Un evo “ingegnoso” - Politecnico di Torino
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Un evo “ingegnoso” - Politecnico di Torino
TECNICA Un evo “ingegnoso” Vittorio Marchis, Docente di Storia della tecnica, Politecnico di Torino di Vittorio Marchis Ormai sono molti e consolidati gli studi storici che rivelano il Medioevo come un periodo di straordinaria creatività e inventiva nella scienza e nella tecnologia. Le grandi cattedrali restano ancor oggi in tutta Europa come testimonianza e simbolo di ingegno e abilità costruttiva; ma non avrebbero potuto sorgere se dietro di esse non fosse esistita una tecnologia articolata e versatile, fatta di macchine e di soluzioni pratiche. Che vanno a riempire uno sterminato catalogo di ingenia, dal quale si è attinto per secoli “L a storia, al contrario di quel che dice Voltaire, è una serie di scherzi che i morti hanno giocato agli storici”. Con queste parole Lynn White jr. incomincia il suo importante saggio sulla tecnica nel Medioevo (White, 1967) e ci ricorda che di fronte al silenzio della tecnica, bisogna compiere un’opera di difficile scavo, che va oltre il lavoro dello storico. La tecnica è stata, e in gran parte lo è ancora oggi, una cultura “tacita”, oseremmo quasi dire analfabeta, non perché non avesse nulla da dire, ma perché non si è mai preoccupata di lasciare alla posterità scritture (e documenti) su di sé. Convinti che non ci fosse nulla di più concreto delle macchine e degli oggetti e gelosi dei segreti sublimati da secoli di esperienza sedimentata tra sudore e imprecazioni, artigiani e tecnici, ingegneri e capimastri hanno continuato imperterriti a mantenere orgogliosamente la propria posizione, senza essere minimamente consapevoli che i processi della memoria sono complessi e spesso esigono anche momenti di pausa. Se da un lato le poche testimonianze del passato delle macchine emergono dalle liti in tribunale, dalle raccomandazioni dei parroci e dai bilanci delle società di commercio e di assicurazione, dall’altro le “cose”, che nella loro materialità pesante dovrebbero avere vita più lunga della carta (e oggi diremmo ancor più di quella di un esile nastro magnetizzato o di una pellicola forata da un raggio laser), subiscono anch’esse la inesorabile legge del tempo a cui si contrappone l’ingegnosa capacità dell’uomo di ricuperare e riutilizzare, di modificare e di trasformare, viaggiando contro, per quanto è possibile, al destino dell’entropia. Archeologia, piuttosto che storia, interpretazione di lacerti materiali e soprattutto investigazioni, che spesso devono ricorrere alle medesime metodiche di un detective o di un anatomopatologo, sono le discipline e le prassi che deve attuare chi vuole ricostruire e prendere coscienza di ciò che è accaduto prima, dei progenitori degli oggetti che ci circondano e che, lo sappiamo bene, non sono usciti dal laboratorio di Archimede Pitagorico. Altrimenti, come spesso accade, si generalizzano le poche osservazioni oggettuali e dalla mancanza di prove si “presume” ciò che rischia di essere assolutamente “falso”. Dall’invenzione all’innovazione Proprio per la mancanza di “prove” il Medioevo, anche se ormai molti storici si sforzano di affermare il contrario, rischia di cadere sotto il colpo inesorabile di un giudizio di condanna: evo buio, ignorante, bigotto, credulone e così via. Invece proprio da questo tempo di crisi, politiche e militari, religiose e scientifiche, sono sorti i germi del Rinascimento; dalle tecniche e dalle culture materiali di questi secoli, che forse per la prima volta hanno sofferto di una vera crisi energetica, sono nati i fondamenti ideologici e 54 tecnologici della rivoluzione industriale. Nella storia nulla avviene con forti discontinuità e ciò che chiamiamo “rivoluzionario” non è catastrofico, ma piuttosto irreversibile. In questo senso, ciò che accadde nel Medioevo, sul piano del fare e del produrre, fece imboccare all’umanità una strada da cui non si è potuto più tornare indietro. Afferma Marc Bloch che il mulino ad acqua, “invenzione antica”, è “medievale