3- Eleonora Polo Havaianas

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3- Eleonora Polo Havaianas
-AIM MAGAZINEMacrotrivial
Cinquant’anni, ma non li dimostrano!
I polimeri e le calzature più diffuse al mondo
Eleonora Polo
CNR-ISOF, c/o Dip. di Chimica, via L. Borsari 46, 44121 Ferrara, Italia. Fax: +39 0532240709;
Tel: +39 0532455159; E-mail: [email protected]
Quest’anno le Havaianas, le infradito più vendute al mondo, compiono cinquant’anni. Per
festeggiarli la società produttrice, la São Paulo Alpargatas, la maggiore industria calzaturiera
brasiliana, ha lanciato una nuova edizione limitata di 50 mila pezzi, i cui proventi andranno a
favore dell'Unicef. Le Havaianas non sono invecchiate per niente, tanto che quest’anno ne sono
già stati venduti 4 miliardi di paia nel mondo, a cui vanno sommate quelle prodotte da altri
marchi più o meno famosi. Fondamentali per la loro diffusione sono stati i polimeri con cui
sono fabbricate.
Quanta strada nei miei sandali!
Milioni di abitanti dei paesi più poveri del mondo hanno potuto acquistare le prime calzature della
loro vita grazie al basso costo, alla praticità nei climi tropicali e alla facile reperibilità delle infradito di
gomma. Si è trattato di una rivoluzione poco rumorosa accompagnata dal suono ritmico prodotto
dalle ciabatte quando urtano alternativamente il tallone e il terreno, il motivo per cui negli USA e in
Gran Bretagna le chiamano flip-flop.
Queste calzature si ispirano alle zōri, le tipiche infradito
giapponesi con la suola realizzata in paglia di riso. Per questa
ragione il tratto inconfondibile delle Havaianas è la suola zigrinata
che riproduce la grana di questo materiale. All'inizio fu prodotto un
solo modello in caucciù con la suola bianca e le strisce blu, finché
un giorno venne fuori per errore un intero lotto dalle strisce verdi.
Quello che poteva essere un disastro industriale, si rivelò un'innovazione di successo. Da allora non si
contano le variazioni cromatiche e di design. Tuttavia, non possono più essere considerate infradito le
varianti che prevedano cinturini intorno al tallone o alla caviglia. Le vere infradito sono costituite da
una suola solitamente piatta - anche se esistono modelli con il tacco o con il plantare anatomico- e da
una stringa a forma di Y che parte da un punto situato fra l'alluce e l'indice e si biforca raggiungendo a
destra e a sinistra un punto collocato fra la fine del tallone e l'inizio dell'arco plantare.
Curiosità
Le Havaianas sono diventate così popolari in Brasile, che negli anni ottanta il Governo le ha
classificate “beni di necessità”.
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-AIM MAGAZINESciabattando nella storia…
L’origine delle infradito si perde nella notte dei tempi ed è altrettanto arduo stabilire una datazione
precisa anche per le prime calzature della storia, perché i materiali utilizzati, probabilmente pelli non
conciate assicurate al piede da laccioli dello stesso materiale o fibre vegetali intrecciate fermate al
piede con lo stesso sistema, non ne hanno consentito la conservazione.
Preistoria
Secondo alcuni studiosi l’uso delle calzature risale a circa 50.000 anni fa, durante l’ultima era
glaciale, quando le condizioni climatiche proibitive avevano reso indispensabile per i nostri antenati
proteggere i piedi. Altri ritengono che le calzature siano comparse alla fine del Paleolitico, non
appena è stato messo a punto un metodo efficace per la concia delle pelli. Tutti comunque
concordano nell’affermare che soltanto i mocassini hanno preceduto i sandali e le infradito. Con
piccole variazioni li troviamo presso la maggior parte delle culture antiche, dove servivano non
soltanto per la protezione e l’igiene dei piedi, ma anche per indicare lo status sociale. Lo stile variava
da civiltà a civiltà, in particolare cambiava la posizione vicino alla quale si inseriva la Y: i Greci
preferivano l’alluce, i Romani il secondo dito (illice) e gli abitanti della Mesopotamia il terzo (trillice).
