tesi di laurea sulle “Scenografie dei Rave”

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tesi di laurea sulle “Scenografie dei Rave”
Le Scenografie dei Rave
Il rave è una festa, ma non festa nel senso in cui la intendiamo oggi.
Lo spirito libertario che caratterizzava le feste del passato è stato spento dalla nostra disincantata cultura occidentale, per poi essere incanalato nelle pesanti leggi del mercato.
Il divertimento è stato istituzionalizzato, tramutato in merce di largo consumo per una società di massa.
Durante il Medioevo più di un terzo dell’anno era dedicato alle festività, momenti che rimanevano al di fuori del controllo dello
Stato.
Con la riforma del calendario lo Stato iniziò dunque ad impossessarsi di quegli avvenimenti che, durante il ciclo delle stagioni,
permettevano al popolo di esprimersi liberamente. Per dirla con le parole di Hakim Bey: “ Lo Stato cattura il tempo stesso, trasfor-
mando il cosmo organico in un universo ad orologeria. La morte della festività”.
Il rave risveglia la necessità della festa intesa come celebrazione collettiva, riconquista di sè ed unione con gli altri, manifesta
l’esigenza di una riappropriazione degli spazi, del tempo e della propria identità.
Il rave riporta in scena il bisogno di una danza priva di regole e di schemi, di una danza intesa come rito, delirio, celebrazione:
come il raggiungimento di uno stato di trance che consenta all’interiorità di fuoriuscire.
“La -vera festa- è una festa totale, senza limiti, sottintende l’idea di una trance.
E’ generalmente celebrata attraverso danze collettive che si concludono con trances e crisi di possessione delirante”.
Fontana e Fontaine, “Raver”, 1997.
“Durante la festa ognuno può essere chiunque, e fino in fondo se stesso”.
Venusia, “La Festa”
Premesse: la danza rituale estatica, ovvero le vere feste
come quelle di una volta
La scoperta in prima persona di alcuni di questi riti è un’esperienza di particolare arricchimento.
Da sempre ed in ogni società l’uomo ha sentito il bisogno di celebrare se stesso e la vita attraverso la messa in pratica di danze
rituali. Queste avvenivano in concomitanza con festività che erano legate al ritmo delle stagioni e della terra, oppure che riguardavano episodi significativi nella vita del singolo o della comunità.
“La danza è stata fin dall’alba dell’Uomo uno dei più potenti mezzi di socializzazione, di
esorcizzazione, di comunicazione con il divino. La danza non è solo musica, ritmo, arte: molto prima di divenire tutto questo -involgarendosi in
un certo senso- la danza esprimeva l’essenza stessa della vita, il movimento. Si potrebbe dire che la vita stessa fosse una danza, o -come antichi
miti narrano- la vita fu creata dalla danza.”
- Shiva, il dio della danza
“La materia, la vita, il pensiero non sono che relazioni energetiche, ritmo, movimento e attrazione reciproca. Il principio che dà origine ai
mondi, alle varie forme dell’essere, può dunque essere concepito come un principio armonico e ritmico, simboleggiato dal ritmo dei tamburi,
dai movimenti della danza. In quanto principio creatore, Śiva non profferisce il mondo, lo danza.”
Alain Danièlou, “Śiva
e Dioniso”.
Venusia, “La Festa”.
Attraverso la danza rituale si crea una sorta di medium tra il mondo naturale e il mondo sovrannaturale: liberando il corpo in
movimenti convulsi, scanditi dal ritmo ossessivo del tamburo (lo strumento privilegiato per la comunicazione con il mondo degli
spiriti), forze non materiali si impossessano delle identità dei danzatori stessi.
Durante i riti vengono esorcizzate le paure per le malattie, per le guerre, gli spiriti maligni; vengono acclamati i raccolti, le nascite,
le unioni sentimentali; si affiancano gli spiriti dei defunti nel cammino verso l’aldilà; si invocano Dei propiziatori.
Con le cerimonie di iniziazione, gli adolescenti vengono sottoposti a prove di resistenza e di dolore: il passaggio nell’età adulta,
che comporta una sorte di uccisione del bambino interiore, viene così accompagnato dall’intera comunità. Forse in questo modo si
evita che i giovani si sentano lasciati allo sbaraglio, in preda ad una situazione di crisi e confusione sulla propria identità.
Gli spettatori delle danze mascherate e dei riti drammatici vengono istruiti del mondo e della vita. Essi imparano a scoprire il
legame che li unisce ai propri simili e al creato, a conoscere il proprio posto nella società e nell’universo, a capire il senso dell’esistenza.
Le comunità partecipano di tutti i momenti importanti della vita dei singoli individui, condivisi ogni giorno e celebrati durante i
riti tradizionali.
La danza acquista così una funzione spirituale, catartica e sociale.
Lo Sciamano o lo Stregone si fanno catalizzatori dell’energia estatica generata durante il rito per poi riconvogliarla sulla tribù
stessa.
L’uomo del passato e delle tribù sopravvissute al nostro mondo “moderno” sa bene che il corpo non può stare bene se l’anima è
malata e che, quindi, emozioni e sentimenti influiscono sulla stessa salute fisica.
La musica, considerata la “risonanza di un ordine cosmico superiore”, può essere così in grado di influire sullo stato d’animo
dell’uomo e, quindi, avere effetti benefici sul corpo.
Alcuni Usi & Costumi delle danze rituali
L’aspetto scenografico è sempre stato fondamentale e determinante per la buona riuscita della danza estatica.
I popoli hanno innumerevoli e differenti riti caratterizzati da un ampio corredo di tradizioni, molte delle quali sono fortunatamente
sopravvissute sino ai nostri giorni.
Costumi, trucco, maschere, musiche e scenografie, oltre a differenziare le varie culture, aiutano i partecipanti alla danza estatica
ad immedesimarsi nella divinità invocata, a perdere la dimensione della realtà contingente perimmergersi in un mondo altro, il
mondo degli spiriti e della trascendenza.
E’ curioso ed affascinante dedicarsi allo studio ed alla conoscenza delle varie tradizioni sparse per il mondo, notarne le particolarità, ma anche le incredibili somiglianze nonostante la lontananza geografica.
Si va da danze più codificate e caratterizzate da una complessa simbologia gestuale, come quelle mediorientali, a danze più libere
nei movimenti, come quelle tra le tribù Africane, degli Indiani d’America o degli Aborigeni Australiani.
A seconda della tradizione la pelle viene dipinta con trucchi elaborati o con semplici disegni lineari. Le maschere sono totemiche
rappresentazioni di spiriti maligni o benigni e, portando in scena oltre che divinità anche mostri, spiriti e demoni, assumono una
funzione catartica, di esorcizzazione delle proprie paure.
Per gli induisti la danza è più antica del mondo stesso, perchè è proprio danzando sul monte Kailasa che Shiva, poliedrico Dio
molto popolare nell’induismo moderno, creatore e distruttore allo stesso tempo, diede vita al cosmo.
Gli indiani amano la musica, le celebrazioni e le parate; pertanto mantengono vive le loro festose e sfrenate tradizioni. Il calendario prevede più di venti festività nazionali, che si sommano alle numerose tradizioni locali.
In ogni caso, si trova sempre un buon pretesto per festeggiare.
Se si capitasse nel pieno di uno di questi eventi-parata si rimarrebbe stupiti dal caos che si va a creare, puro delirio in un’esplosione di colori, incensi, fiori, grida, musiche, muggiti di mucche e latrati di cani, mescolati ai rombi dei generatori.
Prevalentemente le feste in India sono di carattere religioso: possono strutturarsi in rumorose processioni con cavalli imbizzarriti ed indemoniate bande di tamburellisti oppure in vere e proprie messe in scena di danze rituali. Forse per i turisti non è facile
scovare, in questo marasma di contraddizione tra tecnologia e spiritualità, riti nei quali si raggiunge l’estasi attraverso la danza; o
forse, anche trovandole, non si sarebbe in grado di riconoscerle.
Durante le rappresentazioni degli episodi di vita degli dei i costumi e le maschere servono a riconoscere i vari personaggi. Lo spettacolo è un’unione di danza e recitazione, caratterizzato da una rigida e complessa simbologia di riferimenti che riguardano tanto i
gesti degli attori quanto i particolari dei costumi, del trucco e dei gioielli. Un gruppetto di musicanti, che generalmente sta seduto
accanto agli attori-danzatori, accompagna lo svolgimento con una musica incalzante ed ipnotica prodotta da sitar, harmonium e tabla. Ci sono poi dei momenti di picco nell’intensità della storia, della danza e della musica: é qui che l’attore può lasciarsi andare
e, forse, divenire il tramite della divinità.
Questo genere di rappresentazioni sulle storie di vita dei propri Dei, sofisticate, lunghe e complesse, sono molto diffuse in Oriente.
In Cina, in particolare, la musica è legata ad un forte potere taumaturgico.
La cultura indiana, con i suoi riti, la sua musica ipnotica e i suoi costumi, ha influenzato molto la tendenza hippie, alla ricerca di
quella spiritualità che il mondo occidentale aveva perduto.
Abbigliamento etnico, charas, incensi attirano i giovani viaggiatori zaino in spalla.
Gli stessi Beatles vissero, per alcuni mesi durante gli anni ‘60, in un ashram a Rishikesh, cittadina sulle rive del Gange, meta
spirituale degli induisti.
Goa, un piccolo stato a sud di Mumbai sulla costa del mar Arabico, è considerata dagli anni ‘70 la Mecca dei ragazzi freak e, proprio qui, è nato il genere musicale Goa Trance, unione di Techno e musica indiana, divenuto famoso in tutto il mondo.
(evoè evoè) con cui gli adepti si incitavano l’un l’altro. Alla fine satiri e baccanti raggiungevano il desiderato stato di trance ed entravano in
una condizione di possessione psichica che gli antichi chiamavano entusiasmo.”
Ubaldo Nicola, “Riti dionisiaci”
In seguito la liturgia dionisiaca venne istituzionalizzata e trasformata nella rappresentazione teatrale della Tragedia.
A Samotracia, l’isola dell’arcipelago greco più vicina alle coste della Turchia, si celebravano i misteri dedecati alle deivinità della
fertilità Cabiri. Ancora oggi viene organizzato ogni anno un festival dedicato alla danza, alla musica e all’ambiente: accorrono
circa 80’000 persone da 80 paesi diversi! Di carattere più intimo è l’after party che si svolge a seguito di questo festival: una settimana di rave goa-trance tra gli alberi sulle calde colline dell’isola.
- Il vorticare die Dervisches
Tutt’altro tipo di danza rituale, anche se sempre molto codificata, è la Danza dei Dervisches, in Turchia. Si tratta di una cerimonia
religiosa della confraternita islamica dei Mevlevi Sufi, fondata da Mevlana Celaleddin-i Rumi, e la cui filosofia è basata sull’amore, sulla fratellanza e sul completo abbandono a Dio. La cerimonia si chiama Sema ed è un vero e proprio viaggio spirituale. La
simbologia è molto forte, a partire dai costumi dei danzatori: un alto cappello color terra simboleggia la pietra della tomba dell’ego, che deve essere ucciso, la veste bianca è il suo lenzuolo funebre ed il mantello rappresenta la sua stessa morte. Il vorticare dei
Dervisches è in sintonia con il movimento circolare degli atomi, della terra intorno al sole e del sole intorno alla galassia.
-I Celti ed il mito di Stonehage
Durante le festività celtiche riti e danze avevano lo scopo di permettere agli esseri della Terra di entrare in contatto con le forze del
Cielo. In occasione di queste feste si ballavano soprattutto danze “in cerchio” o “a spirale”, che si ritrovano ancora oggi nei costumi di molte popolazioni europee (ad esempio la danza del palo della cuccagna o la danza macabra). In realtà sono numerosissime
le usanze celtiche che vengono, spesso inconsapevolmente, riprese: primo fra tutti l’addobbo natalizio dell’albero.
Il Druidismo, religione neopagana incentrata sull’armonia tra uomo e natura, riprende l’antica tradizione celtica. Le cerimonie
druiche includono incontri in luoghi boscosi, tenuti solitamente una volta alla settimana, mentre le ricorrenze più importanti avvengono in base al calendario lunare ed alle cadenze dei Sabbat, i festival stagionali, tra cui quelli per i solstizi e per gli equinozi.
Durante le cerimonie viene celebrata l’assunzione degli spiriti(Scotch o wiskey irlandese).
A Stonehege l’antica tradizione della celebrazione dei solstizi e degli equinozi vive ancora ai nostri giorni: oltre che meta del
turismo di massa, Stonehenge è attualmente luogo di pellegrinaggio per molti seguaci del Celtismo, della Wicca, di altre religioni
neopagane, e di travellers. Fu teatro di un festival musicale libero tra il 1972 e il 1984.
Nel 1985 tale festival fu bandito dal governo britannico: durante la cosidetta “Battaglia di Beanfield” la polizia represse violentemente l’evento, distruggento camper, camion, attrezzature e prendendo a manganellate alcuni partecipanti.
E’ in questo luogo magico che si è accesa una delle prime scintille rave: negli anni ‘80 la musica psichedelica dei raduni di hippie
si trasformò in tecnho, e il free festival divenne rave.
-Dionisio, il Dio della festa
Gli antichi Greci ed i Romani amavano riunirsi in feste di carattere orgiastico, molte delle quali duravano per giorni.
