In ricordo di Roland Ratzenberger, il In ricordo di Roland

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In ricordo di Roland Ratzenberger, il In ricordo di Roland
In ricordo di Roland Ratzenberger, il pilota che correva contro l’età.
C’era il sole quel sabato a Imola. Era il 30 aprile del 1994.
1994 C’erano i sorrisi, le bandane in testa, le
magliette attorcigliate alla vita. E i vessilli. Un mare di bandiere rosse che in quell’angolo di Emilia
significano tradizione, non rivoluzione.
Quel fine settimana passava il circo. Mica quello con gli animali ammaestrati o i pagliacci con la
parrucca e i piedi lunghi. No. Il “circus” della formula uno. Tutt’altra cosa per chi è cresciuto col
cavallino rampante tatuato nell’anima. Nessun elefante in equilibrio precario o scimmietta col
cappello in mano. Tanti funamboli che, anziché camminare sopra un filo, corrono a 300 all’ora
inseguendo il proprio limite. Domatori di cavalli rombanti e di emozioni. Chiusi nella gabbia del
proprio abitacolo. Una gabbia che significa libertà.
I piloti sono persone speciali. Legano il loro destino a un mezzo. Indossano una tuta e un casco. E
vanno in guerra. Contro il tempo, contro se stessi, contro gli avversari. La loro arma è il piede destro.
Il cronometro è il rivale più temuto.
Ci sono i predestinati, gli eroi, le leggende. Ma non sono tutti così. Alcuni di loro hanno guidato
qualsiasi vettura, lontano dai riflettori, pur di arrivare a correre in un gran premio di Formula Uno.
Roland Ratzenberger è uno di quelli.
quelli Quel giorno di fine aprile era al suo terzo gran premio. Un
ragazzone austriaco approdato nell’Olimpo delle corse solo a 33 anni, proprio in quel 1994. Aveva
passato la vita cercando di farsi notare nei circuiti minori. Sfidava i cronometri e anche l’anagrafe. Era
nato a Salisburgo nel luglio del 1960, ma diceva di essere del ’62. Temeva che lo considerassero
troppo vecchio per guidare una monoposto. Ma quell’anno ci riuscì. La Simtek,
Simtek neonata scuderia
inglese, gli aveva affidato il volante di una delle due auto. L’altra era stata assegnata a David Brabham,
australiano, figlio del tre volte campione del mondo Jack, co-proprietario della squadra.
Roland si era messo in luce correndo in Giappone su auto da turismo e prototipi. Confinato
nell’Estremo Oriente, un giorno aveva chiesto a un giornalista britannico se poteva riportare, in
cambio di una piccola somma di denaro, l’eco delle sue gesta sportive nel Vecchio Continente.
Ingenuo e guascone, non smetteva di credere in un sogno che alimentava affannosamente. Nel ’91
c’era andato vicinissimo. La Jordan lo voleva, a condizione che pagasse lui. Aveva trovato uno
sponsor, che all’ultimo però si tirò indietro.
Nel ’94, invece, pur dovendosi accollare molte spese, era arrivato il suo momento. Per convincere il
direttore sportivo della Simtek delle sue abilità, aveva noleggiato una Ford Fiesta. Sì, una Ford Fiesta.
Del resto, si sentiva sicuro su quell’auto. Aveva gareggiato per anni in Inghilterra nella Formula Ford
ottenendo discreti risultati. Quel giorno ottenne il risultato più prestigioso: un contratto di cinque gare
in Formula 1.
L’inizio fu molto complicato. Nei test effettuati a marzo a Imola, la Simtek di Roland era un vero
disastro. Lenta, nervosa, difficile da controllare. Le gare erano alle porte. E arrivarono.
All’esordio in Brasile non si qualificò. All’epoca accedevano alle prove 28 vetture, ma solo 26
partecipavano alla gara della domenica. La piccola scuderia inglese duellava con i connazionali della
Pacific Racing per occupare gli ultimi posti in griglia. Uno scontro fra poveri. Da una parte Brabham
e Ratzenberger, dall’altra Gachot e Paul Belmondo, figlio di Jean Paul, attore caro a Godard.
Nella seconda corsa, in Giappone, Roland corre il suo primo gran premio. Parte dall’ultima
posizione, ma in gara, grazie alle disavventure di chi lo precede e alle esperienze nipponiche del
recente passato, chiude all’undicesimo posto. Michael Schumacher, vincitore con la sua Benetton, lo
doppia, per cinque volte. Roland è contento, ma sa di poter fare meglio.
Lo confessa ad alcuni giornalisti che si aggirano fra i box di Imola. È la sua terza gara, ma se non
ottiene buoni risultati potrebbe anche essere la terz’ultima. Roland parte deciso. È un tracciato
difficile. Enzo Ferrari,
Ferrari l’uomo al quale è intitolato l’autodromo, lo chiamava “il piccolo Nurbürgring”,
paragonandolo alla temutissima pista tedesca. Un circuito collinare, denso di insidie. I primi quattro
giri di Ratzenberger sono abbastanza deludenti. Deve spingere. L’importante è partecipare. Non
c’entra De Coubertin. Conta la voglia di gareggiare il giorno dopo, lottando nelle retrovie, accettando
di arrancare contro i bolidi pur di tagliare la bandiera a scacchi. Alla chicane delle Acque Minerali la
sua Simtek tocca un cordolo. Lo fa nel tentativo di tagliare la curva, per cercare di rosicchiare qualche
decimo prezioso. Potrebbe aver danneggiato la vettura, ma non se ne cura. Nel suo sesto giro vuole
fermare quelle lancette prima possibile.
