L`avanguardia delle scrittrici italiane cent`anni fa

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L`avanguardia delle scrittrici italiane cent`anni fa
L’avanguardia
delle scrittrici italiane
cent’anni fa
di Antonino Ronco
LETTERATURA
Piero Bargellini, nel suo Pian dei giullari - Panorama storico
della letteratura italiana, colloca la nascita del nostro Novecento
letterario tre anni dopo l’inizio del Secolo XX, cioè nel 1903.
Il via a questo periodo sarebbe stato dato, secondo lo scrittore
fiorentino, dalla nascita di tre riviste: Il Leonardo di Giovanni
Papini, La Critica di Benedetto Croce e Il Regno di Enrico
Corradini, apparse, nell’ordine, in quello stesso anno.
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LETTERATURA
Da sinistra a destra
e dall’alto in basso:
Vittoria Aganoor,
Gualberta Alaide Beccari,
Luisa Anzoletti,
Sofia Bisi Albini.
Alle pagine precedenti
Alcune copertine
della rivista mensile
del “Corriere della Sera”
del 1911, del 1915
e del 1922.
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P
er una interessante, fortunata coincidenza, sempre nel 1903 comparve l’ottavo numero dell’Almanacco italiano - Piccola enciclopedia popolare della vita pratica, dell’editore fiorentino Bemporad, in cui sotto il titolo “Scrittrici italiane viventi” venivano presentati (da Mara Antelling, scrittrice anche lei) venti medaglioni di donne attive nel campo della letteratura: un plotoncino d’avanguardia del vasto movimento femminile che in quegli anni si andava delineando e che avrebbe travolto come fuscelli le barriere levate intorno alla donna intellettuale e all’ambiguo mito di Saffo.
Le autrici che l’Almanacco, non certo in veste di critico letterario, portava alla ribalta, non
erano all’esordio: tutte avevano già eluso le casalinghe, antiche pastoie; altre impegnate come madri, come spose, come figlie, attendevano di rompere la bolla di vecchio cristallo che
imprigionava lo splendore di immagini nuove, il palpito di sentimenti inespressi, di aspirazioni profonde, il cui rivelarsi avrebbe dato il via al “Secolo delle donne”, realizzando
prima ancora che in altri campi la “par conditio”.
La galleria di ritratti offerta dall’Almanacco 1903, non a caso firmata da una donna, comprendeva in ordine alfabetico, venti nomi: Vittoria Aganoor, veneziana; Luisa Anzoletti,
trentina; Gualberta Alaide Beccari, padovana; Sofia Bisi Albini, milanese; Rachele Botti Binda di Cremona; Maria Alinda Bonacci Brunamonti di Perugia; Grazia Deledda di Nuoro;
Luigi di San Giusto (Luigia Macina Gervasio), triestina; Donna Paola (Paola Baronchelli
Grosson) di Bergamo ; Febea (Olga Lodi Ossani) napoletana; Gemma Ferruggia, milane-
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se; Fulvia (Rachele Fulvia Saporiti) di Nesso; Antonietta Giacomelli di Treviso; Jolanda
(Marchesa Maria Plattis Maiocchi) di Cento; Marchesa Colombi (Maria Antonietta Torriani) di Novara; Neera (Anna Radius Zuccari) milanese; Maria Pezzé Pascolato, veneziana; Regina di Luanto (Anna Guendalina Lipperini) fiorentina; Sfinge (Contessa Eugenia
Codronchi Argeli) di Imola; Térésah (Corinna Teresa Ubertis) di Frassineto. Stupisce alquanto l’assenza, in questo elenco, del nome di Matilde Serao, forse la scrittrice più nota
allora in Italia; un po’ meno di quelli di Annie Vivanti, l’amica del Carducci, della poetessa Ada Negri e, se vogliamo, della prolifica Carolina Invernizio.
I nomi e soprattutto gli pseudonimi di queste scrittrici rivelano timori, aspirazioni e ambizioni, giustificati dal retaggio romantico e dalla condizione femminile nell’Ottocento. Del
gruppo alla ribalta nei primi anni del secolo scorso ne presentiamo alcune, con particolare attenzione al giudizio dei contemporanei e alle circostanze del loro esordio.