In Grecia feste di questo genere erano dedicate al culto di Dionisio (Bacco per i Latini): il Dio della vegetazione e della fertilità,
dell’uva e del vino, quindi dell’eccesso e dell’infrazione.
Dionisio significava la rottura di ogni barriera fra dei e uomini; ebbro e folle lui stesso, favoriva la dissolutezza dei fedeli, li inselvatichiva e li portava al vino, alla violenza, all’orgia.
“Amava le grida disordinate, il delirio, l’esaltazione parossistica, l’estasi mistica, la maschera ed il travestimento (a volte era ritratto con vestiti
femminili), sconvolgeva leggi, costumi e gerarchie sociali.”
Ubaldo Nicola, “Riti dionisiaci”
Dionisio era anche l’unico tra gli Dei ad ammettere tra le sue celebrazioni il genere femminile: probabilmente proprio per questo
aveva un grande seguito fra le donne, dette Menadi: tra i più antichi esempi di danza sfrenata femminile.
“Le menadi, incoronate con frasche di alloro, indossavano pelli di animale; gli uomini si abbigliavano come satiri; assieme, nell’ebbrezza data
dal vino, si abbandonavano al ritmo selvaggio del ditirambo (ossessivo e ripetitivo, eseguito dal flauto e dal tamburo) enfatizzato dal grido
-La pizzica salentina.
Le musiche folkloristiche presentano una comune tendenza alla ripetitività circolare dei suoni, che porta ad un progressivo lasciarsi andare, ad ogni giro sempre di più, fino al completo abbandono di sè sulle note musicali. Tarantella, musiche balcaniche e
zingare, canzoni irish hanno la medesima funzione di scatenare negli ascoltatori la voglia di una danza sfrenata.
La pizzica salentina ha origini molto antiche; veniva suonata per giorni o anche settimane durante rituali che avevano la funzione
di liberare dal male i morsicati, veri o presunti, della lycosa tarentula: gli impossessati di spiriti maligni.
Oggi ha più che altro una funzione ludica: gli strumenti principali sono tamburello, violino e fisarmonica; le persone si ritrovano
spontaneamente tra le strade, durante le feste di piazza, dando vita a drappelli di musici al centro dei quali saltellano vorticosamente le ragazze dal foulard in mano e dalla lunga gonna, le “pizzicate” della taranta.
La danza “rituale” estatica nel mondo occidentale moderno:
ovvero le nuove (vere) feste popolari.
Nell’industrializzata cultura occidentale la danza “libera” è stata progressivamente vista come anti-convenzionale, trasgressiva ed
anti-accademica. La Cultura Istituzionalizzata si è dedicata metodicamente a sedare il tempo del libero divertimento, sostituendolo
sempre con nuovi modelli preconfezionati di svago-plastica.
Per fortuna, per quanto l’istituzione possa soffocare le libere forme d’espressione rendendole merce da vendere, non può spegnere
la fiamma che sta all’origine dell’idea stessa di festa. Appunto perchè è un’idea, rimane radicata nell’anima dell’uomo, indipendentemente dal contesto sociale. Cambia aspetto e si evolve, spogliandosi delle vesti che vengono via via vendute al mercato, per
assumere una nuova sembianza.
La storia culturale del XXI secolo, il secolo dei rapidi cambiamenti, è in continua evoluzione. Un’incredibile quantità di gruppi e
sottogruppi si sono susseguiti sulla scena delle “sottoculture”, ricercando ognuno quell’idea di festa autentica, festa estatica, che la
società in superficie non approvava più.
composti da generatori, casse, subwoofer e piatti per mixare i dischi. Lo scopo era spargere musica e buone vibrazioni al massimo
volume possibile, in un modo festoso per riunirsi e divertirsi. All’inizio i primi dj suonavano canzoni di R&B e Swing, ma furono
presto spinti dalla costante richiesta di originalità (anche per via della rivalità tra i vari sound) a produrre qualcosa di autoctono:
nacque così lo Ska. I dj usavano tra l’altro presentare le proprie canzoni esclusive vocalmente, attraverso i microfoni: questa tecnica di parlare sulla musica, in un ritmo di pseudo-canto, è definita toasting e ha dato origine, tra l’altro, al Rap e all’Hip Hop.
Era sia un modo per fare pubblicità al proprio sound che per attirare e fomentare le folle che lo seguivano danzando.
Proprio come in una moderna Street Parade.
Per dirla con la frase-manifesto degli Spiral Tribe :
“You can stop the party,
but you can’t stop the future” .
“Certo non è la stessa cosa; la cadenza dei festeggiamenti non è legata, non solo almeno, al ritmo delle stagioni,
la fatica è meno grave, la povertà molto meno pesante, ma lo spirito è il
medesimo, lo spirito della festa: quella trascendentalità che rende effimero ed improduttivo il
tempo, che crea “solo” illusioni, desideri, vertigine. Nessuna società è o è mai stata estranea
alla festa, pur se questa si manifesta in forme assai differenti.(...) La “vera festa” è utile all’individuo così come al gruppo, ed è proprio per
questo che riappare sotto la forma del rave: essa ha una funzione rigeneratrice che permette al partecipante di guardare la propria vita con
maggior distacco e può indurre importanti cambiamenti ed una diversa valutazione della propria situazione.”
Venusia, “La Festa”
-Le origini nere della scena underground e dei soundsystem.
Ogni qual volta che lo Stato ha cercato di reprimere le forme di divertimento libertario del popolo, questo ha sempre cercato nuovi
mezzi, seppur sovversivi, per aggirare il problema.
Fu così che, nel momento di massima repressione da parte del Terzo Reich, aveva preso forma un movimento che di lì a poco
avrebbe dato vita al mondo Disco. Era stato quindi durante il dominio di Hitler che una fascia di giovani alternativi tedeschi, non
proprio organizzati in un movimento, ma tutti accomunati dalla passione per il ritmo proibito dello swing e del jazz, avevano
iniziato a riunirsi in feste clandestine.
Venivano scovati locali nascosti e per tutta la notte si ballava sfrenatamente la musica che usciva al massimo volume dai grammofoni. Questo era stato il primo passo nell’avvicinamento all’idea di rave: non più un gruppo musicale dal vivo, ma un giradischi e
delle casse (attrezzature più facilmente trasportabili illegalmente); non più le donne separate dagli uomini da rigidi schemi, ma una
danza promiscua ed un abbigliamento eccentrico.
Gli eventi notturni a cui questa gioventù prendeva parte sopravvivevano esclusivamente grazie al passaparola, ad una lista segreta
all’ingresso, al nomadismo costante della location. Come ha osservato Quela Robinson : “Quelli che oggi sono i biglietti d’ingresso
nei club, nel 1941 sarebbero stati un biglietto di sola andata per i campi di concentramento”.
Come sempre accade tra i movimenti “sovversivi”quando acquistano troppo potere e popolarità tra la gente, anche la scena jazz
venne codificata dal sistema, divenendo da alternativa quasi elitaria.
In realtà la nascita della scena underground era avvenuta ancora prima, agli inizi del 1900 lungo le rive del Missisipi. I lavoratori
neri della ferrovia si ritrovavano la sera nei locali per ascoltare e ballare il ritmo scatenato del Boogie-woggie.
Chiamato “fast western blues” per la grande diffusione nel Texas, il Boggie-woggie si espanse poi nelle grandi metropoli del nord
come Chicago (dove in seguito nacque la House), St.Louis e Detroit (in seguito culla della Tecnho), richiamo per gli emigranti
delle comunità nere alla ricerca di lavoro.
La danza era libera e spesso quasi acrobatica, un ballo di coppia nel quale però non erano stabiliti passi di danza: la regola era il
lasciarsi andare.
Un brano caratteristico è “Honky Tonk Train Blues” del 1927, in cui il compositore Meade Lux lewis imita con le sonorità un
treno a vapore (all’epoca in cui Russolo sperimantava “L’Intonarumori” in vari concerti tra l’Italia e Parigi).
Anche la nascita dei soundsystem è da cercare tra la popolazione nera, questa volta in Jamaica: negli anni ‘50, tra i ghetti di Kingostone, iniziarono a girovagare per le strade carri sui quali venivano trasportati colossali impianti musicali, spesso autocostruiti,
Lo Ska nacque quindi per le strade, diffuso dagli speaker dei sound system. Era una musica fatta per ballare, risultando stimolante,
veloce ed energica. Esprimeva la speranza e l’ottimismo del popolo jaimaicano liberatosi dall’occupazione inglese.
Alla fine degli anni ‘60 le estati furono particolarmente calde: la gente richiedeva ritmi più lenti. Fu così che i Sound System
iniziarono a diffondere il Rocksteady. Da questo genere più lento e meno faticoso da ballare nacquero successivamente il Reggae
e il RubaDub.
L’immigrazione jamaicana versò l’Inghilterra, intensificata con l’Indipendenza del 1962, portò logicamente con sè tradizioni e
musica.
-Gli hippie e i mod: l’idea dei free party illegali.
Fu così che la cultura nera, con i suoi ritmi, i suoi costumi ed i suoi sound, venne esportata in Europa. Lo ska divenne il primo
genere musicale jamaicano ad aver successo in Inghilterra, successo dovuto soprattutto alla subcultura dei mod.
I mod si possono identificare prevalentemente dalla cura maniacale per il proprio look e dall’amore per la musica. Per quanto fossero così concentrati sulla moda e sulle marche costose, è a loro che si devono i primi party che in qualche modo hanno lo stile dei
rave: grandi raduni clandestini dove è possibile sperimentare droghe (all’epoca dei mod soprattutto anfetamine). Altre sottoculture
iniziarono in seguito ad influenzarne lo stile (in particolare con la Summer of Love del 1967 stava fiorendo quella hippie) dando
origine ad un progressivo interessamento per l’AcidHouse, l’Acid Rock e per il Progressive Rock. In questo contesto ci fu una
sorta di scissione nel movimento: mentre la parte più benestante, i frequentatori del college, si lasciò coinvolgere dalla psichedelia
e dalle “zingarate” degli hippie, quelli che invece si definivano gli “ hard mod” avevano, di conseguenza al termine, modi più duri.
Erano per natura avversi a tutto ciò che avesse a che fare con droghe, colori e fiori ed avevano un certo orgoglio da lavoratore
proletario. Da quest’ultimi deriveranno gli skinhead.
Nel frattempo i locali inglesi si erano dotati capillarmente di jukebox, con i quali venivano diffuse tutte quelle sonorità di origine
nera che le emittenti radiofoniche ufficiali si rifiutavano di trasmettere. Il jukebox deriva dal verbo “to juke” o “to jook”, che nel
gergo afroamericano sta ad indicare proprio il movimento del pube compiuto sia nel ballo che nell’atto sessuale. Già solo con il
termine veniva quindi promesso lo svago che la gente cercava dopo la settimana lavorativa.
Il Northen Soul è l’altra grande sottocultura dell’Inghilterra degli anni ‘60, diffusa più che altro a nord di Londra: è l’unica tendenza che prende il nome dal luogo in cui è ballato, e non da quello in cui è prodotto, un genere musicale. Era un tipo di musica che
accompagnava una danza scandita da movimenti ritmici e veloci. I giovani del Nord non volevano aver a che fare con la musica
progressiva; cercavano invece delle sonorità che rinsaldassero lo spirito comunitario e che permettessero di mettere in mostra le
proprie capacità nell’usare il corpo.
La Disco Music e la Techno sono state molto influenzate dal Northen Soul, seppure in modi differenti.
La Disco prenderà strada dalla contaminazione tra Blues, Soul e Pop inglese, diffondendosi negli anni ‘70 soprattutto nelle discoteche per gay. Protetti dagli sguardi della malpensante società, gli omosessuali erano infatti liberi di lasciarsi andare e, seguendo
gli impulsi generati dal ritmo incalzante, di avvicinare i rispettivi corpi durante la danza.
Le passioni per il collezionismo di vinili e per i raduni tipiche del Northen Soul vennero invece fatte proprie dalla Techno, genere
musicale che si sarebbe diffuso in Inghilterra dagli anni ‘80. La Techno condivideva con il Northen Soul anche la matrice di provenienza afroamericana: è nei ghetti neri di Detroit che ha preso forma.
Dal movimento hippie deriva invece la cultura per il viaggio e per i grandi raduni free.
Così come il movimento beat che lo precedette e quello punk che venne subito dopo, gli hippie proponevano una cultura di libertà,
trasgressione, fratellanza e vagabondaggio. Crearono comunità unite dall’ascolto del Rock Psichedelico, dalla rivoluzione sessuale
e dall’uso di sostanze stupefacenti (in prevalenza cannabis ed allucinogeni). Gli hippie abbracciavano le filosofie orientali: i loro
costumi erano variopinti e colorati, si interessavano di pratiche di ricerca interiore ed i viaggi in India divennero una moda molto
diffusa.
Diedero il via alla pratica degli enormi raduni a base di musica, droghe e comunione spirituale: primo tra tutti quello da 20.000
persone al Golden Gate Park di San Francisco, seguito da Woodstock (500.000 persone) e dal Festival dell’ Isle of Wight, popolare
ancora oggi.
