La classe operaia va in paradiso

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La classe operaia va in paradiso
LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO
Paese:
Italia
Anno:
1971
Durata:
112'
Colore:
colore
Genere:
drammatico
Regia:
Elio Petri
Soggetto: Elio Petri, Ugo Pirro
Sceneggiatura:
Elio Petri, Ugo Pirro
Interpreti e personaggi: Gian Maria Volontè: Ludovico Massa (Lulù),
Mariangela Melato: Lidia (l'amante di Lulù), Salvo Randone: Militina
La trama
Ludovico Massa, detto Lulù, è un uomo di trent'anni con due famiglie da mantenere e un operaio con alle
spalle già 16 anni di fabbrica, due intossicazioni e un'ulcera. Sostenitore e stakanovista del lavoro a
cottimo grazie al quale, lavorando a ritmi infernali, riesce a permettersi l'automobile e altri inutili beni di
consumo. Lulù è amato dai padroni che lo utilizzano per stabilire i ritmi ottimali di produzione ma odiato
dagli altri operai della fabbrica per il suo eccessivo servilismo. Tuttavia, non è contento della sua
situazione, i ritmi di lavoro sono talmente sfiancanti che arrivato a casa riesce solo a mangiare e ad
annichilirsi davanti alla televisione, nessuna vita sociale, nessun dialogo con i propri cari, non riesce
neppure più ad avere rapporti con l'amante. La sua vita continua in questa totale alienazione, che lo porta
a ignorare gli slogan urlati e scritti dagli studenti fuori dai cancelli, finché un giorno ha un incidente sul
lavoro e perde un dito.
Così improvvisamente Lulù si sveglia dal sonno dell'alienazione per ritrovarsi nell'incubo della sua misera
vita, di cui finalmente prende coscienza; così si schiera contro il ricatto del lavoro a cottimo e aderisce alle
istanze radicali degli studenti e di alcuni operai della fabbrica in contrapposizione alle posizioni più
moderate dei sindacati. In breve tempo il fermento nella fabbrica aumenta e si arriva all'inevitabile
scontro con la polizia. Il risultato di questo cambiamento è drammatico: Lulù viene abbandonato
dall'amante, licenziato in tronco dalla fabbrica e contemporaneamente abbandonato dagli studenti, che
sostengono che il suo è un caso individuale e non di 'classe', ed emarginato anche dagli operai che non
prendono nessun provvedimento per il suo licenziamento. Cerca, inutilmente, conforto nelle visite
all'anziano Militina (un ex compagno di fabbrica) costretto a finire i suoi giorni in manicomio a causa delle
sue idee politiche; ma l'unica cosa che Lulù ottiene da queste visite è la scoperta che la sua alienazione si
sta trasformando in pazzia. Ormai quando tutto sembra perduto i suoi compagni, grazie al sindacato,
ottengono la sua reintroduzione in fabbrica alla catena di montaggio dove Lulù urlando, per superare il
rumore assordante, di nuovo in balia dei ritmi frenetici della produzione, racconta ai compagni di un muro
e di una fitta nebbia oltre i quali c'è il paradiso della classe operaia.
