economiche e lasciate le anime
tranquille. Ed abbiamo detto alla Chiesa: diffondete la verità e la luce, raggiungete le anime in
una atmosfera sempre più pura. Ed in un Paese, dove dirsi cattolici significava appartenere ad un
partito, abbiamo chiesto al clero di avvicinarsi alle anime in punta di piedi, tacendo, e di non
occuparsi della nomina delle guardie campestri e dei segretari comunali. Abbiamo così realizzato
nel nostro movimento, la realizzeremo domani nel Paese, l'unità fra credenti e non credenti.
Alla Camera, al Senato, abbiamo inviato dei parlamentari ai quali non avevamo chiesto se erano
cattolici o se non lo erano. Erano dei buoni cittadini che andavano a servire il loro Paese, ed un
Paese è un bene comune di quelli che credono e di quelli che non credono.
Ed erano in gran parte dei giovani, di cui molti avevano appena i venticinque anni necessari per
essere eletti. Perché il nostro Movimento, come quelli dei Popoli che si sono salvati, è giovanile.
Giovinezza!, come cantate voi Italiani.
" Si era diviso tutto il Paese in classi: classe contadina, classe operaia, classe media, classe
dirigente. Noi rexisti abbiamo mostrato alle classi che erano legate l'una all'altra , e non soltanto
dall'anima, dagli slanci umani, ma dalle realtà economiche.
La classe contadina non può fare a meno degli operai.
Ma quando gli operai sono in miseria chi ne soffre? Anche i contadini che non possono vendere i
prodotti della terra agli operai delle officine.
E quando i contadini sono in miseria patiscono operai e contadini, perché i contadini non
comprano i prodotti delle officine che non possono lavorare a pieno rendimento.
Nel sistema capitalistico, quando succede che gli sbocchi sui mercati stranieri sono chiusi, tutte
le classi ne soffrono, perché sono legate l'una all'altra come gli anelli di una catena.
Per questo, noi rexisti abbiamo spazzato tutte le lotte di classe e siamo riusciti a far eleggere
nello stesso giorno un discendente della più alta nobiltà Belga, un nipote di De Marode e di
Montalembert insieme ad un operaio metallurgico di Liegi, Knappen, nobile anche lui della più
bella nobiltà del mondo: quella del lavoro.
" Ed abbiamo pure superato la lotta delle lingue: Francese nel Sud, Fiammingo nel Nord,
Tedesco nell'Est.
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Si faceva credere ai Valloni, ai Fiamminghi ed ai Tedeschi che per mantenere la loro cultura
dovevano restare sulla difensiva, l'uno contro l'altro.
Ed invece noi abbiamo dimostrato, parlando in Francese ai Fiamminghi ed ottenendo da loro
100.000 voti, che era per noi un beneficio inestimabile essere ad una confluenza di civiltà e poter
gettare ponti tra il Germanesimo e la Latinità.
" Questa concezione della riconciliazione Nazionale nella pace religiosa, sociale, linguistica, è la
negazione del parlamentarismo, che è, invece, il culto dell'odio e dell'incompetenza.
Perciò noi vogliamo riportare il Parlamento alla sua funzione storica, che era unicamente il
controllo ed il voto del Bilancio, e vogliamo creare al suo posto gli organismi corporativi che ci
mancano. Noi vogliamo ricondurre l'elaborazione delle leggi in limiti normali; vogliamo che le
leggi agricole siano fatte dalla Corporazione dell'Agricoltura, vogliamo un regime speciale, sì,
una Corporazione per l'Agricoltura, una Corporazione della Metallurgia, una Corporazione della
Pesca, del Cuoio; organismi capaci di preparare leggi ben fatte e che lavorino seriamente alla
collaborazione fra gli uomini."
Leon Degrelle
Il giornalista Leon Degrelle
Degrelle Léon - Articolo titolato: Franco capo di stato - Tratto da :"La Pensée Nationale", N.10 Febbraio marzo 1976, pagina 7 (titolo del fascicolo "Omaggio ad un grande di Spagna, Franco").
Franco era la calma e l'efficacia. Era un genio? Franco un genio? Onestamente no. Non almeno
nel senso che implica, nella sua proiezione, un settore che sconfini nell'eccesso. Caso tipico di
Napoleone. Caso d'Hitler, nella sua carica irruente e senza mezzi sufficienti attraverso un impero
sovietico inafferrabile, o nel suo piano d'eliminazione dell'anticorpo giudeo, irrealizzabile
universalmente, dunque da rigettarsi politicamente. Franco, al contrario, era un uomo
assolutamente normale. Fisicamente normale: abbastanza tozzo, dopo la quarantina piuttosto
grassoccio, mangiava moderatamente, beveva appena, non soffriva di nulla, neppure della
terribile ferita al ventre che aveva incassato nell'assalto di un monte marocchino da cui era
ridisceso contenendo i suoi intestini con l'elmetto. Era un infaticabile divoratore di chilometri, un
infaticabile cacciatore, un infaticabile pescatore. La sua macchina corporea era ben fatta, rude,
senza fioriture. Presiedeva il Consiglio dei Ministri per otto ore, dieci ore, mai stanco, non
alzandosi mai, mentre i suoi ministri, più giovani, occhieggiavano, nervosi, verso la solenne
porta aldilà della quale avrebbero potuto - al fine - sia ristorarsi, sia fumare. Franco era di silicio
(era una roccia). La salute per un capo di Stato è una forza capitale. Richelieu, che ne era
sprovvisto, condusse una terribile lotta contro le sue malattie, sempre sfibrato da esse. Napoleone
fu vinto a Waterloo tanto dal suo cancro, che già da allora lo intorpidiva, quanto
dall'impassibilità di Wellington. Mussolini era paralizzato, sovente, dal suo stomaco rovinato e
Hitler passava a volte delle ore, in pigiama, a guardare la sua potenza flagellata all'estremità d'un
braccio che tremava senza fine. Qualche mese prima di morire Franco pescava ancora lo
storione. Sempre fisicamente, salvo alla fine, fu tanto normale e possente quanto un boscaiolo
delle Galizia che accumula metri cubi di pino. Normale lo fu anche intellettualmente. Era un
sgobbone accanito. alla Scuola di Guerra alla testa dei suoi primi soldati, all'Accademia militare
di Saragoza, all'Alto Stato Maggiore, non lanciando mai scintille straordinarie ma avendo la
meglio a forza di lucidità, di costanza, di caparbietà. Era stato il più giovane generale del suo
tempo. Fu sempre il più giovane in tutto. Ma senza particolari fuochi d'artificio. Mi ricordo del
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mio stupore quando ebbi il privilegio di osservarlo da vicinissimo, al suo G.Q.G., in un a
modesta piccola casa di campagna presso Saragoza, durante le guerra Spagnola del 1936 - 1939.
Con noi si trovava suo cognato Ramon Serrano Suner, all'epoca ministro dell'interno, poi
ministro degli esteri. Ramon, brillante, lo spirito affilato come una spada toledana, appassionato
per tutto ciò che era cultura e bellezza, proiettato politicamente verso il nuovo e l'audace,
agganciato al suo tempo, mi aveva fatto una notevole impressione. _ "E' lui il vero capo di Stato
spagnolo", mi ero detto. Cinque anni dopo, ministerialmente, Ramon non esisteva più. Ma
trentanove anni dopo, il Caudillo, sempre d'eccellente umore, alzava ancora con le sua tozze
braccia, le vecchie terre iberiche completamente rigenerate dalla sua immensa azione. Ramon
Serrano Suner, certamente più geniale, avrebbe, forse, ghermito dalle correnti dell'epoca,
imbarcato la Spagna nel gigantesco scontro guerriero dei Fascismi. Forse il mondo si sarebbe
trovato cambiato. Con Franco, equilibrato come una tartaruga, deciso a mantenere a qualsiasi
prezzo il suo paese fuori da ogni rischio, il mondo non cambiò affatto, ritrovò le sue care vecchie
rotaie democratiche. E la Spagna non conobbe per nulla quei soprassalti che avrebbero potuto
forse alzarla a livelli internazionali, ma, con altrettanta probabilità, romperle per sempre le reni.
