MICHELANGELO per le classi quarte ITER
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MICHELANGELO per le classi quarte ITER
MICHELANGELO Tavola cronologica e commento alle opere 1475 1489 1492 1498 Il 6 marzo nasce a Caprese dal podestà Lodovico Si trasferisce a Firenze, e apprende l’arte della pittura nella bottega del Ghirlandaio e si avvicina alla scultura frequentando il giardino di San Marco della Villa di Lorenzo il Magnifico. Qui erano raccolte statue antiche e i giovani artisti studiavano sotto la guida dello scultore Bertoldo Era questo un ambiente molto diverso da quello della “bottega”, dove gli allievi imparavano il mestiere dalla pratica quotidiana e dall’esempio del maestro, senza teorizzazioni, senza intellettualismi. Infatti, nel “giardino di San Marco” i giovani, avendo davanti a sé i modelli antichi, si esercitavano a copiarli imparando il senso delle proporzioni, le “regole” cioè della tradizione, secondo un intendimento classico e quindi teorico. Eppure proprio dall’uso della copia nasce la poetica michelangiolesca: egli si abitua adesso a considerare che ciò che scolpisce esiste già prima; quando poi creerà liberamente, ciò che traduce nel marmo dovrà essere ben preciso nella sua mente, come se già esistesse. Dal marmo dovrà cioè ricavare quell’idea che vive negli “occhi interni”, ossia nella sua immaginazione, spogliandolo di “ogni soverchio” fino a lasciare libera l’immagine. Questa è la teoria michelangiolesca: “io intendo per scultura quella che si fa per forza di levare” e non per “via di porre”. Muore Lorenzo de’ Medici. Due anni dopo scende in Italia il re di Francia Carlo VIII, il palazzo mediceo è saccheggiato e Piero de’ Medici costretto alla fuga. A Firenze s’instaura una repubblica popolare dove grande influenza ha la predicazione accesa e violenta di Girolamo Savonarola, scomunicato nel 1497 da papa Alessandro VI e successivamente processato e condannato a morte. La Madonna tiene in grembo Cristo morto ed è giovane come quando Cristo era bambino. Secondo Argan, allora, la statua vuole essere proprio la prefigurazione che la Vergine ha della passione del Figlio e alla previsione si lega subito il rimpianto: il gesto dimostrativo della mano della Madonna indica che la previsione si è purtroppo avverata. L’immagine è quindi concepita in una dimensione che va al di là della realtà naturale, al di là dello spazio. Le pieghe sovrabbondanti della veste hanno lo scopo di far risaltare maggiormente, per contrasto, la bellezza del corpo nudo di Cristo. La perfezione di questo e del volto della madre esprime la sublimazione del loro sacrificio, ossia il superamento delle fattezze esterne e il raggiungimento della bellezza ideale. L’estrema giovinezza della Madre vuole rappresentare allora anche la sua castità, la sua purezza, la sua incorruttibilità spirituale. Infatti, secondo il pensiero neoplatonico, solo chi è giovane è puro, e nella perfezione del corpo giovane si riflette la bellezza di Dio; il trascorrere degli anni conduce invece inevitabilmente verso il peccato. Gli viene messo a disposizione un enorme blocco di marmo che giaceva inutilizzato ma che era già stato abbozzato da Agostino di Duccio oltre quarant’anni prima. Michelangelo dimostra così che nella materia, qualunque aspetto essa abbia, preesiste già la forma che l’artista ha nella sua mente, riuscendo, secondo il Vasari, “a fare risuscitare uno che era morto” e a creare un’opera superiore a qualunque scultura moderna e antica. Il tema è tradizionale a Firenze: David è l’uomo rinascimentale, autore di se stesso, padrone del mondo che lo circonda. Qui però, più che in Donatello, si rende palese il significato della coscienza dell’uomo, della calma che gli deriva dalla fede nella superiorità della “virtus”, la forza morale che è dentro di lui. Non dunque, malgrado il classicismo, l’uomo dalle proporzioni perfette, secondo la concezione greca, bensì l’uomo moderno del quale si evidenziano prioritariamente le qualità interiori. Infatti, anche se l’impianto è classico per la ponderazione policletea e il rapporto chiastico delle membra (cioè la corrispondenza inversa tra arti inferiori e superiori), vi è un crescendo plastico, dal basso verso l’alto, fino alla testa, fulcro della composizione perché sede del pensiero, quel pensiero la Pietà (marmo h. 1,74 m, l. 1,95 m p. 69 cm Rom Basilica di San Pietro) 1501 David (marmo h. 4,10 Firenze, Galleria dell’Accademia) che è guida di ogni azione umana. La fronte è corrugata perché indica allo stesso tempo concentrazione e valutazione delle proprie forze. E’ errato quindi parlare di sproporzioni perché le proporzioni michelangiolesche non sono realizzate ad imitazione di quelle naturali, ma vogliono rendere il significato dell’idea che ha preso forma nella statua. Anche le mani sono più grandi della norma: quella che sostiene la fionda e quella in riposo ma di straordinaria potenza, con le dita arcuate e le vene rese visibili dall’affluenza naturale del sangue verso il basso. Hanno una grandezza maggiore perché sono lo strumento della ragione e senza di esse l’eroe non avrebbe abbattuto l’avversario. L’eroe è gigantesco perché la grandezza materiale ne simboleggia quella morale, è nudo perché armato soltanto della propria virtù ed è privo dei tradizionali attributi di David (la testa di Golia e la spada), perché l’artista non rappresenta l’azione, ma il suo movente morale, la tensione interiore che precede lo scatto del gesto. 