Oltrepassa la Variante Bassa, la zona in cui nella prima giornata di prove si era schiantato il pilota
della Jordan, Rubens Barrichello.
Barrichello Senza gravi conseguenze, miracolosamente. Addirittura, passata la
paura per l’incidente del collega, Ratzenberger può persino vedere un lato positivo: la defezione del
brasiliano libera un posto in gara. Gli basterà non fare il peggior tempo. La monoposto numero 32
sfreccia sul traguardo. Forse per un attimo Roland gli dà appuntamento al giorno dopo. Supera la
curva del Tamburello,
Tamburello un nome destinato nei giorni successivi a fare il giro del mondo, smarrendo
l’evocativa allegria della pronuncia.
Deve affrontare un altro curvone. Si chiama Villeneuve, in onore a Gilles, l’ex pilota della Ferrari
morto nel 1982 a Zolder in Belgio. Pochi metri più in là, alla Tosa,
Tosa c’è un monumento che lo
ricorda. È in quel tratto che termina la corsa di Roland Ratzenberger. Su quel cordolo aveva rotto i
pilastri a sostegno dell’alettone anteriore. Volato via quello, la Simtek diventa una scheggia impazzita.
Si schianta su un muro, a 316 chilometri orari. La via di fuga, alla curva Villeneuve,
Villeneuve è lunga sette
metri. Provate a fare sette lunghi passi, come si faceva una volta per posizionare il pallone, prima di
battere un rigore per strada. Solo immaginare la potenza di quell’urto, a quella distanza, mette i
brividi.
“Ho un ricordo tetro di quel momento”- ci racconta Giovanna AmatiAmati- una delle pochissime donne
della storia ad aver corso in Formula Uno. Guidava una Brabham nel 1992 per tre gare, prima di
essere rimpiazzata da Damon Hill. In quel tragico weekend imolese, il suo successore guidava la
Williams numero 0, all’ombra di Senna. Lei, che due anni prima era uscita di scena poche settimane
prima di Imola, seguiva le prove dagli spalti. “Ero alla Tosa con Jean Alesi (pilota della Ferrari che
non corse quel gran premio per un problema al collo ndr). Ci guardammo e corremmo verso il
paddock. Avevamo capito, anche se speravamo di sbagliarci. Quel rumore a pieni giri del motore,
l’impatto e il silenzio che calò sull’impianto sono sensazioni che non si possono dimenticare”. La
Simtek blu gira come una trottola sul tracciato. Dall’abitacolo spunta il casco biancorosso del pilota
austriaco. La testa è inclinata sulla sinistra. Roland è privo di sensi. Perde sangue dal naso e dalla
bocca. L’angelo custode dei piloti, Sid Watkins,
Watkins medico storico delle gare del circus, accorre. Prova a
rianimarlo. Dai box Ayrton Senna
Senna,
nna il primo della classe, guarda le immagini dal monitor. Fa una
smorfia. E scappa. Si fa portare sul luogo dell’incidente. Cerca di capire, di essere utile, con tutta
l’umanità che ne ha contraddistinto una carriera costellata di allori. Guarda l’elicottero alzarsi in volo.
Roland Ratzenberger, l’ultimo arrivato, muore prima di arrivare all’ospedale di Bologna. Quando
Senna arriva là, può solo prendere atto del decesso.
Il giorno dopo Ayrton parte dalla pole. L’ottava su dieci gare a Imola. Nessuno ha mai fatto meglio.
Sulla linea di partenza ha lo sguardo perso. Aspetta fino all’ultimo prima di mettersi il casco. Dà quasi
l’impressione di voler correre via. Il giorno prima, dopo la morte di Ratzenberger, il dottor Watkins
lo aveva quasi implorato: “Ayrton, sei stato tre volte campione del mondo, hai dimostrato di essere il
più forte, il più veloce. Molla tutto e andiamo a pescare”.
“Ci sono cose su cui non abbiamo controllo. Non posso lasciare, devo andare avanti” aveva risposto il
campione di San Paolo. Sid capì. Poco dopo toccherà a lui tirarlo fuori dalla Williams che era andata
a sbattere al Tamburello. Nella manica di una tuta, i soccorritori trovarono una bandiera austriaca.
Avrebbe voluta sventolarla nel giro d’onore. L’omaggio di uno dei più grandi della storia all’ultimo
arrivato. Si ritroveranno vicini nell’obitorio. Nel gran premio successivo, a Monaco, la prima fila viene
ricoperta da una bandiera brasiliana e da quella austriaca. A Roland forse non sarebbe mai successo
di stare così vicino a Senna su un circuito.
“O si smette di piangere, o si smette di correre”, diceva Enzo Ferrari. Asciugate le lacrime, il circo
ripartì. Senza dimenticare.
Claudio Giambene
Giornalista e Sportivo