Festival del Cinema di Venezia
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Festival del Cinema di Venezia
ASSOCIAZIONE RICREATIVA CULTURALE e RICREATIVA DIPENDENTI ENEL Copia Omaggio Numero 08 - Giovedì 04 Settembre A tutto Rock Al Lido, da ormai qualche giorno, si sentono sul far della sera delle urla di incitamento; un grido quasi infantile e onomatopeico che assomiglia a Yuppi Du. Un'esclamazione sicuramente di battaglia, come l'eia eia alalà che utilizzavano i guerrieri greci per darsi coraggio prima del combattimento. Purtroppo, però, qui non siamo in Ellade o, per il caso dei musicarelli, in America: sui quotidiani delle ultime settimane infatti il film che Celentano presentò a Cannes nel 1975, e che vinse l'anno successivo il Nastro d'Argento alla migliore musica, viene definito un musicarello. In realtà musicarelli e Yuppi Du hanno poco in comune. Il musicarello (definizione introdotta a posteriori) è un sottogenere italiano che nasce negli Anni '50 come unione fra musica e cinema: questo connubio era già presente in Italia, con esponenti come Claudio Villa, caratterizzato da una vena sentimentale e conservatrice, ma, quando giungono dall'America (sempre con un paio di anni in ritardo) i venti della ribellione giovanile e del Rock'n'Roll ispirati da Elvis, Marlon Brando e James Dean, anche la penisola tenta di aggiornarsi. Nel musicarello si ritrovano la volontà di adeguarsi all'idea di gioventù rebellious without a cause, del conflitto generazionale fra giovani e matusa, declinati all'italiana: in film come I Ragazzi del Juke Box (1959) e Urlatori alla Sbarra (1960), entrambi diretti da Lucio Fulci su soggetto di Piero Vivarelli, e con Celentano, Mina, Gianni Meccia fra gli interpreti, l'intento è quello di scimmiottare il personaggio del ribelle americano, proponendone uno stereotipo - prendiamo Brando ad esempio - con giubbotto di pelle, cappello e broncio perenne. Tuttavia non c'è una comprensione profonda di questi fenomeni: Rockers, Mods, Beats, Teddy Boys si mescolano senza troppe sottigliezze a creare un “tipo”. Il genere poi si diffonde ulteriormente con interpreti come Gianni Morandi e Rita Pavone, per morire alla fine degli Anni '60 con la coppia Al Bano e Romina: si ritorna al periodo prerock con il protagonista squattrinato ma in giacca e cravatta alla conquista della ragazza bella e danarosa, mentre fuori dai confini nazionali ci si riconosce intorno ad Easy Rider. Adriano Celentano, dopo il battesimo artistico al Palaghiaccio di Milano nel '57, prende parte ai primi musicarelli proponendosi come la declinazione italiana e scimmiesca di Jerry SEGUE >>> 2 >>> SEGUE Lewis, come giovane un po' tocco innamorato di Mina: qui si inseriscono canzoni come Il tuo Bacio è come un Rock, secondo la struttura del genere, cioè la presenza di interventi cantati all'interno di una trama che segue delle costanti ben precise, fra cui il conflitto generazionale, con un vago senso di rivolta, e la storia d'amore. Celentano accumula esperienze come attore (farà anche una comparsata ne La Dolce Vita) fino ad approdare al progetto di Yuppi Du: il molleggiato è alla sua seconda esperienza come regista e, in questo film, ricopre anche i ruoli di sceneggiatore, interprete e produttore. Si narra la storia di un gondoliere veneziano, che decide di risposarsi dopo la scomparsa della prima moglie, la quale rientrerà successivamente nella sua vita. E ciò che non fa di Yuppi Du un musicarello è proprio la sua celentanità, che lo allontana dalle caratteristiche di questo genere: Celentano infatti nel '75 aveva già imboccato la deriva eco-misticoteosofica che sgrosserà negli anni a venire. Si toccano (incidentalmente) il tema dell'ecologia, dei morti sul lavoro, che uniti alle canzoni e alle movenze dell'artista (celebre il ballo con Charlotte Rampling) vanno a costituire un'opera totalmente personale e, in buona parte, strampalata. D'altronde non si può rimproverare a Celentano di essere se stesso, e il suo film non manca certo di spontaneità; ma se invece di accontentare i fan del molleggiato si fosse scelto di presentare un titolo come Urlatori alla Sbarra, non si sarebbe fatta più