1504 1504 La Battaglia di Cascina Tondo Doni (tempera su tavola diametro 1,20m Firenze Uffizi). Chiamato così perché commissionato in occasione del matrimonio del ricco mercante fiorentino Agnolo Doni con Maddalena Strozzi. Nel 1504 la Signoria incarica Michelangelo di dipingere, nella Sala del Consiglio in Palazzo Vecchio un’altra scena di battaglia vinta dai fiorentini. Michelangelo aveva appena finito il cartone della battaglia di Càscina, quando fu richiamato a Roma da Giulio II. Se Leonardo concepisce la battaglia come un fenomeno della natura, un ciclone: tra vortici di fumo e di polvere si vedono episodi di lotta furibonda, cavalli che paiono belve infuriate, smorfie ferine di combattenti, Michelangelo oppone un momento preciso. Mentre i fiorentini, credendosi al sicuro, si bagnano in Arno, sono sorpresi dai pisani; la situazione è disperata, ma proprio la disperazione dà loro la forza di battersi e vincere. La figurazione michelangiolesca ha infatti un doppio significato: celebra un episodio eroico della storia fiorentina (e per Michelangelo, come già per il Savonarola, la libertà politica è un’esigenza di fondo della vita morale e religiosa) e allude al momento eroico della spiritualità cristiana. Per il cristiano, come per il soldato, l’ora della prova estrema giunge quando si è meno preparati, ma la stessa angoscia può diventare forza di riscatto. Si delinea così, più ancora che nel David, l’ideale eroico di Michelangelo: eroe non è tanto colui che compie un’azione coraggiosa, quanto colui che, vincendo l’inerzia e il sonno della carne, afferma il proprio essere spirituale e si salva. Il soggetto offre a Michelangelo la possibilità di dipingere una sterminata composizione di corpi nudi nei più diversi movimenti, dimostrando la sua perfetta conoscenza dell'anatomia e la perfezione del disegno. A questi cartoni si ispirarono tutti gli artisti contemporanei, non solo fiorentini. In primo piano Michelangelo ha raggruppato, saldandoli in un solo blocco, i componenti del gruppo sacro, al quale dà un movimento che sale a spirale, con una concatenazione rigorosa e reciproca dei gesti. Al di là di un basso muretto concavo, alle spalle di Giuseppe, emerge la figura di San Giovannino dietro il quale, disposti a semicerchio su un rilievo roccioso anch’esso concavo, stanno dei giovani nudi. Essi rappresentano il mondo pagano, la Sacra Famiglia il mondo cristiano e San Giovannino l’elemento di mediazione fra l’uno e l’altro, essendo colui che è stato chiamato a preparare la strada alla predicazione del Cristo. I colori sono vivaci e i corpi sono trattati in maniera scultorea, spiccati dal fondo della tavola con un chiaroscuro ottenuto graduando la stessa tinta dalla nota più chiara a quella più intensa, contrariamente all’immagine espansa, sfumata, inafferrabile dei dipinti di Leonardo. D’altra parte Michelangelo riteneva che la migliore pittura fosse quella che maggiormente si avvicinava alla scultura, la cui qualità eccellente consiste nel trionfo sulla materia. Poiché la materia della pittura è il colore, egli si propone di vincere la mutevolezza, la sensibilità del colore all’aria e alla luce. Ogni colore allora è dato nella sua qualità pura di giallo, rosso e azzurro (i colori primari) accostati in modo che nessuna fusione, nessuna reazione reciproca sia possibile. Come in Giotto e in Masaccio il colore ha importanza fondamentale in funzione del volume. Nelle opere michelangiolesche, il paesaggio, così importante nelle opere leonardesche, è assente o è ridotto a un terreno scabro; questo perché i sentimenti dei protagonisti si riverberano nell’aspetto del luogo che accoglie le loro azioni e l’uomo di Michelangelo non vivrebbe coerentemente in un ambiente idilliaco, fresco e sereno. 1505 In marzo Giulio II gli affida la realizzazione della propria tomba e Michelangelo si trasferisce a Carrara per la scelta dei marmi Ha inizio il pessimismo michelangiolesco: la constatazione dell’urto fra l’intuizione dell’eterno e la mortalità di tutte le cose, fra la ragione che Dio ci ha concesso e la nullità dei risultati. La fede nei grandi valori della ragione non esiste più, quella fede che è alla base del Rinascimento, non esiste più. Il Rinascimento stesso è in crisi. E’ questo senso della relatività che rende M. così moderno, così vicino alla nostra sensibilità. Il sentimento, l’inquietudine del non-compiuto hanno anche una causa diretta: la tomba di Giulio II appunto, l’opera che egli avrebbe voluto collocare nel coro della vecchia Basilica di San Pietro e in cui avrebbe voluto esprimere tutto se stesso, non fu mai compiuta: “la tragedia della mia vita”, la definì lo stesso M. Per circa quarant’anni contrastate vicende determinarono un continuo rinvio dell’esecuzione che poté avvenire solo molti anni dopo la scomparsa del papa, nel 1545, nella Chiesa di San Pietro in Vincoli e in una soluzione molto ridimensionata rispetto all’ambizioso progetto originale. M. l’aveva concepita, nel 1505, come il “monumento” classico della Cristianità: un immenso complesso, sintesi di architettura e scultura, isolato, quindi visibile su quattro lati, movimentato da oltre quaranta grandi statue, come una montagna marmorea dalla quale fossero estratte le immagini umane, espressione dell’autorità papale