Vittoria Aganoor, primo nome della nostra galleria di ritratti, ebbe un successo superiore a
quello di molte altre poetesse contemporanee, successo attribuibile in parte all’alto rango e
in parte alla qualificata guida dell’abate Giacomo Zanella. Vittoria Aganoor, di nobile famiglia armena, trapiantata a Venezia, era comunque una valente scrittrice e la sua prima raccolta di versi La leggenda eterna, entusiasmò il poeta e letterato Enrico Nencioni il quale scrisse: “Passione e forza distinguono i versi di questa poetessa. Ha ingegno virile e cuore di donna. Certe strofe dei suoi canti storici hanno accenti di energia singolare, mentre in alcune li-
Da sinistra a destra
e dall’alto in basso:
Grazia Deledda,
Gemma Ferruggia,
Luigi di San Giusto,
Fulvia.
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Da sinistra a destra
e dall’alto in basso:
Marchesa Colombi,
Regina di Luanto,
Neera.
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riche la nota della passione vibra sì acuta, dolorosa e intensa che subito vi riconosciamo la
donna”. Vittoria Aganoor dedicò la propria giovinezza alla madre anteponendo, in omaggio
alla morale corrente, il dovere filiale alla letteratura e si sposò tardi con il deputato Pompili
di Perugia. Brava e anche molto bella; chi la vide al funerale del suo amico poeta così la descrisse sul Marzocco : “ Si notava una dama di squisita eleganza, di nobile e leggiadra persona, dai neri occhi profondi, ardenti e soavi, religiosamente assorti”. La Aganoor è l’unica
poetessa di questo gruppo ad essere ricordata nella Enciclopedia letteraria edita da De Agostini nel 1979, dove è citata la sua Leggenda eterna , nonché nell’antologia Le scrittrici dell’Ottocento, curata da Francesca Sanvitale per l’Istituto Poligrafico dello Stato.
Anche il nome di Luisa Anzoletti, trentina, si incontra oggi solo nelle biblioteche : a Genova,
nel catalogo della ‘Berio’ si trova l’ode Celebrando Genova il quarto centenario della scoperta
di Cristoforo Colombo , oltre ai testi di varie conferenze. In famiglia Luisa si trovò in un ambiente più incline alla musica, ritenuta allora più adatta ad una donna, ed a quell’arte intendevano avviarla i genitori, quando un fortuito incontro con la Vita Nova di Dante le aprì l’orizzonte della poesia. Ma passata quella infatuazione giovanile per il sommo poeta, Luisa Anzoletti divenne soprattuto una saggista come attestano le pietre miliari della sua produzione:
La fede nel soprannaturale e la sua efficacia sul progresso della società umana; La donna nel progresso cristiano, nonché il romanzo Gaetana Agnesi. Fu anche una apprezzata conferenziera
su argomenti scientifici e filosofici. Non le mancarono ammiratori come studiosa e come poe-
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tessa e Antonio Fogazzaro la definì:“Una delle più generose anime femminili creatrici di poesia che abbiamo in Italia... propugna verità eterne, per le quali ella milita con franchezza senza macchia e senza paura”.
Gualberta Alaide Beccari fu un’antesignana della emancipazione femminile. Unica sopravvissuta, nell’età infantile, ad una schiera di fratelli e sorelle, la sua famiglia, padovana, fu tra
quelle coinvolte nelle ultime vicende del processo unitario nazionale costringendo anche lei,
dopo il Sessantasei, a trasferirsi a Venezia. Qui fondò la rivista Donna, sulle cui pagine fecero le prime prove alcune delle scrittrici poi affermatesi in campo nazionale “felice di attrarre intorno a sé tanta operosità intellettuale femminile”. Da Venezia passò poi a Bologna dove continuò il suo impegno femminista. Immaginata, da chi non la conosceva, una donna virile, Gualberta Alaide Beccari era in realtà una figura fragile e gentile con una voce soave e
una gran massa di capelli neri che non soffrivano costrizioni di sorta, come la descrive una
biografa. Come autrice fu precocissima: a 12 anni scrisse Fidanzati senza saperlo e quindi una
quantità di racconti, saggi, poesie e lavori teatrali tra cui alcuni per fanciulli. Quando cominciarono a diffondersi le pubblicazioni femminili, il coro di voci facenti capo a Donne si
diradò, ma Gualberta Beccari proseguì la sua battaglia: a fermarla, con l’età, fu soltanto il dictat del suo medico che le vietò ogni occupazione.