luce su un genere ancora in ombra per il pubblico internazionale? Marco Capitanio Back in the USSR Incontro con Michal Rosa, regista di Scratch: una storia d'amore sotto lo spettro dell'Unione Sovietica Scratch è un dramma asciutto, ma non intimista, con una magnifica prova attoriale - Jadwiga Jankwoska Cieslak ha vinto la palma d'oro a Cannes come migliore attrice nel 1982 – che può ricordare, ma solo per il contesto, Le Vite Degli Altri. Incontriamo il regista, Michal Rosa, in passato candidato all'Oscar per il miglior cortometraggio, il quale ci spiega che questa storia nasce dieci anni fa e ha poco a che fare con la politica, anche se in Polonia sta suscitando qualche polemica perché rievoca un passato scomodo. Scratch ha un tema politico, ma non è un film politico, la storia è raccontata da una prospettiva personale... È un film su una coppia che dopo aver trascorso trent'anni insieme viene messa in discussione da un atto di disonestà, che si rivela essere una sorta di peccato originale. La ragione è politica, la polizia polacca era supportata dai servizi segreti, ma il film si sposta sulla contemporaneità. Pensa che in Polonia il tema dei servizi segreti darà luogo a polemiche? Il film sarà in programmazione in Polonia tra due setttimane, ma una parte del film verrà tagliata da quella che è la copia attuale. In Polonia, come in tutti i paesi post-comunisti, forse anche nell'Italia del dopoguerra, la situazione era simile. È accaduto che dopo un evento così traumatico, tutti hanno ricacciato la polvere sotto il tappeto, volendo dimenticare. Dopo un po', però, generalmente in maniera del tutto inaspettata, questo passato torna e getta un'ombra sul presente. Così, qualsiasi atto di disonestà porta con sé non un costo politico, ma una pena personale, che nel film si traduce nella reazione al fatto di essere stati traditi da chi si credeva di conoscere meglio. Il tema principale del film è “l'arte” di bilanciare e controllarsi, che segue alla rabbia della protagonista. Da un lato trent'anni di vita felice insieme, dall'altro qualcosa che si suppone amore tradito. Ognuno di noi dovrebbe ricordarsi che ogni cosa che ha fatto in passato acquista poi un significato per il futuro. Lei paragona i suoi personaggi a quelli della tragedia greca, perché? Perché quello che accade non dipende dai personaggi, il mondo che hanno conosciuto ormai è disintegrato, e non importa come decidano di agire. È una sorta di Destino che li va a trovare, e loro sono senza aiuto, e non c'è soluzione positiva. Da un lato, è una vergogna per il protagonista rispolverare il proprio passato ed essere umiliato dalla propria moglie; dall'altro, c'è un elemento di contrasto con la tragedia classica ed è che in questo film non c'è catarsi. Qui non ci può essere il modo di osservare tipico della tragedia, perché il conflitto tra i personaggi è insolubile, come nella tragedia. Vivo tutto l'anno con i miei personaggi, do loro il tempo di spiegarsi, di difendere le loro ragioni, ed ora mi chiedo cosa avrei fatto fossi stato nei loro panni. Da dove è nata l'idea per il soggetto? Dieci anni fa qualcuno mi ha raccontato una storia scovata nell'archivio della Stasi, che coinvolgeva un politico della Repubblica Democratica tedesca, ma è stato solo un punto di partenza, uno spunto per scrivere la mia storia. Quando ho scritto il soggetto in Polonia l'argomento servizi segreti sovietici era tabù, ora invece comincia ad esserci una discussione politica . Piera Boccacciaro Generazioni contraddette Intervista a Barmak Akram, regista di Kabuli Kid L'originale opera di Barmak Akram ci porta a conoscere una Kabul dove tradizione e rinnovamento si contaminano. In questa intervista abbiamo avuto l'occasione di approfondire con il regista alcune peculiarità dei tratti culturali del mondo afgano contemporaneo. Iniziamo da alcuni aspetti interculturali: Khaled vive a metà tra la vecchia e la nuova generazione del suo tempo, nella Kabul posttalebana. Quali sono le più probabili resistenze della cultura precedente e le infiltrazioni di quella nuova? In effetti l'Afghanistan si trova dopo gli anni della Grande Guerra sotto l'influenza di diversi