sul mondo ma soprattutto della sublimazione dell’anima in Dio. 1505 San Matteo E’ un incompiuto ma è una statua che più di ogni altra ci permette di studiare la concezione di Michelangelo come scultore. A partire da questo momento molte sue statue lo saranno non per superficialità o incontentabilità ma per scelta. Il “non finito” ha un significato preciso: il blocco sbozzato lascia solo intravedere l’immagine che l’artista viene liberando dalla materia, mentre l’idea compiuta è irraggiungibile perché eterna; l’uomo può soltanto lottare per tendere verso questa meta ma è cosciente dell’impossibilità per lui, finito, di giungere all’infinito. Nel “non finito” si concretizza il pessimismo michelangiolesco: la constatazione dell’urto fra l’intuizione dell’eterno e la caducità di tutte le cose, fra la purezza dell’idea e lo squallore della realtà, fra la ragione che Dio ci ha concesso e la pochezza dei risultati. Tutto questo in San Matteo è visibile con chiarezza: l’apostolo tenta di uscire dalla materia con fatica, con sofferenza; Michelangelo, “cavando” la forma dal blocco di marmo, la libera togliendo il “soverchio” e facendo arretrare sempre più il piano anteriore della materia e rendendo visibili via via le parti più sporgenti (marmo, h. 2,16 Firenze Galleria dell’Accademia) 1506 Torna a Roma ma, non riuscendo ad avere conferma dell’incarico per la tomba di Giulio II fugge a Firenze 1508 Al lavoro il pittore attese per circa quattro anni (dal 1508 al 1512), quasi completamente da solo perché l’arte è un’esperienza che deve essere personalmente, dolorosamente vissuta; attraverso il proprio lavoro l’artista compie cioè un’esperienza ascetica, redime simbolicamente se stesso.Tutti gli elementi figurativi si fondono in una sintesi voluta di architettura, pittura e scultura, così da conferire al complesso un’intensa vita plastica. La volta è organizzata fingendo Riconciliato col papa, il 10 maggio si impegna ad affrescare la volta della Cappella Sistina delle membrature che stabiliscono diversi livelli di profondità per l’inserzione delle figure e alle quali l’illusione prospettica conferisce un eccezionale realismo. Infatti essa si presenta attraversata, in senso trasversale, da arconi che appoggiano su una cornice corrente poco al di sopra delle vele triangolari e sorretta da pilastrini che affiancano i troni di sette Profeti e cinque Sibille. Questa fascia pare il prolungamento delle pareti laterali e quindi si ha il senso di una spinta verso l’alto; ma, al di sopra, lo spazio non sfonda, anzi si contrae nella stretta degli arconi trasversali. Questi e la cornice ripartiscono la superficie centrale in nove riquadri con scene tratte dal libro della Genesi, cinque dei quali sono di dimensioni minori perché lasciano spazio a dieci coppie di Ignudi, che probabilmente rappresentano il mondo pagano, poiché volgono le spalle al cielo, ma nell’agitazione che li anima, ne intuiscono la presenza. Nelle vele e nelle sottostanti lunette sono raffigurate le quaranta generazioni degli Antenati di Cristo, elencate nel vangelo di Matteo, e, infine, nei pennacchi angolari trovano posto le raffigurazioni di quattro eventi miracolosi fondamentali per la salvezza di Israele (Giuditta e Oloferne, Davide e Golia, il Serpente di Bronzo, la Punizione di Amon). Le storie bibliche hanno inizio con la “Separazione della luce dalle tenebre” e terminano con “L’ebbrezza di Noè”. Nell’esecuzione, tuttavia, Michelangelo seguì l’ordine inverso. Nelle prime scene dipinte (Ebbrezza di Noè, Diluvio Universale, Sacrificio di Noè), le figure sono molte e, quindi, relativamente piccole, poiché sono esposti fatti terreni, storici; in quelle seguenti (Peccato Originale, Creazione di Eva, Creazione di Adamo, Separazione delle acque, Creazione degli astri, Separazione della luce dalle tenebre) l’autore ne ha diminuito il numero, accrescendone le misure e raggiungendo così una maggiore monumentalità e solennità, essendovi rappresentati fatti ultraterreni, divini. La polvere e il fumo delle candele avevano da secoli alterato e spento il colore degli affreschi, ma un recente restauro, sponsorizzato dalla Nippon Television di Tokio, ha ridato vivezza alle tinte, che sono tornate accese e cangianti come quelle del Tondo Doni. Anche qui il colore ha una preminente funzione espressiva e volumetrica, conferisce vigore alle immagini, con tonalità luminose che fanno comprendere quanta importanza abbiano avuto questi affreschi per tutta la successiva generazione manierista. L’antitesi con gli affreschi che negli stessi anni e per lo stesso pontefice dipingeva Raffaello è evidente. Per Raffaello umanità e natura riflettono ugualmente la forma mentis del Dio Creatore; per Michelangelo la natura non esiste o è avversa come nel Diluvio, insidiosa come nel Peccato originale. La creazione stessa è un atto violento, lacerante: separa la luce dalle tenebre, la terra dalle acque. Nei riquadri della Creazione lo spazio pittorico coincide con il cielo aperto; cioè l’immagine di Dio, ripetuta quattro volte, è vista come se si librasse tridimensionalmente nell’aria ed è rappresentata con eccezionale ed inconsueti effetti di scorcio, dall’alto in su, da dietro, di fronte, di fianco. Il dinamismo è accentuato dalla posizione obliqua delle immagini e dalle curve dei panneggi. Nella Creazione di Adamo, a destra Dio Padre in volo è sorretto da