L’esemplare europeo più antico è stato trovato nel 1857 nei
pressi della cittadina spagnola di Albuñol, in una tomba del IV
millennio a.C. collocata all’interno della grotta chiamata Cueva
de los Murciélagos: i sessantanove scheletri ritrovati indossavano
copricapi, abiti e sandali di sparto (molto simili alle infradito, ma
provvisti anche di un cinturino intorno al tallone).
Egitto
Al British Museum di Londra si trovano invece gli esemplari più antichi di autentiche infradito
(1.500 a.C.) provenienti dall’Antico Egitto: sono fabbricati con foglie di papiro e strisce di cuoio.
Sicuramente il loro uso è anteriore a questa data, come testimoniano statue, bassorilievi, pitture
tombali, papiri e pergamene che risalgono fino all’anno 5500 a.C.. Tutto questo si è conservato in
buono stato grazie al clima molto secco e alla protezione offerta dalla sabbia, per cui si sono salvati
anche reperti organici come tessuti, cuoio, pelli e legno.
I sandali egizi potevano avere suole di legno, cuoio, papiro, giunco o foglie di palma intrecciate,
che venivano assicurate al piede con il sistema dell’infradito. Le calzature avevano per gli Egizi un
significato speciale e la loro foggia indicava il rango del proprietario. I popolani andavano per lo più
scalzi e viaggiavano con i sandali – che le donne confezionavano in casa – in mano, per indossarli
soltanto quando arrivavano a destinazione. Gli uomini di rango elevato li acquistavano nelle botteghe
artigiane e li portavano sempre fuori casa anche come segno di distinzione sociale, tanto che esisteva
la carica onorifica di “portatore di sandali” al seguito del Faraone o dei nobili, al cospetto dei quali
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-AIM MAGAZINEtutti gli altri dovevano presentarsi scalzi. I sacerdoti potevano indossare soltanto sandali di papiro,
mentre quelli dei faraoni erano d'oro ed erano gli unici ad avere la punta della suola sollevata e girata
all’indietro. Sulle suole dei sandali reali erano spesso incise o dipinte le immagini dei nemici in modo
che il faraone potesse calpestarli a ogni passo. Tuttavia la suola rigida dei modelli di legno o metallo
prezioso causava numerosi problemi ai piedi, come riportano i trattati di medicina del tempo.
Da sinistra: Museo Egizio di Lipsia, Tempio di Ramses, Museo del Cairo (dalla tomba del faraone
Tutankhamon 1349 a.C.)
Curiosità
La leggenda racconta che le prostitute romane fossero solite indossare
sandali nella cui suola erano infissi chiodi disposti in modo da imprimere
la scritta “seguimi” nella povere della strada.
Giappone
Senza dubbio, quando si parla di precursori delle moderne infradito vengono subito in mente le
caratteristiche calzature giapponesi introdotte nel mondo occidentale per la prima volta come
souvenir dai soldati americani alla fine della seconda guerra mondiale e che si sono diffuse a partire
dagli anni cinquanta dopo la fine della guerra di Corea. In realtà le tipologie di calzature giapponesi
sono molto più articolate.
Dagli scavi archeologici è emerso che quelle più antiche (circa
2000 anni fa) sono i waraji, i sandali tradizionali in corda di paglia
o altre fibre vegetali, che in passato erano la calzatura standard
delle persone comuni e che attualmente sono portati soltanto dai
monaci buddhisti. La tradizione prevede che siamo indossati in
modo che il piede vada oltre il bordo anteriore della scarpa, così
da far sporgere le dita di tre-quattro centimetri. Esistono vari modi di legare le corde che fermano il
piede alla suola in funzione dell’attività svolta (monaci, contadini, soldati). In tutti i casi sono fissati
alle caviglie con vari giri in modo da consentire anche lavori pesanti e lunghi tragitti a piedi.
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-AIM MAGAZINELa storia della civiltà giapponese documenta già a partire dal
periodo Heian (794-1185) un largo uso degli zōri, i sandali
tradizionali senza tacco, molto simili all'infradito occidentale, fatti di
paglia di riso o altre fibre naturali, stoffa, legno laccato o pelle. Sono
ancora indossati con gli indumenti tradizionali giapponesi, come il
formale kimono, mentre quelli con la suola ricoperta di giunco sono considerati scarpe da lavoro o
abbinati a un abbigliamento estivo informale. Gli zōri sono indossati con appositi calzini (tabi), in cui
l’alluce è separato dalle altre dita, e sono le uniche calze ammesse sui tatami che coprono i pavimenti
delle case giapponesi. Le stringhe (hanao) sono la parte più delicata degli zōri e possono essere di
velluto, vinile, broccato o pelle (per gli uomini). Il punto d’inserimento dell’hanao si trova al centro
della parte finale del sandalo, non c'è quindi distinzione tra scarpa destra e scarpa sinistra.
