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I veri motivi per cui l’Italia oggi bomb…
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I veri motivi per cui l’Italia oggi bombarda Gheddafi!
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MARTEDÌ, 10 MAGGIO 2011 16:00
NESSUN COMMENTO
La vera guerra di Silvio Berlusconi contro
Gheddafi comincia il 25 aprile dopo
quarantotto ore di silenzio e alla vigilia di un
delicato vertice a Roma con il presidente
francese Nicolas Sarkozy. Un incontro
dall’agenda molto più vasta di quello che i
quotidiani non scrivano in quei giorni: oltre
ai problemi dell’immigrazione, il dossier
Lactalis-Parmalat e la sistemazione di
Mario Draghi ai vertici della Bce, il premier
italiano deve anche far accettare al
presidente francese una dilazione degli
investimenti francesi nel nucleare italiano.
Berlusconi e Gheddafi, insieme in occasione della giornata di
Per questo il Cavaliere decide di
amicizia italo-libica
presentarsi al summit con almeno una
carta vincente che riguarda la Libia e che
gli permetta di non soccombere proprio su tutta la linea. Sceglie di rendere pubblica una decisione già
presa alcuni giorni prima, e per ragioni che poco hanno a che vedere con la Francia. Il 25 aprile, dalla
propria residenza sarda di Villa Certosa, il presidente del Consiglio chiede a Palazzo Chigi di diramare
un comunicato ufficiale: “L’Italia ha deciso di aumentare la flessibilità operativa dei propri velivoli con
azioni mirate contro obiettivi militari sul territorio libico”. L’aeronautica militare, sino ad allora impegnata
a oscurare i radar, è stata autorizzata a fare fuoco con i missili. E’ uno scarto decisivo che ha deviato la
politica estera sino a quel momento impegnata a mantenere un atteggiamento di cautela condiviso
anche dalla Germania. Berlusconi sa bene di scatenare il mare già agitato dei rapporti con la Lega, sa
pure che il passato coloniale italiano suggerirebbe una maggiore flemma, così come è avvertito della
cogenza del trattato di amicizia da lui stesso stipulato con il colonnello libico. Eppure, è risultato
imbarazzante questo ondivago atteggiamento decisionale del Cavaliere che sembra cedere troppo
facilmente alle pressioni di Frattini e La Russa.
Ricordate che appena dieci giorni prima Berlusconi aveva dichiarato che: “Gli alleati non possono
chiederci di più. L’Italia ha un passato coloniale e queste cose non possono ripetersi. Noi in Libia
abbiamo costruito, e fatto strade… Non possiamo certo andare a bombardare”. Perché quindi questo
improvvisa contraddizione?
Gli eventi decisivi si sono consumati tra il 19 e il 22 aprile. Prima con l’arrivo a Roma, protetto da un
corteo di macchine blindate, servizi segreti e teste di cuoio dei carabinieri, diMustafa Abdul Jalil. Il capo
dei ribelli libici, già ministro della Giustizia di Gheddafi, sigla un accordo verbale con Berlusconi
(presente l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni). “Siamo i migliori amici dell’Italia”. Un patto
favorito dai buoni uffici dell’Amministrazione americana (ritornata in buoni rapporti con l’Eni anche per
l’indicazione – il precedente 4 aprile – di Giuseppe Recchi, ex manager di General Electric, alla
presidenza dell’Ente idrocarburi). Il suggello lo ha messo, due giorni dopo, il 22 aprile, il senatore John
Kerry incontrando Berlusconi. Ma è necessaria una premessa, perché tra il 19 e il 22 aprile è il Cav. a
essersi convinto, per ultimo, a imprimere un’accelerazione nell’impegno militare. La trama che fa
convergere su posizioni interventiste un ampio spettro dell’entourage berlusconiano e del sistema
economico, diventato poi determinante nel premere sul presidente del Consiglio, è invece più
complessa.
Nei giorni immediatamente successivi all’approvazione della risoluzione 1973 dell’Onu, il sistema
berlusconiano è diviso sull’atteggiamento da adottare, ma prevale la linea di cautela che Berlusconi
condivide con Gianni Letta e con l’Eni (ma non solo), preoccupati per gli ingenti investimenti: 4 miliardi di
euro in commesse italiane. Letta e Scaroni sono per una posizione attendista e cauta, la guerra è contro
gli interessi nazionali. Nelle settimane precedenti i servizi segreti avevano avvertito della concomitanza
di due potenziali grane: una rivolta borghese in Libia e un tentativo di colpo di stato da parte di un gruppo
di ex gheddafiani a Bengasi. Due movimenti paralleli che, secondo i servizi coordinati da Gianni De
Gennaro, stavano per saldarsi in una sommossa alla quale la Francia (e forse anche l’Inghilterra) non
erano del tutto estranee. Ma si ritiene, in quei giorni, che Gheddafi (forte di 26 mila uomini) fosse in
grado di resistere. Frattini e La Russa – da subito – al contrario di Letta si fanno portavoce del più
schietto interventismo.