dal punto di vista della sua effettiva diffusione” (Bloch, 1959). In questo senso il mulino idraulico, già noto presso i Romani, che a Barbegal presso Nimes installarono un imponente complesso idraulico per la macinazione del grano, divenne “innovazione” intorno all’XI secolo. Ogni comunità si appropriò di questa tecnologia, sostituendo ad esso le pratiche antiche di macinare i cereali manualmente o con l’aiuto di un asino o un bue. L’antico mito cantato da Antipatro di Tessalonica nell’Antologia Palatina (IX, 418) era definitivamente diventato parte del quotidiano: “Macinatrici accordate riposo alle mani; dormite,/dormite, anche se all’alba di già cantano i galli./Cerere impose alle Ninfe dall’acque il lavoro: d’un balzo/si lanciano esse al sommo vertice d’una rota/e fan che l’asse giri: comunicava questa il suo moto/ai raggi ed alle cave macine dei Nisèi./Siamo all’età dell’oro tornati di nuovo, se i doni/di Demetra possiamo gustar senza fatica”. Nel Doomesday Book, compilato nel 1086, si contano 5624 mulini operanti in circa 3000 comunità inglesi. Ma il Medioevo non è solo il TECNICA mulino ad acqua; anche se questa macchina si diffonde a macchia d’olio in tutto l’Occidente. Indipendentemente da ciò che accade nel mondo islamico, verso il 1185, lungo la costa del Mare del Nord dove i venti spirano per lo più in direzione costante, si mette a punto una struttura a quadruplice velatura che si sostituisce alla ruota idraulica. L’edificio del mulino si innalza su un treppiede, per meglio esporsi all’azione del vento. Le velature sono irrobustite da un’intelaiatura grigliata, in legno. Nel volgere di pochi anni il mulino a vento è noto in tutta Europa. Ben presto anche su queste nuove macchine cala la scure delle “tasse papali”. Poche, ma significative scritture contabili testimoniano la presenza di queste nuove macchine: a St. Mary presso Swineshead nel Lincolnshire (1170 ca.), in Normandia (1180 ca.), a Weedlley nello Yorkshire (1185) dove l’impianto è affittato per 8 scellini all’anno, a Buckingham nell’abbazia di Oseney (1189). Agli inizi del XIII secolo, nelle Fiandre, presso Ypres, si conteranno più di 120 mulini a vento. Nel 1192 il mulino a vento è fatto conoscere dai crociati in Palestina, e questa macchina si impone come nuova macchina strategica, perché permette di macinare il grano anche nelle città cinte di assedio. Guido da Vigevano nel Texaurus Regis Francie (inizi del XIV secolo), Konrad Kyeser nel suo trattato De Bellefortis (1405), e poi ancora più avanti sino ad arrivare a Francesco di Giorgio nei Trattati di architettura civile e militare (metà del XV secolo) annoverano il mulino tra le macchine più innovatrici e a esse affidano anche la sopravvivenza delle città in tempo di pace e di guerra. “Al volger ruota di molin terragno”(Inferno, 23,47-48), e con la forza prodotta dal “molin che ‘l vento gira” Lotte tra uomini, Anzy-Le-Duc, chiesa della Trinità, capitello. (Inferno, 34,6), lo stesso Dante Alighieri non può fare a meno di ricordare che c’è tutto un mondo che si muove. La nuova tecnologia sottilmente si insinua nella società medievale e la trasforma. Si macina farina (Paradiso 12,3 e 21,81), si follano i panni di lana, si soffia l’aria nei mantici delle forge (Purgatorio 15,51) si esercita l’arte del martello ora non più impugnato del fabbro, ma mosso da bracci meccanici (Paradiso 2,128). Gli “oriuoli” (Paradiso 10,139 e 24,13) sono i nuovi gioielli di una meccanica che cerca la miniaturizzazione e la perfezione sino a diventare il modello del mondo dove Dio è il “grande orologiaio”. Ma sono le nuove imbarcazioni, quelle che presto renderanno fattibile la conquista del “nuovo mondo”, e gli arsenali a diventare il modello ante litteram di attività che solo ingenuamente si possono chiamare “protoindustriali”. In esse la “tecnica del tecnico”, la divisione e l’organizzazione del lavoro, la supremazia del “saper far fare” sul “saper fare” sono realtà già pienamente condivise e della cui potenza culturale si ha piena coscienza. All’Arsenale di Venezia operano già