paesi stranieri: prima i russi che ci hanno trasmesso la loro cultura, ed il comunismo, poi gli Stati Uniti, insieme al Pakistan, intermediario che ha iniziato ad agire per fermare i russi, fornito le loro armi per battere il Comunismo. Oggi anche la cultura talebana è da distruggere e siamo giunti alla globalizzazione, l'era della Coca Cola e del Rock'n’roll. L'Afghanistan è un crocevia di popoli, è il centro dell'Asia. La Cina, l'Europa, etc. Ha avuto molte influenze nefaste ma ha cercato di prendere il meglio da ogni cultura. Dal film emergono alcuni elementi multiculturali: l'impotenza in una famiglia equivale a una vergogna, lo spinello viene associato al mondo americano. Come mai? Si, si tratta di un simbolo americano. È un'allusione ironica. Prima dell'arrivo degli americani si diceva che l'Afghanistan produceva il 50% dell'oppio nel mondo, dopo l'arrivo degli americani oggi sembra che la percentuale sia salita al 90%. È una contraddizione. Ci sono sempre queste contraddizioni quando un popolo invade un altro popolo, per esempio in ogni nazione che è stata occupata dai soldati è aumentata la prostituzione. Un altro dato culturale: Khaled sembra essere uscito dal bigottismo religioso talebano. Però si contraddice spesso comportandosi secondo criteri conservatori. La contraddizione del personaggio mostra uno spaccato della cultura afghana: lui dice alla moglie di mettere il velo, ma critica chi lo mette. Si potrebbe pensare che Khaled sia contro la cultura afghana, ma in realtà l'essere contraddittori fa parte della natura umana. È chiaro il dato che riguarda la preferenza di un figlio maschio nel nucleo famigliare. Ma cosa significa nella cultura afghana attuale accettare un figlio orfano? Come in tutti i paesi gli orfani da un lato sono emarginati, dall'altro non si può fare loro del male, e quindi vengono infine accettati dalla società. È sicuramente il padre che decide di prendere un orfano in famiglia: anche se la società si è evoluta un po', è ancora fortemente patriarcale. Perché la moglie di Khaled cerca di adottare il bambino di nascosto? Nel film non si sa chi è la donna che ha abbandonato il bambino nel taxi. Si possono fare diverse supposizioni: si può immaginare che Khaled abbia avuto una relazione nascosta dalla quale ha avuto un bambino, per esempio. La moglie di Khaled è in una situazione molto delicata, perché non ha dato figli maschi a suo marito. Sono i figli che rendono la donna forte nella famiglia, se non si hanno figli, l'usanza molto spesso è di prendere un'altra moglie. La madre del bambino è l'unica col volto coperto. Perché è l'unico per- 3 sonaggio "spersonalizzato"? Il suo è un ruolo simbolico? Ho voluto mostrare la vera condizione femminile in Afghanistan. Una donna senza viso è una donna senza identità, una persona che quasi non esiste. È importante m o s t r a r e q u e s t o personaggio. I personaggi veramente importanti nel film sono la donna ed il bambino, non il protagonista. Caratteristica dominante è la fedeltà del contesto: Kabul viene raccontata sotto tutti gli aspetti della cultura e civiltà. Perché questa scelta? Volevo che tutta la storia si sviluppasse in un contesto pienamente verosimile. Ho voluto mostrare la realtà dell'Afghanistan di oggi. Come dice il titolo, io volevo raccontare Kabul innanzitutto, e poi la storia del bambino. Nonostante il difficile momento di rinascita il ritratto delle persone non è quello classico del dolore: Kabul sorride, ironizza, respira rinnovamento. È la reale condizione di adesso? Gli abitanti di Kabul oggi sorridono perché sono sopravvissuti a molti momenti difficili. Ridono molto di più dei francesi e degli italiani. Un afghano ride mentre la sua casa brucia: se gli chiedete perché sta ridendo vi risponderà che in casa non aveva mica dell'oro! Danilo Catania Massimiliano Monti 4Identità lontane Intervista al regista e con gli attori protagonisti del film turco “Iki Çizgi“ Quando le esistenze non si toccano, non si compenetrano, nascono trame umane che nascondono rabbia, frustrazione, dubbio. Paura. E la drammatizzazione di questo genere di conflitto, silente e spesso furioso, è stata negli anni