numerosi angeli ed è avvolto da un manto che si gonfia al vento; a sinistra Adamo, disteso sulla nuda terra, si solleva attratto dalla potenza vitale che si sprigiona dal dito di Dio, che, appena sfiorandolo, gli attribuisce così l’anima intellettiva. La pesante gravitazione di Adamo sul terreno, il suo torpido svegliarsi, si oppongono drammaticamente alla perentorietà del gesto divino, alla velocità del Creatore e alla sua levitazione sottolineata dalla posizione quasi orizzontale del corpo. La lentezza del movimento di Adamo, è dovuta alla coscienza del dramma della vita. Gli uomini di Michelangelo raramente agiscono; meditano piuttosto sull’azione che devono intraprendere o che hanno appena compiuta, consci della sconfitta ineluttabile nel tentativo di raggiungere la purezza dell’idea. Sono eroi perché pur sapendo che la battaglia è perduta, vanno incontro al combattimento per obbedire a quell’impegno morale che è dentro ciascuno di noi. 1512 1513 Il 31 ottobre la Cappella Sistina è riaperta: gli affreschi sono stati completati 20 giorni prima Morto Giulio II, gli eredi per volontà testamentaria del papa, firmano un nuovo contratto con M. che riprende il lavoro della tomba. Il progetto viene però modificato e il monumento, invece che isolato, è immaginato addossato a una parete. Tomba di San Pietro in Vincoli, Roma Schiavo morente, marmo Louvre, Parigi Risalgono a questo periodo le prime statue scolpite per esso: lo schiavo ribelle, lo schiavo morente e il Mosè. Lo “schiavo ribelle”, cercando di sciogliere i lacci che lo legano, si divincola per contrapposti: la testa si volge da un lato, mentre il torace è orientato dall’altra parte e le gambe sono frontali. Da questi contrasti nasce il senso di sofferenza di chi, dotato di animo forte, è tuttavia oppresso. E’ la stessa sofferenza dello “schiavo morente”: la bellezza alessandrina del suo corpo, levigato, proporzionato, dal volto perfetto, rende più dolorosa la coscienza della fine, la caducità di quella bellezza, il suo prossimo disfacimento. Il Mosè invece emana un forte vigore interiore. Tutto contribuisce ad esprimere l’energia morale del personaggio, la sua volontà indomita: la disposizione per contrapposti, lo sguardo imperioso, il guizzare sulla testa delle lingue di fuoco, simbolo del personaggio biblico, la fluidità della barba lunga e sovrabbondante, l’ampio panneggio sopra le gambe, il deciso affermarsi del ginocchio che fuoriesce dalla stoffa. È un’opera che può farci capire cosa intendessero i contemporanei quando parlavano di “terribilita” michelangiolesca. Durante un soggiorno a Roma Freud scrive di essere stato particolarmente affascinato dalla statua del Mosè, che aveva occasione di vedere tutti i giorni, e precisando di non essere un intenditore d'arte ma soltanto un profano, si propone di capire ciò che l'artista ha voluto comunicare attraverso il suo lavoro; Freud scrive che "ciò che fa così fortemente presa su di noi può essere solo l'intenzione dell'artista nella misura in cui egli è riuscito ad esprimerla e a farcela comprendere". La bibbia descrive Mosè come una persona irascibile, soggetta a scatti di collera; le sacre scritture narrano che Mosè non appena sceso dal monte Sinai, dove poco prima aveva ricevuto da Dio il compito di diffondere i dieci comandamenti, vedendo il popolo in festa per la costruzione di un vitello d'oro, accortosi dunque del peccato di idolatria, gettò con violenza a terra le tavole che finirono per rompersi. Ma quello scolpito da Michelangelo non è il Mosè biblico; attraverso un'analisi attenta di piccoli particolari come la mimica del viso o l'innaturale posizione della testa rispetto al corpo è possibile cogliere lo stato d'animo della statua che non è quello di in uomo pronto a scattare in piedi preda dell'irrazionalità ma piuttosto è quello di un uomo combattuto tra la fermezza del pensiero e l'irruenza interiore, in un atteggiamento di perenne autocontrollo e di calma solenne quasi oppressiva. Secondo Freud le sopracciglia contratte e minacciose esprimono un senso d'ira, mentre dallo sguardo emerge il senso di dolore, dalla bocca emerge invece un senso di disprezzo dato dagli angoli rivolta verso il basso e dalla sporgenza del labbro inferiore. Le tavole che vengono sostenute attraverso una pressione esercitata dall'avambraccio sul busto. Si ponga poi attenzione sulla mano destra: l'indice esercita una pressione che riguarda principalmente le ciocche della barba provenienti da sinistra e questa presa obliqua impedisce alla barba di seguire la rotazione della testa e degli occhi verso sinistra, creando una sorta di nodo tra i peli e la mano. Questa innaturale posizione è spiegabile attraverso una sequenza di movimenti precedenti: A questo punto si è ora in grado di ricostruire tutta la scena: in un primo momento Mosè, seduto tranquillamente, porta le tavole perpendicolarmente sotto il braccio destro, poi sente dei rumori e volge la testa per capire cosa stia accadendo, accortosi del peccato del popolo lascia sfuggire le tavole e comprime la mano contro la barba e il petto in preda all'ira, pronto a balzare in piedi per punirli. Questo spiega perché la gamba sinistra sia sollevata. Infine accortosi che le tavole Mosè Tomba di San Pietro in Vincoli, Roma 1515 1519 cadendo avrebbero potuto sbriciolarsi ritira la mano destra bloccandole con la forza dell'avambraccio