quei “proti”, gli architetti navali, che susciteranno l’ammirazione di Galileo Galilei: “Quale ne l’arzanà de’ Viniziani/bolle l’inverno la tenace pece/a rimpalmare i legni lor non sani/che navigar non ponno - in quella vece/chi fa suo legno novo e chi ristoppa/le coste a quel che più vïaggi fece;/chi ribatte da proda e chi da poppa/altri fa remi ed altri volge sarte;/chi terzeruolo ed artimon rintoppa”. (Inferno, 21,7-15). L’albero (Inferno, 31,145), l’ancora (Inferno, 16,134), la prora (Paradiso, 23,68), i remi (Inferno, 3,111), le sartie (Inferno, 27,81), le vele (Inferno, 7,13), e altri indispensabili accessori come la bussola (Inferno 20,121 e Paradiso, 12,29), sono elementi di sistemi tecnologici così diffusi da diventare metafore nella Commedia dantesca. I fondamenti dell’ingegneria moderna Le “macchine” del Medioevo più illustri sono certamente le cattedrali gotiche e non per nulla Roland Barthes nei suoi Miti d’oggi le paragona alle automobili più tecnologicamente innovative: simboli di una TECNICA tecnologia ormai diffusa “creazione d’epoca, concepita da artisti ignoti, consumata nella sua immagine, se non nel suo uso, da tutto un popolo”. Intorno alle cattedrali gotiche è nato anche il termine modernus (moderno) per indicare appunto quel nuovo modus di costruire tanto diverso dal romanico. Le stesse cattedrali non avrebbero potuto sorgere se dietro di esse non fosse esistita una tecnologia articolata e versatile, ricca di “machine et ordegni”. Nel Taccuino che Villard de Honnecourt scrisse intorno al 1260 e che fu ritrovato nel XIX secolo nella Biblioteca “Sancti Germani a Pratis”, ossia a St. Germain des Près a Parigi, non vi sono solo le regole che un buon maestro della charpenterie e della maçonnerie deve conoscere ma anche tutte le macchine che appunto aiutano il tecnico “moderno” a compiere il suo lavoro. “Villard de Honnecourt vi saluta e prega tutti coloro che faranno uso delle macchine di questo libro, di pregare per la sua anima e di ricordarsi di lui, poiché in questo libro si possono Qui si fonda l’ingegneria moderna, una scienza del fare fondata sui modelli matematici (li ars de iometrie) e sul disegno (la portraiture), ma che soprattutto fa uso di engiens: le macchine. “Engien”, è parola che deriva dal latino “ingenium”, opera dell’ingegno. Da essa deriveranno l’italiano “congegno, marchingegno” e la stessa “ingegneria”, ma soprattutto porterà al termine inglese “engine”, macchina motore. Engien è la parola chiave del Medioevo: non “machina”, che nel mondo classico ha sempre voluto indicare un’astuzia della ragione contro la natura (si pensi al deus ex machina o al cavallo di Troia), ma qualcosa di molto più profondo, del prodotto di un’alchimia in cui convergono conoscenze teoretiche ed esperienze pratiche. Dall’aratro pesante alla staffa trovare buoni consigli sulla grande arte delle costruzioni e sulle macchine di carpenteria; e troverete in esso l’arte del disegnare, i fondamenti, così come li richiede ed insegna la disciplina della geometria”1. Aquila-San Giovanni, lago d’Orta, Isola di San Giulio, abbazia di San Giulio, pulpito. 56 Gli studiosi dei processi innovativi sono concordi nell’affermare che nei periodi di agiatezza e di ricchezza la creatività tecnologica regredisce per lasciare il posto alla diffusione e soprattutto allo sfruttamento generalizzato delle innovazioni, mentre sono proprio le grandi crisi a stimolare la creatività, a sperimentare nuove soluzioni alternative. In questo senso, la caduta dell’Impero Romano e i grandi progressi migratori che travagliarono il mondo occidentale tra il V e il X secolo, ma soprattutto la necessità di nuove risorse, prima di tutto alimentari misero in crisi il sistema precedente che aveva portato, per esempio, a dimenticare il mulino ad acqua di fronte alla grande disponibilità di manodopera umana a basso costo. Le macchine nell’antichità, già concepite nella loro essenzialità funzionale, per molti aspetti anche se esistono numerose eccezioni rimasero giocattoli e certamente non si diffusero quanto invece nel