La redattrice del medaglione di Sofia Bisi Albini ha incominciato il suo pezzo sull’Almanacco 1903 con questa frase: “Quando si conosce intimamente Sofia Bisi Albini, vien fatto di desiderare di assomigliarle e se si hanno figliole di aspirare a renderle somiglianti a lei”. Milanese, Sofia Albini iniziò a scrivere a 17 anni con lo pseudonimo di Donna Conny intraprendendo una carriera che la vide in primo piano sulle pagine di alcune delle più prestigiose pubblicazioni del suo tempo: da L’illustrazione italiana, a Nuova antologia, a Il Corriere della Sera. Tradusse il romanzo Incompreso di Miss Montgomery con bravura, degna di quella valente scrittrice. Pubblicò molte novelle e un romanzo, Il figlio di Grazia, che si reputava il suo
lavoro migliore. Fondò e diresse Rivista per Signorine e un giornaletto per bimbi. Ebbe per la
sua attività molti riconoscimenti, tra cui un premio quale miglior scrittrice della regione lombarda e apprezzamenti personali anche della Regina Margherita.
La personalità più eminente di questo gruppo è senz’altro Grazia Deledda. Parlare qui di
lei, in termini odierni, è certamente superfluo : oggi tutti conoscono il suo nome, vuoi per
aver letto i suoi libri, che a distanza di un secolo e più che mai - si può dire - sono in tutte
le librerie, vuoi per i film, gli sceneggiati apparsi sul grande come sul piccolo schermo, vuoi
per le pubblicazioni di suoi scritti nelle antologie scolastiche e la loro presenza nelle biblioteche. E’ forse più interessante dare un’occhiata alla posizione della scrittrice di Nuoro un secolo fa, quando, a 28 anni, aveva da poco intrapreso quella scalata alla fama che la
porterà, ventitrè anni dopo (1926) alla gloria del Nobel. Legata più alla tradizione della sua
isola che non al costume nazionale, Grazia Deledda seppe contemperare la sua vita familiare (non senza delusioni nell’età matura) con la sua attività di scrittrice, proseguendo da
autodidatta l’opera iniziata giovanissima, con slancio irresistibile, di umile interprete dell’epos sardo, con i suoi colori, le sue luci, le sue ombre, completando con gli anni un grandioso affresco “rupestre” in cui c’è tutta la sua terra, tutto il suo popolo, quadro per quadro, personaggio per personaggio, sino agli odori, ai sapori, ai costumi, non solo poeticamente vissuti ma “scolpiti nel marmo”. Vale a dire con una lingua tesa unicamente alla verità. Nel 1903, non ancora protetta dallo scudo della gloria, poteva accettare che la redattrice del popolare Almanacco a proposito dei suoi scritti dicesse “La forma non è sempre
impeccabile... ma che importa? Alla pura italianità, qualche volta, la sostituzione di una
forma quasi dialettale aggiunge una grandissima efficacia e concorre a rendere più efficace l’opera”. Quanti scrittori oggi sono dello stesso parere?
Singolare personaggio Gemma Ferruggia: “una personcina breve, minuscola, irrequieta, dalle mosse rapide di gattina elegante. Madame Rattazzi le scrive: Caro argento vivo...”. Erano
rare le conversazioni tra letterati e giornalisti, all’inizio del secolo scorso, in cui il suo nome
non venisse a galla. E la sua vita conferma questa immagine. Si mise in luce nella baraonda
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Illustrazione del
romanzo di Grazia
Deledda Marianna Sirca,
tratta dalla rivista
“La Lettura”.
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milanese, scrivendo in quaranta giorni Il cervello della donna , un libro commissionatole dall’editore Aliprandi. Per seguire il marito affrontò i rischi di un viaggio in Amazzonia,
in tempi da esploratori coraggiosi, esperienza da cui trasse
un libro, Nostra Signora del Mar dolce. Scrisse anche due romanzi, Fascino e Follie muliebri, nonché graziosi bozzetti in
cui dà prova di un brio incredibile. I suoi conoscenti letterati la ritenevano, oltre che una brava scrittrice “la più deliziosa delle conferenziere”.