ma portando involontariamente con sé una ciocca di barba. Appare dunque chiaro che la statua di Michelangelo non vuole registrare alcun momento particolare di vita del profeta ma la sua imponente forza fisica diventa una concreta espressione della forza psichica di un uomo che riesce a combattere con successo contro una passione interiore. Questa scelta di rappresentazione deve essere vista sotto due punti di vista, uno più materiale legato ad esigenze scultoree e l'altro correlato invece alla personalità dello stesso Giulio II. La statua di Mosè è infatti parte di una composizione più vasta e se Michelangelo avesse inserito un uomo pronto a commettere azioni violente e ad abbandonare il suo posto si sarebbe creato un contrasto con il significato do testimonianza eterne della tomba. Per quanto riguarda invece il secondo punto di vista bi sogna tenere presente che l'artista non ha creato una figura storica ma un carattere tipo personificando un'inesauribile forza interiore molto vicina alla personalità del Papa, un uomo deciso che cercava di realizzare il proprio progetto di unire l'Italia sotto la supremazia pontificia anche a costo di usare mezzi violenti. In aprile torna a Firenze dove rimarrà fino al 1534 Leone X lo incarica di costruire la Sagrestia Nuova di San Lorenzo destinata ad accogliere 4 tombe medicee Tomba di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino, Firenze, Sagrestia Nuova Basilica di San Lorenzo La cappella si trova accanto al transetto destro, in corrispondenza esatta della Sagrestia di Brunelleschi, quindi di misure e forme identiche, completando armoniosamente la pianta della chiesa. Fu detta perciò Sagrestia Nuova per distinguerla da quella del Brunelleschi che da allora fu chiamata Vecchia. La pianta è dunque quadrata con la scarsella che si apre sulla parete di fronte l’ingresso; ambedue gli spazi sono coperti da cupole emisferiche su pennacchi, di cui la più grande, sormontata da una lanterna, prende come esempio il Pantheon, presentando cinque anelli concentrici di lacunari. Se i materiali impiegati da M. sono quelli della tradizione fiorentina quattrocentesca (il bianco dell’intonaco per le pareti e il grigio della pietra serena per le membrature architettoniche), l’uso che ne viene fatto non coincide con la concezione brunelleschiana. Mentre in B. la pietra serena ha la funzione di definire geometricamente la forma e lo spazio mediante la prospettiva lineare, in M. il grigio della pietra determina il risalto contro il piano d’appoggio e la continuità verticale dell’intelaiatura di lesene, archi e cornici è interrotta da una fascia bianca che divide in due lo spazio, tanto che quello superiore sembra fluttuare nell’aria non avendo visibili appoggi. Inoltre lo slancio verso l’alto è suggerito dalla rastrematura dei finestroni del secondo ordine, geniale intuizione architettonica della quale M. fece qui uso per la prima volta. Per il B. le pareti erano puri piani, superfici neutre, sezioni ideali dello spazio prospettico; per M. formano un forte telaio plastico rivestito, nella parte inferiore, in marmo di Carrara. In due pareti frontali sono collocate le tombe dei duchi Lorenzo di Urbino e Giuliano di Nemours, nipoti di Lorenzo de’ Medici, costituite da sarcofagi dal coperchio semiellittico su cui giacciono figure nude semisdraiate, mentre le statue dei defunti seduti sono parzialmente contenute dentro nicchie sovrastanti. Sul sarcofago di Lorenzo sono adagiati il Crepuscolo e l’Aurora, su quello Tomba di Giuliano de’ Medici duca di Nemours Firenze, Sagrestia Nuova Basilica di San Lorenzo 1524 1527 1530 1534 1536 Iniziano i lavori per la Biblioteca Laurenziana di Giuliano il Giorno e la Notte, col significato simbolico, comune all’arte cristiana, della caducità della vita umana e del suo rapido declino verso la morte. Ma qui le quattro statue non vogliono essere un monito affinché l’uomo ricordi che la breve vita terrena è in funzione dell’aldilà, dove saremo giudicati e dove, secondo la chiesa romana, conosceremo la vita eterna. Queste quattro figure esprimono, senza speranza, l’inutilità dell’azione: l’Aurora si desta lentamente alla fatica della giornata, contraendo penosamente la fronte e schiudendo amaramente le labbra, il Crepuscolo si ripiega su se stesso, la Notte dorme un sonno pesante, liberatorio, e anche il Giorno giace, le gambe accavallate e il viso rivolto verso la spalla, non perché manchi in lui la forza di agire (sottolineata dalla potenza delle membra) ma la volontà, perché c’è la coscienza della nullità dell’uomo di fronte all’infinito. Le quattro figure sono immagini del Tempo e del suo ritmo eterno. E in esse, poste in equilibrio instabile sui coperchi ricurvi dei sarcofagi, il non-finito si presenta a tratti, ad esempio nel volto del Giorno, in contrasto con altre parti levigate (il volto dell’Aurora), perché la sostanza del Tempo è ambigua: da un lato domina il destino finito dei mortali, dall’altro è l’eternità stessa. Il monumento di Lorenzo il Magnifico e di Giuliano forse sarebbe stato uguale , ma non è stato realizzato e consta di un cassone a parallelepipedo sormontato da una Madonna col Bambino fra i Santi Cosma e Damiano. Il gruppo divino riprende il tema giovanile di Bruges, accentuando però il rapporto madre-figlio in un moto a serpentina che li unisce completamente. Questo moto sappiamo come in M. è