Franco era prima di tutto un calcolatore. Non avanzava d'una pedina che dopo aver tutto
soppesato e giudicato interminabilmente. Un giorno, durante l'ultimo inverno della sua
"Crociata", mi ero permesso di dirgli: "Dura da molto tempo la vostra guerra!" Ed era vero.
Gettando più rapidamente, con minori tergiversazioni, le sue truppe nella fornace, Franco
avrebbe potuto terminare la sua guerra un anno prima. Ma non era per nulla il suo stile. Ogni
iniziativa non nasceva da lui che dopo un lunghissimo parto. Franco il prudente. Preferiva gli
inconvenienti dell'attesa all'approssimazione della precipitazione. Mi aveva dunque guardato,
l'occhio divertito, al di sopra del suo grande biliardo verde: "Si, Leone, mi aveva risposto. E'
giusto ciò che dite. Ma non dimenticate questo, noi abbiamo impiegato sette secoli per cacciare i
Mori, ciò non impedisce che li abbiamo comunque cacciati." Visibilmente era disposto, se la
prudenza lo avesse richiesto, di metterci anche lui sette secoli per scacciare i repubblicani.
Questa tecnica, non solo gli fece vincere la sua guerra con il minimo di danni, ma lo salvò nel
1945, quando l'universo degli Alleati s'era giurato di fargli la pelle. Il capitombolo fu evitato solo
perché per tre anni egli seppe incassare pazientemente la testa nelle spalle. Questa pazienza
applicata gli permise, solo allora, di trasformare il suo paese da cima a fondo. Ancora
lentamente?...Si! Ma in trenta anni egli feci più di tutti i suoi predecessori in trecento anni.
Allora!... Imperturbabile, quali che fossero le circostanze, non agiva che lentamente, non
eccitandosi mai. Attendeva davanti al guado tutto il tempo che era necessario, finche
l'attraversamento era pericoloso, ma per altro lo attraversava ogni volta, senza allungare il passo,
ne senza mostrare vanità una volta attraversato il guado. Come trattava coloro che lo
circondavano? Il suo metodo era invariabile: tempo, calcolo, prudenza. Amava scegliere come
collaboratori persone che conosceva da molto tempo. Specialmente dei militari che poteva tenere
meglio in pugno, legati a lui dalla disciplina castrense, che rimandava nei ranghi, senza impiccio,
il giorno in cui la loro collaborazione personale non lo interessava più particolarmente. Una
decorazione, un saluto, il Generale o il Colonnello riprendeva il suo basco, la sua spada e partiva,
la bocca chiusa, verso il suo nuovo acquartieramento, a Ceuta, a Lerida o alla Corugna. Gli spiriti
super eminenti non lo interessavano affatto, dato che se posso avere delle idee sensazionali,
complicano sovente le operazioni e sono presto turbati dall'autonarcisismo. Egli di gran lunga
preferiva, come Luigi XIV, dei Grandi Burocrati impegnati, che non gli avrebbero mai fatto
ombra. Quanto a lui, non dovette mai liquidare, con grave perdita, un Talleyrand o un Fouché. In
democrazia, ove l'uomo politico, tallonato dalla concorrenza, deve sciorinare in pochissimo
tempo tutte le sue possibilità, questa scelta metodica di ministri senza luce rischierebbe di
trascinare lo Stato in un mediocre ristagno. L'uomo mediamente dotato dagli dei ha bisogno di
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disporre di molto tempo se vuol dare tutta la misura delle sue capacità. Con Franco si aveva del
tempo. Lui, in trentacinque anni, nominò in tutto e per tutto cento differenti ministri. La
Repubblica Francese, fra il 1919 e il 1939, ne consumò più di mille! L'Italia, in trent'anni di dopo
guerra, e, trentatré successivi ministeri, ne svendette ancora di più! Senza che peraltro i geni vi si
accalcassero particolarmente. Di quanti ministri francesi nominati fra le due guerre il pubblico si
ricorda ancora? Franco, lui, studiava i suoi futuri destrieri ministeriali con l'applicazione di uno
scommettitore di concorsi ippici. Non cercava mai, neppure, di pescare uno storione multicolore.
Sceglieva dopo lunghe riflessioni un uomo sensato che conosceva il suo mestiere, o in cui aveva
scoperto un dono speciale molto preciso. Lo conservava nei suoi Consigli per cinque anni, otto
anni, dieci anni. Almeno una volta, ogni settimana, lo faceva comparire personalmente nel suo
ufficio al Palazzo del Parodo. Testa a testa temibile e temuto! Nulla gli sfuggiva. Il grande
Burocrate non poteva permettersi una mancanza nella sua documentazione, un errore nelle sue
statistiche. Aveva appena salutato che Franco, chino su una scheda, annotava subito le sue
impressioni! Ogni venerdì tutta l'équipe passava, nel Consiglio dei Ministri, un esame generale.
Così ciascuno di questi uomini medi, obbligatoriamente applicato nel sua settore nettamente
delimitato, strettamente sorvegliato, dava una resa massima durante anni di sforzi costanti e a
senso unico. Quando uno di loro cominciava a credersi un essere eccezionale e sembrava voler
azzannare un poco la gloria e il prestigio del solo Capo, oppure, più semplicemente il tempo, la
stanchezza, le abitudini diminuivano le sue possibilità creatrici, un cambio discreto d'équipe
liquidava il collaboratore divenuto senza interesse. Franco non era brutale nei suoi modi. Ma
neppure sentimentale. Un motociclista scoppiettante portava al defenestrato un plico sigillato
contenente degli amabili ringraziamenti del Capo dello Stato. A volte i motociclista arrivava
anche un Po tardi. L'antico Ministro del Movimiento, poi della giustizia, Raimondo Fernanda
Questa, uno dei grandi Baroni della Falange, mi raccontò lui stesso come apprese della sua
eliminazione. Una mattinata sua vettura ufficiale tardava a venirlo a prendere al suo domicilio.
Impaziente finì per chiamare, al telefono del Ministero, il suo autista che non poté che
rispondergli, assai confuso: "Ma, Signor Ministro non sa che il Signor Ministro non è più
Ministro!" Il plico del motociclista per altro gli giunse un quarto d'ora dopo. Come a tutti i
licenziati gli fu concesso cerimoniosamente due giorni più tardi un Gran Cordone. Ma era finito,
per sempre. Quasi mai, sotto Franco, un ex ministro ridivenne ministro. Un ministro di choc
come José-Antonio Giron, che fu il creatore della Spagna sociale e che godeva di una vera
popolarità (può anche darsi che questa avesse portato ombra...), attese invano per diciassette anni
d'essere richiamato. Il suo ritorno avrebbe potuto piacere alle masse. Giron, peraltro, non fu mai
reinvestito. Si, in ciò Franco era implacabile. Ma un Capo di Stato deve essere implacabile. Nulla
deve commuovere il suo cuore, dettare le sue scelte, far oscillare la sua volontà se non l'interesse
rigoroso dello Stato di cui ha preso la responsabilità, secondo le norme che egli ha giudicato le
più adeguate. In effetti Franco era un uomo di cuore ed era di grande fedeltà verso i suoi amici.
Ma per tutto ciò che riguardava la sua carica e la sua missione, contavano solo lo scopo ed i
risultati. Gli uomini erano degli strumenti, dei mezzi di azione, delle pedine sulla sua scacchiera.
Egli si serviva di questi collaboratori passeggeri, inflessibile e taciturno, non usava l'opinione di
nessuno, non comunicava a nessuna la sua opinione. Era divenuto Capo di Stato per vocazione?