“Fai le tue cose, ovunque devi farle e ogni volta che vuoi. Ritirati. Lascia la società esattamente come l’hai conosciuta. Lascia tutto. Fai sballare qualsiasi persona normale con cui vieni in contatto. Fagli scoprire, se non la droga, almeno la bellezza, l’amore, l’onestà, il divertimento”.
tura del club e della musica elettronica, che si trasformò così da un evento da fine settimana ad un evento continuo, da tutti i giorni
della settimana. Qui questo genere musicale si diffuse velocemente in numerose discoteche come l’Amnesia, nelle quali venivano
organizzate feste all’aperto alla base di ecstasy, la nuova droga simbolo del movimento.
Nello stesso periodo tre ragazzi neri (Juan Atkins, Derick May e Kevin Saunderson) diedero vita ad un nuovo sound che presto si
sarebbe diffuso capillarmente in tutto il mondo: la Techno.
Le influenze principali furono da una parte le sonorità dei Kraftwerk tedeschi e dall’altra l’ambiente stesso nel quale vivevano: il
quartiere-ghetto nero al centro di Detroit, la città dei motori. Detroit era una città che si era sviluppata velocemente grazie all’industria della Ford: era una città dagli spazi enormi, strade larghissime e palazzi imponenti; tutto era pensato su misura per le auto e
non per gli uomini. I rumori delle industrie sempre in funzione caratterizzavano il paesaggio sonoro della città. Presto Detroit andò
in fallimento, divenendo lo spettro di se stessa. I bianchi si trasferirono in ricchi quartieri residenziali protetti dal mondo esterno,
lasciando abbandonato il centro, in cui fu ammassata la popolazione nera. In questo panorama desolato e post industriale nacque la
Techno. L’ Inner City divenne quindi un villaggio di neri isolato dal main stream: la Techno era la loro musica, il risultato dell’unione della loro cultura tribale con un mondo devastato dalla tecnologia, il risultato di un ”Tribalismo High-Tech” (May, 2002).
Nacque il collettivo degli Underground Resistance, il cui fondatore fu Mad Mike Banks e l’esponente di punta Jeff Mills.
“Volevamo soltanto trasportare in musica le sensazioni che vivevamo quotidianamente.
Quelle di chi osserva impotente il colosso di una delle più importanti realtà industriali del ventunesimo secolo.”
Juan Atkins, “Pagoda”,1968
A Detroit l’ambiente era molto pesante per i neri, che dovevano subire un profondo razzismo. Fu così negli anni ’90 e nei primi
del 2000 che molti dj si trasferirono oltremare. La techno si diffuse in molte città europee, in particolare a Berlino, affascinante
miscuglio di arte, design, stili e filosofie; paesaggio urbano mai completamente riunificato dopo la caduta del muro
.
I party venivano organizzati in luoghi una volta importanti per la città: luoghi decadenti ed abbandonati che venivano fatti rivivere
per breve tempo, inevitabilmente momentanei e precari, premesse queste che verranno riprese dal movimento rave dei technorangers. A Berlino proliferarono così una moltitudine di club in affascinanti edifici in disuso: ex-cinema, ex- mercati, ex-fabbriche,
ex-uffici della posta. Ben presto la maggior parte di questi locali si trasfomò in locali da main stream, dimenticando l’origine
sovversiva e vendendosi ad un pubblico ed a una musica più commerciale.
La rivendicazione di Techno come musica lontana dal mainstream esplose durante la manifestazione della “Love Parade”. Nata
nel 1989, appena prima della caduta del muro come mezzo di pace ed unione attraverso la musica underground, venne immediatamente assorbita dal sistema in quanto era un evento che portava molto guadagno e partecipanti. In risposta furono quindi
organizzate la Hate Parade e la Fuck Parade, e per l’occasione la Techno venne pronunciata con la K, trasformandosi in Tekno,
rivendicando toni più aspri ed harcore.
“Gli Hippy: la filosofia di una subcultura”, Time, 1967
La filosofia del viaggio consisteva nell’essere pronti a partire in qualsiasi momento, alla ricerca di nuove esperienze, nuovi stili
di vita e buone vibrazioni. Erano organizzati in una “rete di ospitalità” per cui i viaggiatori potevano essere accolti in qualsiasi
momento nelle abitazioni freak. Gli hippie si rifacevano anche al modello gitano di nomadismo sui carri: ovunque si diffusero pulmann e furgoni colorati, attrezzati artigianalmente e resi delle piccole case mobili. Questo modello di vita, che ha in parte le sue
radici nella controcultura hobo e nello spirito “On the Road” di Jack Kerouac, è ancora comune nei gruppi della Rainbow Family,
nei viaggiatori delle tribù moderne e negli housetrucker neozelandesi. Eredità di questo movimento si hanno anche nel fiorire di
numerose comunità autogestite in luoghi occupati, primo fra tutti il quartiere di Christiania a Copenaghen.
- U.S.A.:nei club underground nasce la House a Chicago e la Techno a Detroit.
La House nasce a metà degli anni ’80 dall’unione della Disco con elementi del Soul e del Funk. Rispetto alla Disco aveva ritmi
più sostenuti e sonorità più profonde: era la nuova musica underground, capace di far ballare le masse che ricercavano la liberazione della propria identità.
Come era stato per la Disco, la ricerca di spazi nascosti agli occhi della società portò al proliferare di club e locali. I più famosi
sono stati il Loft di Mancuso, il Paradis Garage dove si esibiva Lerry Levan ed il Warehouse di Frankie Knuckles ( insieme a Levan pionere della House). In questi locali non c’era l’area Vip e l’empatia tra folla e dj era la base di tutto. Venivano sperimentate
le prime visual dj (video composti da immagini che si muovono a tempo di musica e dal mixaggio di frame presi da film diversi),
usate insieme alla musica per ricreare un ambiente immersivo e fluido.
I dj di House furono i primi a sperimentare il “beat matching”, che significa portare allo stesso “tempo” due dischi suonati consecutivamente, per poi passare dall’uno all’altro facendo proseguire la musica senza soluzione di continuità. La House si diffuse
presto in Gran Bretagna, dove le sonorità divennero più psichedeliche dando vita alla Acid House. In questo periodo Ibiza, già
famosa negli anni ‘70, divenne il luogo dove i ragazzi andavano a cercare il divertimento e la vita notturna. Venne esportata la cul-
-Anni ’90 e 2000: Tekno, Goa e Drumm&Bass.
Presto i rave party, nati in Europa e negli Stati Uniti nei club underground degli anni ’80, persero il loro ideale iniziale di protesta
e riappropriazione di luoghi abbandonati, trasformandosi in feste legali in locali regolamentati. In risposta a questo fenomeno
sono nati i Free Party. I primi ad usare questa terminologia sono stati gli Spiral Tribe per alcune feste organizzate in Francia. I
Free Party recuperano lo spirito di denuncia sociale dei rave originali e portano con sé un’evoluzione della tecnologia dei software
musicali e degli impianti.
“Il termine “free” (“libero” o “gratuito”) non si riferisce solamente all’accesso gratuito a queste manifestazioni, ma anche al fatto che gli
artisti (DJ, musicisti, giocolieri, pittori, scultori) si esibiscono senza compenso, per diffondere e condividere il proprio talento, nonché all’idea
di liberazione dalle regole, dalla routine, dai divieti e dalle convenzioni socialmente imposte. La “libertà” dei free party viene espressa da chi vi
partecipa principalmente attraverso il ballo.”
Wikipedia, the free Enciclopedia.
Le feste libere sono organizzate dalle neo tribù metropolitane, le Tribe o le Crew, gruppi di persone che decidono di condividere
dei percorsi insieme.
Spesso i componenti delle crew sono viaggiatori, amano spostarsi in continuazione, creando nuovi contatti ed amplificando la rete
sotterranea.
La cultura dei “travellers” è certamente derivata dagli hippie, anche se si conta che nel 1996 in Gran Bretagna fossero più di
500.00 le persone che vivevano da nomadi o seminomadi. Questo fatto costituisce di per sè un problema per lo Stato, che deve
costantemente controllare burocraticamente la popolazione, in quanto i nomadi sono una sorta di esercito pacifico in continuo
movimento, difficili da monitorare.
Negli anni ‘80 le carovane di neo hippie avevano iniziato a darsi appuntamenti in luoghi remoti e nascosti, passando le notti a
tempo di musica. E’ da questa tendenza che sarebbero nati i rave. Nel 1985 questi raduni erano divenuti così tanto popolari da
preoccupare la polizia, che tese un’imboscata ad un lungo convoglio di furgoni diretti a Stonehenge: era il primo di una serie di
provvedimenti contro l’aggregazione delle persone e la libertà delle festività che sarebbero culminati con il Criminal Justice Act,
varato nel 1994 dal governo Tory. Il CJA proibisce alle persone di riunirsi in più di dieci senza un’autorizzazione.
Da qui in poi i primi soundsystem vennero montati sui furgoni, e portati fuori, nelle campagne, imparando molto dallo spirito dei
free festival degli hippie.
In queste manifestazioni, il ritmo veloce e vertiginoso della Drumm&Base, quello psichedelico e pulsante della Goa, quello più
martellante e libero dai fronzoli della Tekno, oltre che naturalmente numerosissimi altri stili e tendenze, ripropongono quei valori
di festa estatica, autonoma ed indipendente dalle regole dello Stato.
Durante la danza le persone si lasciano andare e liberano i propri movimenti, cercando di rompere gli schemi in cui sono costrette.
Quando ogni persona si è sintonizzata con il ritmo incessante della musica, la folla del sotto cassa si trasforma in un unico insieme
pulsante, in lenta e crescente marcia verso la conquista di mondi che, da immaginari, divengono reali.
La Danza delle Performance: dai balli meccanici futuristi, all’automatismo psichico espressionista;
dal rituale dell’azionismo viennese,
all’ibridazione di organico con inorganico.
Le necessità di rottura con il sistema e di liberazione di sé e del proprio movimento non sono solo riscontrabili nel ventaglio delle
sottoculture musicali. Hanno infatti degli esempi molto interessanti anche tra le tendenze artistiche (moderne e contemporanee)
che per motivi diversi si sono interrogate sulla nuova concezione che stava assumendo il corpo umano: le sue possibili contaminazioni con il mondo delle macchine, la sua posizione nella società industrializzata ed il suo rapporto con lo spazio circostante.
Cosa significa infatti “liberazione di sé e dei propri movimenti” in un mondo completamente sconvolto dalla tecnologia? Quale
sarà il ruolo dell’uomo in questo nuovo mondo? Che senso ha l’esistenza stessa della vita ora che il mito della scienza ha divorato
le credenze religiose?
Le correnti artistiche o i singoli ballerini che si sono interrogati su queste tematiche, hanno proposto per tutto il 1900 spettacoli nei
quali i corpi erano liberi di dimenarsi in danze assurde ed anticonvenzionali, mistiche e spirituali, meccaniche e robotiche.
L’immaginario della cultura rave, che dall’unione di tribalismo con tecnologia prende forma, si è formato anche su queste premesse. La figura umana, legandosi alle nuove conquiste scientifiche e meccaniche, ha definitivamente acquisito nuova sembianza e
nuova posizione, tanto nella vita reale quanto nella messinscena teatrale.
I primi esempi di ricerca sul nuovo ruolo della figura umana nel mondo moderno ci sono dati dagli spettacoli di Adolphe Appia e
Gordon Craig. L’attore doveva fare da tramite tra la musica e i moduli ritmici della scenografia: era il periodo in cui Jaques Dalcroze, in contatto con Appia, inventò la danza ritmica. Il movimento del corpo era considerato non più come una pratica di danza
di tipo accademico, ma come il portatore di un significato drammatico: interagendo con la composizione scenica ed i giochi di
luce, era in grado di esprimere potenzialmente molto più delle parole.
Fondamentali in questo senso sono state le esperienze artistiche di ballerine come Isadore Duncan, Loìe Fuller e Martha Graham.
La danza classica era stata infatti profondamente rinnovata da due tendenze principali: da una parte l’esperienza dei Balletti Russi
di Diaghilev e dall’altra l’arrivo in Occidente di balli popolari provenienti dall’Oriente, dall’Africa e dalla cultura degli Indiani
d’America, spesso legati a riti religiosi.
La Duncan ricercava un tipo di danza libero dalle rigide regole della danza classica, abolendo le scarpe a punta e gli artificiosi
abiti delle ballerine accademiche: ballava a piedi nudi, con vesti leggere e comode. Faceva riferimento alla danza greca sia nel
costume che nei movimenti; le sue interpretazioni erano emotive, passionali, impressionistiche.
L’esperienza di Loìe Fuller fu interessante invece per quanto riguarda la ricerca di un’unione tra i movimenti del corpo, del suono
e dei colori. Nei suoi spettacoli il dinamismo era dato dal roteare di lunghe tuniche in seta colorate e di drappi di stoffa usati come
protesi sulle braccia, che riflettevano i giochi di luce.
Martha Graham fu considerata la madre della danza moderna: riusciva a manifestare le più profonde emozioni dell’animo umano
grazie alle posizioni particolari che assumeva con il suo corpo.
Nel frattempo gli spettacoli futuristi davano un forte impulso a due fattori determinati nell’abolizione delle regole e nella liberazione della corporeità: la partecipazione del pubblico, con un conseguente abbattimento della separazione tra platea e palcoscenico, e la ricerca di una sintesi tra il dinamismo del corpo e quello della scena stessa. Elementi questi che porranno le basi per la
ricerca di una scena totale, nella quale tutte le parti comunicano tra loro e che, in seguito, caratterizzeranno prima le performance
e successivamente gli spaziambienti dei rave.