espressione di dolore, un dolore non accidentale, transitorio, ma universale, tipico della condizione umana. Fu voluta da Giulio de’ Medici, eletto papa in quell’anno col nome di Clemente VII, per conservarvi il grande patrimonio librario mediceo. La Biblioteca sorge accanto alla Basilica di San Lorenzo, su un lato del chiostro, al piano superiore, e consta di due ambienti principali nettamente differenziati: l’atrio e la sala di lettura. L’atrio ha uno sviluppo verticalistico ed è quasi completamente occupato dalla monumentale scalinata che si trova quindi ad essere stretta tra pareti molto alte. Queste sono movimentate da un’intelaiatura architettonica rafforzata da colonne abbinate, incassate profondamente e, in corrispondenza a queste, nell’ordine superiore, da coppie di paraste. Fra le coppie di colonne e di paraste sono disposte delle finestre cieche dagli stipiti rastremati. Questa struttura è impostata su un alto zoccolo che presenta, in corrispondenza delle colonne, solo grandi mensole a “ricciolo”, puramente decorative. La sala di lettura che, a differenza del “ricetto”, ha andamento orizzontale, è animata da paraste, finestre e cornici sulle pareti e dal soffitto ligneo cassettonato cui corrisponde il disegno del pavimento a intarsi marmorei. Ma l’invenzione più stupefacente dell’intero complesso è la scala: essa si presenta come una colata lavica, come un fiume in piena che, superata la soglia del salone della biblioteca, straripa e si allarga dando vita a tre rivoli. I due laterali, con i gradini squadrati e senza balaustra, si raccordano per mezzo di due volute ellittiche a quello centrale, costituito da gradini più ampi e curveggianti (“aovati” dice M.). E’ un’opera che può definirsi il punto di partenza dell’architettura del manierismo: di un’architettura cioè, non più rivolta a costruire uno spazio che sia l’immagine razionale della natura, ma che riflette una concezione dinamica e drammatica dello spazio. In seguito alla cacciata dei Medici, si interrompono i lavori per la Sagrestia Nuova Caduta la Repubblica il 12 agosto, si nasconde; perdonato da Clemente VII, riprende i lavori alla Laurenziana e alla Sagrestia Nuova Si trasferisce a Roma forse in vista della realizzazione del Giudizio Universale Inizia a tradurre i cartoni del Morto nel settembre di quell’anno Clemente VII, il nuovo papa, Paolo Giudizio Universale III, gli conferma l’incarico. Nel 1536 completa i cartoni preparatori e sulla parete 1537 Riceve l’incarico di sistemare la Piazza del Campidoglio a Roma dove Paolo III aveva deciso di trasferire il Monumento equestre di Marco Aurelio da inizio alla pittura che sarà ultimata nel 1541. Per capire quest’opera, che riflette la crisi di una grande coscienza, bisogna pensare all’estrema intensità con cui M. vive i tragici avvenimenti storici, la fine di Firenze e, con essa, la fine dell’ideologia umanistica della libertà. La stessa Roma non è più quella che aveva lasciato: il “sacco” del 1527 ha dissipato il mito dell’immunità storica della città e ha dimostrato che la lotta religiosa è ben altro che una semplice disputa dottrinale. Il Giudizio è l’opera della crisi: ricapitola tutta l’opera precedente dell’artista, anticipa la successiva. Questa volta M. non suddivide la superficie in riquadri architettonici e, a parte la striscia di terreno arido in basso, le figure campeggiano contro il cielo libero, senza riferimenti prospettici. La pittura si identifica allora con un altorilievo, incentrato sulla figura di Cristo Giudice, la cui inesorabilità è mitigata dalla presenza della Madonna dolcemente raccolta accanto a Lui. Rompendo con la tradizione iconografica, che collocava nel cielo Dio e la sua corte ed in basso, a destra e sinistra gli eletti e i dannati, M. concepisce la composizione come una moltitudine di figure rotanti intorno a Cristo, la cui figura emerge isolata, in un nimbo di luce. Come nella giovanile Centauromachia, anche qui vi è un movimento di masse suscitato dal gesto divino: l’alzare e abbassare le braccia di Cristo genera un moto ascendente a sinistra, chiamando a sé, verso l’alto dei cieli, gli eletti; discendente a destra, precipitando verso il basso dell’inferno i dannati. Il volto di questi esprime cupo terrore e il movimento vorticoso dei loro corpi si somma alle grida disperate, agli urli dei demoni, all’assordante suono delle trombe degli angeli che, come è scritto nell’Apocalisse, annunciano l’arrivo del Giudice supremo. Nei volti dei salvati non c’è però gioia, pace ma sgomento perché solo Dio conosce i motivi della sua giustizia e ne è arbitro, come della grazia. L’affresco mostra allora il tormento della coscienza di M. in cui contrastano i motivi ideali dell’ortodossia e della riforma. D'altronde gli inquietanti interrogativi del monaco tedesco non sono domande superficiali soprattutto quando la Chiesa romana, sotto Leone X, era arrivata a vendere l’indulgenza a chi avesse offerto denaro per la costruzione della Basilica di San Pietro, mercanteggiando la grazia divina. Il Giudizio è dunque l’espressione dell’esperienza religiosa, della filosofia dell’artista. L’umanità otterrà il premio o la punizione, non in base al proprio operato ma secondo il giudizio divino: tutti sono colpevoli, tutti possono essere salvati. E questa umanità non è piccola e umile, ma gigantesca ed eroica anche nella colpa e nella pena. Non