La notte del 17 marzo Berlusconi, presente Letta, riceve a Palazzo Chigi il ministro La Russa e i più alti
gradi delle Forze armate. Nel corso della riunione emergono le pressioni che l’Aeronautica militare
comincia a praticare su La Russa. Ogni intervento internazionale significa investimenti,
ammodernamento delle dotazioni, nuove commesse militari per il blocco dell’industria bellica.Tuttavia il
posizionamento dell’asse Frattini-La Russa non sarebbe stato mai capace di condizionare – da solo –
le decisioni di Berlusconi che infatti, nei giorni seguenti all’approvazione della risoluzione Onu 1973, dà
il via libera a una trattativa segreta, utilizzando il ministro degli esteri gheddafiano Musa Kusa (da anni in
contatto con i servizi italiani), per spiazzare gli anglo-francesi (il primo attacco missilistico di Parigi è del
19 marzo) e ottenere una uscita di scena pilotata del colonnello Gheddafi. Un complesso negoziato –
poi fallito – condotto con l’attiva collaborazione del vicario apostolico a Tripoli, monsignor Giovanni
Innocenzo Martinelli.
Quando, agli inizi di aprile, in seguito a intensi contatti con l’America (tra cui un viaggio
dell’amministratore delegato dell’Eni) anche Letta e Scaroni si sono persuasi che Gheddafi non
avrebbe mai vinto e che gli Stati Uniti – in cambio di un gesto di lealtà – si sarebbero fatti garanti degli
interessi italiani di fronte all’arrembanza anglo-francese: sono gli stessi giorni in cui anche il ruolo di
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I veri motivi per cui l’Italia oggi bomb…
Giorgio Napolitano diventa centrale. Ieri Frattini ha spiegato che Gheddafi potrebbe essere sconfitto
entro le prossime tre-quattro settimane. Mentre il 15 maggio prossimo il dittatore rischia di essere
incriminato dalla Corte penale internazionale.
Alle 08:00 di giovedì 31 marzo, la Nato ha completato le operazioni di trasferimento del comando. La
“coalizione dei volenterosi”, da cui l’America desiderava sfilarsi (considerando la Libia un obiettivo
secondario), cede su richiesta formale dell’Italia il comando all’organismo atlantico. E’ un passaggio
fondamentale per l’Italia, la cui diplomazia, su input del governo e in accordo con l’Amministrazione
americana, ha stipulato un accordo implicito con Francia e Inghilterra. Gli anglo-francesi accettano di
non guidare le operazioni, di diluirsi in un comando condiviso, di fare entrare l’Italia nella “partita” pur da
una posizione defilata. Ma con una clausola: il disimpegno italiano dev’essere a termine. Se i negoziati
segreti che l’Italia continuava a tessere – con crescente scetticismo anche di Berlusconi – per la resa di
Gheddafi non avessero funzionato, il governo avrebbe dovuto poi partecipare attivamente alla missione
militare. In realtà l’intenzione italiana – forse del Cavaliere – era quella di non dare nessun seguito a
questi “accordi impliciti”, ma di approfittare dell’occasione per prendere tempo mantenendosi
cautamente in equilibrio con una posizione giustificata da ragioni storiche, dal pragmatismo, dagli
accordi interni con la Lega e anche dai rapporti con la chiesa cattolica. Ma in realtà la capacità
persuasiva degli americani, che si erano fatti garanti di fronte a Francia e Inghilterra della posizione
italiana, è risultata in seguito più efficace del previsto. Il dossier Libia è risultato decisivo per completare
la fase di distensione energetica tra Roma e Washington.
Se nel 2010 l’Amministrazione americana aveva sollevato dubbi sugli stretti legami fra Eni e i russi di
Gazprom, adesso la situazione sembra essere cambiata anche per la possibile convergenza fra i
progetti di oleodotti caucasici Southstream e Nabucco, un tempo considerati alternativi. E’ da ottobre che
Scaroni muove le proprie pedine, ma è stato con la nomina a presidente dell’Eni dell’americanista
Giuseppe Recchi (formalizzata ieri dal cda), e poi adesso con i contatti multipli sul dossier libico, che
l’operazione di riavvicinamento agli Usa è stata completata “con uno scambio favorevolissimo”, e
comunque vada a finire, la concessione trentennale dell’Eni in Libia sarà rispettata.