Il desiderio di spingere fino ai limiti dell’accettabile le rappresentazioni, di provocare gli animi e di coinvolgere il pubblico si
manifestava appieno nelle Serate Futuriste.
I futuristi furono i primi anche ad interrogarsi sulla possibile unione tra corpo e tecnologia, proponendo come Giacomo Balla spettacoli in cui gli attori, attraverso i movimenti robotici e la particolare modulazione della voce, si rendevano essi stessi componenti
meccaniche. Questa ricerca venne in alcuni casi spinta a tali livelli che gli attori e la loro fisicità vennero definitivamente sostituiti
da marionette meccaniche, come nei “Balli Plastici” di Depero.
Anche i costruttivisti ricercarono la stessa unione tra scenografia ed attore: Mejerchold propose l’Attore Biomeccanico, i cui movimenti ritmici erano coordinati con quelli della scena, in una sintesi perfetta tra uomo e macchina. In questo tipo di danza l’attore
non solo non manifestava le sue passioni e la sua interiorità, ma aboliva del tutto il suo essere uomo, interpretando e facendo
proprie al contrario le movenze e le espressioni della macchina.
Nello stesso periodo l’attività teorica e pratica del Bauhaus abbracciava ogni settore artistico, compreso il teatro, con un’attenzione nuova e tutta particolare nei confronti del corpo umano.
Oskar Schlemmer fu il promotore di questo orientamento in campo teatrale. Considerava infatti il corpo umano come la “misura di
tutte le cose”: sulla base di precise regole matematiche esso si doveva muovere in relazione con lo spazio circostante.
L’uomo danzatore, servendosi di particolari costumi, si trasformava in un manichino geometrico simile alle figure visionarie di
Seurat (l’uomo stereometrico). I ballerini perdevano così il loro carattere umano divenendo simili a delle marionette, la loro danza
era precisa come il movimento di una macchina.
Questo tipo di danza bio-meccanica, rigida ed impersonale, è molto lontana dalla danza estatica tradizionale; nonostante ciò
la danza rituale del rave ha moltissimi aspetti in comune con le movenze robotiche proposte dai futuristi, dai costruttivisti e da
Schlemmer.
Nella danza rave i partecipanti divengono le componenti di un unico macchinario organico, vibrante delle pulsazioni trasmesse
dalle onde sonore. I loro stessi movimenti si amalgameranno con quelli dei circuiti della musica techno.
Se da una parte il futurismo, il costruttivismo,ecc. hanno influenzato il modo di intendere il corpo identificandolo con un’esaltazione della tecnologia e della macchina, dall’altra l’espressionismo astratto (ed il fenomeno delle performance che ne seguì) ha
messo in rilievo l’aspetto interiore dell’uomo.
Per gli espressionisti infatti l’uomo sente il bisogno di esprimere se stesso, nonostante (e forse a maggior ragione) il mondo sia
sconvolto dalla tecnologia. Questo mettersi in gioco, gettando i propri sentimenti nelle opere d’arte create, è alla base della visione
di chi organizza un rave, di chi compone la musica per un rave, o di chi balla per quella musica.
Ciò che conta non è la realtà delle apparenze, ma quello che si ha dentro. Attraverso l’arte si può tirarlo fuori, ma per far questo
l’opera stessa dovrà coincidere con la vita.
A queste tematiche si ispirò dapprima il lavoro di ricerca degli espressionisti astratti; in seguito quello di tutti quegli artisti che
durante gli anni ‘60 hanno sperimentato la pratica delle performance e degli happening.
Tra gli esponenti dell’espressionismo astratto è importante citare, nell’ambito di quei percorsi che avrebbero portato alle performance (e quindi nei quali l’aspetto della corporeità è importante), l’attività di Georges Mathieu.
Fu il primo pittore infatti a dipingere i suoi quadri dal vivo, rendendo il momento stesso della creazione un’opera d’arte. Dipingeva in pochissimo tempo: non voleva che la ragione ed il controllo prendessero il sopravvento sull’impulso creativo inconsapevole.
Spremeva direttamente il colore su enormi tele, quasi in stato di trance, esibendosi in una sorta di balletto. Mathieu era quindi alla
ricerca di quell’automatismo psichico introdotto dai surrealisti che consente all’interiorità di fuoriuscire per poi manifestarsi in
colore. In questo senso si muoverà anche la ricerca di Jackson Pollock con la tecnica del dripping.
Anche durante un rave l’interiorità viene lasciata libera di esprimersi: si manifesta nei gesti e nei movimenti della danza ipnotica,
nei tratti e nelle forme visionari delle opere artistiche, nei suoni e nel ritmo della musica.
Mathieu era in contatto con il gruppo Gutai giapponese, un’associazione di artisti che si esibivano in performance nelle quali proponevano una rinnovata unione tra spirito e natura, mente ed attività fisica. Influenzati dalla cultura della arti marziali, credevano
infatti nell’educazione dello spirito attraverso la disciplina del corpo.
“Allora, da un punto di vista generale, forse non è per nulla inverosimile discutere della performance come quell’evento festoso, sacro, nel quale
vengono liberati e lasciati fluire all’esterno tutti quegli elementi corporei e psichici che la vita quotidiana e la società impongono di reprimere.
L’arte si fa carico di “espellere”, di rivelare l’interdetto, il tabu, e mostrando la carne, il sangue, lo sperma, l’urina, il dolore, il piacere, la
passione, la paura, si lega al sacro”
I.Mancini, “Con il corpo e con l’anima, nell’arte, oltre l’arte”, 2010
Durante gli anni ‘60 e ‘70, gli anni delle trasformazioni e delle rivoluzioni, la pratica delle performance era molto diffusa. Si sperimentavano i limiti del proprio corpo, si ricreavano i rapporti umani, si provocava l’etica del pubblico. I gesti compiuti durante
le performance spesso erano violenti: erano manifestazione di un disagio, un grido silenzioso. Chi vi partecipava era stimolato a
riflettere sui propri tabù e a demolirli. Le performance mettevano in scena le aspettative, le paure, i desideri nascosti degli artisti
stessi ma anche dei partecipanti: si andava a creare un rapporto di strana empatia con il pubblico. Non si poteva stabilire l’esito
finale, perchè la performance è sempre stata un’opera aperta, libera, propensa all’evoluzione in corso d’opera. Il come si sarebbe
conclusa dipendeva da numerosi fattori, primo tra tutti la partecipazione del pubblico.
La performance, dunque, è azione, e “lo spazio circostante diviene una sorta di cassa di risonanza dell’azione, nella quale la vicinanza
fisica tra spettatori e performer crea un cortocircuito di energie, un continuo scambio di tensioni e di stimoli.” (I.Mancini).
Stesso scambio avviene in un rave tra il dj (e la sua musica) e la folla danzante. Il risultato della festa dipende dal ruolo che ognuno gioca nella commedia, come, d’altronde, avviene in ogni contesto sociale, dalla famiglia allo stadio.
Le tendenze nell’ambito delle performance sono molto variegate: dagli atteggiamenti più aspri, sanguinari e tendenti al rituale
degli esponenti dell’Azionismo viennese a quell’autolesionismo quasi intimo di Gina Pane.
Da questo momento, nessuna distanza intercorrerà più tra l’artista e la sua opera, perchè egli stesso sarà l’opera.
L’arte e la vita si legano indissolubilmente, ed il luogo di questo incontro è il corpo.
“Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta
qui.”
Gabriele d’Annunzio, “Il Piacere”.
Le performance dell’Azionismo viennese sono indubbiamente state le più violente e drammatiche: i partecipanti erano comletamente coinvolti mentre venivano messe in scena situazioni scandalose e oscene, che portavano allo scoperto i tabù della società.
L’artista più rappresentativo del movimento è stato Herman Nitsch: nel suo “Teatro delle orge e dei misteri” voleva creare una
forma d’arte che fosse totale, attraverso la messa in pratica di sacrifici e distruzioni rituali di gruppo come strumento di purificazione e catarsi.
La musica Goa Dark (sottogenere della Goa, ma più veloce e caratterizzata da suoni inquetanti) prevede durante il rave una liturgia molto simile. L’intento è portare i partecipanti a vivere un’esperienza di “rinascita”, di riappropriazione di sè e del rapporto
con gli altri: quest’esperienza avviene a seguito del passaggio da luoghi bui dove regna la paura e l’incognita, nei quali si perde la
strada ed il senso della propria esistenza, luoghi ricreati grazie a suoni terrificanti ed ambientazioni tenebrose. Al momento dell’alba, quando torna la luce, la musica rallenta e le persone si ritrovano a mettere in piedi ciò che non è stato distrutto: la realtà svela
le sue apparenze, che inevitabilmente cadono, e per un attimo, forse, tutti hanno la sensazione di capire ciò che conta davvero.
Allora il rito può dirsi compiuto.
Altro aspetto importante che lega alcuni elementi delle pratiche performative (specialmente quelle degli anni ‘80 e ‘90) con la
cultura rave è quello dell’ibridazione tra organico ed inorganico, tra uomo e tecnologia.
Il corpo del XXI secolo è il più longevo e medicalizzato di tutti i tempi: è manipolato in senso terapeutico, perfezionato in senso
estetico; si possono controllare le nascite, potenziare la muscolatura, operare chirurgicamente i malfunzionamenti.
L’uomo è arrivato ad un punto in cui più è ossessionato dal proprio corpo è più ha paura della morte.
L’evoluzione è cambiata: da essere tecnica e di lunga durata, con tempi e modi adeguati ad un’assimilazione da parte di tutti, è
divenuta accelerata, in tempo reale, senza la possibilità di un’elaborazione collettiva del suo senso e dei suoi effetti, con la conseguenza di uno spiazzamento generale.
La tecnologia è diventata il modello dominante dell’evoluzione umana (anche se spesso rimane un divenire senza meta), non
essendo più subordinata, come in passato, a valori etico-filosofici.
Le identità individuali e collettive sono divenute mutanti: si definiscono e ridefiniscono in continuazione, vivono di mutamenti,
sono in continua trasformazione.
In questo contesto, nel campo dell’arte e della sperimentazione, sono fioriti da una parte la tecnologia del virtuale (ambienti digitali sperimentabili mediante apposite interfacce), dall’altra quella dell’ibridazione.
Quest’ultima ha un immaginario nutrito dalla cultura cyberpunk, nella quale domina la figura del cyborg, l’organismo cibernetico,
unione di carne viva con materia sintetica.
Già nel 1910 Marinetti diceva che l’uomo avrebbe dovuto mescolarsi a ferro e nutrirsi di elettricità. Questa posizione è stata seguita da artisti come Stelarc, che vedono nell’ibridazione un mezzo per superare il corpo obsoleto.
Le pratiche di Stelarc hanno spinto al limite la resistenza del corpo umano, entrando quasi nel campo della sperimentazione
scientifica. Stelarc intende la tecnologia come un mezzo per amplificare le proprie conoscenze e la proprie capacità, arrivando alla
creazione di un organismo ibrido, di un cybercorpo. Le sue esperienze più significative in questo senso sono state: “the third hand”
(nella quale un terzo braccio meccanico applicato al suo braccio destro compiva movimenti “intelligenti”) e “Le sospensioni”
(nelle quali si faceva sospendere al soffitto mediante ganci che gli bucavano la pelle).
Queste ultime pratiche erano legate al Rito della Danza del Sole, praticato tra gli Indiani d’America al passaggio nell’età adulta ed
accolto anche da numerose neotribù moderne. L’esperienza della sospensione porta a perdere la percezione della propria fisicità, entrando attraverso il dolore in stati di coscienza alterata. Tra le persone che hanno provato la sospensione emerge un fattore
comune: dopo una fase iniziale di dolore si sono ritrovati in uno stato di assoluta serenità, probabilmente a causa dello sviluppo di
endorfine provocato dall’emozione. In questo stato, i sensi interni si amplificano mentre la realtà esterna si dissolve, ed il corpo si
ritrova cosciente solo con se stesso.
Gli artisti che hanno affrontato la tematica dell’ibridazione hanno reso visibile il campo di battaglia in cui si manifesta la lotta tra
naturale e artificiale, carne e tecnologia.
Corpi e organi interfacciati, microchip, display e ram direttamente inseriti nel corpo: è la nascita di un organismo cibernetico, la
connessione tra elettronica e biologico.
Orlan è un altro grande esempio di ricerca in questo senso. Lei intende il suo corpo come materia grezza da modellare e da
reinventare a piacimento: attraverso operazioni di chirurgia plastica (a volte riprese dal vivo come se fossero spettacoli di teatro),
assume identità sempre diverse, incarnando ora gli ideali di bellezza classica stereotipati, ora facendosi applicare protesi facciali,
come le corna sulla fronte.
Marcel-Li Antunez Roca, esponente della Fura Dels Baus, tenendo presente le esperienze precedenti di Stelarc e Orlan, mette in
scena delle performance in cui il rapporto tra pubblico, macchina e corpo dell’attore è fondamentale. In lavori come “Epizoo,”
infatti, il pubblico è lasciato libero di dare dei comandi ad un computer interattivo che agisce direttamente sul corpo dell’artista,
provocandogli situazioni di disagio e dolore.
Il rave: delirio collettivo.
“Ascoltate! (...) Mandiamo un messaggio a quell’esercito. Stanotte scuotiamo questa caverna.
Questa notte facciamo tremare i muri di terra, ferro e pietra!
Questa notte facciamoci sentire dal cuore rosso della terra fino al nero del cielo!”