Dubito molto che Franco, giovane, abbia sognato d'essere un uomo politico. Sognò dapprima,
semplicemente, d'essere un marinaio. Si, è così. Non potendo esserlo si rifece con la vocazione di
soldato. E lo fu per due terzi di secolo in modo esemplare. Divenuto, a trent'anni, un grande capo
militare, fu naturalmente messo in contatto con i grandi problemi che interessavano quello Stato
che egli intendeva servire con tutte le sue forze e che, ineluttabilmente sconfinavano con la
politica. Le circostanze erano complicate: Alfonso XIII attraversava i più disparati soprassalti:
monarchia liberale e confusione di partiti, dittatura dichiarata dal generale Primo de Rivera,
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spazzata a favore della breve fiacca dittatura di un successore indeciso il generale Beranguer,
elezioni repubblicane nelle grandi città. Come conseguenza delle quali il Re, rinunciando a farvi
fronte, filava in piena notte con una vettura da corsa fino alla costa mediterranea, si imbarcava su
un battello poi svaniva nell'esilio. Successivamente i grandi borghesi liberali della Repubblica
del 1931 erano stati, come generalmente succede, defenestrati dagli estremisti. Si bruciavano i
conventi, il popolo si compiaceva nel fracasso degli strepiti; l'anarchia decomponeva le forze
dello Stato. Franco, giovane patrono dell'Accademia Militare di Saragoza, aveva visti quest'opera
prediletta annientata, essendo la Repubblica poco preoccupata di formare delle elites al servizio
dello Stato e non dei partiti. Ma anche allora, Franco non si era permesso che una imprudenza
limitata e peraltro esattamente calcolata : nel momento dei saluti aveva lanciato alla Spagna,
sopra la testa dei suoi cadetti rigettati, un appello al patriottismo. Era il suo primo intervento
nella politica. Conteneva in germoglio il programma che fu alla base del sollevamento nazionale
del 1936. L'attenzione del paese fu attirata su questo giovane capo di cui tutti conoscevano le
azioni leggendarie in Africa, di cui si sapeva in quale considerazione venisse tenuto da spiriti
chiaroveggenti all'estero (a trent'anni era stato nominato Commendatore della Legione d'Onore).
Questo discorso calmo, netto, che difendeva chiaramente i valori nazionali in pericolo, fu il
colpo di gong preliminare della sua azione. Nondimeno, durante i cinque anni della Repubblica,
Franco restò al servizio dello Stato senza mai ribellarsi. Quando la Repubblica in pericolo
dovette far fronte alla ribellione feroce delle Asturie ( a Ovvierò ultra sinistrorsi in armi
esponevano attaccati a ganci da macellaio dei mezzi curati nudi, tagliati impeccabilmente in due
come maiali usciti dal macello comunale) e nessuna sapeva a Madrid come domare i rivoltosi, fu
Franco, Franco in persona, che fu incaricato dal regime democratico di reprimere questo
sollevamento che sconquassava i basamenti della Repubblica. Egli non complottava. Non ebbe
altro che contatti distanti, brevi, piuttosto freddi con José Antonio Primo de Rivera, capo della
Falange, deputato comunque eletto legalmente, secondo i canoni più democratici. In effetti i
caratteri e i punti di vista non coincidevano. José Antonio era un rivoluzionario ed un poeta.
Franco era un pragmatista, che poco escursionava fra le costellazioni. Dire che Franco fosse un
tempo fascista, anche al tempo del sollevamento del 2936 è del tutto inesatto. Franco non era in
assoluto un teorico politico o un profeta, ma puramente e semplicemente un patriota ben
pensante. Questa è la verità. Il suo proclama al popolo spagnolo, il mattino del 18 luglio 1936,
avrebbe potuto essere stato firmato in Francia da un Colonnello de la Rocque. Egli si ergeva
contro l'intolleranza della repubblica massonica, contro le violenze marxiste che rendevano
impossibile la convivenza nazionale, contro i disordini di strada e l'anarchia dello Stato. Egli non
poteva più sopportare che questa repubblica di sinistra conducesse la Spagna al baratro, egli
reclamava il ritorno dell'ordine, chiamava i suoi compatrioti alla fraternità, alla giustizia sociale,
all'unità nazionale: tutto ciò era dell'onesto patriottismo, molto vibrante, ma non era affatto un
appello ad una rivoluzione del genere mussoliniano o hitleriano. Egli avrebbe in seguito accetto
certi appoggi militari, limitati, dai regimi fascista e nazionalsocialista. Ma, dottrinalmente, era
lontano da loro. Avrebbe ammesso, col tempo, certe formule di moda in questi paesi, ma, in
fondo, egli si sarebbe sempre attenuto al realismo di un patriottismo spagnolo assai conformista.
Nulla nel suo messaggio decisivo di metà luglio 1936, aveva l'accento falangista. La parola
Falange non era neppure utilizzata. Quando Franco diventò capo del nuovo Stato, il 1° ottobre
1936, José Antonio viveva ancora. Non sarebbe stato fucilato ad Alicante dai Repubblicani che
tre settimane più tardi. Avrebbe potuto essere liberato? Scambiato? E' ancora un mistero...
L'impressione di alcuni è che il suo ritorno nel campo di Franco avrebbe piuttosto provocato
imbarazzo. In ogni caso, anche prima che fosse morto, il suo posto era stato definitivamente
occupato da Franco, malgrado lo sforzo considerevole dei Falangisti sui campi di battaglia e
malgrado l'ideale falangista fosse stato, dopo il 18 luglio, il motore dell'azione dei Nazionalisti.
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Associazione Culturale “Amigos de Léon Degrelle”
Alla prudenza Franco univa la scaltrezza, l'astuzia. Il vero capo del colpo di stato del 18 luglio
1936 era stato, in realtà, il Generale Sanjurgo, e non Franco. Questi non si era unito al suo piano
che in estremis. Sanjurgo s'era sfracellato su un muretto involandosi dal suo esilio portoghese su
un aereo sovraccaricato di valige ove si ammassavano troppe uniformi scintillanti. Il Generale
Mola, l'alter ego di Franco nel Nord della Spagna, buon soldato, misero politico, era presto
impazzito all'idea di assumere responsabilità di Stato. Restava José Antonio, il precursore che si
era convertito in un mito dietro le sbarre della sua prigione in zona repubblicana. Scartarlo in un
simile momento era quasi impensabile. Così occorse tutta la sottigliezza segreta di Franco per
condurre il Generali del sollevamento, suoi pari, a confidargli il potere prima che José Antonio
fosse riapparso. Sarebbe stato sufficiente che l'astuzia dei repubblicani fosse stata altrettanto
acuta di quella di Franco perché José Antonio, abilmente liberato, avesse rapidamente preso a
Burroso il brutto aspetto di un rivale, rivale dottrinale e mistico, temibile, e che si alzassero, gli
uni contro gli altri, i diversi gruppi nazionali. I generali che dovevano decidere non erano affatto
convinti, alcuni erano gelosi della promozione straordinaria del loro giovane collega. Perché lui?
e non loro? Franco, parlando meno che mai, spingendo in avanti due o tre fedeli, ottenne
finalmente dai suoi colleghi, dopo due giornate di scambi di vista assai aspri, il Comando
militare unico, poi la "Jefatura del Gobierno". Ma questa parola che limitava ancora il concetto
politico del potere, suo fratello Nicolas, con un audace colpo di penna, lo trasformò, nella stessa
tipografia del Giornale Ufficiale, in "Estado". Egli diventava così il Capo dello Stato. Ma un
capo ancora poco sicuro. José Antonio viveva ancora nella sua cella. I generali non
testimoniavano che un mitigato entusiasmo. La Falange non gli accordava che un sostegno
relativo. Peraltro, questo primo ottobre 1936, veniva compiuto il coro Colpo di Stato che avrebbe
assicurato a Franco un potere virtualmente assoluto per quaranta anni, mentre, quel giorno,
politicamente, egli non era altro che un debuttante, non predicava altro che una dottrina assai
conservatrice, senza slancio rivoluzionario. Bisognava fare tutto, e tutto fu fatto, passo a passo.