Le testimonianze degli autori
Prima di scrivere il soggetto e la sceneggiatura di La classe operaia va in paradiso facemmo una lunga indagine:
seguimmo le lotte operaie. Tutte le mattine andavamo davanti ai cancelli della Fatme, filmavamo gli interventi degli
studenti, i cortei degli operai. Facemmo decine dì interviste a operai, sindacalisti, dirigenti d'azienda. Per questo film
la grossa difficoltà fu trovare la fabbrica. Nessuno voleva darcela. Poi alla fine scovammo una fabbrica di ascensori di
Novara in crisi e occupata dagli operai. In quella fabbrica la catena di montaggio non c'era, ma per la nostra storia era
indispensabile. Lì costruimmo alla meglio con l'aiuto degli stessi operai. In verità un'altra fabbrica disponibile c'era: il
Tubettificìo Ligure. Guzzi, il proprietario, era molto aperto verso di noi. Ma non fu possibile usarlo per ragioni
tecnico-cinernatograficheIn seguito fu Comencini ad ambientare Delitto d'amore nel Tubettificio Ligure di Lucca. (Ugo
Pirro)
Non è che io abbia fatto grandi ricerche sugli operai. Ho girato qualche metro di pellicola a passo ridotto alla Fatme
proprìo nei giorni in cui alle porte delle fabbriche italiane c'erano i militanti della sinistra operaia, in un momento
molto interessante. Checché ne dicano oggi i comunisti del Pci, quello del '69'70 era un periodo che, a mio avviso,
resta uno dei più vivì della storia (h questo secolo in Italia. Dal mio punto di vista, affrontare un operaio è come
affrontare un qualunque altro essere umano. In quel momento, invece - e ancora oggi - l'operaio è considerato come un
santo, un martire. L'operaio è semplicemente una creatura umana e dentro di lui passano molte delle scissiom che
passano in ciascuno di noi benché, naturalmente, la sua professione sia molto più difficile: in un certo senso, è quello
che soffre di più tutte le concaddizioni, costretto com'è ad assumere un modello borghese dato che la società dei
consumi lo obbliga per la sua stessa sopravvivenza a diventare un consumista, ad aiutare così in qualche modo lo
stesso sistema capitalista.
lo raccontai quella che era la storia di tutti, di come in questa società non si possa vivere che nell'alienazione. Il
rapporto del tempo esistenziale con quello produttivo, in un operaio, è evidentemente il lato più drammatico della sua
giornata, e io mi occupai soprattutto di quello. Oltretutto era la cosa più semplice da afferrare, la cosa che anche io che
non avevo frequentato le fabbriche potevo capire subito. Da ragazzo avevo fatto per qualche mese l'edile, e sapevo che
gli operai si somigliano, un operaio romano non è tanto dissimile da mo milanese, forse solo nella cultura ma non
certo nel rapporto con l'esistenza, che è identico... Per esempio, c'è sempre questo problema del cottimo c'era anche nel
film - e il cottimo è stato perennemente un problema che aguarda tutti... lo mi ci appigliai, anche perché il problema
tra tempo esistenziale e tempo produttivo, stringi stringi, ce l'ha chiunque e in fondo ce n'era già un accenno nel mio I
giorni contati. Proposto con un linguaggio meno isterico, ma c'era.
Da un punto di vista meno esoterico, ma poi, quanto "meno"?, dico che sia le radici cattoliche sia quelle marxiste
portano,a pensare all'arte come a una cosa utilitaria nel senso sociale, politico e morale. E anche l'educazione fascista perché nel mio caso c'è da considerare il fatto io sono stato bambino e scolaro sotto il fascismo avendo frequentato le
scuole fasciste dal '35 al '44. E' noto a tutti che dal punto di vista dell'arte i fascisti erano engagés. Difatti, per molti
giovanissimi intellettuali fascisti di sinistra il passaggio al Partito Comunista non fu molto doloroso perchè in fondo
l'engagement cambiava solo indirizzo, scopo, non mutava come modello di vita. A sua volta, poi, lo stesso fascismo
veniva per qualche verso da una costola del movimento socialista.
Probabilmente il mio genere di film deriverà dalla somma di tutte queste cose. Inoltre bisogna tenere contoo che la
realtà italiana indica proprio un certo genere di temi. E' evidente che noi viviamo in una società molto strana, molto
divisa, gravida di feti mai nati, quindi isterizzata al massimo grado. L'isteria, che nelle persone è di origine sessuale,
nella società deriva da rivoluzioni inesplose. E' così, eccom per me è quasi impossibile ideare un racconto lineare, che
non abbia riferimenti metaforici e simbolici, e credo che in tutti i miei film ci sia una traccia di questa generale isteria
italiana, sopratutto la loro scrittura.