oggetto di molto cinema. Iki Ç izgi porta sullo schermo una storia di questo tipo. Ne abbiamo parlato col regista Selim Evci e i protagonisti Gulcin Santircioglu e Kaan Keskin. Il film si apre in un teatro. La coppia, nella rappresentazione, afferma chiaramente la propria distanza. Nel resto della pellicola, invece, due protagonisti evitano il confronto dialogico. Nella finzione si può chiarire quello che nella realtà resta inespresso? Selim Evci: Il primo motivo per cui ho iniziato il film con una mise en scene teatrale è per rimarcare che ciò che avviene nella realtà è diverso da ciò che avviene su un palco. Quella scena tecnicamente è una parentesi d’apertura; quando si chiude, comincia la vita reale. Si parla di una coppia giovane in una Istanbul a metà tra rinnovamento culturale e resistenze del passato. Quali elementi del nuovo sono filtrati e quali della tradizione resistono nella giovane coppia? Selim Evci: Nel film c’è l’elemento di contrasto tra tradizione e modernità. Ho messo in scena una situazione verosimilmente au milieu dei due estremi. Il ritmo di vita a Istanbul è quello della grande città, che impone l’accettazione degli elementi di rinnovamento e compromesso multiculturale nei ritmi frenetici con cui il pensiero, le usanze e le mode si evolvono. La tradizione è talvolta superata dalle nuove convenzioni ma non completamente rigettata Kaan Keskin: la Turchia è un paese molto eterogeneo socialmente, religiosamente, sentimentalmente. Il mio personaggio presenta tratti molto sfaccettati e talvolta connivenze tra vecchio e nuovo. La modernizzazione è un corso degli eventi che sovente si subisce acriticamente e ci si comporta senza una reale coerenza o consapevolezza. Per questo sono portato a dire che molto più spesso sono le tendenze e le forme, non tanto la sostanza degli ideali della tradizione che cambiano. L’identità nazionale è una cosa che muta nel corso di anni, le mode che cambiano sono più che altro declinazioni con, talvolta, piccoli elementi di novità. La protagonista del film si esprime con un silenzio impassibile e contraddistinto da una nonchalance tipicamente femminile. Che valore hanno i tuoi silenzi e quale caratteristica del tuo personaggio ha rappresentato il maggior elemento di sfida? Gulcin Santircioglu: Il ruolo tradizionale della donna nel mondo turco è di una personalità socievole, molto aperta al dialogo. Il silenzio del mio personaggio è il suo essere sovversivo rispetto alla tradizione. Quindi la persona accumula conflitti ed emozioni, rabbia, contrizione sempre più forti fino a trascendere nel conflitto. Per quel che riguarda il mio personaggio, la maggior sfida è stata r a p p r e s e n t a t a dall’inscenare un processo di crescita e diversificazione: la Celine dell’inizio cambia, appena abbandona Istanbul per il viaggio con Merc inizia a mutare il suo comportamento, e alla fine della storia è completamente diversa. E per il personaggio maschile? Kaan Keskin: il mio personaggio è un fotografo di professione, quindi abituato a demandare il linguaggio all’immagine. Non è in grado di affidare troppo alla comunicazione le sue emozioni. Rispetto a Celine è un personaggio meno forte, e quindi molto spesso ripiega la soluzione dei suoi conflitti nell’introversione. Ovviamente il fatto che la donna sia dominante è una mia visione personale. Novità per il futuro dopo questo esordio? Selim Evci: probabilmente riprendere il tema del titolo, che metaforizzava un viaggio interiore senza serie incalzante di eventi e che transitava dalla città al mondo più ameno della campagna. Mi piacerebbe girare un viaggio in senso contrario, con personaggi completamente diversi. Danilo Catania Massimiliano Monti Say cheeeese! Le conseguenze dell'amore per la settima arte lo hanno portato a diventare il divo del cinema italiano. Nonostante il grande successo avuto al festival di Cannes, rimane sempre l'amico di famiglia che tutti vorremmo avere, l'uomo in più che mancava a questa 65. Mostra. Signore e signori, allo stand Arca CinemaGiovani: Paolo Sorrentino! 