Con quale maestria Franco ci si sarebbe applicato! Quasi sempre silenzioso, osservando ogni
preda con un'abile unghiata che noi avrebbe rovinato la presa, temporeggiando, concedendo,
componendo, dosando giusto quel poco per allearsi a comparse restie, senza la parola di troppo
che avrebbe potuto nuocere nel momento in cui la concessione cessasse d'essere utile, sapendo
che il possesso della forza è, per altro, l'elemento essenziale nell'ora decisiva, nell'ora in cui
sarebbe stato necessario non annodare ma saldare delle unioni. Non erano ancora trascorsi sei
mesi che tutti i movimenti politici che costituivano le forze popolari del sollevamento, la
Falange, i Requetes, i Monarchici, erano condotti alla fusione. Di buon o cattivo grado. Anzi
piuttosto di cattivo grado che di buon grado, poiché il capo dei monarchici doveva esiliarsi in
Portogallo, mentre il successore di José Antonio, Hedilla, che aveva arricciato il naso, sfuggiva
di poco al plotone d'esecuzione e doveva conoscere, per parecchi anni, le più amare fra le
prigioni. Franco era appena apparso nella disputa, studiando con ardore in fretta nell'umido
giardino del Vescovado di Salamanca i Dodici Punti della Falange, mentre Serrano Suner
redigeva gli ordini di riunificazione e, contemporaneamente, gli ordini d'arresto! Franco
s'aggiudicava così l'autorità suprema su questo movimento unificato che sarebbe rimasto assai
eteroclito ma che avrebbe assicurato definitivamente la sua autorità. La gloria dei combattimenti,
poi la vittoria stopparono le opposizioni. Quasi tacendo, Franco aveva potuto mettere al passo i
discepoli spesso recalcitranti, annichilire sopravvalutazione dottrinale, convertire correnti
violente o opposte in onde regolari d'una evoluzione politica e sociale moderata, che sempre,
dopo Saragoza, fu il suo obbiettivo. Di questo Movimiento vagamente asessuato ma fermamente
tenuto nelle sue mani, Franco sarebbe arrivato a farne uno strumento di propaganda facile da
guidare, estremamente efficace, grazie al quale, per quasi quarant'anni, avrebbe mantenuto l'unità
della nazione e assicurato il contatto con le masse, incassando i più sontuosi referendum.
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Associazione Culturale “Amigos de Léon Degrelle”
L'abilità di utilizzare il Falangismo a favore del Franchismo era stata enorme. Chi avrebbe
ancora potuto rimproverare a Franco d'aver tenuto poco conto di José_Antonio dato che l'aveva
trattato dopo la guerra come mai re di Spagna era stato trattato, come il primo fra di loro, sepolto
all'Escorial sopra essi. Di José-Antonio morto - che dunque aveva cessato d'essere un possibile
concorrente - aveva fatto il profeta stesso del nuovo Stato, la fronte cinta d'alloro, fra rose e
stelle, ricondotto con un corteo favoloso dalla sua prigione nel cuore della Castiglia sulle spalle
di tutto un popolo, nel notturno bagliore di migliaia di fuochi. Questa capistazione del
Movimento da parte di Franco fu un capolavoro di scaltrezza politica. La capistazione dei
dirigenti che costituivano la base stessa della nuova Spagna sarebbe stata altrettanto sottile.
Franco li avrebbe impiegati gli uni dopo gli altri, o gli uni contro gli altri, senza mai alzare la
voce. I suoi Ministeri prudentemente ripartiti, avrebbero utilizzato successivamente, o
simultaneamente, o contraddittoriamente, tutte le tendenze. I Conservatori ed i vecchi
Monarchici canuti avrebbero formato un équipe con giovani lupi alla Giron. Alcuni, che avevano
deluso, scomparivano nella botola della disgrazia. Altri, che si compiacevano troppo in fretta
della loro importanza, capitombolavano con la stessa discrezione. L'Opus Dei si sarebbe elevata
allo zenit governamentale fino a quando Franco avesse stimato utile il suo apporto; sarebbe stata
ricondotta nell'ombra, senza che si levasse nessun inutile strepito, il giorno in cui questo apporto
si sarebbe rilevato compromettente. Un Fraga Iribarne avrebbe conosciuto un ruzzolone inverso,
liquidato nel momento in cui i suoi nemici dell'Opus Dei avevano momentaneamente prevalso.
In effetti con Franco non prevalse mai nessuno. Franco non disdegnava alcun apporto quando
l'elemento da utilizzare gli sembrava interessante ed efficace. Utilizzare. E' così. Egli utilizzava.
Egli utilizzò anche un Joaquin Ruiz Jimenez, oggi il più marxista dei Democratici-Cristiani,
ragazzo affascinante, cuore nobile, intelligente e vivo, che fu sotto Franco un eccellente Ministro
della Pubblica Istruzione. Giusto il tempo per Franco di farlo rendere al massimo. Sono convinto
che, se fosse sopravvissuto ancora più a lungo e in buona salute, Franco sarebbe stato
perfettamente capace di realizzare con gli stessi uomini che in questo momento utilizza il Re
Juan Carlos 1° una evoluzione "democratica". Juan Carlos era stato in ogni punto formato da lui
nel corso di molti anni. Anche nel momento della morte Franco gli rinnovò pateticamente la sua
fiducia, scongiurando gli Spagnoli di seguirlo come avevano seguito lui stesso. Franco avrebbe
senza dubbio preferito, nel suo intimo, che la Spagna si attenesse ancora per lungo tempo alle
Istituzioni sicure che aveva creato per lei e la cui efficacia era stata provata per quaranta anni.
Ma su Franco l'avvenire della Spagna aveva preminenza su qualsiasi altra opzione. Egli udiva le
grandi strida dell'esterno. Sentiva che la nuova Spagna che egli aveva forgiato, avrebbe dovuto,
prima o poi, adattarsi all'Europa che la circondava. Il fatto che, dal 1974, egli stesso avesse
scelto, con piena conoscenza della situazione, come Capo del suo ultimo Governo, un Carlos
Arias deciso a ringiovanire le istituzioni, a dare forme più dirette alla rappresentanza popolare e
far partecipare pienamente la Spagna all'unione dei popoli europei, è assolutamente chiaro.
Franco, a ottant'anni, comprendeva ch'egli non avrebbe assistito a questa profonda
trasformazione. Senza dubbio temeva anche che gravi sconvolgimenti l'accompagnassero in
Spagna, o che il risultato dell'evoluzione si rilevasse bilenco, come si è rilevata assai bilenca
l'attuale struttura europea, priva di un grande slancio ideale. Ma il fatto che Franco, circa due
anni prima della sua morte, abbia voluto spingere avanti, dopo profonde riflessioni, un Carlos
Arias di cui conosceva il piano riformatore e abbia attirato l'attenzione del suo popolo su un
Fraga Iribarne che nominò suo Ambasciatore, dopo che ne ebbe soppesato la rimarchevole
personalità per gli otto anni durante i quali fu suo Ministro, la dice lunga sulla fermezza civica
del vecchio capo. Senza vane illusioni, forse anche con rammarico ma deliberatamente e
metodicamente Franco preparò così una successione che significava l'inevitabile mutazione della
sua opera, mutazione di cui sapeva che avrebbe anche dovuto, più o meno, allontanarlo per
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qualche tempo se voleva, come lui stesso aveva fatto nel 1945, quietare all'estero reazioni
irrazionali. "Todo sta bien atado". Tutto è ben legato. Queste furono, pressappoco, le sue ultime
parole. Senza il coraggio che ebbe questo Capo di Stato di aprire, con le sue stesse mani, le
chiuse ad un avvenire di cui egli poteva peraltro temere che i flutti mettessero in pericolo la sua
edificazione, la Spagna post franchista avrebbe potuto avvizzirsi nell'isolamento o anche, a guisa
del Portogallo, dissolversi nel disastro. E' forse in questa umiltà rispetto all'avvenire che Franco
fu il più grande. Al momento è quasi temerario parlare d'attivo. L'Europa sinistrorsa ha talmente
oltraggiato Franco che per modificare psicologicamente la situazione e ricondurre la Spagna
nell'Europa, sarà senza dubbio indispensabile fare come se Franco non fosse nemmeno esistito,
mentre, senza di lui, la Spagna sarebbe senza dubbio rimasta, come nel corso dei secoli
precedenti, una misera terra incolta, oppure, passata sotto il controllo dei Soviet nel 1936,
avrebbe pugnalato l'Europa alla fine della seconda Guerra Mondiale. Il tempo si incaricherà di
decantare gli amori e gli odi. Eleverà obbiettivamente la statua storica del Mentore prudente, che,
senza slanci inutili con calma e costanza, fece uscire il suo popolo dalle macerie di un passato
polverose che l'asfissiava e lo condusse, in piena rinascita, all'avanguardia di un'Europa oggi
assediata. Domani questa, sbarazzatasi dai suoi complessi, sarà grata a Franco per questo
magnifico apporto fisico, morale, economico, strategico, in tutti i punti essenziali alla sua
potenza e, forse, alla sua stessa sopravvivenza.
