Lezione 17 - IL CALCOLO DEL FABBISOGNO CALORICO

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Lezione 17 - IL CALCOLO DEL FABBISOGNO CALORICO
Lezione 17 - IL CALCOLO DEL FABBISOGNO CALORICO
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Il calcolo del fabbisogno calorico (o spesa energetica) è uno degli aspetti più complessi per la
routine quotidiana e tale complessità giustifica i frequenti errori che vengono effettuati nella pratica
clinica.
Vediamo dove sono le difficoltà e come superarle.
Cerchiamo però prima di capire quali sono le leggi della fisiologia che governano la spesa
energetica.
Studi eseguiti all’inizio del ‘900 hanno dimostrato come sia sufficiente la misura del consumo
d’ossigeno attraverso l’aria espirata per misurare il fabbisogno calorico mediante il rapporto per cui
ad ogni litro di ossigeno consumato e misurato nell’aria espirata corrisponde la spesa energetica di
4,8 calorie.
La misura del metabolismo, eseguita in migliaia di persone di tutte le età e di ambo i sessi, ha
permesso di valutare, in particolare, l’ampiezza delle sue oscillazioni e i fattori che lo influenzano:
l’altezza, il peso corporeo, l’età ed il sesso.
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E’ necessario innanzitutto comprendere come il fabbisogno calorico o spesa energetica sia formato
da due componenti, che è necessario distinguere per facilitare i calcoli successivi: il metabolismo
basale e quello sovra-basale. Dal momento che il metabolismo basale rappresenta la quota
maggiore, la sua misura è di particolare importanza per valutare la spesa energetica totale
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Il metabolismo basale è una condizione fisiologica che potrebbe paragonarsi al consumo di
combustibile di un auto ferma con il motore acceso. In considerazione dei numerosi fattori che lo
influenzano (temperatura ambiente, tempo dall’ultimo pasto, stato ansioso ecc) la sua misura deve
essere eseguita, mediante l’uso di un calorimetro, in condizioni standard, quali al mattino, a
digiuno da 8-12 ore, in un ambiente con temperatura a 25 gradi, detta di termoneutralità, cioè
quella temperatura alla quale la massima parte delle persone non sentono né caldo né freddo, in
posizione supina, in stato di tranquillità psichica e dopo che si sia raggiunto un consumo d’ossigeno
piuttosto stabile, cioè, come suol dirsi, allo “stato stazionario”. Un altro aspetto molto importante è
la sua variabilità fra le varie persone, anche a parità di fattori che lo influenzano in modo
particolare, quali altezza, peso corporeo, età e sesso. Torneremo fra breve su questa variabilità e
sulla sua misura.
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Il consumo di ossigeno così registrato rappresenta la somma dei consumi dei singoli organi, come il
fegato che è l’organo che consuma la percentuale maggiore, il 29%, cui segue il sistema nervoso
con il 19%, il tessuto muscolare con il 18%, il muscolo cardiaco con il 9% ecc.
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Come si diceva, il metabolismo basale è influenzato soprattutto da peso, altezza, età e sesso, e
questa stretta dipendenza permette di misurarlo indirettamente, attraverso equazioni che utilizzano
questi parametri, evitando la sua misura diretta, che è comunque possibile, ma che richiede la
disponibilità di attrezzature dispendiose, di un ambiente adatto e di un certo tempo per
l’esecuzione, tutte condizioni improponibili per una misura routinaria. Prima di passare alla misura
indiretta, cerchiamo di valutare l’entità della dipendenza del metabolismo basale dai parametri
suddetti, per comprendere bene come sia fondamentale il loro utilizzo nelle formule.
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In questo grafico è riportato l’andamento del consumo di ossigeno nelle varie età e nei 2 sessi.
