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Prefazione Valerio Mattioli La prima volta che misi piede a un rave era se non sbaglio il 1997 inoltrato. Me lo ricordo come un evento atteso da tanto, troppo tempo: a Roma, la città in cui vivevo (e vivo tuttora, per quel che può valere) di rave party si parlava da anni, anzi per quanto mi riguarda da sempre, visto che i miei primi ricordi della parolina magica risalgono ai tempi in cui ancora andavo alle medie: troppo piccolo per pretendere che mamma e papà mi spedissero in qualche capannone dove Lory D inventava “il suono di Roma”. Costretto sui banchi di scuola quando a prendere piede fu la stagione delle feste illegali, il mio unico contributo a una scena che conoscevo solo per sentito dire fu scrivere con la bomboletta spray “Rave-O-Lution” su un muro del liceo in cui passai la quasi totalità dei novanta. Sotto, tanto per far capire da che parte stavo, ci piazzai una falce e martello. E così, mi toccò aspettare il 1997. O forse era già il 1998? Vatti a ricordare; diciamo che cominciai a frequentare i rave quando presi la patente: arrivateci voi, con i mezzi pubblici e in piena notte, in posti che portano nomi come Case Rosse e Castel Romano. Posti che manco un romano aveva mai sentito nominare. Posti lontani, esotici quanto può essere esotico un capannone abbandonato di periferia, posti pericolosi. Ai tempi, la scena rave romana viveva quella che chiamerei la sua terza ondata o stagione: avevano cominciato quelli di Centro Suono Rave nel 1990, portando in città gente come Derrick May e Aphex Twin (“prima ancora che si sapesse chi fosse”, vuole la leggenda); le loro erano feste ancora rigorosamente legali e in una certa misura commerciali, non molto 9 diverse da quelle che nello stesso periodo si celebravano in Inghilterra: il biglietto d’entrata poteva costare sulle 20.000 lire, il che – considerando che per un concerto punk al centro sociale pagavi circa un settimo della cifra – era tantissimo. Ma i vari Lory D, Leo Anibaldi, Max Durante e soci furono senza dubbio dei pionieri, oltre che dei giganti del suono elettronico non solo italiano, ma mondiale tout-court. Gli illegali invece erano una faccenda parecchio diversa. Cominciarono a organizzarli dei ragazzi di periferia appassionati di musica techno e a loro volta cresciuti ai party di Centro Suono Rave, che però avevano deciso di ricreare quelle situazioni a casa loro, in puro spirito do it yourself. Venivano da posti “brutti” come Primavalle, patria del collettivo Hard Raptus, che teneva anche una trasmissione su Radio Onda Rossa; oppure da Ostia, come i ragazzi che si ritrovavano al centro sociale Spaziokamino. Per me, queste persone restano degli autentici eroi popolari del decennio novanta. Quando finalmente ebbi occasione di toccare il rave “con mano” (le feste techno al Forte Prenestino non valgono), gli illegali spuntavano letteralmente ovunque. Ogni sabato ce n’erano due, tre, sparsi ai quattro angoli di una città che di colpo si rivelava immensa, tentacolare, potenzialmente infinita. E alla fine ti ritrovavi lì, in un posto abbandonato da dio, con le pupille dilatate e la puzza dei gruppi elettrogeni che ti mandava a fuoco le narici, assieme ad altre centinaia – ma che dico, migliaia – di persone. Forse è la mia memoria che spinge troppo sul pedale dell’entusiasmo, ma sul serio mi ricordo che di feste ce n’era una valanga. Il rave era diventato fenomeno di massa. Eppure, era già nella sua fase calante. A Roma a quel punto a dettare legge era l’area industriale della ex Fintech, che il buon Kola descrive in questo libro come “uno dei posti più negativi, come karma, che la scena rave si porti dietro”. Ha senza dubbio ragione. Però, per uno come me, era ancora tutto nuovo: nuova musica, nuove droghe, nuovi 10 spazi. E perché no, anche nuove mode, nuovi modi di vestire, di parlare, di comportarsi. Una messe di riferimenti esteticoculturali che in un colpo solo metteva assieme cyberpunk, recrudescenze hippy, tecnofilia esibita, tatuaggi indifferentemente tribali o “biomeccanici” (una tendenza scomparsa per fortuna in fretta), orgoglio freak, Philip Dick e Robert Anton Wilson, riviste come “Torazine” e bislacche fanzine come “Peti Nudi”, esperienze come i Mutoid e gruppi come la Società italiana per lo studio degli stati di coscienza (che a Torino pubblicava una rivista bellissima chiamata “Altrove”). La techno si era fatta “barattolosa” e spezzata, immancabili erano le parentesi drum’n’bass a fine nottata, e io non sopportavo né l’una né l’altra (sulla seconda poi mi sono ricreduto), ma poco importava: pur nella sua fase calante, l’epopea rave irradiava una potenza e una complessità che dopo di allora non ho più ritrovato in alcun fenomeno più o meno controculturale. Anche perché, di controculture vere e proprie, è molto difficile parlare dagli anni 2000 in poi. Non mi sono mai definito un raver. Sono semplicemente stato uno che ai rave “ci andava”. Anche tutti i sabati, anche per meri interessi privati e poco salutari brame goderecce (la droga). A fine festa, tornato a casa la domenica all’ora di pranzo, più che un 12” techno piazzavo sul giradischi un vecchio disco degli Wire. Oppure accendevo la televisione e mi piazzavo davanti al Gran premio di Formula 1: ho sempre trovato che mettersi a fissare quelle macchinine che per due ore facevano sempre lo stesso identico giro, aveva uno straordinario potere rilassante in fase di down chimico. Da quando ho smesso di andare ai rave, non ho mai più visto un Gran premio in vita mia. Sono storie, aneddoti, ricordi privati, che tantissime persone saprebbero raccontare meglio di me. Ogni tanto incontro qualche reduce di quella stagione e raramente ci lasciamo andare ai ricordi. Di buono, se non altro, la cultura rave aveva questo: 11 guardava per definizione “al futuro” ed era quindi poco incline alle nostalgie. Ma è comunque una vicenda che merita di essere... ma sì, storicizzata, se non altro per l’impatto che ha avuto sulle biografie di centinaia di migliaia di ragazzi sparsi in tutta Europa. Ammetto che a leggere le interviste che Tobia D’Onofrio ha rivolto a gente come Fabrizio D’Arcangelo e il già citato Kola, un po’ di rimpianto mi viene. Non per la techno barattolosa che ha infestato troppe feste traveller (su questo, io sono della scuola Matteo Swaitz: leggete il libro e capirete). Ma per la radicalità e l’indole incompromissoria di un fenomeno che sul serio ha rappresentato l’ultima delle controculture del Novecento (e anche dei duemila, certo). Se mai altre ve ne saranno, gli toccherà inevitabilmente ripartire da qui. Da quando cioè l’utopia significava ribadire lo slancio prometeico del futuro immaginato. E non la ritirata retromaniaca nel passato che mai più ritornerà. 12