Léon DEGRELLE
Terra e Sangue visti dal "Leone"
Riportiamo un brano scritto da Leon Degrelle in cui si avverte l'orgoglio di essere Popolo nella
quotidianità, nelle piccole cose di tutti i giorni. Degrelle ebbe sempre una grandissima opinione
del Suo Popolo. Questo scritto ne è una testimonianza viva e diretta. Abbiamo poi accostato, a
questo brano, un altro scritto di altra natura ma intimamanete connesso. Il secondo brano che
proponiamo è una riflessione, uno sfogo del "Leone" . L'occasione fu, purtroppo, data da un
incidente occorso in una miniera del Borinage ove Degrelle si precipitò alla notizia della
disgrazia. Ambedue gli scritti risalgono alla prima metà degli anni trenta.
Il Popolo Belga nel cuore
Ora, questo popolo è grande non soltanto nelle ore d'eroismo, ma nelle lente ore di vita
quotidiana. Dov'è che si trova un buonumore simile, una simile semplicità, un simile amore
verso tutto il normale e il puro: bambini, terra, lavoro fatto bene... Dov'è che si trova una
costanza simile, un simile accanimento e questa mancanza di febbre nel lavorare?
Quella nostra è gente rude, bravi ragazzi, robusti e genuini come il pane e il latte, chiari e freschi
come
il
palpitar
delle
acque
boschive.
Non cercano né effetti né parole, la loro felicità si forgia nei lunghi sforzi degli animi ostinati, e
le loro virtù, scaturendo dal profondo dei loro esseri, attingono il nutrimento da ciò che loro
hanno
di
più
sostanziale
e
di
più
segreto.
Così sono i nostri pittori, possenti come la carne e veraci e insolenti come la vita stessa.
Così sono i nostri musicisti dai ritmi delle morbide colline e dei boschi orlati di nebbia...
Così sono i nostri orefici, scultori, battitori di rame e le nostre merlettaie...
In ogni paesino si scorgono le garitte di vedetta e i santi, fabbricati di pietre scaturire dal cuor tuo
e
dal
tuo
suol,
al
tempo
stesso...
Al fin di ritrovar e celebrare la Patria, bisogna rimirare anche le pietre, il ferro e le tele,
trasfigurati
dal
genio
del
nostro
popolo...
Laggiù sguazzano i politici, e lasciamoli stare, senza rivolgervi neanche un grido di protesta, né
uno
sguardo.
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Raggruppiamoci nell'amor e nel silenzio accanto all'eroismo dei nostri morti, al lato delle virtù
dei vivi, che sono continuazione degli antenati, e presso i capolavori del passato immortale...
E attingiamone, dunque, le forze che ci vorranno, affinché un domani codesti eroi, codeste virtù
e
codeste
glorie
possano
nutrire
il
paese
nuovo
che
ci
appella...
Il
popolo
Belga
nel
dolore
In questo dolore del popolo c'è tanta grandezza. Nessuna agitazione, niente parole inutili.
Quando vi eravamo avvicinati, i soccorritori, sdraiati nella mesta sala docce e coperti di caligine,
gli occhi bianchi infossati nei visi neri e luccicanti, si sono alzati dai sozzi materassi, su cui si
riposavano per alcune ore. Ed eccoli tenderci le dure mani e pronunciare le semplici parole,
reccontando delle fatiche terribili laggiù, nel caldo infernale, alla ricerca dei superstiti o dei
martiri...
Poco prima, avendo abbracciato le loro donne, c'erano tornati ancora – per tentare di recuperare
vivi o morti i 12 sciagurati che restavano in fondo a quei corridoi infuocati...
Sono consapevolissimi di tutto il rischio che corrono: chissà se non verranno pure loro trasportati
su quelle paurose barelle, per il momento ordinate accanto ai muri.
Non si muove nessun lineamento dei loro vólti, eppure ci hanno bambini... Occorre tutta la
solidarietà operaia per alimentare gli atti di eroismo così semplici e compiuti, come questi...
Materassi anneriti. Un tetro corridoio. Ancora qualche ora di rinvio... e poi subito la fornace
senza
una
parola
o
visibile
inquietudine...
Sopra
la
gabbia,
la
ruota
gira
in
continuazione.
Che cosa riportano insù, a quest'ora, le cinghie che stanno scivolando nella luce del tramonto?...
Davanti ad esse tre donne dalle grosse dita violacee lavano le piaghe dei soccorritori, fermandosi
ogni tanto, con gli occhi fissi pesanti e velati di lacrime. Al tempo stesso assorte nel loro lavoro,
che va avanti, e nel dolore segreto, esse rappresentano un'immagine straziante di questo popolo
tanto
fiero
e
tenace
nella
sua
disgrazia.
Tutti rimangono seduti ed immobili, celando la propria angoscia e senza osare aprir bocca per
non scoppiare d'un botto in pianto davanti a tanta miseria e grandezza.
Leon Degrelle
11 Novembre 1918
Un aspetto di Leon Degrelle che ci colpise e quello della continuità. Anche nel momento
dell'apoteosi politica, prima che l'Uomo conoscesse il fuoco e il ghiaccio e ne uscisse eroe, gli
spunti ideali, le tensioni dell'anima si sentono vibrare. Leggendo queste righe, scritte su giornale
«Pays Réel» all'indomani dell'11 novembre – ricorrenza dell'armistizio del 1918 negli anni
trenta, il parallelo con "Militia" è immediato, coinvolgente, emozionante. Lasciamo ai
"navigatori" il commento sul parallelismo da noi proposto.
«Ho voluto risalire fino a quelle sperdute costiere sabbiose, donde una volta ritornarono fra noi i
vincitori.
Ci scorrono le acque grige con delle lunghe bande nere in fondo alle correnti.
Umide
e
pesanti
son
l'aria
e
l'arena.
C'è gran silenzio, come se tutta la costa si rammentasse del giorno, in cui nel cielo cenericcio si
spense
il
rumore
dei
cannoni.
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Nel paese piatto e annegato dalle acque, ove gli alberi e i tetti fin troppo nuovi son velati da una
fievole nebbia, ci riposano tutti i morti, rimasti laggiù la mattina della vittoria: giacciono accanto
alle fattorie, alle soglie delle città, in quei cimiteri lunghi e ghiacciati, ornati con le ultime rose,
mentre tutta sola una bandiera ci schiocca sotto il vento venuto dal mare... Dietro a queste acque
nerastre, che sciabordano fra le basse rive e le chiuse di legno, tempestate di conchiglie, ci fu un
popolo...
E questi vasti campi, in cui sta morendo l'autunno, li videro soffrire, sperare e cadere, poi, un dì o
un
altro,
le
due
mani
stringendo
il
tiepido
sangue...
Ce ne sono migliaia e migliaia da Houthulst a La Panne, in un'adunata militare dall'uguaglianza
commovente
di
eroi
caduti...
Ah! Loro sì, che vissero veramente! Ebbero la nostra giovinezza, la nostra forza, i nostri cuori
tesi e i nostri occhi che ora guardano i visi ardenti, i campanili, gli alberi e i corsi d'acqua; loro
avevano 20 o 30 anni – età, in cui si è sempre padronissimi e ci si piega in tutto ai propri
desideri,
alle
voglie
e
alla
tenerezza.