Esso è espresso in calorie prodotte per metro quadro di superficie corporea per ora, essendo questi i
parametri utilizzati in passato per esprimere il consumo energetico. Oggi si usa fornire direttamente
le calorie per 24 ore. In ogni modo, qualsiasi sia la modalità di espressione del consumo calorico, si
vede chiaramente come un neonato, all’inizio del grafico a sinistra, presenti un consumo molto
elevato per kg, rispetto ad una persona di 80 anni, alla fine del grafico a destra. I valori iniziali,
quasi si dimezzano in vecchiaia. Ciò significa che, per così dire, “un chilo di neonato” consuma
quasi il doppio di “un chilo di una persona molto anziana”. Si nota anche la diversa pendenza delle
due curve, ripide nella sua prima parte, dalla nascita fino a circa 20 di età, epoca in cui
l’accrescimento è compiuto, la pendenza diviene molto minore dai 20 agli 80 anni.
Meno importante, ma comunque significativa, è la differenza impressa dal sesso, che si desume
dalla differenza fra le due curve, delle quali quella superiore si riferisce al sesso maschile. Questa
differenza non è dovuta al fatto che i singoli organi o tessuti femminili consumino meno di quelli
maschili, ma solo al fatto che la donna possiede fisiologicamente una maggior (20-25%)
percentuale di tessuto adiposo dell’uomo (10-15%), tessuto che ha un bassissimo consumo di
ossigeno, e siccome il metabolismo rappresenta sempre una media di consumi di organi e tessuti,
questa media si abbassa se un tessuto che consuma molto poco, come il tessuto adiposo, è
maggiormente rappresentato. Questa differenza però dà ragione del fatto per cui, quando dovremo
calcolare il fabbisogno calorico dalle formule, dovremo utilizzare formule differenti per l’uomo e
per la donna.
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Con queste premesse, ora siamo pronti ad approfondire la misura del metabolismo basale attraverso
le formule. Ve ne sono molte, ma le più utilizzate sono quelle di Benedict e Atwater (una per il
sesso maschile ed una per il sesso femminile), che discendono direttamente dagli standard
pubblicati dai due famosi nutrizionisti nei primi decenni del secolo scorso, e che si sono dimostrate
le più conosciute ed applicate. Le formule hanno il pregio di dare direttamente la misura in calorie
nelle 24 ore, partendo dagli standard originali che esprimevano le calorie per metro quadro di
superficie corporea per ora. Come si può vedere, le formule non si possono svolgere se non si
conosce il peso, l’altezza e l’età del soggetto da esaminare, tutti parametri che vanno inseriti per
essere moltiplicati per i rispettivi fattori di correzione.
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Con queste formule ricaviamo il metabolismo basale dei soggetti, facendo attenzione a tre aspetti
fondamentali
1) il calcolo fornisce un valore medio, ma non il valore preciso del metabolismo basale del
soggetto in esame, che può essere fornito solo da una accurata valutazione mediante la
misura del consumo di ossigeno nelle condizioni standardizzate cui abbiamo accennato.
E’ quindi necessario conoscere, oltre il valore medio ottenuto, anche i limiti della
variabilità.
2) La formula si riferisce a soggetti adulti o che, comunque, hanno terminato l’accrescimento.
3) La formula si applica soltanto a soggetti senza sovrappeso, quindi con BMI compreso fra 20
e 25 se uomo e fra 19 e 24 se donna. Se la formula viene utilizzata in soggetti con BMI
superiore a 25 si ottiene una sovrastima dei valori, nel senso che il metabolismo basale del
nostro soggetto risulterà inferiore al valore fornito dalla formula. Questa sovrastima è tanto
maggiore quanto più elevato è il BMI. L’inverso avviene per i soggetti con BMI inferiore a
20.
L’importanza di questi tre aspetti è notevole e va approfondita.