Gli zōri da donna sono raramente piatti, ma hanno suole
di vari spessori e angolazioni, e sono considerati eleganti
anche quando hanno la suola in vinile, ma non tanto come
quelli in stoffa, come il broccato, particolarmente indicati per
cerimonie come matrimoni o funerali. La stringa che tiene
unito il piede alla calzatura è di solito rossa, ma può anche
essere abbinata al colore del kimono. In particolare, al
momento del fidanzamento, l’uomo regala alla futura sposa un paio di zōri (nikai zōri) dalla doppia
suola (che simboleggia la loro unione) con stringhe di velluto. Per le donne sono sempre di rigore i
tabi bianchi indipendentemente dalla qualità del materiale usato. Gli zōri da uomo sono spesso
fabbricati con materiali che imitano la paglia, come il polistirolo espanso, o hanno suole in sughero.
L'hanao, per gli uomini è quasi sempre bianco o nero.
Una via di mezzo fra infradito e zoccoli sono i geta che diventarono di moda nei centri urbani nel
periodo Edo (1603-1867) e si diffusero in tutto il Giappone quando ne iniziò la produzione industriale
nel periodo Meiji (1868-1912). Sono costituiti da una tavoletta di legno grezzo (dai= supporto), in cui
è inserito l’hanao di tessuto che passa tra l’alluce e il secondo dito. Il dai può essere in legno naturale,
laccato o dipinto ed è di solito ovale per le donne e rettangolare per gli uomini. Talvolta sopra il dai
è inserita anche un’imbottitura simile a un tatami per renderli più confortevoli. I due tasselli in legno
sotto la suola (ha= denti) sono particolarmente utili per isolare dal terreno il kimono ed emettono un
suono particolare a contatto col suolo (karankoron). Quelli più costosi sono costituiti da un unico
pezzo di legno intagliato, mentre nelle versioni più economiche gli ha sono inseriti in appositi solchi
praticati nella suola. In molti casi alle loro estremità viene incollata una base di gomma, che migliora
la presa sul terreno. Esistono vari modelli in funzione del numero di denti della suola: ad esempio, i
tengu geta hanno un tassello unico al centro della suola (una roba da equilibristi!), mentre esiste un
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-AIM MAGAZINEtipo poco comune di geta con tre tasselli. Grazie alla suola fortemente rialzata, con la neve o la
pioggia, sono più pratici degli zōri. L’hanao può essere più o meno largo, rigido e di vari tessuti, tra i
quali prevale il cotone in cui sono stampati i motivi tradizionali giapponesi, ma esistono versioni in
vinile e pelle. All’interno dell’hanao è inserita una corda (tradizionalmente di canapa, ma ora anche di
vinile) che viene annodata in modo particolare nei tre fori del dai.
Curiosità
Secondo una superstizione giapponese, rompere l’hanao di un geta porta sfortuna.
Senza dubbio, se capita mentre si sta camminando, ci si può fare proprio male.
L’hanao è inserito tra le prime due dita del piede e al centro della suola, perché se fosse
posizionato in un altro punto, i geta, camminando, entrerebbero in collisione tra loro. Recentemente
sono entrati in commercio geta con una forma più arrotondata e con un dai ergonomico, un tacco
unico come negli zoccoli, invece che due tasselli distinti, e una stringa laterale come nelle infradito. I
geta possono essere portati anche senza calzini e sono preferiti con la meno formale yukata, usata
soprattutto nei mesi estivi, e con gli abiti occidentali.
Curiosità
Un tradizionale proverbio giapponese è: non sai finché non hai indossato i geta, che significa non
puoi tirare le somme fino a quando il gioco non finisce.