5 Fear the peer (to peer) La pirateria dell’audiovisivo – ce lo stanno ripetendo a destra e a manca, anche in Laguna, tra conferenze, incontri e ammonimenti sovrimpressi - va debellata. Perché è una piaga che falcidia le disponibilità economiche dell’industria cinematografica, perché è eticamente delittuosa. Perché è, soprattutto quella telematica, un sinonimo, spesso, di svilimento della qualità, di ripiego che lede la bellezza della fruizione – e quindi danneggia anche il pirata, e l’appassionato. E questi sono i buoni motivi per smetterla con le copie, con i download. Il problema, però, è che la discussione sul tema spesso prescinde da alcuni fatti che non possono essere trascurati. E, soprattutto, che qualunque politica applicata finora si è dimostrata fallimentare: lo sharing (come il tape trading musicale degli anni ’80) non decresce, ogni provvedimento teso ad obliterare una comunità peer to peer viene aggirato con la creazione di realtà nuove e più forti, e la crisi non si placa. Posto che – ed è chiaramente da dimostrarsi – la crisi sia realmente generata in primis dalla pirateria. Prima di cercare rimedi, però, forse occorrerebbe indagare a fondo le cause del fenomeno, perché se ha ragione la nota pubblicità progresso che spesso vediamo in sala, che accomuna scippi e furti d’auto al download illegale, vien da chiedersi come sia possibile che il 90% della popolazione sia improvvisamente divenuta moralmente equivoca, se non platealmente criminale. C’è la recessione, certo. Ed è pure vero che, con la certezza (o quasi) dell’impunità, la forza dell’etica scema, e si diventa tutti meno irreprensibili. Per non parlare del mal comune: perché, in fondo, scaricano tutti. Uno dei fatti cruciali, però, è che molto grande cinema, non dimentichiamolo, è irreperibile. Lo sottolinea Claudio Masenza sulle pagine di Ciak, questo mese: sono tanti i classici bloccati da questioni di diritti (per non parlare di tantissime pellicole internazionali visto solo ai festival), introvabili persino in VHS. E se rimane comprensibile che i produttori non investano in uscite home video non remunerative, non è però assurdo – aggiungo che poi chi il film lo vuole vedere, se lo scarichi. Masenza propone il download a prezzo politico, soluzione già più che accettabile. Si potrebbe, però, gettare il sasso un po’ più in là, e parlare di gratuità. Certo, non ci sarebbero dividendi – ma ce ne sono ora? – e un guadagno sicuro lo otterrebbe, guarda un po’, il cinema. E un lungo discorso andrebbe fatto anche su tutte quelle uscite home video sprovviste di reali punti di forza, motivi d’interesse – pochi extra, materiali video di qualità anonima, ecc. Perché c’è poco da fare: i costi delle uscite sono spesso proibitivi, e forse si potrebbe rifare un pensierino (solo meditativo, sia chiaro, magari funzionale al ridimensionamento) all’ormai desueto concetto di liberazione dell’arte. Rimane il problema del cinema in sala, e qui si entra in un discorso senza dubbio più serio, si tocca una pirateria decisamente lesiva, miserabile. In entrambi i casi, comunque, bisogna considerare l’inevitabilità radicale del fenomeno del download. Il web è inarrestabile. E nessuna tattica di repressione può funzionare, in questo senso. Sono soldi, tempo, sforzi spesi male. Si arrendano, i fautori della lotta senza quartiere. Perché si tratta di una comunità globale, fluida, imprendibile, poderosa nei numeri, tecnologicamente avanzata e frequentata da un numero altissimo di grandi intelligenze. Una lotta contro la popolazione del web è persa in partenza – a meno di non agire nei termini di una zero tolerance che passa attraverso oscuramento delle reti e affini. E, almeno nei paesi democratici, si finisce per cozzare contro inestricabili nodi di (sacrosanti) veti. La soluzione sta altrove, perché il web (che, ricordiamolo, riveste anche un ruolo positivo, perché permette a tanto cinema di circolare) si piega in un unico modo: col web . Insensibile ai divieti, ma estremamente esposta alla peer pressure , ai trend, alle dinamiche dell’orientamento di massa, la rete si muove come una marea. E quindi serve qualcosa di nuovo, occorre sostituire l’azione negativa con quella positiva, agire su chi scarica, creare un bisogno, un desiderio. Offrire prodotti che