Vincenzo Branca
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Moro e Impastato, vittime dello stess…
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Moro e Impastato, vittime dello stesso Potere
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MARTEDÌ, 10 MAGGIO 2011 23:17
NESSUN COMMENTO
Ieri, 9 Maggio. Il 9 Maggio è una data
cruciale nella storia contemporanea della
nostra Italia, una data di cui tanto si è
sentito, e di cui ancora a lungo sentiremo
parlare. È il giorno dei misteri e delle bugie,
il 9 Maggio, delle morti ingiuste e dei
segreti, della rabbia e dei perché. Oggi, il 9
Maggio è ufficialmente data consacrata al
ricordo delle vittime del terrorismo. Ma
sembra ieri – e nel sentire collettivo, in
fondo, davvero poco tempo sembra
passato – quando quel 9 Maggio 1978
veniva ritrovato, nel bagagliaio di una
Renault rossa a Roma, in via Caetani,
simbolicamente a metà s trada tra le sedi
della Democrazia Cristiana e del Partito
Aldo Moro e Peppino Impastato, simboli della lotta al Potere e
Comunista, il corpo senza vita di Aldo Moro,
vittime degli anni di Piombo
grande statista e leader, come diremmo
oggi in un’accezione moderna, del partito
democristiano, nonché simbolo quasi intramontabile (fino a quel fatidico 9 Maggio) della Prima
Repubblica. Ma a morire, quel 9 Maggio non è solo Aldo Moro. Un altro fatto di cronaca getta la sua
ombra insanguinata su quello stesso, maledetto 9 Maggio 1978, passando tuttavia quasi inosservato:
la morte di Peppino Impastato, giornalista e attivista politico impegnato nella lotta e nella denuncia dei
suoi compaesani – e parenti – mafiosi, con cui da sempre viveva a stretto contatto, quasi a braccetto, di
quei molesti dirimpettai, suoi vicini di casa – i famosi 100 passi che separavano l’abitazione di Peppino
Impastato da quella di un altro personaggio, purtroppo altrettanto noto, Don Tano Badalamenti, “Tano
Seduto”, come soleva sbeffeggiarlo Peppino nel suo “Onda Pazza a Mafiopoli” su Radio Aut. Una
vicinanza fisica che, piuttosto che spingere Peppino Impastato all’indifferenza dovuta all’abitudine, come
fa chi alla fine non sente più la puzza del lerciume in cui è costretto a vivere, al contrario ne aumentò il
disgusto, l’indignazione, il coraggio e la voglia di combattere per la pulizia, fisica e morale, del proprio
paese, Cinisi, della propria terra, la Sicilia, e della propria patria, l’Italia.
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Il 9 Maggio 1978 morivano due simboli della nostra storia. Anni bui, quegli anni Settanta. Anni di piombo,
come furono chiamati poi, forse perché furono pesanti, pesanti come il piombo delle pistole che
venivano usate per gli attentati. Pesanti come le bombe che mietevano morti innocenti. Pesanti come la
paura, la diffidenza, quel terrore strategico che si spargeva come nebbia. Pesanti come solo gli ideali,
talvolta, possono essere. Passati alla storia come gli anni delle Brigate Rosse, furono in realtà gli anni
degli estremismi politici di ogni colore: i movimenti sessantottini, dissipatisi, si erano lasciati dietro una
scia incerta, che all’ingresso negli anni ’70 si disperse in varie diramazioni, colorandosi di ideologie
politiche che prima non le appartenevano; quel grande flusso di “rivoluzionari”, operai e studenti che
lottavano indiscriminatamente contro la guerra in Vietnam e l’egemonia capitalistica degli States, e
contro la dittatura comunista dell’URSS e l’oppressione dei regimi stalinisti, quell’immenso fiume che
era stato il Sessantotto, si smembrò in piccoli defluenti, di minore larghezza ma di maggiore irruenza,
che acquisirono, come l’acqua corrode le rocce e si arricchisce di minerali, i colori politici dei letti in cui
si trovavano a scorrere. In Italia, più che nel resto del mondo, la scia del ’68 lasciò solchi profondi, aridi,
violenti come lo sono solo i ciechi estremismi, neri come la cronaca degli omicidi, rossi come il sangue
versato. Gli anni di Piombo furono gli anni degli estremismi che uccidono; delle Brigate Rosse che
giustiziarono Aldo Moro, ma anche Walter Tobagi, gli anni delle stragi di innocenti, quella neofascista di
Bologna, quella (presunta) anarchica di Piazza Fontana. Così li ricordano gli storici, quei fatali anni
Settanta.
Eppure, a leggere la cronaca degli anni successivi, pare quasi che gli storici si siano sbagliati, facendo
coincidere gli anni di piombo con un lasso temporale tanto ristretto: anni di piombo, anni pesanti furono
anche quelli degli omicidi di mafia, Peppino Impastato prima, ma anche, nei primi anni Ottanta, Carlo
Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici e Franco Imposimato, fino ad arrivare ai gloriosi anni ’90, alle
stragi di Capaci e via D’Amelio. Falcone, Borsellino, Chinnici; Dalla Chiesa, Imposimato, Impastato,
Moro. Tutti nomi silenziosamente legati da un unico filo che percorse quegli anni ’70, e ancora oltre fece
sentire la sua presenza. A ben vedere, pare che gli anni di Piombo non siano mai finiti. Perché, se è vero
che il Sessantotto fu una lotta proletaria per l’emancipazione delle masse da qualunque tipo e forma di
potere autoritario, che fosse capitale o dittatura (comunista), allora fu, implicitamente, anche quel
movimento politico che portò alla nascita di quei nuovi ideali, che poco dopo spianarono,
ideologicamente parlando, la lotta alla criminalità organizzata, a quel potere ugualmente autoritario,
parallelo (ma forse meglio organizzato) a quello dello Stato, e in qualche modo – in molti modi – ad
esso sottilmente legato.