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Vediamo la variabilità intorno al valore medio, che ci fa comprendere il grado di errore cui si può
incorrere mediante l’applicazione delle formule. Come è noto, ogni variabile biologica ha una sua
variabilità fisiologica, nel senso che i valori calcolati su numerosi soggetti, aventi gli stessi
parametri (nel nostro caso peso, altezza, età e sesso), non sono tutti uguali. Se vengono
rappresentati in istogrammi, distribuiti in classi di frequenze, le altezze degli istogrammi assumono
un andamento simile ad una curva a campana, detta curva di Gauss, il cui punto più alto, quando la
distribuzione è simmetrica, coincide con il valore medio, da noi trovato applicando la formula. La
deviazione standard, indicata convenzionalmente con la lettera greca sigma (σ), è un parametro
statistico che indica la dispersione dei valori intorno alla media. La sua conoscenza permette quindi
di conoscere quanto i valori effettivi di un determinato parametro, nel nostro caso il metabolismo
basale, siano fisiologicamente dispersi intorno alla media. Maggiore è la deviazione standard,
maggiore sarà la dispersione dei valori e più larga sarà la base della curva a campana. Ma vi sono
delle regole che stabiliscono il legame fra deviazione standard e distribuzione di valori intorno alla
media. Dalla statistica infatti sappiamo che, data una popolazione di numeri di cui conosciamo il
valore medio e la sua deviazione standard (se la distribuzione di essi è simmetrica rispetto alla
media, come nel caso del metabolismo basale) il 66% dei valori si posizionano in un intervallo di
valori compreso fra il valore medio rispettivamente addizionato e sottratto a una deviazione
standard. Per abbracciare il 95% dei valori è necessario applicare 2 deviazioni standard e per
comprendere il 99% dei valori 3 deviazioni standard. Appare evidente che la maggior parte dei
valori si affollano intorno al punto medio, mentre la frequenza si riduce man mano che ci si
allontana ai due lati.
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Applichiamo ora questi concetti in un esempio. Ipotizziamo un soggetto di sesso maschile, di 50
anni, con peso di 70 kg e 1,70 m. di altezza. Considerando il BMI del soggetto di 24, 2, molto
vicino a 25, scegliamo i valori che si riferiscono al brachitipo. La formula ci fornisce un valore
medio di metabolismo basale di 1.571 calorie al dì. Sappiamo che il valore della deviazione
standard per la misura del metabolismo basale, espresso in percentuale, è pari al 6,9%. Per
correttezza di terminologia statistica, quando la deviazione standard viene espressa in percentuale
del valore medio, prende il nome di “coefficiente di variazione” abbreviato con CV.
Il 6,9% del valore medio di 1.571 è pari a 108,43 calorie e il doppio è pari a 217. Quindi il 95% dei
valori di una popolazione con queste caratteristiche, cade nell’intervallo tra il valore medio – 2 CV
(1.571-217= 1.355) e il valore medio + 2 CV (1.571+217= 1.788), con un intervallo totale di 217 x
2 = 434 calorie
Se volessimo calcolare un intervallo che comprenda non il 95% dei valori, ma il 99% dovremmo
applicare non il doppio del CV, ma il triplo.
Questi concetti servono a far comprendere il margine di errore in cui si può incorrere. È ovvio che
la maggior parte dei valori dei nostri soggetti saranno vicini alla media e che man mano che ci si
allontana dalla media è sempre più raro trovare soggetti che si discostano sempre più. Questi aspetti
saranno ripresi quando, di fronte a rari pazienti molto rigorosi, dovremo spiegarci insuccessi, o, al
contrario, successi eccessivi, che, apparentemente non presentano spiegazioni valide.
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Vediamo ora di comprendere quanta parte ha il metabolismo sovrabasale e come esso vari in
occasione della varie attività quotidiane. Come abbiamo già detto, nonostante la sua importanza, il
suo valore è sempre inferiore a quello del metabolismo basale, soprattutto nella società occidentale
fortemente industrializzata, in cui l’attività motoria è molto modesta. Nei paesi ricchi è raro che il
metabolismo sovrabasale rappresenti una percentuale maggiore del 30% rispetto al consumo
calorico globale, e, in ogni caso, eccezionalmente raggiunge il 50%.