Una versione più estrema dei geta sono gli okobo, i sandali indossati soprattutto da ragazze molto
giovani e dalle apprendiste geisha, le maiko. A differenza dei geta non hanno due tasselli sotto la
suola, ma un tacco unico di 14 cm simile a una zeppa, cavo all’interno e sollevato nella parte
anteriore del piede, che quindi non poggia per terra normalmente. Il tacco è solitamente in legno
naturale con le stringhe rosse (per le geishe all’inizio dell’apprendistato) o gialle (per quelle al termine
della formazione), ma in estate compaiono anche modelli con il tacco laccato. Il nome okobo è
onomatopeico e riproduce il suono emesso da questi sandali.
Queste calzature sono riservate a un abbigliamento molto formale. Il motivo di questa forma
particolare non era soltanto legata alla moda e allo status, ma deriva dalla necessità pratica di
proteggere i costosi kimono dalla polvere e dal fango delle strade.
Tutti i sandali tradizionali giapponesi permettono una libera circolazione dell'aria intorno al piede,
una caratteristica che probabilmente è stata adottata a causa del clima umido che predomina in gran
parte del Giappone. Inoltre, possono essere indossati e levati molto facilmente, cosa molto
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-AIM MAGAZINEimportante in una cultura dove le calzature vengono costantemente messe e tolte; infatti, con un
kimono stretto, sarebbe alquanto difficile raggiungere i lacci delle scarpe.
Ripiano superiore, da sinistra: geta bassi (5 cm) da donna (hanao rosso), geta bassi da uomo
(hanao nero), geta alto/takai (10 cm), tengu geta (14 cm). Ripiano inferiore: geta da pioggia/ashida
alto (18 cm), okobo (13 cm), tengu alto (20 cm).
Curiosità
Nelle prime edizioni della Pocket Guide to China durante la seconda guerra mondiale c’era un
capitolo contenente le indicazioni su come individuare un giapponese in mezzo ai cinesi: uno dei
modi più sicuri era vedere se la persona portava scarpe con una stringa che separava le prime due
dita.
I materiali
La maggior parte delle infradito è costituita da due parti: la suola e la stringa. Mentre la prima può
essere ritagliata in qualsiasi materiale seguendo il profilo dei piedi o delle scarpe, la seconda è un po’
più complicata e richiede una scelta più accurata nel design e nel tipo di materiale, perché deve
adattarsi sia alla suola che al piede, senza creare eccessiva frizione con la pelle, e non deve rompersi
facilmente con l’uso. Nel corso della storia sono stati impiegati svariati materiali di origine vegetale
(papiro, sparto, paglia di riso, canapa, fibre di palma e di cotone, sisal, legno) e animale (cuoio, pelli
grezze o conciate) in funzione di quanto disponibile nel territorio e dell’impiego che se ne doveva
fare.
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-AIM MAGAZINELa produzione degli zōri dalla suola in gomma è stata avviata in Giappone, a Kobe, nel 1930 e ha
contribuito alla ripresa economica di questo Paese nel dopoguerra, perché tagliare e assemblare le
infradito non richiedeva grossi investimenti iniziali né macchinari costosi né particolare esperienza.
Molte famiglie giapponesi e piccoli imprenditori riuscirono a risollevarsi grazie a questa attività. Molti
non sanno che la grande multinazionale Mitsubishi diventò uno dei primi esportatori di infradito
dopo aver acquistato molte di queste piccole aziende familiari. La produzione si spostò poi a Taiwan
e in Corea per ridurre i costi negli anni sessanta e settanta, per poi passare in Cina. Nel frattempo si
erano affiancati al caucciù polimeri più economici come poliuretano, polistirene, polivinilcloruro
(PVC) ed etilenevinilacetato (EVA). Molte delle aziende produttrici di allora, però, negli anni sono
passate alle più redditizie scarpe sportive.
In Brasile si cominciarono a produrre negli anni sessanta le Havaianas in gomma sintetica, che
passarono gradualmente da calzatura da poveri a oggetto di moda, quando alcune modelle come
Kate Moss cominciarono a indossarle nelle sfilate di moda e nelle occasioni mondane. Questa
tendenza si è affermata sempre di più e da allora sono state prodotte infradito in materiali più
“nobili” e costosi, dal cuoio ai pellami pregiati (ce ne sono anche di coccodrillo) a volte impreziositi
da Swarovski o pietre semipreziose. Anche le forme si sono adattate per rendere le calzature meno
dannose per la schiena e i piedi, per cui sono comparsi plantari anatomici, suole in sughero e tacchi.