Morpheus al suo popolo, Matrix Reloaded, 2003
“Si crea un dilemma etico perché state manipolando un essere umano e, in realtà, gli state causando dolore. Io non sono sadomasochista. Ci
sono in ballo questioni più importanti: la spersonalizzazione delle relazioni umane, il confine indefinito tra sesso e potere, e l’uso del computer
come strumento di controllo...”
Marcel Li Antunez Roca
L’immaginario del cyborg ha evidentemente influenzato la cultura rave.
Il rave è un’ibridazione tra organico ed inorganico in ogni suo aspetto.
Le onde sonore della musica elettronica, sparate ad una potenza altissima e dannosa per i timpani, penetrano nei corpi dei partecipanti, con una sensazione fisica oltre che uditiva, tattile. Il corpo umano è composto per il 71% da particelle di acqua: il flusso di
decibel elevati e bassi penetranti le fanno vibrare tutte, provocando così nei danzatori la sensazione di essere mossi dall’interno,
di essere attraversati dal suono stesso. Il propagarsi di potenti onde sonore crea quindi uno spazio sinestetico, nel quale i corpi si
muovono gli uni in relazione agli altri e in un’esperienza di fusione quasi erotica con la tecnologia.
La musica stessa è creata mediante delle macchine ed i suoni che la compongono sono elettronici.
Gli ambienti in cui si svolgono i rave poi sono spesso industrie abbandonate: le casse ricreano in un certo modo i rumori che dovevano caratterizzare il funzionamento dei macchinari, mentre i partecipanti assumono quasi l’aspetto di operai sovversivi, sfuggiti
alle regole del sistema, che ripopolano e si riappropriano dei simboli dello sviluppo in decadimento.
Persino l’abbigliamento dei ravers rimanda in qualche modo ad un unione tra corpo naturale e corpo robotico, alieno. Capelli
colorati, piercing, tatuaggi: l’interesse alla manipolazione del proprio aspetto fisico è molto diffuso, anche se spesso in modo
inconsapevole.
Attraverso l’assunzione di sostanze chimiche, infine, si compie definitivamente la fusione tra organico ed inorganico.
Il rave, unione di rito e tecnologia, è un fenomeno che si manifesta in feste illegali militanti sempre in luoghi diversi, i cui partecipanti divengono tutti protagonisti, senza distinzione precisa tra ribalta e dancefloor.
Il rave si manifesta grazie alla tecnologia, ma la utilizza in chiave più umana, per soddisfare cioè quel bisogno che l’uomo sente di
far festa, di comunità e di ritorno alle origini. E’ un cortocircuito tra natura e moderno, tra uomo e macchina, tra lo spirito hippie
ed il nichilismo punk, tra il singolo e la globalizzazione.
La techno è la musica dei rave: ripetitiva ed ipnotica, si avvale di tecniche come il campionamento e la sintetizzazione; non è musica scritta, ma immediata, non è musica da ascoltare, ma da ballare, e per questo non può esistere senza feste e senza ravers. Le
sue pulsazioni si sintonizzano con i tempi del cuore dei partecipanti, ed i partecipanti sintonizzano i propri pensieri, i propri gesti, i
propri bisogni con i tempi della musica.
La costante della musica alta rende difficile la comunicazione vocale, che viene quindi sostituita dal linguaggio del corpo. Non
saranno più le parole l’importante, ma la fitta rete di gesti che si tende tra le persone. Attraverso il linguaggio del corpo risulta
possibile comunicare con tutti contemporaneamente, “parlando” e “ascoltando” nello stesso momento, situazione che, attraverso
il dialogo parlato, non sarebbe fattibile. Ed infine tutti capiscono tutti. Perchè, a volte, uno sguardo o un gesto valgono più di mille
parole.
“Il vettore unificante di tutte le danze rituali è sempre la pulsazione, sempre la musica.
Quindi ad un certo punto la musica va oltre le parole, va oltre il ritmo inteso come semplice sucessione di gesti ed unifica quello che è la tribù”
Intervista tratta dal film “Tekno, il respiro del mostro.”
Il rave è come una bolla temporale che schizza fuori dalle crepe del sistema, per poi creare una realtà nella quale non esiste il passato e nemmeno il futuro; nella quale esiste solo il qui ed ora. Ogni festa è come se fosse il continuo di una festa precedente, o la
stessa di una che deve ancora succedere. Il tempo in un rave scorre senza che nessuno se ne accorga; è come un istante continuo,
in cui reminiscenze, ricordi, sogni, aspettative si mescolano con il tempo attuale, creando un nuovo livello di realtà scandito dai
BPM della musica.
“Nello spazio del rave il tempo si allunga, si accorcia, scompare, per riapparire nel tempo in cui termina la festa.”
Xsephone, “Tecnologia,tribalismo e forme di nomadismo metropolitano”
Durante la festa viene così ricreato un tempo che non è più regolato dall’orologio, ma che si avvicina ai tempi della natura, cadenzato cioè dal corso della luna e del sole, dai movimenti della comunità e dai propri bisogni fisici e psicologici.
Il rave è assimilabile ad una di quelle feste del passato che però è slittata via (o costretta a svanire) dal suo intervallo stagionale,
ritrovandosi ora libera di apparire dovunque e quando vuole. Per i suoi forti legami con le feste tradizionali i party più importanti
sono ancora oggi legati a dei momenti particolari dell’anno, come i solstizi e gli equinozi, il Natale ed il capodanno, il giorno dei
morti e la Pasqua. Come sottolinea un componente degli Spiral Tribe, “la Techno è folk.”
Il rave è un’insurrezione, una sollevazione che salta fuori dall’ordinario e dalle leggi della società “civile” per occupare quei luoghi che sono passati inosservati agli occhi della macchina, apparentemente onnipresente, dello Stato.
Generalmente non è un atto violento: la tribù dei ravers agisce in maniera sotterranea, colpisce e poi fugge prima che lo Stato
possa rendersene conto, mantenendosi sempre in movimento, in continua peregrinazione ed evoluzione da una “Zona Temporaneamente Autonoma” ad un’altra.
“La -Zona Temporaneamente Autonoma- (TAZ) è come una sommossa che non si scontri direttamente con lo Stato, un’operazione di guerriglia
che libera un’area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro tempo, prima che lo stato la possa schiacciare.”
Hakim Bey, “T.A.Z.”
Il party non deve essere ordinato, nè può esserne stabilito lo svolgimento, la durata o l’esito finale: deve semplicemente accadere,
in corso d’opera.
La vera festa non si manifesta sempre nello stesso luogo e non cerca compromessi, non può essere una costante: sarebbe una contraddizione con l’idea stessa di T.A.Z.
La vera festa non è a pagamento: è un insieme di individui che sentono il bisogno di unirsi , dando vita a spazi liberi dai soldi; spazi in cui la figura di artisti, scultori e musicisti, rimane in disparte. Non c’è l’idea della mercificazione dell’arte, ma solo l’intento
del lavoro autoprodotto e l’idea di condividere le proprie esperienze. La fruizione dei visitatori sarà totale, proprio perchè, come in
una performance, si trasformeranno da semplici spettatori a veri e propri collaboratori dell’evento.
Il rave ricrea dunque spazi autogestiti ed autonomi, nei quali ognuno è libero di portare la propria creatività, e, proprio per questo,
sono clandestini.
Sono luoghi in cui ci si rifugia dalla realtà di tutti giorni, da quei luoghi in cui la libertà artistica e di comunicazione è repressa.
Focault ha introdotto il concetto di eterotopie per indicare quelle zone, metropolitane e non, nelle quali i visitatori possono scomparire. In queste zone si mette in atto una sospensione delle regole del sistema e viene sovvertito l’ordine sociale.
Proprio per questo ideale di “scomparsa” i rave sono stati spesso accusati di puro edoneismo.
Non bisognerebbe però dimenticare che, nel combattere la società ordinaria, oltre all’attivo impegno politico, bisogna anche mantenere salda la propria autonomia di espressione all’interno di una comunità. Il ricordarsi di esistere come esseri liberi e pensanti è
il primo passo contro la macchina del sistema.
Ma le libertà di danza, di arte e di movimento tipiche della festa si riducono, agli occhi del mainstream, allo stereotipo del rave
come supermercato di droghe, in cui si riversa una folla di giovani senza rispetto nè ideali, che annebbiano la mente per qualche
ora dimenticandosi della vita di tutti i giorni.
In realtà questa descrizione è propria, più che per il rave illegale, per la discoteca da mainstream: è il divertimento plastica a
funzionare bene per i giovani senza interesse sociale e politico; è il dolce servito pronto e ben impacchettato dopo la settimana
lavorativa che vuole tenere buone e spente le menti delle persone.
“Quando lo stato reprime i rave, non reprime il fatto che sei davanti alla cassa, che fai casino,che ti ubriachi o che ti droghi, non e’
questo che vogliono reprimere. Vogliono reprimere, e lo stanno , proprio la liberta’ di espressione, il creare quell’energia che non puo essere
controllata”
Intervista tratta dal film Tekno, Il respiro del mostro.
E’ vero però che sempre più spesso i rave (sopratutto quelli più pubblicizzati e vicini alle città) facciano da richiamo per tutti quei
ragazzi che hanno come unico obiettivo il drogarsi; persone a volte addirittura violente ed aggressive, che non si preoccupano di
quello che accade intorno. Individui che, all’arrivo della polizia, sarebbero i primi a scappare il più velocemente possibile. Quando
in una dancefloor ci sono troppe persone di questo tipo va da sè che la festa sarà un fallimento.
Le droghe sono uno strumento di divertimento, di comunione con se stessi e con gli altri, aiutano a trascendere la realtà, e da sempre sono utilizzate nei rituali. Ma devono comunque rimanere un aspetto della festa, non l’unico scopo. La popolazione è passata
dal farne un uso sacro al farne un uso profano e consumista, autodistruttivo.
Come è già avvenuto per le subculture precedenti, anche la cultura rave sta via via cedendo sotto la pressa della mercificazione.
Svendendo lo stile, la musica, le abitudini alle grandi masse gli ideali iniziali vanno persi. E’ per questo motivo che si cercano
luoghi sempre più remoti per organizzare i rave (quelli veri però!), oltre che naturalmente per sfuggire alla polizia.
“Le risse da ubriachi lasciamole alle discoteche. Qua creiamo qualcosa di diverso.”
Boathek
Per creare queste realtà, in cui regna la libertà di fare festa e di esprimersi ed in cui non esistono le regole del mercato, bisogna che
i partecipanti stessi si riconoscano come esseri liberi dal sistema in cui vivono. O quanto meno bisogna che le persone sappiano
distinguere quali sono i limiti imposti dalla società delle apparenze, quali sono le costrizioni che l’uomo si autoinfligge e quali
sono le fantasie e le aspirazioni nelle quali si fanno fossilizzare, rilegate, le proprie idee. E’ con questi presupposti che avviene un
rave: se gli individui sono consapevoli, se non dimenticano l’ideale della riappropriazione della propria e collettiva libertà, se non
ci si vende alle leggi del mercato, allora avviene la vera festa.
La speranza è che l’idea di festa non possa essere spenta, per quanto possa essere trasformata.
Si cerca di preservare l’autentico spirito della festa, di condivisione, di creare, attraverso la danza, un’unica sostanza lattiginosa
simile ad un guazzabuglio primordiale, in cui i corpi si muovono in relazione agli altri.
La vera festa si distingue dalle altre proprio perchè i partecipanti si ritrovano a condividere qualcosa che va al di là della realtà
contingente. In un rave quello che viene condiviso è il proprio presente, il proprio essere vivi in quel momento. E’ quando la
coscienza collettiva delle persone va oltre un certo limite che una festa si trasforma in una “vera” festa, in una festa estatica.
L’esperienza estatica avviene quando le coscienze dei partecipanti, convogliate dalla musica ipnotica, si risvegliano in uno spazio
collettivo, al di fuori delle restrizioni sociali e culturali.
Mentre il corpo, privo di inibizioni, si muove sulle onde sonore in una danza ripetitiva e tribale, la mente raggiunge livelli di coscienza che nella vita di tutti i giorni rimangono inesplorati: diviene ricettiva, giocosa, libera di viaggiare tra i segreti della propria
anima. E’ l’estasi che si sprigiona a rendere unico un rave. E’ la sensazione di appartenere con tutta l’anima ad un luogo, ad una
comunità, ad un qualcosa che di lì a poco si dissolverà per sempre, a rendere intenso il presente.
“Immagina la scena: ci sono molti di noi insieme, uniti nella musica, ballando come ci piace e con chi ci piace. Condividendo il momento, le
luci, la vibrazione. Non esiste nient’altro oltre a questo. Nessun passato, nessun futuro, nessuna preoccupazione, nessuna paura: soltanto questo.
Con i cuori aperti, le menti aperte, vivendo appieno, amando totalmente, sentendoci liberi, sentendoci felici, sentendoci bene. Accettando noi
stessi per quello che siamo e sentire lo stesso dalle altre persone.
Non è semplice descrivere con le parole l’esperienza del Rave. Per coloro che non ci sono mai stati nessuna descrizione puo rendere l’idea della
forza e dell’intensità di questa esperienza e di tutto ciò che gli sta intorno.
Il Rave di cui parliamo non si riferisce a nessun particolare stile di musica nè di festa.
Il Rave è un’esperienza unica interiore, che viene espressa esteriormente e condivisa collettivamente.