Quella lotta alla mafia che fece altrettante vittime dei terroristi. Anni di piombo quelli del terrorismo
estremista, anni di piombo quelli del terrorismo di stampo mafioso. La storia fluisce continuamente
dentro e oltre se stessa, e non bastano le definizioni degli storici che tentano di creare un ordine logico
laddove non può esserci che un significativo caos, a separare gli avvenimenti tra loro, a cercare di
guardare alla storia come se fosse un insieme di piccole tessere di mosaico, anziché un’unica, grande
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Moro e Impastato, vittime dello stess…
pennellata tracciata sulla tela con diverse sfumature. Alcuni storici considerano gli anni ’70 come
un’occasione mancata: i cambiamenti sociali seguiti al boom industriale e culturale, a sua volta
conseguenza della ripresa economica del Dopoguerra, avrebbero potuto dare l’avvio a un processo
evolutivo in cui si sarebbero potute sfruttare le nuove energie politiche e culturali per risolvere gli annosi
problemi della giovane Repubblica: la questione meridionale e la problematica della criminalità
organizzata, per esempio. Invece, furono anni di violenza. Violenza dilagante, attacco ideologico “al cuore
dello Stato”, anime allo sbando. Perdita (senza rimpiazzo) dei valori tradizionali. Un processo che, al
contrario di quanto si sarebbe sperato, aprì piuttosto la strada a una involuzione socio-politica: la
scoperta della P2, la degradante corruzione politica e morale, gli abusi di potere che infine suppurarono
nello scandalo di Tangentopoli.
Gli anni di piombo non sono davvero mai finiti. Anzi, a dirla tutta forse sono iniziati molto prima di quanto
affermano gli storici: negli oscuri giochi di potere consumatisi all’ombra del lungo, prospero e
apparentemente calmo dominio della Democrazia Cristiana, già esistevano in nuce tutti i presupposti
che avrebbero condotto alla situazione politica successiva, agli anni di piombo e al terrorismo, agli
omicidi di mafia e al sequestro di Aldo Moro, che, dopo più di 30 anni, cela ancora il mistero della sua
morte. Già. Perché Aldo Moro non fu liberato? Perché la DC non trattò con le BR, come avrebbe fatto solo
due anni dopo, dinanzi al rapimento di Ciro Cirillo, responsabile amministrativo del post-terremoto in
Campania, chiedendo l’intercessione addirittura di Don Raffaele Cutolo? A muovere la mano dei killer
c’è stato sempre lo stesso, invisibile potere. Brigatisti e mafiosi, P2, Andreotti e Cossiga. Una sola
grande famiglia. Chi nelle vesti di burattino, chi di burattinaio, sono dettagli che non si conoscono con
precisione, né si conosceranno probabilmente; ma, oggi come ieri, Moro e Impastato, sono vittime dello
stesso potere, quel potere autoritario e semi-dittatoriale contro cui lottavano i sessantottini. E contro cui,
in maniere diverse, lottavano anche Moro e Impastato, entrambi uccisi per essere messi a tacere.
Impastato, perché denunciava gli illeciti mafiosi, Moro perché aveva palesato l’intenzione di aprire le
porte del Governo al PCI, mossa che, in piena guerra fredda, era vista di cattivo occhio sia dall’ex URSS,
che tutelava la purezza del proprio regime, sia dagli USA, che paventavano l’acquisizione di un certo
peso politico da parte dei comunisti. Che sia stato lo Stato, o la mafia, suo riflesso illecito e armato, ad
averli uccisi, non fa differenza. Perché tra Stato e mafia, la differenza era (ed è tuttora) poca. Tant’è vero
che chi fu coinvolto all’epoca nel caso Moro era molto più vicino a Cosa Nostra di quanto si creda. Lo
Stato ha anch’esso le sue armi per agire, usa altre braccia, molto spesso si nasconde dietro ideologie
faziose. Come quelle che impedirono al Governo di Andreotti di aprire le trattative con le BR per il rilascio
di Moro, imponendo la linea della fermezza contro quei comunisti terroristi, inconsapevoli attori di un
dramma ben più grande di loro. Moro e Impastato avrebbero potuto essere, insieme agli altri che in quel
periodo si batterono per lo sviluppo e la crescita culturale del nostro paese, gli uomini della svolta;
invece restano vittime, sacrificali e innocenti, di un potere oscuro e misterioso, che continua a tenerci al
giogo ancora oggi.
Giuliana Gugliotti
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La Mafiopoli di Peppino Impastato | L…
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La Mafiopoli di Peppino Impastato
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MARTEDÌ, 10 MAGGIO 2011 20:58
Attualità
NESSUN COMMENTO
Il problema della malavita organizzata esiste ancora, oggi più
Giuseppe Impastato, meglio conosciuto
come Peppino (Cinisi 5 Gennaio 1948 –
Cinisi 9 Maggio 1978), è stato giornalista,
conduttore
radiofonico,
politico
ma
soprattutto il simbolo dell’opposizione
all’omertà mafiosa. Nato in una famiglia di
origine mafiosa, il cui padre, Luigi, capo e
membro di un clan, lo allontanò di casa
poiché contrario alle ideologie del figlio,
Peppino Impastato è oggi un esempio di
coraggio, di libertà, di un paese migliore,
unito contro la malavita. A lui si deve la
prima manifestazione nazionale contro la
mafia della storia d’Italia, avvenuta un anno
dopo la sua morte, il 9 Maggio del 1979, che
vide la partecipazione di 2000 persone.