Camerati, voi che giacete nelle dune di ghiaccio, vi siete assunti la parte migliore, rendendo le
vostre
vite,
quando
tutto
in
esse
era
nuovo
e
puro...
Alle vostre tombe, sparse fra la sabbia e i venti, noi ci veniamo per ricercare quelle grandi virtù
della giovinezza che voi doveste maturar nel dolore e – tanto presto...»
Leon Degrelle
Lo Stato Sociale
Riportiamo integralmente alcuni brani tratti dal programma politico di REX su tre temi "forti": il
lavoro, la definizione di Rexismo, lo stato e la famiglia. L'autore è Josè STREEL uno dei
collaboratori di Degrelle. Anche se scritti oltre mezzo secolo fa, per una realtà sociale ed
economica diversa da quella italiana dei giorni d'oggi, conservano una freschezza e un rilievo
sociale non da sottovalutare.
Il
Lavoro
Trasformare il lavoro in un mezzo di sviluppo della personalità, regolamentare le relazioni
professionali nello spirito della giustizia e carità – vuol dire contribuire a introdurre nella società
un po' più d'armonia e di felicità. Abbiamo cura di ciò che Hendrik de MAN chiama "gioia del
lavoro" e a ragione ritiene uno dei problemi sociali di maggiore importanza; per assicurare tale
gioia del lavoro, ossia per umanizzare il lavoro, bisogna sviluppare e puntualizzare
l'organizzazione professionale e si deve riporre fiducia in tale organizzazione, avendo ottenuto la
consacrazione legalizzatrice di essa e il potere di prendere tutti i provvedimenti, relativi alle
condizioni del lavoro. Occorre creare una magistratura del lavoro che possa risolvere
giuridicamente le controversie professionali, come i tribunali civili risolvono le cause civili. E'
necessaio che alla gestione, ci prendano parte tutti coloro che sono partecipi della vita aziendale,
e non più solamente quelli che ci contribuiscono col capitale, sicché necessita che i diritti e i
doveri di ognuno in seno all'azienda siano specificati in una Carta del lavoro.»
La definizione del Rexismo
Il Movimento rexista, in quanto tale – ossia movimento, appunto, – costituisce una forza attiva
che traina una corrente di idee; quello rexista è un movimento rivoluzionario, quello rexista è un
movimento
popolare.
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Il
Movimento
rexista
vuole:
a) distruggere i partiti, che hanno diviso arbitrariamente i cittadini, immergendo la nazione nel
disordine, nelle rappressaglie e nella padronanza incontrollata dei politici, comandati loro stessi
da un'oligarchia anonima, la quale, costituita dai veri e propri detentori di tutti i poteri, manovra
nell'ombra, dominando, da una parte, un immenso intruppamento di cittadini proletarizzati di
tutte le classi sociali e tenendo, dall'altra parte, alla propria mercé i dirigenti politici, dato che si
avvalgono della loro stupidità e cupidigia. In effetti, tale oligarchia anonima costituisce l'unico
elemento costante e unito di fronte ai partiti, i quali si bisticciano e non sono mai stati tanto
putrefatti
e
tanto
disprezzabili,
quanto
al
giorno
d'oggi;
b) ricostruire la comunità popolare, fondata sulle basi morali, le quali, seppure siano elementari,
sono, però, ammesse da tutti. Questa comunità popolare, il Movimento rexista ha cominciato a
ricostruirla nel proprio seno. Dentro e intorno al Movimento rexista si riuniscono le persone, le
quali provengono da vari partiti e hanno capito che il regime è marcio e putrefatto e va
rimpiazzato con qualcosa d'altro, che sia vivente, attivo e capace di sviluppare appieno la vitalità
e
compiere
il
progresso.
Lo Stato e la Famiglia
Uscita dalle ideologie catastrofiche settecentesche e ottocentesche e adottata dal regime attuale,
la nozione erronea dell'individuo quale base filosofica va sostituita con quella della persona
umana, il che corrisponde esattamente alla realtà dell'uomo – essere sociale, investito della
dignità fondamentale che va sviluppata dalla società, la quale non ha il diritto di attentare a tale
dignità.
La persona umana sviluppa appieno le proprie capacità non per via di ritirarsi dentro di sé stessa,
nel guscio dell'individualismo egoistico e orgoglioso, bensì, al contrario, uscendo da sé stessa e
rendendosi
parte
integrante
di
varie
comunità.
La comunità primaria, nel quadro della quale si svolge il pieno sviluppo della persona umana, è
famiglia; la seconda è professione; quella terza è la comunità culturale e linguistica, mentre la
quarta
è
la
comunità
nazionale.
Tali comunità costituiscono nel loro insieme una comunità popolare.
LD.
Il mondo contadino visto dal Rexismo e da Leon Degrelle
Continuiamo nella pubblicazione di materiale riguardante il Rexismo e Leon Degrelle.
Presentiamo in questa pagina un brevissimo studio sulla visione del mondo rurale da parte del
Rexismo e la concezione del mondo contadino espressa direttamente da un deputato rexista
dell'epoca
Il Rexismo, come tutti i movimenti fascisti sviluppatesi in Europa sino al 1945, ebbe un
particolare
legame
con
la
cultura
contadina.
In contrapposizione chiara con la visione del materialismo storico si riteneva che l'ossatura dello
stato non potesse prescindere da una classe contadina forte e libera. Questa particolare visione
del mondo ebbe vasta eco e affermò un principio di netta contraddizione con il mondo
industriale.
La contraddizione non era sulla contrapposizione d classe, o su diversi interessi, ma bensì era
profondamente legata alla visione naturale della storia, alla naturale funzione della terra e
dell'agricoltura.
Questo tipo di impostazione ideologica partiva dalla "volontà di potenza", dalla volontà cioè di
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poter essere autosufficienti e di poter saturare il bisogno primario di cibo. Non bisogna infatti
dimenticare che la fame, in quegli anni, era ancora una cosa presente e che le famiglie meno
abbienti mangiavano la carne una volta la settimana, se andava bene.
In questo contesto storico trovava una perfetta comunione ideologica e pragmatica l'esaltazione
del
mondo
contadino
ed
agricolo.
Da un punto di vista ideologico l'attaccamento alla terra, le tradizioni erano per il Rexismo dei
postulati irrinunciabili che, uniti ad un forte senso di giustizia sociale, erano il grimaldello per
cambiare la logica del latifondo e giungere ad una ridistribuzione della terra ai contadini.
Dal punto di vista pratico l'avere un agricoltura forte significava, e significa ancora, aver risorse
interne sufficienti a garantire la sopravvivenza alimentare della nazione senza dover dipendere
dai
mercati
internazionali
ed
alle
inevitabili
speculazioni.
Il rapporto quindi fra Rexismo e mondo contadino era molto stretto e molto sentito.
Da qui le considerazioni politiche programmatiche del Rexismo con in embrione le tracce di una
politica
organica
e
di
una
rivoluzione
sociale
avanzatissima.
Questa attenzione per il modo contadino è poi uno dei concetti forti in cui sono più
macroscopiche le differenze con la visione marxista della società. Mentre per il marxismo la
collettivizzazione passa anche per le campagne, per il Rexismo i contadini sono parte organica e
fondamentale dello stato e per tanto devono essere tutelati come individui e come creatori di
benessere.
Anche l'attenzione per le fonti di finanziamento è rivoluzionaria. Tenendo conto che siamo negli
anni trenta, il porsi il problema ci come un comune agricoltore può accedere al credito per
rinnovare le proprie attrezzature, e di come questo credito debba essere accessibile a tutti è
semplicemente eccezionale, o meglio è la logica conseguenza di un impostazione dello stato non
sull'economia ma bensì sulle persone e sulla loro intrinseca differenza. L'acutezza politica non
finisce qui. Sempre ricordando il periodo storico si auspica una fornitura diffusa e a basso costo
di energia elettrica... nell'Italia del 1998 non siamo ancora nemmeno lontanamente vicini ad una
visione così moderna e così tradizionale dell'agricoltura e questo in barba ai progetti faraonici e
alla
"libertà"
costituzionalmente
garantita.