Al rave si crea un’atmosfera di libertà, amore ed eguaglianza semplicemte per essere insieme, per ballare e celebrare la vita.”
Dal sito web www.rave-theawakening.com.
Sono le tribe dei sound system ad organizzare, solitamente, un rave.
Se la Techno ha avuto origine negli U.S.A, là non è mai uscita dai club, e col tempo si è commercializzata. E’ in Inghilterra invece
che, una volta legalizzati i locali underground, si è sviluppato il fenomeno dei rave. Tra i primi a portare un soundsystem ad un
festival musicale sono stati gli Spiral Tribe, che hanno introdotto anche il concetto di tribù moderna, tribù metropolitana.
Il mondo moderno è stato appiattito da una tirannica e falsa unità culturale che tende a soffocare le differenze, cosicchè “un posto
vale l’altro”.
Questa situazione ha creato “zingari, viaggiatori psichici spinti dal desiderio o dalla curiosità, vagabondi con poche lealtà, non legati a
nessun particolare luogo o tempo, in cerca di libertà e di avventura. (...) Questi nomadi praticano la razzia, sono corsari, sono virus, hanno
bisogno e voglia di T.A.Z.; campi di tende nere sotto le stelle del deserto, interzone, oasi fortificate nascoste lungo carovaniere segrete, parti di
giungla e di pianura “liberate”, aree proibite, mercati neri e bazar sotterranei”.
Hakim bey, “T.A.Z.”
La tribù è una banda, una combriccola di persone unite dagli stessi interessi e voglia di fare, i cui confini sono aperti al continuo
ingresso ed uscita dei membri componenti. Nei casi più spinti vivono insieme organizzati in comunità, o errando di casa in casa
come gli squatters, o ancora su furgoni attrezzati come case mobili; spesso soddisfacendo i propri bisogni servendosi del surplus
della produzione. “Skipping” si chiama infatti la pratica di raccogliere oggetti buttati via, ma che siano ancora in buono stato, o il
cibo che sta per scadere impilato fuori dalla porta dei supermercati.
La cultura techno è selvaggia, perchè il party è sempre un’avventura; è segreta, perchè nascosta nei bassifondi e caratterizzata da
una precisa simbologia; è una cultura”sulla strada”, alla Kerouac.
Le prime tribe sono nate a Londra: i Mutoid Waste Company a Charing Cross e gli Spiral Tribe a Brixton. Gli Spiral Tribe sono
stati forse il primo gruppo a divenire così numeroso (23 componenti) e a riscuotere così tanto successo ancora oggi. Sono divenuti
famosi organizzando insieme ad altre tribe e travellers l’enorme evento gratuito da 50’000 persone a Castelmorton, una settimana
di psichedelia contemporanea portata a termine al sesto giorno con l’arresto da parte della polizia di 13 componenti della tribe.
“...e se arrivano a chiederci di abbassare il volume, mi dispiace, non lo faremo! Alziamo il volume in ogni caso. Se hai voce, grida. Il nostro
motto è -Make some fucking noise!-”
Mark Harrison, Spiral tribe.
Le neotribù si mantengono in contatto tra loro grazie alla sottorete di informazione. Questa rete è composta da flyers, catene telefoniche e, soprattutto, da blog e siti internet. Provvede al supporto logistico nell’organizzazione dei rave ed alla trasmissione della
sua cultura e dei suoi ideali. Sulla rete si scambiano dati, foto, testi scritti, canzoni. Può essere considerato il background delle
feste: si mantiene vivo lo spirito ed i rapporti di comunicazione, anche tra persone distanti tra loro.
Ma la T.A.Z., per quanto supportata dalla rete telematica, esiste solo attraverso un’esperienza diretta, senza mediazioni, e non
vuole in nessun modo trascendere il corpo in favore dell’istantaneità e della simulazione.
Per una giusta riuscita degli scopi, non dovrà essere il computer a limitare l’attivismo concreto, tattile, materiale delle persone; al
contrario dovranno essere le persone, forti dei desideri di primitivismo e tribalismo, ad “infettare” la rete stessa.
La rete telematica, dunque, non deve rappresentare il fine in sè (come per esempio avviene, purtroppo sempre più spesso, tra quelle persone che dimenticano il senso delle cose e si ricordano solo di coltivare la propria immagine sui blog) ma deve essere usata
come un’arma.
“Lasciateci ammettere che abbiamo preso parte a delle feste, dove per una breve notte venne ottenuta una Repubblica di Desideri Gratificati.
Non dovremmo confessare che le politiche di quella notte hanno più realtà e forza per noi che non, poniamo, tutto il governo degli Stati Uniti?
Alcune delle “feste” che abbiamo rammentato sono durate per due o tre anni. E’ questo qualcosa per cui vale la pena immaginare, vale la pena
lottare?”
Hakim Bey, “T.A.Z.”
Chi torna da una festa si porterà dentro la consapevolezza che, con un po’ di impegno e di coraggio, realtà diverse possono esistere; anzi esistono già.
Le scenografie dei rave.
“L’espressione artistica è l’ultimo, invalicabile baluardo della libertà umana. Non c’è confine che non possa essere oltrepassato; non c’è scadenza impellente da rispettare; non c’è vincolo che freni o limiti la creatività. C’è solo l’uomo con la sua esigenza di esprimersi.”
novalguy on Ninja Marketing
Dai capannoni abbandonati, immersi nella nebbia e nella desolazione di un freddo paesaggio post industriale, agli altopiani arroccati sulla cima di cave dismesse, che si affacciano sul mare; dai sotto-cavalcavia circondati da canali dove l’acqua scorre scura e
lenta, a radure nascoste in foreste incantate; dagli edifici dimenticati in pieno centro città a quelle calette nascoste come fossero
covi di pirati; dalle rive di laghi sperduti nel centro del deserto ai verdi prati delle campagne: è evidente come ogni paesaggio
possa influire in maniera completamente diversa sul tipo di sensazioni provate dai partecipanti.
Oltre all’ambiente specifico del luogo, l’aspetto scenografico contribuisce all’immedesimazione in divinità immaginifiche ed in
mondi paralleli; proprio come era stato per le danze rituali antiche.
Le scenografie per i rave prevedono una fruizione collettiva ed un intervento attivo da parte dei partecipanti, inoltre mirano ad occupare in modo fantasioso e creativo lo spazio. Non si può individuare uno stile o una corrente unitaria in questo genere di forma
d’arte, in quanto ad ogni individuo è permesso di dare libero sfogo alla propria fantasia. Non deve esistere una barriera distintiva
tra opera e spettatori: tutti sono in qualche modo co-produttori del risultato finale, sia contribuendone alla precedente realizzazione
pratica e ideologica che facendola vivere sul momento, durante la festa.
Viene dunque creata una condizione nella quale:
“ L’artista non è un tipo speciale di persona, ma ogni persona è un tipo speciale di artista”.
A.K.Coomeraswamy.
I rave si svolgono in un ambiente multisensoriale nel quale si muovono i danzatori.
Lo spazio viene occupato dall’ingombrante presenza fisica del soundsystem, dalle decorazioni, dalle luci e, sopratutto, dal suono.
La musica, di ogni tipo e genere, crea paesaggi sonori ideali per l’universo dell’immaginazione e della psiche. In un rave l’immaginazione diviene collettiva, in quanto tutti si ritrovano all’interno dello stesso spazio musicale.
Le luci saranno sincronizzate con i movimenti della musica, così come le eventuali videoproiezioni; mentre le installazioni contribuiranno, con la parte visiva, ad indurre i visitatori in un’esperienza sinestetica. Sinestesia significa coinvolgimento simultaneo di
più sensi: in questo caso la vista, l’udito e l’esperienza tattile provocata dalle onde sonore molto forti.
I rave, dunque, danno vita ad uno spazio che prima di tutto è sonoro: gli elementi scenografici saranno subordinati, ed influenzati
nello stile, dai toni della musica.
Le sonorità caratterizzate dall’alto volume e dalla bassa frequenza stabiliscono un contatto fisico con gli ascoltatori, interferendo
nei loro pensieri ed ammagliandone le emozioni. Come sostiene R.Murray Schafer nel libro “Il Paesaggio Sonoro”, nell’epoca
primitiva questo tipo di suono era generato esclusivamente dal rumore dei tuoni; in seguito sono state le chiese con i canti corali
dei monaci a far vibrare gli animi dei fedeli; poi la scienza della guerra ha introdotto il rombo profondo dei cannoni; infine, con la
rivoluzione industriale, il pulsare delle macchine si è impossessato dell’immaginario comune.
L’impianto di un sound, con le sue “buone vibrazioni”, ruba il potere “del rumore consacrato” all’industria per inserirlo nella vita
dei ravers, dei travellers e delle loro comunità.
Lo spazio sonoro generato dalla techno necessita di una particolare ambientazione che servirà a caratterizzarlo, donandogli significato e valore aggiuntivo.
Il paesaggio naturale, artificiale o urbano; le installazioni multiprospettiche e le sculture polimateriche; gli abiti stessi delle persone e le loro maschere, contribuiscono tutti a dare un determinato tipo di spirito alla festa.
La scelta del luogo è il primo aspetto da considerare, e sarà determinante nel flow generale.
Le opere non vanno dunque pensate per essere vendute come merce, ma dovrebbero conservare l’idea di creare solo per il gusto
di farlo, di condividere le proprie esperienze con gli altri e di regalarne di nuove a sé stessi.
“E’ possibile creare un teatro segreto nel quale sia l’artista sia il pubblico siano completamente scomparsi, per riapparire su di un altro piano,
dove vita e arte sono divenute la stessa cosa, il puro dare dei regali?”
Hackim Bey, T.A.Z
“L’arte dei talenti sotterranei viene prodotta per il gusto di farla, perché se ne sente l’esigenza. Per questo tipo di arte non c’è spazio, non si
riempiono le colonne dei giornali e non ha occasioni di visibilità.
Ma è creatività allo stato puro, non inquinata dalle logiche di mercato e svincolata dai generi. Un caleidoscopio di idee che vivono ai margini,
ai confini, che non fanno rumore e che non disturbano. Arte necessaria, perché vista dai suoi creatori come una necessità d’espressione, una
librazione, un grido.”
Tano Rizza a proposito di “Where is 101?”, 2006.
Le installazioni che si possono trovare nelle feste sono tutte, in un modo o nell’altro, esempi di arte ambientale, perchè tutte sono
pensate per essere collocate in uno spazio tridimensionale, da modellare e reinventare.
Lo spazio diventa quindi parte integrante dell’elaborazione creativa.
“l’intervento ambientale si distingue dall’opera oggettuale in quanto rimanda all’intenzione di risultare un lavoro relativo a un determinato
contesto(...). L’arte crea uno spazio ambientale nella stessa misura in cui l’ambiente crea l’arte”
Germano Celant
Le scenografie dei rave propongono strutture disorientanti tali da mettere in crisi la normale percezione dello spazio-tempo.
Intelaiature di fili fluorescenti protese in prospettive impossibili, enormi assemblaggi di inquietanti mostri robotici, giochi ottici
che si sviluppano in tutte le dimensioni, sistemi solari e galassie inesistenti appesi per aria: innumerevoli sono gli esempi e gli
stili di realizzazione, ma il comune denomitatore può essere ritrovato nella progettazione di strutture percettivamente incongrue e
sfalsanti.
Stessa sorta di intenti caratterizzavano negli anni ‘60 gli ambienti ottico-cinetici dell’arte programmata. Interessante per esempio l’esperienza di Gianni Colombo del 1967, “After Structure”: uno spazio ricoperto da regolari griglie quadrettate, con linee
rosse,verdi e blu, che a causa di flash luminosi intermittenti producevano sorprendenti effetti visivi a livello di persistenze retiniche.
“Siamo immersi nella trinità spazio-tempo-materia come il pesce è immerso nell’acqua”
Rafael Soto a proposito dei suoi penetrables.
Nello stesso periodo Pinot Gallizio, con la sua “Caverna dell’Antimateria”, diede vita ad un ambiente completamente ricoperto di
tela dipinta, in un’esplosione di colori materici ed organici, pulsanti di energia primordiale e ricchi di valori magici e psichici.
“Uno spazio dell’antimondo, metafora del caos primigenio, del mondo in formazione, grande utero cosmico, luogo primario di emergenza di
emozioni vitali”
Francesco Poli, “Arte Contemporanea”
Se da una parte l’ambiente di un rave può essere descritto come un caotico miscuglio di elementi visivi, uditivi,olfattivi e tattili
sovrapposti, dall’altra può paradossalmente essere immaginato come lo spazio dell’assenza della materia, lo spazio del nulla.
L’ambiente infatti a volte si presenta vuoto e privo di elementi decorativi: in uno spazio del genere, dove dal buio emerge possente il ritmo incalzante del soundsystem, i partecipanti si ritroveranno soli con se stessi, alla riscoperta di parti di sé che nella vita
quotidiana si tende a far tacere.
Il suono, rimanendo l’elemento preponderante ad occupare lo spazio, viene percepito dagli ascoltatori in modo totale, attraverso
tutti i sensi: in un rave la musica si ascolta, si vede, si tocca.
Ancora più radicale era invece la tendenza di alcuni artisti minimal che, negli anni ‘70, avevano portato alla creazione di ambienti
in cui fossero aboliti sia la luce che i suoni, stimolando la percezione sensoriale pura, assoluta ,primaria.