Le infradito fanno male?
Da quando le infradito sono diventate di moda anche fuori dalle spiagge e dalle piscine, i podologi
hanno riscontrato che un loro uso continuo e prolungato nel tempo può provocare danni alla salute
dei piedi, delle gambe e della schiena. Infatti i modelli privi di tacco impediscono il corretto appoggio
del piede e un’adeguata distribuzione del peso corporeo; questo ha ripercussioni sull’assetto della
colona vertebrale e sulla circolazione del sangue negli arti inferiori. Nel 2008, al meeting annuale
dell’American College of Sports Medicine, i ricercatori del Dipartimento di Chinesiologia
dell’Università di Auburn hanno presentato i risultati di uno studio condotto su quaranta studenti dei
due sessi realizzato utilizzando una piattaforma speciale in grado di misurare la forza verticale con cui
il piede colpisce il terreno e una telecamera che misura l’ampiezza del passo e l’angolo assunto dalle
varie articolazioni. Dal confronto con le normali calzature sportive è risultato che con le infradito i
piedi si sollevano di meno dal terreno e i talloni lo colpiscono con minore forza, per cui l’angolo fra
piede e gamba risulta più ampio. Anche i passi diventano più corti, perchè le dita sono costrette ad
assumere una posizione “a tenaglia” per non perdere aderenza. Queste variazioni si propagano
attraverso la catena motoria fino alla parte superiore del corpo, provocando nel lungo termine
disturbi di vario genere. Inoltre, ogni volta che il piede colpisce il terreno, se la suola delle infradito è
troppo morbida, il piede tende a curvarsi verso l’interno in modo eccessivo (iperpronazione) e l’arco
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-AIM MAGAZINEplantare, che normalmente si blocca per attutire l’impatto, si apre. Nel tempo questo provoca dolori
in vari punti del piede e infiammazioni ai tendini. Le conseguenze più gravi si hanno nell’età dello
sviluppo in cui l’uso continuato delle infradito può arrivare fino a produrre piedi piatti. Infine, non va
dimenticato che con queste calzature il piede non è assolutamente protetto dall’ambiente circostante
e può subire facilmente traumi di vario genere come ferite, vesciche a gogò, infezioni, distorsioni della
caviglia e persino fratture.
Una parziale soluzione a questi problemi è rappresentata dall’introduzione di suole dalla forma
anatomica con adeguato supporto plantare, dai bordi leggermente rialzati ai lati per contenere il
piede e dall’uso di materiali più igienici della semplice plastica a contatto diretto con la pelle.
Curiosità
In Occidente il trapianto dell’alluce per sostituire un pollice amputato è un’operazione piuttosto
diffusa. In Oriente non lo è affatto perché creerebbe problemi di deambulazione, in quanto
l’alluce è indispensabile per indossare le calzature tradizionali.
L’impatto ambientale
La maggior parte delle infradito indossate nel mondo costa poco e non è particolarmente
resistente. Di conseguenza, quando si rompono – cosa che avviene abbastanza di frequente – non vale
la pena ripararle, ma vengono gettate via. Bisogna tener presente che i modelli più economici ora
sono in poliuretano, PVC, EVA o polistirene e quindi sono destinati a durare a lungo nell’ambiente.
Il poliuretano è classificato come resina di tipo 7, la categoria in cui finiscono le resine riciclabili che
non appartengono alle categorie precedenti. Tuttavia è conveniente riciclarlo soltanto in grandi
quantità, per cui è più facile che venga trattato quello proveniente dall’edilizia o dai materassi scartati,
che non quello troppo parcellizzato delle piccole infradito. Lo stesso vale per il polistirene, che non è
biodegradabile, ma può essere riciclato al 100%. Tuttavia i costi del riciclo sono ancora piuttosto alti,
perché bisogna prima compattarlo per ridurne il volume. Non si può, invece, bruciare per produrre
energia, perché i fumi di combustione potrebbero contenere idrocarburi aromatici inquinanti.