Leon Degrelle ebbe sempre una altissima considerazione per questi problemi e considerò sempre
come fondamentale il diritto al lavoro vedendo in esso una liberazione dell'uomo. Questo
attaccamento alla terra ed alle sue tradizioni Degrelle lo racconta, con la solita precisione,
parlando delle aspettative che si crearono nel Fronte dell'Est. Raccontando la sua avventura parla
del sogno delle fertili terre che potevano essere coltivate, in cui i giovani Europei potevano
recarsi e creare aziende agricole, dissodare foreste, creare una nuova epopea.
Ma anche nel concetto di "epopea" v'è una diversa visione del mondo: non c'è la volontà di
ricchezze, di potere, ma bensì la volontà di avventura, di creare risorse a disposizione di tutti, di
creare
uno
sviluppo
a
misura
d'uomo.
Il Rexismo ha scritto molto sul mondo contadino, riportiamo qui un brano scritto da Jean DENIS
che sintetizza le linee della riforma agraria secondo i principi di Leon Degrelle.
Riportiamo il brano nella sua versione integrale, scusandoci preventivamente per le imperfezioni
della
traduzione.
"La riforma agraria, proposta dal Movimento rexista, prevede che ogni famiglia contadina
progressivamente e nella misura, riconosciuta utile, sia resa proprietaria della terra che coltiva.
Prudentemente, ma con fermezza bisogna provvedere per una ridistribuzione della terra, ossia
per una migliore distribuzione delle ricchezze, mentre, invece, finora si ha proseguito a
realizzarne la concentrazione. La riforma agraria deve mirare innanzitutto alla stabilizzazione,
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all'indipendenza
e
alla
dignità
di
famiglia
contadina.
Per salvare l'agricoltura, consentirne l'adeguamento e la modernizzazione e aumentarne
quantitativamente e qualitativamente il rendimento per mezzo degli attrezzi che possano ridurre i
costi di produzione e provocare l'abbassamento del costo della vita per tutti, bisogna istituire un
sistema di credito agricolo, il cui ruolo sarà quello di concedere i crediti fondiari agricoli, i
crediti agricoli per l'utilizzo, l'estensione e l'attrezzamento e i crediti agricoli a beneficio di libere
cooperative
di
qualunque
appartenenza
politica.
Per proteggere l'integrità morale della professione agricola e favorire il suo pieno sviluppo, lo
Stato provvederà acciocché venga omologata legalmente la professione di agricoltore e le
corporazioni agricole liberamente costituite, delle quali potranno far parte unicamente i
coltivatori, siano legalmente omologate e rese capaci di controllare i trust onnipotenti, che
attualmente asserviscono l'agricoltura; un'attenzione del tutto particolare andrà prestata alla
questione
dell'erogazione
di
energia
elettrica
a
basso
prezzo.
Lo Stato dovrà aver cura, che i servizi sociali, istituiti a beneficio delle famiglie numerose, siano
resi accessibili anche alle famiglie contadine e che tramite i servizi di enti corporativi oppure qualora essi manchino - per mezzo delle premure dello stesso Stato e col contributo corporativo
il contadino adulto sia reso capace di sviluppare in maniera normale le proprie capacità
intellettuali, praticare gli sport, mantenersi in contatto col mondo esterno e, a dirla breve,
sviluppare
normalmente
la
propria
personalità.
Tramite tutte queste misure e quelle altre, che si riveleranno indispensabili, bisogna rendere alla
professione agricola la sua dignità nel quadro della comunità nazionale."
Il secolo delle elite
L'anima c'è.
E c'è pure l'intelligenza. Una rivoluzione non si fa a colpi di spacconate, e meno ancora a colpi di
vacui proclami altisonanti. Qualsiasi rivoluzione che arricchisce è frutto d'una lunga
preparazione intellettuale. Quello che verrà sarà, più che mai, un secolo delle élite e del
coordinamento delle loro scoperte: saranno i migliori, i più capaci - e solo loro - a coinvolgere, a
dirigere e a mutare la società. (...) Domani non ci sarà più posto per i mediocri, i quali andranno a
raggiungere l'enorme lupanare fatiscente degli scansafatiche e dei parassiti, destinati alla
sconfitta e privi di ogni avvenire. Nel secolo prossimo, a forza di fatica, costanza, elasticità dello
spirito e potenza del carattere bisognerà innalzarsi al livello intellettuale e alle conoscenze
tecniche che segneranno con la loro indelebile impronta i futuri condottieri d'uomini e di popoli.
I giovani si mettano bene in testa che e proprio nella misura in cui il loro cervello lavorerà, le
loro cognizioni tecniche s'amplieranno e loro stessi diventeranno parte organica dell'élite, che
potranno riuscire nel rinnovamento della società.
I tempi nuovi prenderanno a zampillare a mano a mano che voi, ragazzi e ragazze del XXI
secolo, già accalcati alle nostre porte, v'impegnerete - con metodi e idee nuove, ma anche con un
ideale ardente come quello dei vostri predecessori dei tempi eroici - ad attuare il grandioso
compito del rinnovamento della società sbandata. Giovani d'Europa, ora tocca a voi. Siate pronti
- materialmente, certo, ma soprattutto spiritualmente e intellettualmente - ad affrontare gli scontri
più duri nel compiere la vostra avanzata illuminata dall'animo, disposti a tutti i sacrifici, con
mente lucida e corpo vigoroso. Allora, per quanto aspra possa essere la lotta, le vostre solide
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braccia potranno innalzare sui vostri scudi quella vittoria che i deboli hanno creduto fosse ormai
inaccessibile.
Solo chi ha fede sfida e rovescia il destino! Abbiate fede! E lottate! Il mondo lo si perde o lo si
prende! Prendetelo!
Nel deserto umano, in cui belano tanti montoni, siate leoni! Forti come loro! E come loro
intrepidi!
E che Iddio vi aiuti! Salve, camerati!
Dall'esilio, 1'8 agosto 1992
Militia
(...) Il secolo non sprofonda per mancanza di supporto materiale. L'universo non è mai stato così
ricco, colmo di tanto benessere, grazie a una industrializzazione di tale efficacia produttiva.
Non vi sono state mai tante risorse, ne tanti beni disponibili. E’ il cuore dell'uomo, solo lui, ad
essere in stato fallimentare.
E’ per mancanza di amore, è per mancanza di fede e capacità di donarsi, che il mondo stesso si
abbatte sotto i colpi che lo assassinano.
Il secolo ha voluto essere soltanto il secolo degli appetiti. Il suo orgo-glio lo ha perduto. Ha
creduto alla vittoria della materia finalmente as-soggettata al proprio spirito. Ha creduto alle
macchine, agli stock, ai lin-gotti sui quali avrebbe regnato sovrano. Egualmente ha creduto alla
vit-toria delle passioni della carne spinte oltre ogni limite, alla liberazione del-le forme più varie
di godimenti, moltiplicate senza posa, sempre più av-vilite e avvilenti, fornite di una "tecnica"
che in genere si rivela, solo alla fine, una accumulazione, senza grande immaginazione, di vizi
tanto po-veri da essere vuoti.
(...) Sono le collettività a venir aspirate dal vortice dei desideri impos-sibili: desiderio di
possedere - cioè di prendere -, desiderio di essere il primo - cioè di colpire -, desiderio di fondare
la propria potenza sul-la materia, cioè di soffocare e di eliminare lo spirituale, mediante sforzi
Canto più inutili, in quanto l’umano si scioglie nella stretta e lo spirituale sempre risorge, come
un rimprovero, o come una maledizione.
L'abiezione ha superato le cerchie elevate delle elite per guadagnare le vaste cerchie delle masse
raggiunte - anch'esse, questa volta - dalle onde propagate all'infinito dall'invidia, dall'ambizione,
dagli pseudo-piaceri che sono soltanto caricature della gioia.
L'acqua limpida dei cuori si è intorbidita sino agli strati più profondi. Il fiume degli uomini
trasporta un diffuso odore di fango.