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Ora siamo in grado di valutare il fabbisogno o spesa energetica globale, cercando di avvicinarsi
quanto più possibile alla realtà. Per il calcolo del metabolismo sovrabasale non abbiamo formule,
ma solo la pratica clinica. Sappiamo che esso è formato da varie componenti, alcune delle quali
piuttosto fisse, altre in relazione all’attività svolta. Fra le prime vi è l’effetto termico del cibo (un
tempo chiamato azione dinamico-specifica degli alimenti) e dovuta ai processi digestivi. Essa è
quantificabile intorno al 10% del metabolismo basale. A questa va aggiunto l’adattamento
all’ambiente non solo sotto l’aspetto climatico (sentir caldo o sentir freddo impegna comunque
l’attività simpatica e, quindi, produce un certo aumento del consumo di ossigeno), ma anche sotto
l’aspetto psicologico-comportamentale (si pensi al riflesso di uno stato ansioso sull’attività
simpatica). Ma certamente l’aspetto più importante del metabolismo sovra-basale è rappresentato
dall’attività fisica, parametro del tutto imprevedibile e di difficile quantificazione. Comunque,
nonostante queste incertezze, la pratica clinica quotidiana ci fa comprendere come sia possibile
giungere ad una misura valida, almeno per la pratica clinica. Essa si basa sulle seguenti regole:
-
se il soggetto è prevalentemente allettato (non in stato febbrile), al valore del metabolismo
basale si aggiunge soltanto il 10%
-
se il soggetto svolge una attività fisica modesta (persone anziane, individui che non escono
da casa ecc) al valore del metabolismo basale si aggiunge il 20%.
-
se infine il soggetto svolge attività fisica discreta ed è, in ogni caso da considerare una
persona attiva, si aggiunge il 30%.
Questo approccio è certamente molto grossolano, ma tentativi per quantificare meglio l’attività
fisica rendono molto più complesso il calcolo e non applicabili nella pratica clinica routinaria.
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A titolo di esempio, in questa figura viene riportato il pattern del consumo calorico, misurato in
continuo mediante la valutazione del consumo di ossigeno. La linea orizzontale indica il livello del
metabolismo basale, che, letto sull’asse delle ordinate, corrisponde a circa 1 caloria per minuto.
Come si vede, prima dell’”arousal", cioè prima del risveglio, il tracciato è sovrapposto sulla linea
orizzontale, sulla quale poi ritornerà solo a sera, quando inizia il sonno notturno (sleeping).
Già questo ci fa capire come, essendo un periodo di 24 ore composto da 1.440 minuti, il nostro
soggetto, solo di metabolismo basale, consumerà 1.440 calorie.
Il tracciato diurno è costantemente al di sopra del metabolismo basale e indubbiamente ci troviamo
di fronte ad una persona molto attiva perché svolge ben 2 periodi di attività fisica piuttosto intensa
(exercise) della durata di circa 2 ore ciascuna, la prima dalle 10,30 alle 12,30 del mattino e la
seconda dalle 15,30 alle 17,30 del pomeriggio, con livelli di consumo calorico che aumenta fino a
oltre 3 volte il metabolismo basale e che potrebbe corrispondere ad una marcia a circa 4/km/h di un
soggetto di circa 70 kg.
Subito dopo i 3 pasti (meal) si nota l’aumento del consumo calorico della durata di circa 2-3 ore,
dovuto certamente all’effetto termico del cibo assunto, ma anche alla contemporanea presenza di
un certo livello di agitazione fisica (fidgeting). Indubbiamente il livello del metabolismo sovrabasale di questo insolito soggetto molto dinamico è probabilmente superiore al 30% dell’intero
consumo calorico globale, ma inferiore al 50%. Infatti, osservando il grafico, si vede chiaramente
come la superficie della parte sottostante alla linea tratteggiata sia maggiore di quella sovrastante la
stessa linea, compresa al di sotto del tracciato.