spingano all’acquisto (questo significa investire, e magari accettare un sostanziale ridimensionamento dei guadagni: ma la crescita indeterminata non esiste). Il blue ray può essere una soluzione parziale, in prospettiva, come le promozioni (gadget, prezzi ribassati, collane). Ma tutto passa, come ha fatto più volte notare (non unico) James Cameron, dalle sale, dalla proposizione di esperienze uniche – il regista canadese ha atteso, per lavorare al suo Avatar, la disponibilità delle migliori tecnologie 3D, per offrire uno spettacolo cui assistere rigorosamente al cinema. Perché per salvare il cinema, bisogna ricreare uno stimolo primario, lavorare sulla fascinazione, ricostruire lo stupore primigenio di questa forma d’arte. Diego K. Pierini 6 Teza Regia: Haile Gerima Anno: 2008 Paese: Etiopia Sezione: Venezia 65 Finalmente, verrebbe da dire! Finalmente sbarca al Lido uno di quei film che da soli bastano per farti cambiare idea sull'intera Mostra, che sino a questo momento non ha di certo entusiasmato gli amanti del cinema. E non è un caso che il pubblico presente in una Sala Grande semivuota riservi al cineasta etiope Haile Gerima otto minuti di applauso continuato, tanto da far emozionare lo stesso regista africano. Compito arduo quello di Gerima, che porta in Concorso Teza, raccontando quasi trent'anni di storia del suo Paese attraverso l'esperienza personale di un intellettuale africano (Aaron Arefe) rientrato in patria dopo diversi anni trascorsi lontano dalla sua terra, dalla sua famiglia. Dopo gli studi in medicina a Berlino, dopo essere entrato nel partito socialista etiope, ed aver rischiato la vita per esser stato pestato da un gruppo di razzisti tedeschi, Anberber riesce finalmente a tornare in Etiopia, dalla sua famiglia, da sua madre che dopo tanti anni di attesa, con le lacrime agli occhi per la gioia, può riabbracciare il suo “piccolo”. In patria, tuttavia, il medico africano non trova l'ambiente che Nuit de Chein Regia: An Qi Ju Anno: 2008 Paese: Francia/Italia/Cina Sezione: Venezia 65 È notte fonda: la città giace in preda alla guerra, alla distruzione di identità e di anime fragili e stanche che osservano attonite ed inermi il terrore che le avvince. Ossorio, il protagonista, esausto, è di ritorno a casa con al seguito una moltitudine di profughi e di soldati vinti nel fisico e nell'animo. È alla ricerca della sua amata che aveva lasciato lì tempo addietro. Subito però viene spiazzato dalla terribile realtà che subdolamente lo attende, pronta a travolgerlo in un vortice di strane coincidenze, fatalità, storie di violenza ed amore, di odio e repulsione in altalenanti conati di profonda umanità e delirante follia. Solo un volto amico lo aspetta: una bimba dal viso sporco di fuliggine dagli occhi teneri che stringono il cuore. Un fiore in cambio di pochi spiccioli. E di rimando un sorriso pieno di gratitudine. Tutto è cambiato: una milizia armata terrorizza il paese, fazioni rivali si scontrano alla ricerca di una presunta verità celata in meandri inaspettati. Uno, il colpevole, ma sono tanti a cadere sotto la macchina implacabile della morte. Carne al patibolo. E una notte decisiva ognuno cerca di salvare la propria vita, senza speranza. Tratto dall'omonimo romanzo del 1943 dell'uruguaiano Juan Carlos Onetti il regista Werner Schroeter lo ha portato su pellicola riconoscendo con sperava, il suo ritorno infatti avviene tra gli orrori della guerra civile e le feroci faide tribali. Ciò che colpisce chi guarda è sicuramente l'impotenza di Anberber, che assiste con sguardo dolente alla violenza delle forze avversarie delle fazioni militari e ribelli. Quello di Teza è un progetto che ha impiegato complessivamente quattro anni di lavoro, più volte interrotto per mancanza di fondi, e che fa sicuramente riflettere su come si possa realizzare un ottimo film pur non avendo una grande disponibilità economica. Dato il grande successo di pubblico e di critica riscontrato qui al Lido, Teza si candida senza mezzi termini alla vittoria del Leone d'Oro. Una piacevole sorpresa. Michele Montesi lui una certa comunione d'intenti. Entrambi, attraverso la fantasmagoria, vanno alla ricerca