Il visitatore, completamente isolato dalla realtà, perpepiva in modo amplificato se stesso, in un esperienza al confine tra fisicità e
trascendenza.
Uno dei primi ambienti completamente privo di riferimenti visivi era sta proposto nel 1958 da Yves Klein con“La Vide”: dipinto
di un profondo blu oltremare, colore dell’infinito e dell’assoluto, faceva immergere i suoi visitatori in una dimensione di sospensione ed immaterialità.
Nel corso del 1900 le correnti artistiche si sono misurate con questa nuova concezione dell’opera dialogante con lo spazio circostante, dando vita sia a ricostruzioni di ambienti veri e propri che, negli interventi più radicali della land art, a vere e proprie
manipolazioni spettacolari del paesaggio naturale.
Già Boccioni, nel suo Manifesto tecnico della scultura futurista, nel 1912 proclamò che “non vi può essere rinnovamento se non attra-
verso la scultura d’ambiente, poichè in esse la plastica si svilupperà prolungandosi per modellare l’atmosfera che circonda le cose”.
Le opere di arte ambientale che si trovano nella culture rave devono molto alle ricerche condotte in questo senso dagli artisti delle
avanguardie storiche e delle tendenze contemporanee.
Nel 1949, per esempio, Lucio Fontana aveva creato un “Ambiente spaziale con forme spaziali ed illuminazione a luce nera”, in
cui sinuose forme fluorescenti emergevano dallo spazio buio grazie alla luce di wood.
Fontana introduceva dunque l’idea di poter modellare lo spazio attraverso la luce.
Anche nei rave lo spazio viene disegnato dalla luce: fasci di luce al neon, proiettori colorati e strobo si diramano dal soundsystem,
riproducendo visivamente il moto in espansione delle onde sonore e creando una scomposizione ritmica del tempo. Nelle feste goa
inoltre vengono utilizzate frequentemente installazioni e sculture fluorescenti, illuminate proprio con i neon di wood, che appaiono
come presenze evanescenti e lattiginose.
In realtà la ricerca sugli effetti ottici generati da oggetti autoilluminanti in movimento era iniziata ben prima di Fontana, agli inizi
del 1900: da una parte si può far risalire al lavoro di Loile Fuller, che danzava in un vortice di luce fosforescente grazie alla sue ali
di farfalla al radium, dall’altra a quello di Giacomo Balla, che con i “Fuochi d’artificio”, offre uno spettacolo in cui solidi geometrici illuminati dall’interno si accendono e spengono in susseguirsi di situazioni cromatiche.
Altra tendenza delle installazioni per le scenografie rave è il gusto per l’assemblaggio, per l’accumulo, per la meccanica di oggetti
di scarto smontati e rimontati in nuove forme, a volte persino in movimento. La radice della passione per i componenti meccanici,
elettronici o cinetici è facile ritrovarla nelle avanguardie storiche di futurismo e costruttivismo o, citando esempi più moderni,
anche in opere come quelle di Jean Tinguelly ed in generale negli artisti della corrente ottico-cinetica.
Mentre futurusti e costruttivisti erano interessati alla meccanica del movimento, gli artisti optical-art si interessarono al concetto
del movimento, alla sua stessa essenza.
Le opere e le installazioni che popolano le scenografie rave sono quindi in gran parte frutto di un immaginario “deviato” dalla
tecnologia, dai videogiochi, dai viaggi nello spazio e dalla credenza, ormai largamente diffusa, in alieni extratterrestri e realtà
parallele. Queste influenze sono evidenti per esempio nelle installazioni luminose di robot o nelle intelaiature di fili fluorescenti
che ricordano i reticolati con cui si disegna uno spazio virtuale. Spesso inoltre la disposizione degli elememti ricorda l’interfaccia
grafica di alcuni videogiochi.
Un altro fattore che in qualche modo ha suggestionato l’estetica rave è il luna-park:
“I luna park, con le giostre che simulano labirinti in cui perdersi, giochi di specchi deformanti che alterano le percezioni sensoriali, percorsi
accidentati in virtuali caverne buie verso ignoti meccanismi di paura, e più di tutto, con l’altissima velocità delle giostre, che ruotano su se
stesse o corrono su binari capovolti, lasciando le persone sospese a testa in giù o lanciandole nello spazio ben legate ai loro seggiolini, sono i
luoghi più prossimi alle discoteche, ai club e ai rave.
Altro elemento comune è la musica, generata elettronicamente ed in loop perenne, quasi fosse la colonna sonora che segna il tempo delle
macchine-giostre.
Il motivo che spinge la gente, non solo i bambini, ad andare al parco dei divertimenti è il desiderio di potersi perdere attraverso semplici
alterazioni sensoriali, che fanno provare il brivido di potersi smarrire per davvero in un vortice di velocità, condividendone l’ebrezza con altre
persone.”
Claudia Attimonelli, “Techno, ritmi afrofuturisti”
Si espressero sia con opere in vero e proprio moto fisico (Jean Tinguelly con i suoi assemblaggi rumoreggianti o Alexander Calder con i suoi “mobiles”) che con opere in movimento virtuale, grazie all’uso di complicate illusioni ottiche ( i dipinti di Bridget
Riley o di Victor Vasarely). Quest’ultimo genere di sperimentazioni, basato sull’idea di simulare il movimento servendosi di
inganni ottici, si ritrova in molti esempi di estetica del rave, dai dipinti bidimensionali alle installazioni tridimensionali.
Le esperienze delle cumulazioni, tipo il “Marzebau” di Schwitters o “Le Plein” di Arman, hanno dato il via a quell’amore per gli
assemblaggi di oggetti, specialmente scarti e rottami (ovvero la spazzatura della società consumistica), che caratterizza ancora
oggi lo stile di alcune tribe.
Negli environment di Alan Kaprow veniva portato alle estreme conseguenze il concetto dadaista di fusione tra arte e vita. Erano
ambienti in cui venivano create esperienze caotiche e multisensoriali, ad esempio con accatastamenti di oggetti e suoni elettronici
difffusi da altoparlanti, in cui gli spettatori venivano direttamente coinvolti nell’esperienza artistica.
“Qui la tradizionale nozione dell’artista creatore individuale (il genio) è sospesa in favore di un tentativo collettivo (il gruppo sociale come
artista). L’arte è diventata variabile come il tempo. Ma gli environment non sono concepiti solo per integrare gli spettatori nel lavoro; essi
dovevano immergersi negli spazi reali e nei contesti in cui erano collocati. Dovevano uscire dal troppo chiuso contesto dell’arte (studi, gallerie,
musei) per immergersi nella natura e nella vita urbana. Ma a questo punto si sono trasformati in happening...”
Alan Kaprow.
Si può immaginare l’ambiente di un rave come un environment del futuro, dove la percezione dello spazio è distorta o amplificata, in cui tutti i sensi vengono coinvolti contemporaneamente, ed in cui le onde sonore divengono tangibili.
Dal punto di vista stilistico l’aspetto principale dell’estetica rave è la rappresentazione della tecnologia in tutte le sue forme. Dipinti e sculture che fondano insieme organico ed inorganico, sagome geometriche, giochi di luce: tutto è un continuo rimando alle
proprie origini di provenienza: la sviluppata ed industriale società moderna. Persino il soundsystem diviene un totem eretto alle
macchine, che diffonde musica prodotta elettronicamente.
“Se il famoso gioco pac man avesse influenzato in qualche modo i ragazzi nati negli anni ‘80, dovremmo avere ora un mucchio di teen ager che
si muovono in maniera convulsa, in stanze buie, mentre inghiottono pillole magiche e ascoltano musica elettronica ripetitiva”
Kristian Wilson, Nintendo, Inc, 1989
Attualmente, si possono distinguere nell’estetica rave due tendenze principali: lo stile goa e quello tekno.
Lo stile goa potrebbe in qualche modo essere definito come la versione moderna dell’arte psichedelica degli anni ‘70.
Forse proprio a causa delle sue origini, lo stato di Goa in India, è caratterizzato da una tendenza più spirituale e vicino alla natura.
L’arte prodotta in questo contesto si distingue per l’uso di colori accesi ed illuminati con le lampade di wood e le installazioni a
base di lycra, una stoffa bianca ed elastica che, sotto la luce dei neon ultravioletti, si accende di sfumature blu.
In questo modo vengono creati degli spazi immaginifici ed immersivi nei quali la fantasia è lasciata libera di volare.
Fondamentali in questo senso sono le esperienze a cui è giunto Ernesto Neto nell’utilizzo creativo della lycra: imbottendola di
spezie profumate compone ambienti multisensoriali che eccitano il comportamento dello spettatore, attraverso stimoli istintuali,
passionali ed ingenui.
“C’è un rapporto molto forte tra me e l’ambiente in cui opero, che influisce profondamente su quello che faccio; un po’ come il camaleonte, la
pelle si trasforma, rispondendo alle sollecitazioni dello spazio”.
Ernesto Neto.
Oltre alle installazioni tridimensionali, sono molto popolari anche le enormi tele dipinte coi colori sensibili alla luce di wood: i
disegni possono raffigurare sia soggetti di cui si individua la forma, come animali inventati o paesaggi fiabeschi, sia fantasie psichedeliche astratte, che simulino cioè un movimento virtuale. Quest’ultima tipologia di disegno illusionistico ricorda dal punto di
vista dello stile e della forma alcuni dipinti ed installazioni di artisti dell’optical art, per quanto i modi di fruizione siano completamente diversi.
I teli dipinti vengono appesi sui lati del dancefloor o alle spalle del dj, aprendo così delle finestre su lucenti mondi paralleli, con un
effetto molto simile a quello esercitato dagli affreschi a trompe l’oeil.
Lo spazio di un rave goa è generalmente costituito da uno spiazzo per ballare, il dancefloor, che si affaccia sulla postazione del dj.
Il dj si ritrova quindi di fronte la popolazione danzante, in uno scambio diretto di emozioni e dialogo gestuale. Le casse del soundsystem hanno un valore secondario rispetto alla presenza del dj, e sono quindi assemblate solitamente su due colonne disposte ai
lati.
In prevalenza non si utilazzano proiettori strobo, ma si preferisce la luce più dolce dei neon ultravioletti e le videoproiezioni di
immagini caleidoscopiche.
Si dà una particolare attenzione anche all’area per il riposo, la chill out o buddha bar, nella quale vengono allestiti tendoni (come
quelli del circo o dei beduini del deserto) con tappeti e cuscini all’interno o, nelle versioni più spartane, spazi intimi e raccolti
circondati da teli fluorescenti.
I luoghi dove si possono trovare le massime espressioni di arte goa sono i festival.
Purtroppo i festival spesso sono commercializzati e, da essere libere e gratuite espressioni artistiche, divengono, ampliandosi,
degli eventi a pagamento, nei quali troppa organizzazione è a scapito dello spirito originale.
Nonostante ciò, i livelli che vengono raggiunti sono davvero notevoli.
Enormi strutture sostengono complicati sistemi di teloni tesi da un lato all’altro, a creare particolari forme sopra il dancefloor,
come se degli immensi fiori sbocciassero in un tripudio di petali colorati. Numerosi gli interventi site specific condotti nell’ambiente naturale circostante: i materiali sono pietre, rami, tronchi, terra, conchiglie e tutto ciò che si può trovare intorno. Le installazioni che ne prendono forma sono in armonia con la natura circostante e necessitano di una fruizione interattiva da parte dei
visitatori.
Girandole, vele e piccoli mulini fanno da pale per eliche giganti, ruotanti con il soffio del vento. Spettacolari opere dalle forme
più svariate popolano i prati dove si svolgono i festival: dagli alberi sacri ai ponticelli sui fiumi, dai sentieri nascosti illuminati da
lampade stavaganti e colorate agli enormi stendardi svolazzanti.
Nelle installazioni goa, lo sguardo viene rapito dalle magiche sagome luminose che emergono dal fondo buio ed incantato dalle
complicate fantasie con cui sono decorate. Sono opere da guardare da vicino, le forme principali nascondono altri disegni, volumi
generano altri volumi, in un gioco fatato in cui ogni cosa sembra sempre qualcosa d’altro. Le decorazioni luminose vengono
sospese in aria, a formare immaginifiche costellazioni e galassie, mari popolati di una stravagante fauna acquatica, immense
ragnatele o ancora ambienti astratti dalle forme geometriche.
Possono essere strutture composte dai più svariati materiali, come la cartapesta, il legno, la plastica, la stoffa lycra; o anche telai in
legno tra i quali vengono tesi fili fluorescenti in complicati reticolati.
I singoli elementi vanno a comporre uno spazio unitario ed organico, in cui ogni componente della scenografia comunica con gli
altri.
Il fronte tekno invece, forse anch’esso proprio a causa del suo luogo di origine, Detroit, ha uno stile influenzato prevalentemente
dal mondo dei robot e delle macchine.
L’industria abbandonata, emblema della società moderna e già tramutata in maceria, diviene così uno dei luoghi simboli del rave
tekno.
“Sono i luoghi della nostalgia e della polvere, del silenzio e dell’immobilità, dello scorrere del tempo. I luoghi del sublime, del proibito, del
vietato l’accesso ai non addetti ai lavori, per questo ancora più affascinanti e misteriosi. Sono i luoghi delle periferie, dei margini, dei bordi, dei
confini. Delle vite al limite, della desolazione, delle mescolanze, dei contrasti.”
Paola Verde, fotografa.