Medioevo. Il processo di accrescimento della popolazione portò ben presto alla necessità di produrre più alimenti e l’agricoltura fu certamente il terreno in cui la tecnologia ebbe modo di dare i suoi primi frutti. L’aratro pesante a ruote (carruca, da cui proviene il francese charrue), la bardatura del cavallo, e la rotazione delle colture nei campi TECNICA sono alla base di questi processi che determinarono cambiamenti così fondamentali da mutare completamente il paesaggio in tutta Europa. L’aratro dei Romani era essenzialmente un chiodo di legno, foderato nella sua punta di metallo (ferrum) e con esso l’aratura in pratica consisteva nella semplice frantumazione del terreno. Questa operazione doveva avvenire, per avere una minima efficienza nel permettere ai sali minerali di risalire dagli strati più profondi per capillarità, per due passaggi tra di loro perpendicolari. Ne conseguiva che il campo, che doveva essere arato prima da nord a sud e poi da est a ovest, manteneva la sua forma ottimale nel quadrato. La campagna coltivata dai romani era suddivisa, nella centuriazione, in appezzamenti quadrati e ancora oggi in alcune parti della Pianura Padana se ne riescono a leggere le tracce nei segni lasciati da strade e canali. Con l’aratro pesante, in cui la punta metallica si trasforma nella combinazione del coltro (per tagliare il solco), del vomere (per staccare la zolla all’altezza delle radici della stoppia) e del vomere, per rivoltare la zolla, l’operazione dell’aratura diventa molto più efficace e soprattutto più veloce. Non è più necessaria l’aratura incrociata del campo, che per questo motivo si allunga e assume la forma leggermente falciforme quale si può leggere ancora oggi sul territorio. Più pesante nella sua struttura ha bisogno di un supporto a ruote, che impediscano anche alle lame di affondare troppo nel terreno, e deve essere trascinato da una forza maggiore. Non più un solo bue, ma due, talora quattro cavalli da tiro. Ma il cavallo non è adatto a ricevere il giogo e il collare lo porta allo strozzamento. Contemporaneamente alla diffusione del nuovo aratro e causa appunto del suo successo è la scoperta di come una bardatura con finimenti di cuoio che cingano il petto del cavallo all’altezza del suo sterno, rendano questo animale il motore ideale per mettere in moto l’aratro, anche su terreni umidi e “pesanti”. Nuove razze di cavalli da tiro nascono da sapienti incroci, che per molti versi preludono, seppure con le debite differenze, agli interventi genetici di oggi. Il cavallo, d’altra parte, diventa il protagonista sia delle comunicazioni veloci sia dei campi di battaglia per via di un’altra invenzione, solo apparentemente minore: la staffa. Nel mondo antico i cavalli erano cavalcati “a pelo” e senza far uso di altri accessori tra il cavaliere e la schiena del cavallo. L’unico intervento per guidare l’animale era affidato alle redini e al morso, ma ciò impediva al cavaliere di essere un tutt’uno con il destriero. Il cavallo permetteva spostamenti veloci anche sul campo di battaglia, ma il combattimento doveva sempre svolgersi a terra e quando il cavaliere doveva scagliare una lancia, aveva bisogno di un palafreniere che gli tenesse fermo l’animale di sotto. Con la sella e soprattutto con la staffa il cavaliere entra in perfetta unità meccanica con il cavallo, che può essere guidato anche con l’aiuto degli arti inferiori di chi lo monta. Anche la tecnica di combattimento a cavallo muta rapidamente e il combattimento “a lancia in resta” (ossia con la lancia appoggiata alla corazza del cavaliere) diventa micidiale perché proietta verso il nemico non solo la massa dell’arma ma anche quella del cavallo che le sta imprimendo la velocità. Esplosione di novità Le miniature dei codici, gli affreschi sulle pareti di chiese e palazzi e anche i versi delle canzoni popolari ben presto si arricchiscono di queste innovazioni che stanno cambiando il mondo, ma che soprattutto stanno migliorando il tenore di vita della società. Da dove provengano i germi di questa esplosione di novità