Un'altra delle cose che probabilmente mi hanno spinto a questo stile che è stato il desiderio di trasgredire i canoni
neorealistici. Negli anni andati c'erano ancora canoni da rispettare o trasgredire. Oggi non più. Il canone neorealisticoo
imponeva abiti espressivi penitenziali. La realtà andava "rispettata", diventava essa stessa canone, e io invece pensavo
che essa fosse sempre da interpretare, la realtà è simbolo e metafora e non va mai ripetuta piattamente, schemente.
Insomma, oggi mi sembra che il neorealismo avesse curiose atticol linguaggio televisivo in diretta, tanto spesso
scadeva in cronaca. C'era ana tendenza assoluta al rispetto dei «tempi» della realtà, che invece, a me, no inerti,
intellettualmente e spiritualmente inerti. (Elio Petri)
In generale, lavoro sui miei personaggi al modo in cui chi fa un'inchiesta raccoglie tutta la documentazione possibile
sull'argomento che lo interessa. La mia preparazione avviene dunque più su un piano giornalistico che drammatico, e si
stabilisce a partire dallo stesso materiale raccolto e utilizzato dallo sceneggiatore per costruire il suo soggetto. t stato
così per il commissario di Indagine, il suo modo di parlare, i suoi atteggiamenti, il suo linguaggio, perfino il suo
modo di pettinarsi, corrispondono a una precisa tradizione che risale ai Borboni e di cui si ritrova tuttora l'immagine
nei ministeri. Per l'operaio della Classe operaia, ho parlato a lungo con gli operai, nelle fabbriche, delle malattie
specifiche alla loro condizione, come la nevrosi, l'artrite deformante, le infezioni polmonari...
Passo in seguito a una preparazione di tipo critico-analitico del personaggio, della sua psicologia: e questo mi porta a
determinare l'atteggiamento generale che devo assumere nel film. Poi ci sono i normali rapporti dialettici che devono
stabilirsi tra l'attore e il regista: discutiamo fino ad arrivare insieme ad avere la visione del problema da risolvere,
essendo ovviamente inteso che è il regista in ultima analisi a decidere e a dirigere. E lo stesso lavoro di analisi
psicologica del personaggio si ripete a livello dei dialoghi, battuta per battuta. Ritengo che la capacità d'analisi faccia
parte del mio lavoro di attore al livello stesso del quotidiano, e cioè in modo permanente.
Con Petri, in Indagine su un cittadino, la sceneggiatura era quella che si ritrova nel film, nessuno ha mosso o
modificato nulla. Ma si trattava di una sceneggiatura molto compiuta, molto chiusa... Invece, nella Classe operaia era
più aperta, volutamente tale perché in quel momento Petri, Pirro, io, tutta la troupe, anche per via di un movimento
generale che c'era in quegli anni, avevamo scelto di fare un'esperienza che, rispetto alla sceneggiatura, era più aperta. Il
lavoro è stato quindi tutto diverso. Come fa un attore ad arrivare a rendere questo o quel personaggio è molto difficile
da dire, è quasi impossibile, perché io posso spiegare come lavoro, ma poi c'è sempre qualche cosa che non è
puntualizzabile.
C'è molto mistero nel lavoro dell'attore... E dirò che difendere questo spazio, legittimare questo spazio di mistero e
quest'interrogativo sull'attore è una cosa che voglio continuare a fare, perché c'è dentro tutto il fascino e la curiosità che
ancora ho per questo lavoro, per come lo fanno gli altri e per corne posso farlo io. Del resto, prendiamo Totò, come
faceva Totò? Ecco, io credo che un caso di straniamento brechtiano così clamoroso non ci sia mai stato, e
probabilmente lui stesso non lo sapeva. (Gian Maria Volontè)