che mai: ma, come dimostra Peppino Impastato, è possibile
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Sin da piccolo fu un tenace attivista:
entrando a far parte del PSIUP si avvicina
alla vita politica, divenendo poi nel 1968 uno
dei dirigenti dei gruppi di Nuova Sinistra. Nel 1978 si candida come consigliere comunale nella lista di
Democrazia Proletaria, ottenendo simbolicamente la nomina dopo cinque giorni dalla morte. Peppino fa
sentire la sua voce attraverso il giornalino “L’idea socialista”, sequestrato dopo pochi anni: allora
Peppino decide di passare alla radio: nel 1977 fonda Radio Aut, emittente autofinanziata attraverso cui
continua a urlare i delitti, i loschi affari mafiosi di Cinisi e di Terrasini. Ogni venerdì viene trasmesso il
programma di satira “Onda pazza”, all’interno del quale Peppino sbeffeggia mafiosi e politici,
denunciando ogni forma di illegalità attraverso storie, lettere, con lo scopo di sminuire e ridicolizzare
“Don Tano seduto”, come apostrofa il boss mafioso di Cinisi, Gaetano Badalamenti, che fu mandante
del suo omicidio.
“spalare quella montagna di merda che è la Mafia”
Peppino muore all’età di 30 anni, prima percosso brutalmente, poi fatto esplodere con una carica di
tritolo che gli era stata legata al corpo. La sua unica colpa fu quella di aver parlato di ciò di cui non si
doveva parlare: Cosa Nostra. All’inizio sembrava che Cosa Nostra, la mafia, l’avesse vinta. Infatti,
immediatamente dopo il suo assassinio, avvenuto nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978 lungo la tratta
ferroviaria Cinisi.Palermo, la stampa, la magistratura e le forze dell’ordine pensarono a un atto
terroristico finito male per l’attentatore (si era negli anni di piombo). Poco dopo, forse per occultare il
crimine di stampo mafioso, si diffuse la notizia di un suicidio, notizia accreditata dal ritrovamento di una
lettera, in realtà risalente a molti mesi prima, in cui Peppino scriveva: “voglio ab b andonare la politica e
la vita”. Se ci si fosse fermati qui, probabilmente la verità non sarebbe mai venuta a galla. Ma Giovanni,
fratello di Peppino, e la madre Felicia Bartolotta conoscevano troppo bene Peppino per reputarlo capace
di un simile gesto: fu grazie alla loro costanza, e alla loro opera di denuncia, che le indagini
proseguirono, grazie anche al sostegno offerto alla famiglia Impastato dai compagni di Peppino: sulla
base di una cospicua documentazione, i familiari riuscirono a far riaprire il caso, archiviato per ben due
volte nel corso degli anni, nel 1984 e nel 1992, e la matrice mafiosa del delitto venne finalmente alla
luce.
Una battaglia giudiziaria che si è conclusa solo nel 2002, con l’arresto di Vito Palazzolo, condannato a
trent’anni di carcere, e l’ergastolo per Gaetano Badalamenti (morto a 80 anni il 30 Aprile 2004), già in
carcere per una condanna a quaranta cinque anni di reclusione per traffico di droga dalla Corte di New
York; per gli esecutori materiali dell’omicidio, Francesco Di Trapani e Nino Badalamenti non c’è stata
invece nessuna condanna: la morte ha provveduto a portarseli via prima. Alla fine, giustizia è stata fatta.
Ma, dopo più di vent’anni di lotta per la verità, si può ben parlare di colpevole, vergognoso ritardo. Oggi,
Peppino viene ricordato per il suo impegno contro la Mafia: a lui sono dedicate associazioni,
monumenti, canzoni e film. La stessa casa di Don Tano, posta appena a “100 passi” di distanza da
casa degli Impastato, dopo essere stata confiscata alla Mafia, oggi appartiene all’Associazione
Culturale Peppino Impastato e funge da centro culturale. “Un’occasione di rilancio e riscatto per la città di
Cinisi” come ha affermato Giovanni Impastato al momento della consegna delle chiavi, in cui tutti
speriamo vivamente.
Simona Esposito
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Sesso: tra astinenza e erotismo, donn…
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Sesso: tra astinenza e erotismo, donne e uomini a
confronto
Sezioni
Attualità
MARTEDÌ, 10 MAGGIO 2011 20:47
Cinema
NESSUN COMMENTO
“La differenza tra l’amore e il sesso è che il
sesso allevia le tensioni e l’amore le
provoca”.
Queste parole di Woody Allen riassumono
in breve l’argomento. Non è un caso che
siano state pronunciate da un uomo. I dati
parlano chiaro: il maschio pone gli
amplessi focosi sullo stesso livello del
cibo e del sonno. Secondo una ricerca
della Ohio State University di Mansfield,
l’uomo pensa al sesso diciotto volte al
giorno, più o meno ogni 158 secondi circa.
Ultimo ritrovato per rigenerare il corpo e rilassare la mente?
Una media ragionevole rispetto alle
Una sana notte di...sesso!
leggende metropolitane. Certo, lo studio ha
dimostrato anche che esistono uomini e
uomini, al pari delle donne. Nel corso dell’esperimento con un panel di controllo molto ampio, un uomo
è riuscito a pensare al sesso ben 388 volte in un giorno, ma questo non fa media. Le donne non sono
da meno. Dieci volte al giorno è un dato che attesta un netto miglioramento, da un punto di vista
psicofisico, rispetto alle constatazioni degli anni precedenti.