è difficile deciderlo con precisione, ma si può a buona ragione affermare che a fianco di una creatività originaria dovuta alle necessità imposte dalle crisi del momento si aggiunse sia la tradizione del mondo antico, sia l’ingresso di nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche dall’Islam e dal lontano Oriente. Il ruolo dell’Islam nello sviluppo delle scienze applicate in Europa tra il IX e il XIII secolo è fondamentale, sia perché attraverso la scienza musulmana arrivarono in Occidente testi e conoscenze del mondo greco che altrimenti sarebbero assolutamente scomparse, sia perché soprattutto la meccanica e 57 l’architettura, ma anche l’idraulica e la metallurgia ebbero presso questi popoli momenti di grande splendore. Erone di Alessandria aveva scritto nel I secolo dopo Cristo alcuni trattati che illustravano curiosi meccanismi fatti soprattutto per stupire ricchi e potenti. La Pneumatica e gli Automati sono raccolte illustrate. Nel primo fontane a sorpresa e altri ingegnosi dispositivi idropneumatici pongono inconsciamente le basi della scienza dei fluidi che avrà il suo momento di splendore nel Rinascimento. Nel secondo, ingegnosi meccanismi, che sfruttano la dilatazione dei corpi al calore, l’uso delle camme e dei manovellismi, l’impiego dei contrappesi per accumulare energia, sono presentati per far muovere piccoli teatrini artificiali in cui personaggi e animali meccanici sembrano vivere di una vita meccanica. L’unione della meccanica e della pneumatica porta alla costruzione dei primi organi musicali, già descritti nel De Architectura di Vitruvio (I secolo a.C.), ma solo secoli più tardi queste macchine trovano nelle abbazie e nei nuovi centri di cultura dei comuni della Mitteleuropa il terreno favorevole al loro sviluppo. L’abbazia, che secondo le regole monastiche di San Benedetto e di altri fondatori di cenobi occidentali unisce alla preghiera e alla meditazione il lavoro e lo sfruttamento razionale delle risorse, è il nucleo da cui la società in crisi trova nuova linfa per risorgere di fronte alle devastazioni e alle guerre fratricide. Se si osserva la pianta dell’Abbazia di San Gallo, databile intorno ai primi anni del IX secolo, e conservata nella Biblioteca di St. Gallen in Svizzera, essa rappresenta il progetto di una comunità monastica ideale, dove il monastero, come entità autonoma, è anche l’espressione di un sistema produttivo basato sull’autosufficienza rurale. Dalla coltivazione dell’orto, dall’allevamento dei maiali e delle oche, sino alla produzione dell’olio, della birra, dei salumi, del pane, tutto si esaurisce all’interno delle mura del monastero. L’abbazia è inoltre il luogo dove il tempo ha bisogno di essere scandito con regolarità. Come Lewis Mumford afferma che l’orologio, e non il vapore, è il vero protagonista della TECNICA rivoluzione industriale, così anche lo “svegliarino” monastico, progenitore dei moderni orologi, pur non avendo ancora beneficiato dell’invenzione del pendolo (arriverà nel XVII secolo con Galileo Galilei e Christian Huygens) è protagonista del Medioevo perché anche in questo caso segna “il tempo della Chiesa e il tempo del mercante” per riprendere il titolo di un fortunato saggio di Georges Duby. Un catalogo sterminato Il catalogo degli ingenia medievali è sterminato e non bastano le prime enciclopedie a descriverli tutti2. Dal telaio al torcitoio da seta, dalle seghe meccaniche alle macchine per infeltrire la lana, la varietà di forme con cui la macchina sempre più prepotentemente si sostituisce all’uomo è davvero incalcolabile. Forse varrebbe ancora la spesa di menzionare l’arcolaio a pedale che permise di aumentare notevolmente la produttività nella filatura della lana. Agendo sul pedale di una nuova macchina, e non più con i soli strumenti del fuso e della rocca, la filatrice poteva tenere le mani impegnate nello stirare le fibre, lasciando completamente alla macchina il moto della torcitura. Perché il moto alterno del piede potesse trasformarsi in circolare non era sufficiente un pedale, ma era necessario che