c’è quella certezza di salvezza che ostenterà, invece, circa sessant’anni dopo, Rubens nella immensa tela, con l’identico soggetto, dipinta nella Chiesa dei Gesuiti di Neuburg, dove c’è l’esaltazione della resurrezione e il sicuro trionfo dei giusti e dei salvati. L’artista cambia innanzitutto l’orientamento del complesso: il Campidoglio non guarda più verso i ruderi del Foro, simbolo dell’antica grandezza romana, ma verso la città moderna, verso la sua nuova grandezza, in un collegamento ideale tra passato e presente. Disegna il pavimento con un motivo a quadrangoli curveggianti (posato secondo il progetto originario solo nel 19640) inscritto entro un ovale, al cui centro situa la statua di Marco Aurelio, che ne risulta esaltata e diventa il punto di riferimento della piazza. Di fronte al monumento equestre è la scala di accesso, alle spalle il Palazzo del Senato, a sinistra il Palazzo dei Musei , a destra quello dei Conservatori. Le incisioni pubblicate da Dupérac nel 1568 mostrano che la scala non era prevista in lieve salita, con ampi gradoni e accompagnata lateralmente da dolci declivi erbosi, ma più ripida e, soprattutto, appoggiata direttamente al muraglione di contenimento del colle: l’ascesa, secondo l’intendimento di M., doveva quindi accentuare il distacco tra la città alta e quella bassa; doveva essere una faticosa conquista del luogo più sacro (l’arce romana), culla della civiltà antica rinnovata nella Roma papale. Per non fare scoprire gradualmente i palazzi, la statua e la 1542 Il 20 agosto è steso l’ultimo contratto per la tomba di Giulio II e inizia gli affreschi per la Cappella Paolina piazza e quindi per non rischiare di far perdere loro l’imponenza che il luogo richiedeva, M. inverte l’impianto prospettico legato all’ottica naturale: allarga la scala via via che si procede verso l’alto e dispone i due palazzi laterali divergenti rispetto a quello del Senato, così da conferire a quest’ultimo e all’intera piazza maestà e respiro. La potenza plastica dell’edificio centrale è resa principalmente con il movimento delle due ali avanzate e della doppia scalea, con il bugnato del basamento e con le sporgenze delle paraste, ponendo come coronamento la balaustra e la torre. Negli edifici laterali, l’ordine gigante corre attraverso i piani superiore e inferiore di uguali proporzioni e diventa il supporto visivo della massiccio cornicione di coronamento, balaustrato e sormontato da statue. Questi elementi, insieme al cornicione minore che sormonta l’ordine di colonne ioniche della loggia al piano terra e ai contropilastri, formano una griglia che articola la facciata in unità rettangolari semplici, con una potente alternanza di pieni e di vuoti, di luci e di ombre, cui contribuisce anche il travertino che, con la sua porosità, aumenta il valore chiaroscurale. Da poco terminato il lungo lavoro della Sistina, Paolo III incarica M. di decorare un altro ambiente vaticano, la Cappella Paolina, con due affreschi di cui sono protagonisti e “principi degli Apostoli”, Paolo e Pietro. In questi lavori si avverte la crisi finale della “rappresentazione”, cioè della figura (come natura e storia) e per conseguenza dell’entusiasmo per l’antico. Gli affreschi, infatti, sono solo apparentemente due figurazioni “storiche”, in realtà raffigurano i due momenti essenziali della vita religiosa: la conversione e il martirio. Nella “Conversione di Saul” (1542-45) è espresso il momento della folgorazione, il momento in cui Dio sceglie, a suo insindacabile giudizio, a chi concedere la grazia (riecheggiano quindi motivi riformistici); nel secondo, la Crocifissione di Pietro” (1545-50), il sacrificio della vita terrena in nome della fede, che accosta l’uomo a Cristo. Nella Conversione, come nel Giudizio, la scena si svolge su due registri: in cielo Gesù che giunge precipite, in scorcio possente, circondato da figure divine; in terra Saul, caduto, accecato, folgorato dalla luce che scende dall’alto, mentre intorno i compagni si agitano sconcertati e il cavallo, invano trattenuto da uno scudiero, fugge verso il fondo. Come nel Giudizio, l’unità è data dal movimento rotatorio, che fa perno sul cavallo orientato verso sinistra, dal quale si dipartono le direttici centrifughe degli uomini in terra. Anche la Crocifissione di Pietro è dominata dal moto circolare, imperniato sulla croce che sta per essere capovolta. Ma qui, invece che centrifugo, il moto è centripeto, per cui il centro ideale è costituito dalla testa del Santo, verso cui convergono le figure disposte sui tre lati. E lo spettatore stesso è attratto verso quegli occhi fissi, verso quel martirio che è l’atto finale della costituzione della chiesa terrena da parte del primo successore di Cristo. Negli affreschi della Paolina la natura è ridotta a un paesaggio spoglio e desolato, è solo uno spazio senz’aria, pieno di luce arida e quasi sabbiosa. Quasi tutte le figure sono in scorcio (cioè disposte obliquamente in profondità) ma è uno scorcio che ha una funzione invertita rispetto a quella espressa nella volta della cappella Sistina, poiché non inserisce le figure nello spazio dando loro una maggiore profondità, ma quasi le sottrae allo spazio, le costringe nei contorni contratti. Tipici esempi sono lo scorcio del cavallo a cui corrisponde in alto quello di Cristo (nella Conversione) e la figura rattrappita dell’uomo che scava il