“Tutte così queste care donne italiane: hanno un sacro orrore per tutto ciò che le trascina a mascolinizzarsi, e quando l’ingegno e lo studio le mettono in luce fuori dell’orbita domestica ci tengono a ripetere, come scusa per essere uscite dall’ambiente casalingo, “non sono una basbleu”. Questo scriveva Mara Antelling a proposito di Fulvia, cioè di Rachele Fulvia Saporiti (nativa di Nesso, sul
Lago di Como), considerazione che vale per quasi tutte le
letterate di allora. Ma se la modestia rendeva schiva la scrittrice e la teneva in disparte, il suo lavoro l’aveva già resa
nota e apprezzata. Aveva cominciato con novelle, bozzetti, articoli di varietà sulle riviste e i settimanali allora più
diffusi. Poi erano venuti i volumi di racconti : Per voi fanciulli, e Storielle serene e infine i romanzi Procelle dell’anima e Marco Delinas che ebbe notevole successo. Nel
1892, su Cultura, Ruggero Bonghi scrisse: “Nessuna donna, salvo forse Matilde Serao, ha mai esordito in Italia
come la signorina Saporiti” e sul Corriere della Sera, Sofia Bisi Albini: “La maniera tutta sua di scrivere con calore e colore, dà al cervello di chi legge come un’ebbrezza di ammirazione. L’arte serena e sentita di Fulvia porta alla luce tutte le miserie nascoste, con
una baldanza di stile che è come un grido di trionfo per esservi riuscita”.
Le strade che portano al successo sono infinite e spesso misteriose. Ecco come vi arrivò Maria Antonietta Torriani, di Novara, nota agli appassionati di letteratura nella seconda metà
dell’Ottocento come Marchesa Colombi. Si organizzò a Milano un ciclo di conferenze femminili cui intervennero parecchie letterate e alcune esordienti giovanissime; tra queste ultime la Torriani che, a compensare la mancanza di un nome noto, si presentò al pubblico “vestita di un abito rosa, con rose alla cintura e rose tra le mani: una visione poetica”. Non sappiamo se fu in quella occasione che la vide Eugenio Torelli-Viollier, uno di più famosi giornalisti di quel tempo, il quale la introdusse al Corriere della Sera e in seguito la sposò. Con il
nome di Marchesa Colombi, Maria Antonietta Torelli-Viollier collaborò assiduamente alle
appendici del Corriere e ad altre pubblicazioni. Il suo nome resta soprattutto legato ad alcuni romanzi tra cui In risaia e Gente per bene, una specie di galateo che fu il primo esempio
di quel genere di manuali. Venuta in disaccordo con il marito, si trasferì a Torino dove visse
da ricca signora dedicando alla letteratura soltanto le briciole del suo tempo.
Nel 1903 quando uscì sull’Almanacco la galleria di ritratti delle nostre scrittrici, Neera (Anna Radius Zuccari, milanese) era già nonna e sui suoi capelli corvini era scesa la neve. In compenso con quel forte carattere che aveva avuto in dono da madre natura aveva bravamente
superato i problemi che si era posta da piccola: “Sono brutta. La mamma mi sgrida sempre
ed io sono triste”. Allorché iniziò a scrivere con lo pseudonimo di Neera, brutta non era più:
portava la frangetta alla moda, aveva un bel viso intelligente, occhi vivaci e buoni. Hanno
scritto infatti di lei, allora, “Neera è la poetessa della bontà femminile e delle sventure femminili, anch’essa dipinge scene tristi ma non tetre perché traendo l’ideale dalla realtà vuol
dipingere la vita ed è per questo che i suoi intrecci non approdano mai ad una lieta conclu-
Gemma Ferruggia
in una foto del Civico
Archivio Fotografico
di Milano.
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sione. Ma il suo pessimismo è tutt’altro che sconfortante: spira da esso una virtù consolatrice che addita i rimedi della bontà, della pietà, nel sincero amore degli infelici”. Iniziò con la
cruda prosa di Il nido, dopo il quale venne via via acquistando sempre maggiore raffinatezza nel delineare con sapienti e delicate sfumature psicologiche le belle figure femminili che
furono i suoi soggetti preferiti. Ma la fortuna dei suoi romanzi non deriva dalle involute oscurità di certa prosa detta allora “moderna”, ma dalla sua naturale capacità di osservazione e di
introspezione. Neera inoltre non si è accontentata di letteratura di fantasia, ha saputo anche
sfruttare la sua straordinaria versatilità per affrontare problemi concreti, come in Dizionario
di igiene, scritto in collaborazione con il Mantegazza, cui seguirono Il libro di mio figlio, Battaglie per un’idea, e Anima sola, sapiente cesellatura di sentimenti. I suoi libri (alcuni dei
quali apprezzati anche da Benedetto Croce) furono tradotti in varie lingue e la sua biografa
così conclude il medaglione a lei dedicato nel 1903: “fine, deliziosa scrittrice che gli italiani
ammirano, gli stranieri esaltano e le lettrici adorano”. Neera continuò a scrivere sino al 1920.