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Abbiamo ora la possibilità di calcolare il fabbisogno calorico, basale, sovra-basale e, quindi, fare la
somma delle due componenti ed ottenere il consumo calorico globale di un qualsiasi soggetto che si
presenti alla nostra osservazione, conoscendo il peso, l’altezza, l’età ed il sesso. Tale misura avrà, lo
ripetiamo, alcuni limiti: il soggetto non deve essere di età pediatrica, deve aver completato
l’accrescimento, e deve avere un BMI compreso fra 20 e 25 se di sesso maschile, fra 19 e 24 se di
sesso femminile. Questo è un foglio excell nel quale sono state inserite le due formule di Benedict e
Atwater, una per il sesso maschile ed una per il sesso femminile. E’ possibile scaricarlo e salvarlo
sul proprio PC. Le celle in verde indicano i luoghi dove inserire i dati da processare. Vengono
automaticamente calcolati: BMI, peso ideale minimo, medio e massimo (corrispondente
rispettivamente al BMI di 20, 22,5 e 25 per il sesso maschile e di 19, 21,5 e 24 per il sesso
femminile), il metabolismo basale minimo, medio e massimo, corrispondente al peso ideale
minimo, medio e massimo) ed infine, in basso, la possibilità di ottenere il calcolo del consumo
calorico globale, inserendo la percentuale di attività motoria, secondo quanto precedentemente
esposto. La classificazione del nostro soggetto in longitipo, medio o brachitipo è piuttosto empirica
e non ha parametri precisi cui far riferimento. Quando vengono considerati soggetti con sovrappeso
o obesi, come succede nella stragrande maggioranza dei casi, si preferisce utilizzare, come target da
raggiungere, i valori di peso ideale corrispondenti al brachitipo, perché l’obeso, nelle fasi
dell’aumento di peso, non aumenta solo nella sua massa grassa, ma anche nella massa magra, per
cui somaticamente è più vicino al brachitipo.
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Come abbiamo detto, se il BMI del soggetto non è compreso fra 20 e 25 se di sesso maschile e fra
19 e 24 se di sesso femminile, l’applicazione del peso reale del soggetto porterebbe ad una
sovrastima o ad una sottostima dei valori del metabolismo basale, per cui si è deciso di utilizzare, al
posto del peso reale, il suo peso ideale (minimo, medio o massimo) calcolato su valori di BMI
rispettivamente di 20, 22,5 e 25 per l’uomo e 19, 21,5 e 24 se donna. Ma, come avviene
frequentemente trattando diabetici di tipo 2, il BMI è quasi sempre maggiore di 25. Ci si chiede
allora: come si fa a conoscere il suo vero metabolismo basale, se le formule sono ricavate da
soggetti non obesi? E’ evidente che ciò non è possibile, ma possiamo comprendere come l’errore
cui andremo incontro, non avendo alternative, sia di modeste dimensioni. Infatti, quando il BMI è
maggiore di 25, l’aumento del peso è soprattutto dovuto alla massa grassa, la quale ha un
modestissimo consumo calorico. Si ricorderà che è questo il motivo per cui fisiologicamente un
soggetto di sesso femminile presenta un consumo minore di un soggetto di sesso maschile di pari
età, peso e altezza, essendo la sua massa adiposa fisiologicamente più rappresentata. Ed è questo il
motivo per cui si dispone di due diverse formule: una per il sesso maschile ed una per il sesso
femminile. Errore, quindi, di dimensioni più che accettabili per la pratica clinica. L’errore sarebbe
stato ben maggiore se fosse stato utilizzato il peso reale (e non ideale) per il calcolo. D’altra parte,
questo modesto errore di sottostima ci aiuta a rendere lievemente più efficaci regimi ipocalorici
così strutturati.
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Affrontiamo ora uno dei più frequenti problemi emergenti in diabetologia: prescrivere una dieta
ipocalorica in soggetti con sovrappeso o obesi, per ottenere una lenta ma progressiva riduzione
ponderale e ridurre il livello di resistenza insulinica. E’ necessario tener presente alcune regole che
ci mettano al riparo dal commettere errori grossolani.
E’ necessario coinvolgere adeguatamente il paziente per ottenere la sua compliance e facendo
comprendere come un regime dietetico richieda una attenzione molto maggiore se confrontato con
un regime di terapia iporale, ma essendo in grado di produrre nel tempo effetti vistosi sul grado di
controllo metabolico, impensabili da raggiungere con i soli ipoglicemizzanti orali.