di utopie complesse e del desiderio ardente di malinconia per indagare la profondità della nostra anima. A lui va il merito di aver portato sul grande schermo con uno stile anticonvenzionale l'arte, la lirica, ma anche l'umanità più controcorrente e marginale in un palcoscenico di ombre metalliche ed umane, che sgusciano in un'atmosfera apocalittica percorsa da tensioni esistenziali capaci di trafiggere e atterrire. Plot debole, a tratti confuso e poco lineare, dal ritmo incerto, poco coinvolgente, lascia lo spettatore ai margini della narrazione. Vero punto di forza, d’altro canto, le intense tinte noir enfatizzate da musica lirica capace di generare autentica tensione. Paola Tarasco 7 Verso Est Regia: Laura Angiulli Anno: 2008 Paese: Italia Sezione: Orizzonti La regista Laura Angiulli ci guida in un viaggio Verso Est. Un est poco distante eppure lontanissimo da noi, dove violenza e crudeltà hanno lasciato un segno indelebile. Al centro del lungometraggio vi è la Bosnia, la cui storia recente è rievocata in una serie di suggestioni in cui presente e passato si sovrappongono. Il racconto per immagini si sviluppa attorno ai tre luoghi simbolo del conflitto: Sarajevo, Mostar e Srebrenica. La capitale bosniaca, il cui nome resta associato al più lungo assedio della storia bellica moderna, inaugura il percorso: restano negli occhi le spettacolari immagini delle fiamme che avvolgono la Biblioteca nazionale, nelle quali sembra che sia l'edificio stesso a parlarci di un trauma che nemmeno la ricostruzione può cancellare. Così come non si dimenticano i frammenti del Ponte di Mostar che precipitano nella Neretva sotto le cannonate croate. Quello che vediamo non è più lo Stari Most voluto da Solimano il Magnifico nel XVI secolo, quello che Erri De Luca definisce “un'opera cordiale, fatta per congiungere”, ma il Ponte ricostruito per volontà della comunità internazionale. A coronamento di un'escalation emotiva, l'attenzione si sposta infine su Srebrenica. A parlare sono soprattutto i volti delle donne che hanno perso mariti e figli a causa di una pratica Il primo giorno d’inverno Regia: Mirko Locatelli Anno: 2008 Paese: Italia Sezione: Orizzonti L’ a d o l e s c e n z a c o m e passaggio critico. Di questo, stando alle note del regista Mirko Locatelli, dovrebbe parlarci Il primo giorno d’inverno . E il discorso si articola su scene seppia che ripropongono, per gran parte della durata, una snervante sequenza immutabile che ritrae la consuetudine muta e solitaria del protagonista Va l e r i o , a d o l e s c e n t e incapace di trovare un punto di contatto con i suoi pari. Il piglio della regia è schiettamente autoriale: largo uso dell’inquadratura fissa, frequente richiamo al valore introspettivo degli specchi, costruzione dell’immagine fortemente significante, ricerca costante dell’espressione fisica degli attori, specie per quanto riguarda l’interprete principale Michele Cova, sommesso e impacciato. Quello che ci investe, in sala, è un panorama di silente afflizione. Afflizione fin troppo tangibile, verrebbe da sottolineare perché l’intenzione espressiva è gestita male, e si fa noia depressiva, quasi mortale, quando, dopo sessanta minuti di pellicola, tutto ciò che è stato proposto è una ripetizione delle stesse quattro scene, con pochissime variazioni, ma con l’aggiunta di un urticante violino monocorde che fa inumana nota con il nome di “pulizia etnica”. Sulla scena irrompe un'unica protagonista: la morte, evidente nelle immagini delle fosse comuni, attuale negli occhi e nei gesti delle donne di Srebrenica. Il compito di trasmettere un carico emotivo tanto pesante è affidato, in particolare, a Hatidza Mehmedović, che nel massacro del 1995 ha perso i due figli, il marito, i fratelli e il padre. Drammaticamente commovente il finale, con i bambini che cantano una amara “canzone della felicità” mentre uno di loro scoppia in lacrime. Si chiude così un documentario che ha il suo principale punto di forza nella capacità evocativa delle immagini, che suscita emozioni ma non racconta, e che risulta quindi piuttosto arduo da comprendere per chi non possiede un'adeguata conoscenza delle vicende