Le scarne scenografie tekno sono quindi generalmente costituite per lo più da dipinti bidimensionali, caratterizzati da aspre linee
di contorno, disegni geometrici, illusioni ottiche e forti contrasti di colori, come il giallo con il nero, o il rosso con il bianco.
Le fabbriche abbandonate generano scenari apocalittici di affascinante distruzione.
La polvere sollevata dal calpestio delle persone si alza in voluttuose spirali, rendendo tangibili i fasci di luce provenienti dalle
aperture su muri e soffitti o dai proiettori. L’acqua piovana si deposita sui pavimenti riflettendo a specchio l’immenso scheletro
della struttura. Carcasse di apparecchiature rotte giacciono disseminate nello spazio mentre pezzi di tubi fuoriescono dalle pareti,
come tentacoli mozzati di un mostruoso essere sconfitto. Colature di ruggine e macchie di muffa creano sorprendenti disegni
sull’intonaco scrostato. Gli enormi saloni si scompongono e si inscatolano gli uni sugli altri in prospettive geometricamente
perfette, ritmante dai colonnati e dagli architravi, interrotte solo dalle aperture dei fianchi sventrati. E’ questo contesto spaziale a
caratterizzare prima di tutto la scena di un rave tekno. La fabbrica tornerà in funzione per una notte, il suo cuore tornerà a pulsare.
“La fabbrica ha prodotto, è stata attiva e incredibilmente vitale, finita la sua utilità è stata lasciata al tempo, abbandonata, come per affermare
che se non produci non sei degno di vita. L’arte sotterranea è viva, in fermento, produce, e reclama spazio. La fabbrica ha spazio. L’arte allora
si appropria proprio di quello spazio industriale che la società ha giudicato ormai inutile. L’arte entra nella fabbrica abbandonata.”
Tano Rizza a proposito di “Where is 101?”, 2006
Le scenografie tekno sono dunque molto più minimaliste di quelle goa, a volte persino inesistenti: è il soundsystem l’apparato
fondamentale, la componente da decorare e da valorizzare. Un sound tekno è costituito da un muro di casse vero e proprio, assemblate su diverse colonne alte anche più di tre metri e disposte l’una accanto all’altra, a formare una linea retta o, negli esempi più
imponenti, un semiarco. Il soundsystem viene decorato in modo da presentarsi come un unico ed organico macchinario pulsante,
le cui componenti sono interconnesse, oltre che dai cavi elettrici, anche a livello grafico e visivo. Diviene un totem meccanico. Gli
elementi decorativi minimal acquistano la potenza di segni tribali, mentre il simbolo della tecnologia pulsante si ricopre di polvere
e di terra durante la danza estatica.
Le persone danzano rivolte verso l’impianto, con il quale si crea una fusione fisica. In questo caso infatti la figura del dj è secondaria: rimane spesso nascosta dal muro di casse o, in altri casi, la sua postazione si trova alle spalle del dancefloor, come se il dj
divenisse il timoniere di uno stravagante veliero pirata del futuro.
Le casse sono verniciate e decorate in modo uniforme, mentre i simboli della crew di appartenenza spiccano sulla cima del sound,
disegnati su grandi compensati. Simboli di pirati del futuro, teste di pagliacci diabolici, loghi psichedelici, robot, bersagli concentrici sono tra le immagini più frequenti.
Un altro stile è quello dei murales e dei graffiti della street art, dipinti a bombolette sui muri delle fabbriche, sui fianchi dei furgoni
o sui pannelli che vengono trasportati insieme al sound.
Le installazioni tridimensionali sono più rare, infatti la costruzione dello spazio è affidata principalmente all’apparato illuminotecnico. Non esiste un’omogenea luce chiarificatrice come nelle feste goa, ma una confusionale pulsazione di luci, in un vortice
caleidoscopico di colori. L’illuminazione viene affidata a fasci di neon colorati, che si intersecano in prospettive virtuali, proiettori
multicolori che ruotano come fossero girandole impazzite e luci strobo bianche, che con il susseguirsi continuo di flash potentissimi, dilatano, frammezzandolo, il tempo.
Gli esempi di sculture ed installazioni sono comunque numerosi e generalmente si trovano nelle feste più grandi, anche se attualmente è difficile organizzare feste di una certa portata.
Le sculture sono caratterizzate dalla tecnica dell’assemblaggio, mediante saldatura, di componenti meccaniche, circuiti, rottami e
parti fatte a mano. Vengono costruiti imponenti robot, esseri mutoidi o mostri alieni.
I Mutoid Waste Company rappresentano i massimi esponenti di questo tipo di arte, che fanno coincidere con la loro stessa vita.
Come gi Spiral Tribe hanno lasciato Londra a causa delle politiche della Iron Lady, si sono spostati in Germania e sono giunti infine a Sant’Arcangelo di Romagna, dove vivono da circa vent’anni nel villaggio degli scarti chiamato Mutonia. In questa sorta di
comune fatta di autobus e camion trasformati in case, sculture di ferro ed installazioni meccaniche in movimento, i mutoidi lavorano ed organizzano eventi musicali, dai rave alle feste di paese. La loro idea consiste nel far rivivere quello che gli altri buttano via.
“L’idea è di rappresentare sempre qualcosa di originale e di lasciarsi trasformare, niente è finito per sempre e la natura delle cose commerciabili è solo pattume:
se tu non riesci a lavorare ed a intervenire sopra queste cose avrai solo pattume”
Joe Rush, fondatore dei Mutoid.
I mutoid organizzarono tra l’altro, insieme agli Spiral Tribe, uno dei primi rave illegali del nord Italia: era l’8 luglio del 1995, nella
periferia di Milano. Il party era stato un’unione di musica (crossover, hardcore, metal e industrial) con spettacoli, performance ed
esposizioni di sculture mutoidi.
“Quando io sono arrivata al campo dei mutoid nel ‘92 era un po’ come allora, cioè tutte queste cose free, chi faceva il banchetto col mangiare,
chi faceva altro, era tutto un camping free, diciamo, quindi sembrava più un free festival (degli anni ‘80 inglese) più che un rave, però comunque anche i rave dopo diventano free, no?, free party = rave illegale.”
Betty 23
Le opere della Mutoid Waste Company hanno influenzato lo stile di molte delle crew che si muovono sulla scena tekno.
Nelle danze rituali le maschere ed i totem portavano in scena mostri, spiriti e demoni; con l’intento di esorcizzare le proprie paure.
Allo stesso modo, attraverso questo genere di arte, i rave portano in scena i mostri della società industriale; forse proprio per avere
una sorta di rivincita del proprio essere uomo in un mondo governato dalle macchine.
Il mio progetto
Se ripenso ai sogni degli anni passati mi rendo conto che sono gli stessi che ancora oggi occupano la mia immaginazione. Il sentirsi liberi viaggiando, creando o vivendo in una casetta immersa nella natura, è un’ambizione che mi porto dietro da quanto mi
possa ricordare.
Potrei dire di aver messo a fuoco il desiderio del viaggio sempre in posti diversi, portandosi appresso una sorta di mini casetta, dal
momento in cui a dieci anni ho guardato la prima volta il film “Chocolat”. Ero talmente rimasta affascinata da quel tipo di vita errabonda, condotta spostandosi su pittoreschi barconi, circondati dalla propria famiglia e dai propri amici, da ammirare ammagliata
i suonatori zingari al posto che temerli, come invece facevano gran parte delle altre bambine. Sognavo a occhi aperti di starmene
tranquillamente seduta a guardare scorrermi intorno paesaggi, case, scorci di vita di posti mai visti. Non mi sono mai immaginata
sola in questi viaggi: l’idea della carovana da sempre mi fa battere forte il cuore, che si tratti di un cordoglio di camion, di barconi
o di carri con i cavalli poco importa. Una moltitudine di persone, ma ognuno con il suo piccolo spazio personale, la sua piccola
casetta portatile, dove accumulare frammenti di ricordi di paesi lontani.
Verso i dodici anni, a chi mi domandava “Cosa vuoi fare da grande?” rispondevo convinta “Il pirata!”. Qualche anno dopo sono
stata infatti mozzo di un veliero polacco e questa esperienza è stata determinante nel mettere a fuoco la mia concezione di libertà.
La sensazione di stare in piedi su un pennone ad aprire le vele, con il mare che scorre scintillante venti metri sotto la punta delle
scarpe è un qualcosa che non scambierei facilmente. La stessa sensazione di brivido e di adrenalina la trovo andando al galoppo su
un cavallo, in libera corsa sull’erba fresca.
Queste passioni, insieme all’amore per la creatività, mi hanno portato a concepire questo lavoro.
In un rave ritrovo un potenziale di libertà espressiva che difficilmente è realizzabile in altri ambiti. In questo contesto sono stata libera di far volare la mia fantasia, di concepire le forme che volevo, di immaginare per poi costruire quello che avevo immaginato.
Ho scelto il tema della nave dei pirati perché, oltre ad essere stato il mio sogno utopistico di una vita, è un simbolo della cultura
rave. I pirati costituirono uno dei primi esempi di enclavi nascoste, collegate da una rete sotterranea, creando intorno a loro quello
che Hackim Bey definisce T.A.Z..
Fuggendo all’imperialismo, i bucanieri adottarono costumi indiani, si sposarono con i caraibici, accettarono neri e spagnoli come
loro pari, rigettarono ogni nazionalità, elessero democraticamente i loro pari e ritornarono allo “Stato di Natura”. Dopo essersi
dichiarati “in guerra con tutto il mondo” navigarono per saccheggiare sotto contratti mutui definiti “Articoli”. Le loro comunità
erano create quasi dal nulla in terre sconosciute, in quelle zone che sfuggivano all’occhio della mappa.
Nel mio lavoro, la disposizione degli elementi è pensata in modo da ricordare il ponte di un veliero visionario. La polena è posta
a prua, appesa al muro di casse, e verso di essa le persone possono ballare. Sul dancefloor sono tese le vele in stile giunca cinese,
per fare da copertura alle teste dei danzatori. Sul fondo, a poppa, è collocata invece la postazione del dj, sulla quale è montato il
timone. Reti da pesca ornate con elementi luminosi ed evanescenti, palloncini colmi d’acqua contenenti ciascuno uno starlight
(in un futuro sostituibili da decorazioni illuminate con la luce di wood), fanno da riempimento per lo spazio.
Lo stile della realizzazione della polena è stato influenzato dalla particolare esperienza vissuta al Giardino dei Tarocchi di Niki
de Sainte Phalle e Jean Tinguelly. Ogni opera, metafora di una delle carte dei tarocchi, è decorata dallo straordinario mosaico di
piastrelle e specchietti frammentati. La luce riflessa ovunque si scompone e cattura lo sguardo.
Consiglio a tutti di andarlo a visitare!
Nella realizzazione pratica dell’evento mi sono dovuta rendere conto di molte cose.
Di quanto sia difficile mettere d’accordo le idee di tante persone, di quanto le cose non vadano come si vorrebbe che andassero,
dei problemi che si creano in ogni momento, della luce che può saltare, del freddo che fa congelare le mani, dell’attrezzatura che
si rompe all’improvviso.
Ma ho imparato anche quanto sia importante il contributo di ogni persona che in quel momento è li per aiutarti. Quanto sia divertente essere insieme a vedere quello che viene fuori.
E’ stata la prima volta che ho esposto un lavoro mio davanti a così tante persone. La cosa mi ha messo un pò in imbarazzo, perchè è stato come rendere pubblica una parte molto intima di me.
Nella realizzazione della polena ho messo tutta la mia anima e la mia pazienza. E’ stato un lavoro lungo e complicato, che mi ha
quasi spinto ad odiarla, oltre che naturalmente ad amarla con tutta me stessa. Per questo è stato difficile accettare l’idea che tutta
quella gente la vedesse all’improvviso. Allo stesso tempo ero orgogliosa.
Mi piacerebbe che col tempo questa struttura si ampliasse, comprendendo tutto ciò che per il momento non sono riuscita a realizzare, come cannoni sparabolle, cannocchiali con montati all’interno dei caleidoscopi artigianali, vele aggiuntive, eliche che
ruotano con il vento e tutto quello che potrebbe venirmi in mente.
Da questa esperienza ho soprattutto imparato quanto sia importante lo spirito di collaborazione, quanto sia bello lavorare insieme
se si è in sintonia, condividendo le soddisfazioni ed incoraggiandosi a vicenda nei momenti di difficoltà.
Spero che questa tesi possa rappresentare, oltre che un punto di arrivo, un punto di partenza.
Ho imparato tanto, e mi è venuta voglia di riprovarci. E, probabilmente, senza lo stress di “farlo per la tesi” il risultato migliorerà
sempre.
Durante l’elaborazione del mio lavoro ho fantasticato di girovagare per le campagne con le scenografie della nave dei pirati sul
tetto di Bussola, il nostro furgone del 1981, montandole qua e là e respirando aria di felicità.
Ma questo fa ancora parte della categoria dei sogni irrealizzabili: va a braccetto con quello di avere un cavallo e pascolare le mucche, quello di girare per i sette mari in barca a vela , o ancora quello di lavorare nel magico mondo del teatro.
Ciò che mi resta da dire, per il momento, è che ci sto lavorando su. E speriamo.
Se c’è una cosa che dal mondo rave ho imparato è questa:
a furia di immaginarle le cose avvengono per davvero e, comunque,
“L’ora più fredda è sempre quella prima dell’alba.”