Nel prescrivere una dieta ipocalorica è necessario tener presente il grado di variabilità del
fabbisogno calorico per evitare due errori opposti: prescrivere una dieta troppo rigorosa o, al
contrario, troppo permissiva e, comunque, non ipocalorica. Faremo un esempio chiarificatore.
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Supponiamo di considerare un soggetto di sesso femminile, di anni 50, del peso di 70 kg e di altezza
di 1,50. Dai dati che inseriremo nel foglio excel sapremo che la paziente è chiaramente obesa,
avendo un BMI di 31,1 e, considerando la sua corporatura di tipo brachitipo, ha un metabolismo
basale medio di 1.215 calorie. Per quel che abbiamo detto in precedenza, il 95% dei soggetti con
questi parametri ha un metabolismo basale compreso fra 1.047 e 1.382 calorie, e
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il 99% di essi fra 963 e 1.466 calorie. Ovviamente noi con la formula, ci basiamo su un valore
medio di 1.215 e non abbiamo alcuna idea su quale sia il consumo effettivo della nostra paziente.
Se conduce un’attività sedentaria, aggiungiamo il 20% e raggiungiamo 1.458 calorie. Se
desideriamo prescrivere un regime ipocalorico senza applicare formule, potremmo prescrivere un
regime di 1.200 calorie, ritenendo, a torto, che un simile regime sia comunque ipocalorico.
Per nostra sfortuna, però, la nostra paziente ha un metabolismo basale basso perché essa si
posiziona nella parte sinistra della curva di Gauss, poniamo sulle 1.000 calorie e non sul valore
medio di 1.215. Se la paziente ci riferisce di avere una attività piuttosto sedentaria, aggiungiamo il
20% e otteniamo 1.200 calorie, che è esattamente il regime dietetico che abbiamo prescritto senza
fare gli opportuni calcoli. Quindi un regime iso- e non ipocalorico che, proprio perché isocalorico,
non può portare a riduzione ponderale. Questo è uno degli errori più frequenti che si commettono
nella pratica clinica e si riferisce soprattutto a soggetti sempre di bassa statura e, molto
frequentemente, di sesso femminile.
Se poi il nostro soggetto è allettato, per cui aggiungeremo al metabolismo basale solo il 10%, e,
quindi, il suo consumo totale risulterà non più di 1.215 calorie, ma di solo 1.100 calorie, allora la
dieta che abbiamo prescritto risulterà addirittura ipercalorica e farà aumentare di peso la nostra
paziente.
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Ciò significa che, quando il consumo calorico viene calcolato con le formule, come avviene nella
stragrande maggioranza dei casi, per essere sicuri di prescrivere una dieta certamente ipocalorica, è
necessario sottrarre al consumo calorico calcolato, almeno il 25%. Tale cifra deriva dal fatto che,
essendo il CV del consumo calorico globale di 6,9%, l’errore più grande che si possa fare è eseere
di fronte ad un soggetto che invece di posizionarsi al centro della gaussiana, si presenta a – 3 CV,
quindi il valore trovato è una sovrastima del consumo di 3 volte il CV (per prendere il 99% dei
soggetti), cioè di 6,9% x 3 = 20,7%. Quindi, nel peggiore dei casi, una riduzione del regime
dietetico di almeno il 25% rispetto al consumo calorico medio calcolato permette la prescrizione di
un regime dietetico comunque inferiore alla spesa energetica di almeno il 4%. (25-20,7=4,3). Se
viceversa la nostra paziente dovesse presentare un consumo calorico superiore alla media,
posizionandosi nella parte estrema destra della curva di Gauss, ad esempio 1.466 calorie, allora il
regime prescritto sarà fortemente ipocalorico, perché dovremo aggiungere il 20,7% della parte
destra della curva, raggiungendo la cifra di 4,3+20,7+20,7= 45,7%. La perdita di peso sarà quindi
più rapida. Questa è la ragione per cui è bene non ridurre la quota calorica oltre il 25% del valore
medio calcolato, per non prescrivere diete molto drastiche, che potrebbero essere non tollerate. Dal
momento che il regime dietetico deve essere tenuto per mesi o anni, a seconda dell’entità del
sovrappeso da perdere, è bene prescrivere regimi dietetici solo modestamente ipocalorici, in modo
da ottenere un deficit di 1-2 kg al mese.