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Bando al romanticismo, oramai fuori moda. Il sesso è un’ottima soluzione per restare in forma,
distendere i pensieri con un rilassamento psicofisico notevole. Che sia occasionale o stabile, il corpo a
corpo è fondamentale. Ci sono periodi di astinenza forzata e non. I problemi fisici del partner o la fine di
una relazione amorosa portano periodi, più o meno lunghi, di astinenza. Non vi siete mai resi conto che
ve lo si può leggere sul viso e sul corpo? Ebbene sì. Eruzioni cutanee, nervosismo, insonnia,
arrossamenti della pelle, mal di testa e stati d’ansia sono solo alcuni dei sintomi per rendervi conto che
state arrivando al limite. Anche le fantasie erotiche notturne non vanno prese sotto gamba. Tranquilli,
dopo un rapporto sessuale completo tutto sparisce e vi sentirete rinati. Questa condizione riguarda sia
le donne sia gli uomini. Quest’ultimi difficilmente riescono a mascherare i loro pensieri diurni e notturni
viste le reazioni fisiche che ne derivano. Sicuramente la masturbazione aiuta entrambi a non patire
l’astinenza da contatto fisico.
Fondamentale, però, è ricordare di come l’uomo
prostata. Secondo alcuni studi, questo aiuta a
mantenere un’ottima qualità dello sperma. Gli
consigliano un orgasmo dalle tre alle quattro volte
più di uno al giorno. Per quanto concerne il gentil
alla salute, se non a quella mentale. Sempre più
trovano nel sesso una valvola di sfogo.
abbia bisogno di eiaculare per decongestionare la
ridurre l’incidenza del tumore prostatico, oltre a
esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità
la settimana e, per uomini con bassa fertilità, anche
sesso, il rapporto fisico non comporta grandi danni
frustrate ed insicure nella loro apparente sicurezza,
Ultima moda delle over trenta è l’astinenza creativa. Si basa sulla necessità di approcciare con il partner
con lentezza e senza sesso. A quanto risulta, i baci sono l’unico contatto concesso. La filosofia di David
Jay non deriva da credenze religiose di alcun genere, bensì dal totale disinteresse verso il rapporto
fisico. Nessuno si aggrega a questo gruppo di asessuati per delusioni passate o traumi. Qui la
contemplazione e la meditazione prendono il ruolo della passione e del contatto.
Roberta Santoro
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The Strokes – Angles | La rosa nera
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The Strokes – Angles
Sezioni
MARTEDÌ, 10 MAGGIO 2011 20:47
Attualità
NESSUN COMMENTO
Amateli. Odiateli pure. Ma gli Strokes non
riesco proprio ad essere indifferenti alle
orecchie.
Dopo la bellezza di cinque anni dal
precedente First Impressions Of Earth ecco
il loro nuovo lavoro, Angles, che punta a
zittire critiche e voci su un presunto
scioglimento del quintetto newyorkese.
Angles apre le danze con Machu Picchu,
ossia il funk che presta il fianco al rock e
all’elettronica.
La voce di Casablancas appare più filtrata
e molto meno distorta, e in generale in tutto
il disco si sentiranno spesso questi
arrangiamenti decisamente “eighties”.
Segue a ruota il singolone Under Cover Of
Darkness, dal ritornello da stadio e dalle
chitarre acide e come solito impastate
egregiamente da Hammond Jr. e Nick
L'evocativa copertina di Angles, nuovo lavoro degli Strokes, a
Valensi, ciò che nel disco più si avvicina al
dispetto delle voci di uno scioglimento del gruppo
precedente lavoro come atmosfere e
arrangiamenti.
Two Kind Of Happiness ci rituffa negli anni ‘80, un pezzo con parecchi tempi doppiati alla batteria ed in
generale molto energico, ma personalmente con poca personalità.
You’re So Right farà storcese il naso a molti fan della prima ora, un riff assillante e una voce principale
che va a braccetto con effetti degni di tastiera Casio, insomma una canzone che non avrebbe sfigurato
nel disco solista di Casablancas.
Taken For A Fool ci riporta nelle giuste atmosfere. Ritmi dritti e secchi, con echi lontani di Jam e
Pavement, ciò che in fondo ci piace e ci piacerà ancora sentire dagli Strokes, diciamoci la verità.
Games ci ricorda ciò che è il concept di questo disco, ossia melodie ‘70 e ‘80 riarrangiate per una guitar
band. Sicuramente non un pezzo memorabile, ma tant’è.
Call Me Back apre con un pizzicato di chitarra che strizza l’occhio ai bravi e fortunati Little Joy, ossia il
progetto solista del batterista brasiliano Fabrizio Moretti.
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Personalmente il pezzo che mi ha divertito di più è questa Gratisfaction, una ventata d’aria fresca dopo
tastierine e voci computerizzate. Un pezzo alla Thin Lizzy e con una spruzzata di Glam Rock londinese,
con chitarre efficaci ed un ritornello davvero “pub style”, uno dei picchi dell’album.
Metab olism attacca con un ritmo sinistro ed incalzante, riuscendo a tenere ben attaccate le cuffie alle
orecchie, ma senza mai aprirsi del tutto.
Life Is Simple In The Moonlight chiuderebbe benissimo il precedente Room On Fire, ma potrebbe
essere senza fare fatica il prossimo singolone-scala-classifiche, con quel suo ritornello non banale ma
allo stesso tempo fruibile dagli ascoltatori più disparati.