Il disordine del secolo ha sconvolto tutto quel the un tempo era luce e voli a tuffo di rondini nei
canneti.
Gli uomini e i popoli si guardano dall'alto in basso, l'occhio violento, le mani segnate da marchi
infamanti e dai morsi che vi hanno lasciato le prede ardenti rapidamente invilite.
Ogni giorno il mondo è più egoista e più brutale.
CI si odia tra uomini, tra classi, tra popoli, perché tutti si accaniscono nella ricerca di beni
materiali il cui possesso furtivo rivela il nulla.
Ma tutti rinunciano ai beni - alla portata d'ognuno - dell'universo morale e dell'eternità spirituale.
Noi corriamo smarriti, la fronte insanguinata per aver cozzato contro tutti gli ostacoli, per strade
di odio, o di abiezione, o di follia, urlando le nostre passioni, avventandoci contro tutti, per
essere i soli ad afferrare quel-lo che tuttavia non sarà mai afferrato.
Lèon Degrelle(1941-1945 Dal fronte dell’Est)
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La critica della democrazia
Finché si resterà fermi alla formula democratica e parlamentare, finché si dovrà esitare ad ogni
passo, tremare dinanzi ai circoli, temere le cabale, lusingare i faziosi, vivere alla giornata, sarà
impossibile costruire.
Bisognerebbe poter preparare un lavoro di ampio respiro, confidarlo ai più competenti, dar loro
l'autorità e il tempo necessario al compimento di un'opera. Se si deve continuare a scegliere i
ministri secondo il colore dei partiti e non secondo la qualità, se nessuno può comandare, se non
si è mai sicuri del domani, non si creeranno che incoerenti ed instabili. Noi siamo a questo punto.
Ogni osservatore attento deve convenirne.
Non vi e possibilità di risanamento se non nella misura in cui si sfugge a queste tirannidi
democratiche.
Verrà il giorno che, con le buone o con le cattive, spinti a ciò dai rovesci, noi ci dovremo liberare
a nostra volta dalle convenzioni di una democrazia incapace di governare, di scegliere, di durare
e di creare.
Lèon Degrelle. ottobre 1939.
Le leggi dell'anima
Le sapienti considerazioni degli economisti, dei teorici della politica, dei conferenzieri e dei
professori, saranno vane, sinchè non si sarà compreso che, se esistono leggi multiple, leggi
economiche ed una scienza dello Stato, vi sono altresì delle leggi dell'anima che non si
calpestano invano.
La crisi dell'Europa è grave perché ha dilaniato la coscienza europea. Gli sforzi dei teorici
avranno peso e durata solo nella misura in cui, parallelamente alle riforme politiche ed al
risollevamento spirituale, si farà una resurrezione delle anime morte.
L'Europa deve ricominciare ad imparare che vi sono beni, gioie superiori al possesso materiale e
all'appetito.
Deve ritrovare la strada della semplicità, dei profumi modesti, delle grandi virtù sovrane. (...) Il
bisogno di prendere, di godere, di conservare, ha corrotto gli uomini, saccheggiato la vita
familiare e sociale e finito per gettare, in orribili lotte al coltello, tutti i popoli gli uni contro gli
altri.
Lèon Degrelle. 24 marzo 1940.
Ordine contro anarchia
Da molto tempo la difesa dell'ordine ha coperto ogni vigliaccheria.
E rifugiandosi dietro l'ordine che i conservatori spauriti hanno voluto proteggere il loro benessere
politico.
Per loro, 1'ordine consiste nel prolungare, costi quel che costi, un regime politico tarlato.
L'ordine, per loro, è il conformismo dei partiti, è il mantenimento della proporzionale delle
prebende, è la ripartizione disinvolta e defilata degli utili del potere, è la paura di tutto quanto
potrebbe modificare, anche salvando il paese, uno stato di fatto che conviene loro, mentre il
nuovo comporterebbe sempre una parte di rischio.
Parlare di ordine riferendosi a queste forme di egoismo è il massimo dell' ipocrisia. Non vi è
ordine - ma disordine profondo, essenziale - quando il potere esecutivo è in balia dei clan
dell'Alta Finanza, quando non gode di alcuna stabilità e non è tenuto a freno da alcuna
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responsabilità, quando le leggi sono partorite in fretta da un Parlamento incompetente,
imbroglione e parolaio, quando 1'amministrazione è soltanto un'immensa macchina polverosa,
senza vita e senza rendimento.
Il regime politico che subiamo da dieci anni non è ordine, ma anarchia: incoerenza dei partiti,
contraddizione dei governi, farragine degli ingranaggi amministrativi, incapacità di correggersi,
di ringiovanirsi, di modernizzarsi. L'ordine non ha niente a che vedere con queste anticaglie
politiche.
Coloro che difendono queste anticaglie in nome dell'ordine, sono dei timidi o dei paurosi che
preferiscono la mediocrità o l'ingiustizia alla vita di una nazione e ad ogni sforzo creativo.
Hanno una paura tremenda del cambiamento.
Il regime, con tutti i suoi vicoli ciechi, le sue viuzze oscure e i suoi gineprai, deve piacergli per
forza.
Net loro conservatorismo interessato, sono sostenuti da tutti coloro che temono il polverone dei
costruttori e gli preferiscono la lenta decomposizione di un paese...
Difendere l'ordine, per certi conservatori, significa: organizzare la protezione dell'egoismo
sociale ed opporsi ad uno sviluppo sano, vigoroso, e sempre più completo, delle masse
lavoratrici.
Si vuole, sotto la copertura dell'ordine, tornare all'immobilismo sociale? Rifiutarsi di considerate
1'elemento umano del problema operaio? Mettere il bastone fra le ruote a tutte le iniziative salari, case, sport, svaghi? Cercare di sfuggire alla creazione di uno statuto sociale efficace:
magistratura del lavoro, ordine del lavoro? Ignorare la dignità e la grandezza del lavoro, la
nobiltà delta famiglia operaia, i suoi bisogni, le sue angosce e la felicita cui essa ha diritto?
Questo disprezzo del popolo e del suo lavoro, questo disconoscimento della sua anima, questo
abbandono dei focolari soffocati dai tuguri e dal1'aria malsana, questa assenza totale di politica
sanitaria, costituivano il più abominevole dei disordini. Ci hanno condotto alla soglia di autentici
abissi sociali. Prolungare questo disordine in nome dell'ordine? Mai!
Gli uomini d'ordine, per noi, sono quelli che oseranno riformare lo Stato, invece di stabilizzarlo
nel caos attuale; dare al Potere Esecutivo 1'autorità, la durata, la competenza; alle
Corporazioni,1'elaborazione delle leggi economiche e sociali; all'amministrazione, vita,
intelligenza, responsabilità.
Gli uomini d'ordine, per noi, sono quelli che oseranno liberare il paese, la sua vita economica e
politica, dalla dittatura del supercapitalismo. Gli uomini d'ordine, per noi, sono quelli che
ricercheranno instancabilmente il miglioramento - materiale e morale - dei destini del popolo,
che edificheranno la giustizia sociale e riavvicineranno, infine, le classi nel benessere, la lealtà e
il rispetto.
Gli uomini d'ordine, per noi, sono quelli che stimoleranno tutte le forze intellettuali e spirituali
che possono pacificare ed ordinare le anime, col contatto della verità e della bellezza.
L'ordine è per noi progresso, giustizia ed armonia.
Non è stagnazione, ma creazione. Sforzo ogni giorno.
Ordine? Si! Ma l'ordine nuovo, per la salvezza del paese e del popolo.
Lèon Degrelle. 7 maggio 1937.
.................................................
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Associazione Culturale “Amigos de Léon Degrelle”
Asociación cultural “Amigos de Léon Degrelle”
Apartado de Correos n° 5.024 - 28080 Madrid - España. Presidenta de Honor:
Dª Jenne Marie Brevet (viuda de Léon Degrelle) Presidente: D. José Luis Jerez Riesco. Autorización del ministerio
de justicia n°160.621 del 22 Marzo 1996.
Email: [email protected]
Web: http://www.geocities.com/falconhard/presentacion.html
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