qualcuno provvedesse a far superare i punti morti, quando il pedale raggiungeva gli estremi della propria corsa. L’impiego del volano, un disco rotante che era già noto come accumulatore di energia meccanica sin dall’antichità nella ruota del vasaio, fu l’invenzione che riuscì a risolvere il problema della conversione del moto alterno in moto circolare, nel sistema biella/manovella. Le prime testimonianze dell’impiego del volano in un arcolaio sono testimoniate alla metà del XV secolo. La diffusione di questo dispositivo ad un’innumerevole schiera di macchine mosse da pedali e bilancieri porterà sino ai giorni nostri “alla teoria ed all’applicazione del volano che in seguito avrà una funzione così importante nella grande industria” (Marx, 1978, Libro I, Sez. IV, cap. 13.1, p. 460). I torni tardarono qualche tempo a introdurre questo dispositivo e ancora nel XVI secolo erano impiegati i cosiddetti torni a balestra, mossi a pedale, ma questo faceva scorrere una fune che si avvolgeva sul pezzo da far ruotare. La fune, assicurata all’altra estremità appunto a una molla a balestra, aveva così la possibilità di compiere automaticamente la propria corsa di ritorno: il cilindro da tornire non ruotava sempre nello stesso senso, ma avanti e indietro, costringendo l’artigiano a utilizzare solo una delle due corse. Sarebbe infine incompleto il quadro del Medioevo se non si contemplassero anche le macchine da guerra: a fianco delle macchine per costruire, di cui Villard de Honnecourt fa ampia rassegna e dimostrazione, esistono le catapulte e gli onagri, le balliste e le torri ossidionali, le testuggini e i ponti mobili. Ma più grande di tutte, ultima macchina ossidionale è il trabocco - chatte o trebuchet la chiamano i Francesi - che riproduce in scala gigantesca il braccio di un lanciatore di fionda. L’energia accumulata in un contrappeso posto all’altra estremità del pennone, che può raggiungere anche un’altezza di dieci metri, provvede a imprimere una violenta rotazione al braccio che reca con sé la fionda. Le più grandi macchine riuscivano a scagliare un proietto di 2-300 chilogrammi a una distanza che poteva raggiungere i 400 metri. Villard ne descrive una versione “migliorata” con l’impiego di una balestra e nell’Ottocento Viollet le Duc ne propose un’interpretazione assai fedele nella sua Encyclopédie médievale. Fu una macchina che rimase in auge per poco più di un secolo: poi arrivarono le nuove armi da fuoco, che mutarono la faccia del mondo. Con il cannone e con la “nuova arte dei metalli” il processo innovativo sembra concludersi e passare il testimone ai processi speculativi della “nuova scienza. Ciò che gli umanisti chiamano Rinascimento diventa un’epoca di benessere in cui gli investimenti del Medioevo portano alla raccolta di nuovi frutti. Le arti figurative e le lettere non avrebbero potuto trovare i “teatri” per la propria esternazione, se qualcuno non avesse preparato il terreno. La natura “tacita” della cultura di artigiani e tecnici ha fatto passare quasi del tutto sotto silenzio l’esistenza degli ingenia: solo pochi - come Guidobaldo del 58 Monte, maestro di Galilei - riuscirono ad affermare che “mechanico è vocabolo honoratissimo”. ● Note 1. “Wilars de Honecort vous salve, et si proie a tos ceus qui de ces engiens ouverront con trovera en cest livre, qu’il proient por s’arme et qu’il lor soviengne de lui, car en cest livre peut on trover grant consel de le grant force de maconerie et des engiens de carpenterie. et si troveres le force de le portraiture, les trais insi come li ars de iometrie le command et ensaigne”. 2. Si consiglia la lettura di Ken Follet, I pilastri della terra, Milano, Mondadori, 1997 a chi volesse accostarsi al Medioevo seguendo le strade della fiction, senza peraltro perdere di vista il rigore storico, salvaguardato dalla supervisione sul romanzo di Jean Gimpel. 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Critica dell’economia politica, (a cura di Cantimori D.), Einaudi, Torino, 1978. Albero della vite, Saulieu, chiesa di Saint Andoche, capitello.