Insomma, con i suoi dieci pezzi ed una compatezza generale Angles potrebbe passare come un album
di medio livello. Ciò che ovviamente fa la differenza è la personalità di un gruppo come gli Strokes, che
sapientemente mettono lo zampino e svolgono il “compitino”.
Una sorta di album/mantra contro malelingue e voci ormai incalzanti di “separazioni consensuali” verso i
proprio progetti solisti.
Poca ispirazione ma pezzi ben arrangiati e figli di esperienza ormai consolidata, sperando che il
prossimo lavoro ci stupisca più per altro che per una tastierina anni ‘80 in più o in meno.
E sperando che non passino altri cinque anni!
Marco Della Gatta
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Kill Bin Laden, dalla realtà al cinema | …
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Kill Bin Laden, dalla realtà al cinema
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MARTEDÌ, 10 MAGGIO 2011 16:49
Attualità
NESSUN COMMENTO
Una ricerca durata anni tra le montagne del
Pakistan e l’Afghanistan, una missione
complicata dall’incidente di un elicottero
Black Hawk, e infine l’uccisione del
terrorista più temuto al mondo e la sua
misteriosa sepoltura. La morte di Osama
Bin Laden, così carica di avventura, sangue
e segretezza, è lo spunto perfetto per un
action movie in piena regola. Di azioni
simili al superblitz dei Navy Seal ne è già
pieno il cinema, ma di fronte a questo
condensato “reale” di spettacolarità e
azione, Hollywood è rimasta spiazzata,
costretta stavolta ad inseguire l’attualità
invece che anticiparla come una macchina
dei sogni che si rispetti dovrebbe fare. Ma è
pronta a recuperare.
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Adesso che l’ex uomo più ricercato al
mondo è stato fatto fuori, c’è chi ha già
La regista Premio Oscar Kathryn Bigelow sarà la prima a
messo il piede sull’acceleratore per
portare sullo schermo la caccia al terrorista Osama Bin Laden
portarne sullo schermo la rocambolesca
cattura. Del resto, chi non si sarebbe
aspettato un istant movie sull’operazione che ha portato all’uccisione del nemico americano numero
uno? Profetica e veggente come Cassandra, Kathryn Bigelow è stata la prima ad averci preso, ma non
abbastanza in tempo. Segnando un vero e proprio record nei tempi di reazione di Hollywood, la regista
australiana – prima donna a vincere il Premio Oscar nel 2010 per il suo crudo e adrenalinico ritratto dei
soldati in Iraq, The Hurt Locker - ad un film su Bin Laden aveva iniziato a lavorarci già da dicembre,
assieme allo sceneggiatore ed ex giornalista Mark Boal. Titolo provvisorio: Kill Bin Laden. A dispetto di
quanto il nome lasci immaginare, l’intenzione dei due autori era di realizzare un thriller semidocumentaristico sul tentativo fallito di assassinare lo sceicco del terrore, con un focus sulle dinamiche
emotive all’interno del gruppo impegnato nella missione. Il film avrebbe dovuto concludersi con la fuga
di Bin Laden, ma i recenti avvenimenti hanno cambiato le carte in tavola e spinto la regista a tornare sui
suoi passi e a modificare lo script, nel tentativo di adeguare la finzione alla realtà. La premiata coppia
Boal & Bigelow pare infatti intenzionata a riscrivere un copione già pronto aggiungendo i dettagli reali
dell’operazione, come i 40 minuti dello scontro a fuoco che ha messo la parola fine sulla vita del leone
jihadista. I tempi per aggiustare il tiro della sceneggiatura stringono inesorabilmente in vista delle
riprese che potrebbero iniziare addirittura già a giugno, o comunque non appena saranno individuate le
location più adeguate. Si vocifera che il set sarà in Afghanistan. Una scelta che desterebbe non poche
perplessità in merito ai possibili pericoli per la sicurezza della troupe.
In ogni caso, l’occasione è di quelle da non perdere, vista la risonanza mediatica che la scomparsa di
Bin Laden ha suscitato in tutto il mondo. E ad Hollywood il solo pensiero di portarla sullo schermo fa
fremere più di un produttore. In pole position c’è il rispolvero di un film targato Paramount fermo dal
2006, Jawb reaker tratto dall’omonimo romanzo di Garty Bernsten, un agente della CIA che partecipò alla
fallimentare missione militare del 2001 sulle montagne di Tora Bora per eliminare la mente
dell’attentato alle Torri Gemelle, a cui pare fosse interessato anche Oliver Stone. Ma il libro per cui si
scatenerà una corsa ai diritti cinematografici sarà Seal Team Six – Memoirs Of An Elite Navy Seal
Sniper, uno sguardo dall’interno sul commando che ha braccato e ucciso il ricercato numero uno al
mondo. Insomma, tanta carne a cuocere che nel peggiore delle ipotesi potrebbe indurre la Bigelow a
rinunciare del tutto al suo progetto, a questo punto un po’ troppo inflazionato.