Dia 20
Vediamo ora di programmare, pur con i limiti di quanto sopra esposto, una riduzione ponderale nel
tempo. Si parte del presupposto che ciò che si deve perdere è massa grassa, che risponde alla legge:
1 gr di grasso = 9 calorie, per cui per perdere un grammo di grasso al giorno, è necessario
concludere con un bilancio energetico negativo di 9 calorie. Se programmiamo un bilancio negativo
di 300 calorie sul consumo calorico calcolato, la perdita di grasso quotidiana sarà di 300/9 = 33
grammi di grasso.
Se il soggetto perde maggior peso, ad esso contribuisce una certa perdita idrica legata anche ad una
modesta perdita di massa magra accumulata in eccesso.
E’ necessario rendere partecipe il paziente sul lento programma di riduzione ponderale, in modo da
non creare false aspettative, e far comprendere bene come non sia opportuno lasciarsi prendere dalla
fretta. Una perdita di 1-2 kg/mese non solo non può dare problemi metabolici, ma permette
l’acquisizione nel tempo di uno stile di alimentazione che poi non dovrà più essere abbandonato per
il resto della vita. Esso infatti dovrà continuare anche nell’ipotesi del raggiungimento del target,
momento in cui sarà semplicemente necessario ripristinare un regime dietetico pari al consumo
calorico calcolato, cioè, in pratica, si elimina la riduzione calorica del 25%.
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Per facilitare i calcoli è stato aggiunto al foglio excel che già conosciamo, un duplice settore:
1) in basso a sinistra vi è il calcolo del regime calorico consigliato: si ottiene impostando
correttamente la percentuale di riduzione calorica. Abbiamo detto che è bene che questa sia non
inferiore al 25%, almeno inizialmente. Nel caso già riportato, il metabolismo basale è di 1.215,
considerando la cella corrispondente a brachitipo e, aggiungendo un 20% di attività motoria, si
giunge a 1.458. Decidendo di sottrarre il 25% (= 364 calorie) si giunge a 1.093. Se con tale
prescrizione non otterremo calo ponderale nei successivi 1-2 mesi, si può trarre una sola
conclusione: la nostra paziente, come avviene di frequente se non siamo stati in grado di motivarla
adeguatamente, non ha semplicemente rispettato il regime dietetico prescritto.
Si è preferito lasciare impostabile la percentuale in modo da adeguare questa funzione a secondo
del soggetto (per esempio, per un soggetto con fabbisogno calorico maggiore del valore medio
calcolato che, per questo motivo, ottiene una riduzione ponderale maggiore del previsto, si può
successivamente ridurre la percentuale di riduzione calorica per rendere più graduale il calo di
peso);
2) in basso a destra è possibile calcolare il tempo di regime dietetico necessario per raggiungere
il target. Esso, espresso in giorni o mesi, deriva dalla misura del numero di kg di eccedenza
ponderale (differenza tra il peso reale del soggetto ed il peso ideale corrispondente ad un BMI di
25) e della divisione fra il numero di calorie depositate nella massa grassa in eccesso ed il bilancio
calorico negativo impostato (ogni kg = 9.000 calorie). Esso corrisponde esclusivamente alla perdita
di massa grassa e, nel nostro caso impostato, il tempo necessario è di 395 giorni, corrispondente a
circa 13 mesi.
E’ ovvio che i calcoli sono stati eseguiti su un valore medio e, quindi, sono validi per un soggetto
che presenta un consumo calorico che sia vicino al valore medio. Quanto più esso si allontana a
sinistra della curva di Gauss tanto minore sarà la riduzione ponderale, che, viceversa sarà maggiore
quanti più ci si allontana sulla destra.
Con queste conoscenze siamo ora in grado di capire quando i nostri pazienti sono inadempienti e
quando, viceversa, sono stati commessi errori da parte nostra, per cui non vi è responsabilità da
parte del paziente