terreno per porvi la croce di San Pietro (nella Crocifissione). Lo scorcio è qui l’equivalente del non-finito nella scultura: le figure sono evocate, ridotte a un contorno, come delle immagini poetiche. Sappiamo infatti che l’idea della morte e della vita eterna torna frequentemente anche nelle lettere e nelle molte poesie scritte dall’autore. I due affreschi rappresentano, insomma, il momento della lirica religiosa di M.; cioè il momento in cui la poesia verbale o visiva, gli appare come un esercizio spirituale, una vera e propria pratica ascetica. E’ nominato architetto della Fabbrica di San Pietro al posto di Antonio da Sangallo il Giovane 1546 1552/ 1564 Pietà Rondanini Marmo, Milano, Castello Sforzesco Dopo la morte di Bramante fu Raffaello a succedergli in qualità di architetto della Basilica di San Pietro. Dalla pianta accentrata bramantesca, di cui erano stati realizzati soltanto i grandi pilastri centrali con gli arconi che li uniscono, Raffaello ne propose una longitudinale innestando la croce greca su un avancorpo a tre navate. Dopo di lui furono diversi gli architetti che si susseguirono alla direzione della costruzione (come Baldassarre Peruzzi e Antonio da Sangallo il Giovane) fino a quando, nel 1547, Paolo III affida l’incarico a M. Questi ridimensiona l’intervento e ripropone la pianta centrale voluta da Bramante, rendendone però più limpido e maestoso l’interno, nel cui grande spazio trovano posto solo i grandi pilastroni già costruiti. All’esterno l’immensa fabbrica è incatenata verticalmente da un ordine gigante di paraste addossate a contropilastri, coronato da un’alta cornice e dall’attico sovrastante; è una forma articolata nello spazio che, evitando quasi completamente la linea retta, si flette in una contrapposizione continua di curve e controcurve, di convessità e concavità, modellandosi con potenza scultorea. Tale organizzazione delle superfici esterne ha la sua logica prosecuzione nell’alto tamburo anulare e nei costoloni della cupola che riassume e conclude tutto l’edificio. La grande cupola, come quella fiorentina di Santa Maria del Fiore, è a doppia calotta ma qui le membrature architettoniche hanno un significato plastico, non lineare come in Brunelleschi. Il tamburo è ritmato da colonne binate che irrigidiscono la struttura e affiancano grandi finestre alternativamente timpanate e centinate. Il ripetersi di tali colonne suggerisce un moto rotatorio, centrifugo che da alla calotta la continuità di un perenne girare intorno al centro prospettico-luminoso della lanterna. Nella storia dell’ispirazione michelangiolesca la cupola rappresenta la catarsi del dramma dell’opera mai compiuta, la tomba di Giulio II: sorge nello stesso sito ed è il monumento simbolico dell’ecumene cristiana. Giustamente dice Argan: “al prologo in terra della tomba succede l’epilogo in cielo della cupola”. Mentre lavorava così intensamente alle opere pubbliche romane, M. torna alla scultura, filo conduttore di tutta la sua vita, riprendendo il tema giovanile della pietà. “Pietà”, non più intesa come compianto, ma come presentazione al mondo, affinché si vergogni delle sue colpe, del corpo di Cristo morto. Nella Pietà del Duomo di Firenze sono presenti quattro persone: Nicodemo, ammantato e incappucciato, che cala Gesù, aiutato da Maria e dalla Maddalena. Ancora una volta M. riprende la consueta “serpentina”, non però tendente verso l’alto, bensì verso il basso, in una caduta del corpo morto appena rallentata dalle figure dolenti, ma inarrestabile. Mentre Maddalena è freddamente estranea al gruppo (e infatti venne realizzata dallo scultore Tiberio Calcagni), Nicodemo è il vertice della composizione mentre Maria e Gesù, attraverso il non-finito, tornano ad essere un corpo solo. La Pietà Rondanini, a cui lavora ancora quando la morte lo coglie nel 1564, è dunque l’ultima testimonianza del suo pensiero, il suo testamento spirituale. L’artista torna alle due figure essenziali della composizione, i cui corpi scarnificati, incastonati l’uno nell’altro, presentano un andamento lineare curvilineo verticale, che ricorda la scultura medievale gotica. I corpi avviluppati sono scolpiti seguendo un ritmo serpentinato ormai lontano dai termini di rappresentazione razionale e al concetto di certezza rinascimentale alla quale M. contrappone una sorta di vuoto cosmico. La forma caratterizzata dall’andamento curvilineo delle due figure subisce una sorta di schiacciamento in cui la visione frontale si organizza sul contorno che delimita il corpo affusolato di Cristo abbandonato su quello della madre. Anche nella veduta laterale la forma instabile dovuta alla linea che si inarca crea una sorta di sentimento compassionevole. La luce scorre sulla superficie in modo che è tipico dell’ultimo periodo dell’attività del maestro cioè creando effetti chiaroscurali prodotti dalla materia diversamente trattata. La forma plastica si è dissolta e i corpi appaiono corrosi e larvali in una sorta di ormai avvenuto trapasso. In quest’opera M. rinnova completamente la tradizione, chiude definitivamente un’epoca, il Rinascimento, e getta un ponte per l’avvenire: per l’abbandono completo di ogni rapporto con la realtà visibile, sia pure idealizzata, e per la totale espressione del proprio mondo interiore, non vi è forse opera che abbia, ancor oggi, tanta attualità. 1564 Il 18 febbraio muore nella sua casa romana