Un’altra delle insolite strade per la gloria letteraria fu quella scelta da Regina di Luanto: il
mistero. La sua biografia, nell’Almanacco, comincia infatti così: “Nessuno ha mai potuto
svelare la personalità della donna che si nasconde sotto questo pseudonimo regale”. Qualcuno, ma senza convinzione, la voleva fiorentina, abitante a Pisa. Il “nessuno” di cent’anni
fa non vale ovviamente per noi oggi: sappiamo infatti che quell’appellativo, che sembra
uscito da una fiaba medievale, stava per Anna Guendalina Lipperini, di Bologna, andata
sposa al nobile fiorentino Roti. La sua prima opera (tutti i suoi libri, tranne due, sono stati scritti nell’Ottocento) Salamandra, fece molto rumore per l’arditezza di quell’esordio: un
libro in cui “tratteggiava figure poco comuni, ma soprattutto per la franchezza con cui venivano affrontati i temi dell’amore e del rapporto tra i sessi”. Oltre a Salamandra, nell’ultima decade dell’Ottocento Regina di Luanto scrisse Un martirio, Libera, La scuola di Linda, Agonizzanti, La servetta. “Acuta e penetrante, aggiungeva la collaboratrice dell’Almanacco, ama analizzare tutte le umane passioni, tutti i pervertimenti, senza curarsi degli strilli che strapperà a tutti i lettori timorati. Questo atteggiamento le schiera contro la critica
dei giornali capitanati da persone nemiche d’ogni principio d’ordinamento sociale diverso da quello fin qui accettato”.
Térésah (Corinna Teresa Ubertis, fiorentina), è l’ultima scrittrice di questa galleria. Ultima in
ordine alfabetico e ultima forse anche in base alla data di nascita. La collaboratrice dell’Almanacco che curò i venti profili si mostra infatti entusiasta di quella giovinezza in corsa, forse più che per le sue opere. Térésah, allora, aveva pubblicato poche cose: la sua fama come
scrittrice si reggeva sostanzialmente sul successo recente del breve romanzo Rigoletto, con
cui aveva vinto un concorso della Lettura (con 683 concorrenti e in veste di giudici Giacosa,
Rovetta e Novati). La sua biografa mostra di volerla incoraggiare e quasi accompagnare per
la strada intrapresa con i suoi voti e la sua simpatia. Scrive: “Quante (letterate) che si ritengono giunte alla meta, vorrebbero essere al punto (come bravura) da cui questa ha mosso i
primi passi, perché fulgida è l’alba della sua carriera e tutta rosa, intensamente rosa, e dorata dal primo raggio di sole che illuminerà il suo meriggio. Deliziosa figurina ideale che mette, vedendola, un sorriso sulle labbra anche più austere...”. Vien quasi da pensare che Mara
Antelling mostri per la giovane poetessa un interesse non solo giornalistico ma una affettuosa
amicizia. Térésah non deluse la sua ammiratrice: una diecina di anni dopo quel nome sbarazzino compariva regolarmente sulle prestigiose pagine della Lettura accanto a quelli di D’Annunzio, Pirandello e Grazia Deledda, raggiunta a sua volta dall’inquieta Amalia Guglielminetti: la bella Saffo torinese che con Le vergini folli, che nel 1907 mise a rumore i salotti torinesi, si candidò portabandiera dell’avanguardia femminile novecentista.
Con i tempi nuovi, segnati dalla lezione di Benedetto Croce su poesia e non poesia, il panorama letterario si fece più audace e anche la voce femminile più libera e sincera. Alle romantiche, alle crepuscolari, alle decadenti, si sostituì la leva armata di grazia, di civetteria, di sensualismo: una nuova galleria di scrittrici che poteva aprirsi oltre che con il nome della citata
Guglielminetti, con quelli di Ada Negri, Sibilla Aleramo, Annie Vivanti.
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