balcaniche. Valentina Pacitti tanto cinema off, ma più che nobilitare, ammorba. Una corsa lemme in motorino, ostinati esercizi ginnici, il freddo allenamento in piscina, una famiglia mesta in cui si parla poco e si dice ancora di meno. Repeat. E si va avanti così, sorta di prologo alienante ed infinito: se è vero che Locatelli, si nota, conosce a fondo il disagio dell’adolescenza, e che l’incomunicabilità è oggetto interessante, resta da chiedersi perché lasciarla assurgere a mezzo espressivo, con tutti i paradossi che questo comporta. Perché il discorso è un po’ questo: come ritratto realistico ed efficace della violenza, ad esempio, un cazzottone sui denti va benissimo. Però di solito non fa granché piacere. Anzi. Diego K. Pierini 8 I Basilischi Regia: Lina Wertmüller Anno: 1963 Paese: Italia Sezione: Questi Fantasmi In un'amara e grottesca narrazione della vita di alcuni amici del Sud, viene mostrato uno spaccato della società paesana pugliese, raccontando le vicende di una gioventù pigra e annoiata. Al suo esordio come regista, Lina Wertmüller presenta I Basilischi (meritandosi la Vela d'Argento al Festival di Locarno) con l'intenzione di raccontare la “gioventù sfaticata”: tutti ragazzi, in genere figli di persone agiate, che studiano all'Università con scarso impegno - bisogna dire quasi a rinviare l'ingresso nel mondo del lavoro, confinati in un borgo rurale e nelle Giovedì Programma 04diSettembre Accrediti Cinema SALA GRANDE 11.00 L’Exil et le Royaume di Andrei Schtakleff e Jonathan Le Fourn 14.00 Il primo giorno d’inverno di Mirko Locatelli 16.00 Gabbia (Inland) di Tariq Teguila PALABIENNALE 08.30 Rachel Getting Married di Jonathan Demme 11.00 Les Plages d’Agnès di Agnès Varda 13.15 The Sky Crawlers di Mamoru Oshii 15.45 L’Exil et le Royaume di Andrei Schtakleff e Jonathan Le Fourn 18.15 Il primo giorno d’inverno di Mirko Locatelli PALALIDO 18.30 Venkovsky Ucitel di Bohdan Siàma 20.45 L’apprenti di Samuel Collardy “consuetudini”. Un ritratto, insomma, della vita provinciale, quasi documentaristico, in cui la Wertmüller dedica una speciale attenzione alle atmosfere (soporifere nella perfetta rappresentazione della controra) e alle scene corali, piuttosto che all'evoluzione dei personaggi. Unici momenti di novità, che portano alla rottura della monotonia, sono: la partenza di uno studentello per Roma, stimolata dall'arrivo dei parenti dalla capitale, cittadini fino all'osso, che discutono con i paesani di fascismo e comunismo, del desiderio di progresso sociale o della nostalgia del “pugno duro” e la famosa scena davanti al portone di casa, in cui la romana “Cicci” detta gambe- lunghe lascia il marito, esasperata dalla vita di provincia, episodio di autentico richiamo al cinema della capitale. Un film curioso e ironico, meritevole di una certa attenzione e di un certo rispetto, anche nell'interpretazione degli attori, in maggioranza non professionisti, che, nonostante le intuibili caratteristiche linguistiche non proprio orecchiabili, riescono a imporsi sullo schermo. Il risultato, tuttavia, è comunque l'evocazione di una Puglia rurale e feudale, depressa nelle sue ambizioni soffocate e nelle sue speranze deluse, una rappresentazione della provincia annoiata e impigrita, che trattiene e intrappola nella sua rete dolce-amara i giovani, che li costringe a convivere nel limbo della consuetudine. Simone Russo SALA PERLA 11.45 Una semana solos di Celina Murgia 14.30 Huanggua di Zhou Yaowu 16.45 Il colore della Bassa di Giuseppe Morandi e Gianfranco Azzali Managua boxing di Frediana Fornari Un canto lontano di Alberto Momo Alba di Giorgia Farina 21.00 Beyond Tracks di Aku Louhimies Residentity di Francesco Fei Paracity di Enda Hughes Borderline Metropolis di Paolo Scarfò Trancity di Asif Kapadia The Bear’s Walk di Hugo Vieira da Silva Dionisocity. An Archeologist’s Sunday di Guo Xiaolu Pokrajina St.2 di Vinko Moderndorfer SALA VOLPI 09.00 La circostanza di Ermanno Olmi 11.15 Lunga vita alla Signora! di Ermanno Olmi 13.30 La leggenda del santo bevitore di Ermanno Olmi 16.15 I recuperanti di Ermanno Olmi 20.00 Broken Lines di Sallie Aprahamian 22.30 Il segreto del bosco vecchio di Ermanno Olmi