A onor del vero, Bin Laden e le sue gesta terroriste sono il pretesto cinematografico più usato negli
ultimi dieci anni di film dedicati alle guerre in Afghanistan e Iraq e più in generale sul terrorismo
internazionale. Basti citare ai film incentrati sulla tragedia dell’11 settembre, come United 93 di Paul
Greengrass o World Trade Center di Oliver Stone; o quelli in cui Bin Laden era sullo sfondo come Leoni
per Agnelli di Robert Redford, il docu-film di Michael Moore, Fahrenheit 9/11 e La 25ª ora di Spike Lee in
cui il protagonista, lo spacciatore Monty Brogan, nel suo lungo monologo allo specchio impreca contro il
terrorista: “In c**o a Osama Bin Laden, ad Al Qaeda e a quei cavernicoli retrogradi dei fondamentalisti di
tutto il mondo. In nome delle migliaia di innocenti assassinati vi auguro di passare il resto dell’eternità
con le vostre settantadue puttane ad arrostire a fuoco lento all’inferno”. Parole dure, ma che danno il
senso di quello che l’America ha provato per questo supercattivo, ormai sconfitto.
Enrica Raia
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Chiaiano: sequestrata una parte della …
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Chiaiano: sequestrata una parte della discarica
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MARTEDÌ, 10 MAGGIO 2011 20:46
Attualità
NESSUN COMMENTO
A Napoli, si sa, la monnezza è ormai un po’
ovunque. Come la camorra e il clan dei
Casalesi.
La storica famiglia camorristica campana,
pur avendo subito negli ultimi mesi notevoli
perdite a causa degli arresti di molti dei
suoi
affiliati,
appare
sempre
più
un’organizzazione dagli ingranaggi ben
oliati, che riesce a rafforzare costantemente
le sue fila, al punto che potrebbe aver
“allungato le mani” anche sulla discarica di
Chiaiano.
Pochi giorni fa, infatti, ad opera dei
L'interno della cava di Chiaiano, parzialmente sequestrata in
carabinieri del gruppo Tutela dell’Ambiente,
seguito a una sospetta infiltrazione camorristica
è avvenuto il sequestro di una parte della
discarica napoletana – che, ab originem,
era stata “pensata” come la discarica più sicura dell’emergenza e dell’Europa tutta – a causa di
presunte infiltrazioni camorristiche nella realizzazione del sito. Circa 266 mq, finora liberamente utilizzati
per sversare i rifiuti cittadini, sarebbero stati trattati con materiali scadenti e, dunque, non sarebbe
possibile scongiurare del tutto la minaccia di inquinamento delle falde acquifere.
Sono stati perquisiti anche alcuni laboratori di analisi, cui erano state affidate le valutazioni relative al
terreno della attuale discarica prima che vi fosse sparsa l’argilla: gli investigatori temono, infatti, che i
rilevamenti e i risultati degli stessi possano essere stati falsificati, pertanto le indagini attuali mirano a
stabilirne la veridicità e ad esaminare i criteri in base ai quali sono stati effettuati.
Attualmente sono sotto accusa due società, la Ibi e la Edil Car (rispettivamente la vincitrice e la
subappaltatrice dell’appalto per la realizzazione del sito), per le quali si prospettano i reati di
associazione per delinquere finalizzata alla frode in pubbliche forniture, traffico illecito di rifiuti e
smaltimento non autorizzato di rifiuti, con l’aggravante di avere agito per agevolare clan camorristici.
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Da molti mesi i cittadini di Chiaiano e il comitato antidiscarica si dichiarano preoccupati per la situazione
in cui versa il sito che avvelena il loro territorio; già nel mese di marzo, dopo gli undici avvisi di garanzia
inviati ai dirigenti delle suddette aziende appaltatrici, Antonio Musella ed Egidio Giordano – portavoce dei
comitati e della Rete Commons – dichiaravano: “Lo Stato per poter aprire la discarica di Chiaiano è
sceso a patti con i poteri criminali, e questa inchiesta è la riprova delle denunce da noi fatte in questi
anni. Siamo davanti ad un disastro che viene fuori con grande ritardo. Bisogna mettere una parola fine
alla vicenda di Chiaiano ed adoperarsi da sub ito per la b onifica dell’intera zona. È assurdo che la
magistratura non ab b ia sequestrato la discarica: è come sostenere che un palazzo sia costruito con
materiale scadente, ed una volta accertato il fatto si lasci costruire lo stesso senza scongiurare un
disastro ulteriore”. Verrebbe da dire: oltre al danno, la beffa. Si, perché, mentre i cittadini manifestavano
pubblicamente le loro preoccupazioni, quante altre tonnellate di monnezza sono state ammassate in
una discarica non sicura per la popolazione?
La richiesta dei comitati è stata evidentemente accolta in netto ritardo e solo in parte, dato che il
sequestro di una porzione del sito non blocca l’accesso dei camion per lo sversamento, ma impedisce
soltanto di raggiungere la zona della discarica dove i rifiuti vengono ammassati in altezza.
Intanto, la situazione in città continua a peggiorare: sono oltre 300 le tonnellate di spazzatura
abbandonate in strada e, mentre la rabbia e il panico serpeggiano tra i cittadini indignati, tornano in voga
i roghi, le promesse mirabolanti dei politici e le delegazioni dell’esercito italiano. Il sequestro a Chiaiano
rischia di aggravare ulteriormente l’emergenza e, soprattutto, di rappresentare una ulteriore sconfitta per
la salute della Campania e dei suoi cittadini.
Sara Di Somma
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