Il PVC, oltre ai noti problemi di fondo legati alla tossicità del monomero, il famigerato CVM, causa
problemi a “fine corsa”, perché non deve essere bruciato negli inceneritori, in quanto produce per
riscaldamento acido cloridrico che, reagendo con le sostanze organiche presenti nei rifiuti, può
portare alla formazione di diossine. Questo rischio può essere evitato con opportuni sistemi di
filtrazione in uscita, ma non si sa mai… Il problema del riciclo è anch’esso spinoso, perché viene
prodotto in diverse formulazioni. Di conseguenza, se si mescolano vari PVC e li si rifondono, non sarà
mai possibile ritornare alla composizione originale a meno di non riciclare oggetti perfettamente
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-AIM MAGAZINEidentici, altrimenti il prodotto finale sarà sempre di qualità scadente e potrà essere utilizzato solo per
oggetti come panchine, dissuasori di velocità o birilli per il traffico.
Considerando i consumi annuali a livello mondiale, tutte queste ciabatte stanno iniziandoa dare
seri problemi ambientali. Negli oceani, a causa delle correnti marine, si sono infatti formate negli anni
numerose “isole di plastica” in cui, in mezzo a tutta l’immondizia,
galleggiano anche migliaia di ciabatte scartate. Anche le spiagge e
le coste dell’Africa Sud Orientale − e più precisamente di Somalia,
Kenya, Tanzania e Mozambico − costituiscono punti privilegiati di
accumulazione delle infradito (circa 30.000 kg all’anno) – per
qualche strano motivo l’ottanta per cento è di colore rosa o blu –
trasportate delle correnti soprattutto dai fiumi e dalle spiagge dell’India.
In rete si trovano siti prodighi di consigli per un riciclo “familiare”, da tappabuchi a guarnizioni
ecc., o per costruire giochi da giardino. A livello più raffinato si collocano gli usi artistici che cercano
di catturare le peculiarità di questi oggetti e di trasformarli in complementi d’arredo.
Un designer olandese, Diederik Schneemann, ha presentato a Milano nel 2011 alla Settimana del
design la sua collezione Flip Flop Story, costituita da classici complementi d’arredo (lampade, vasi,
sedute) rielaborati attraverso il riciclo di alcune migliaia di flip-flop (intervista all’autore:
http://vimeo.com/23530091). Schneemann ha creato oggetti attraverso i quali raccontarsi e
raccontare quanto lo aveva colpito maggiormente nei suoi viaggi. Una volta raccolte, pulite, tagliate e
incollate, le ciabatte diventano vasi, lampade e soprammobili dai colori brillanti e dalle forme
arrotondate, costituiti da un materiale compatto che lascia trasparire la sua stratificazione
(http://www.studioschneemann.com). La storia è raccontata con una grafica molto essenziale anche in
una breve cartone animato (http://vimeo.com/34089335).
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Alcune produzioni di Diederik Schneemann
Gli oggetti sono realizzati a Nairobi in collaborazione con un’associazione fondata qualche anno fa
dalle keniote Julie Johnstone e Tahreni Bwanaali, UniquEco, che ha come obiettivi la promozione di
stili di vita sostenibili, la creazione di una coscienza civica e lo stimolo al rispetto dell’ambiente. Il
progetto è partito coinvolgendo le donne di Kiwayu, piccola isola a nord del Kenya. A queste si sono
aggiunti altri gruppi, tra cui i giovani di Kibera, lo slum più grande di Nairobi. Tutti si occupano di
raccogliere sulle spiagge migliaia di infradito, che vengono poi pulite e lavorate fino a diventare la
materia prima con la quale gli artigiani locali produrranno nuovi oggetti, venduti anche fuori dal
Kenya. Raccogliere, riciclare, creare, educare, fare rete sono le parole chiave della fondazione.
Altri oggetti interessanti sono esposti nella pagina Facebook della The FlipFlop Recycling Company
(http://www.facebook.com/FlippingTheFlop).
Un altro modo per risolvere il problema consiste nella via scelta da alcune aziende produttrici che
si sono orientate verso materiali più compatibili con l’ambiente, anche se un po’ più costosi.
C’è un grande ritorno al caucciù – riciclabile e biodegradabile – o a fibre naturali come canapa,
cotone e noce di cocco. Una via più economica è invece rappresentata dal riciclo di pneumatici, anche
se poi ci si deve accontentare per il colore.
Ma, sicuramente, l’aiuto migliore verrà da una
maggiore educazione degli utilizzatori e dalla
volontà di rispettare di più l’ambiente, come
sempre.
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