Un evo “ingegnoso” - Politecnico di Torino

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Un evo “ingegnoso” - Politecnico di Torino
TECNICA
Un evo “ingegnoso”
Vittorio Marchis,
Docente di Storia della tecnica,
Politecnico di Torino
di Vittorio Marchis
Ormai sono molti e consolidati gli studi storici che rivelano il Medioevo come un
periodo di straordinaria creatività e inventiva nella scienza e nella tecnologia. Le
grandi cattedrali restano ancor oggi in tutta Europa come testimonianza e simbolo
di ingegno e abilità costruttiva; ma non avrebbero potuto sorgere se dietro di esse
non fosse esistita una tecnologia articolata e versatile, fatta di macchine e di
soluzioni pratiche. Che vanno a riempire uno sterminato catalogo di ingenia, dal
quale si è attinto per secoli
“L
a storia, al contrario di quel che
dice Voltaire, è una serie di scherzi che i morti
hanno giocato agli storici”. Con queste parole
Lynn White jr. incomincia il suo importante
saggio sulla tecnica nel Medioevo (White,
1967) e ci ricorda che di fronte al silenzio
della tecnica, bisogna compiere un’opera di
difficile scavo, che va oltre il lavoro dello
storico.
La tecnica è stata, e in gran parte lo è ancora
oggi, una cultura “tacita”, oseremmo quasi
dire analfabeta, non perché non avesse nulla
da dire, ma perché non si è mai preoccupata
di lasciare alla posterità scritture (e
documenti) su di sé.
Convinti che non ci fosse nulla di più concreto
delle macchine e degli oggetti e gelosi dei
segreti sublimati da secoli di esperienza
sedimentata tra sudore e imprecazioni,
artigiani e tecnici, ingegneri e capimastri
hanno continuato imperterriti a mantenere
orgogliosamente la propria posizione, senza
essere minimamente consapevoli che i processi
della memoria sono complessi e spesso esigono
anche momenti di pausa.
Se da un lato le poche testimonianze del
passato delle macchine emergono dalle liti in
tribunale, dalle raccomandazioni dei parroci e
dai bilanci delle società di commercio e di
assicurazione, dall’altro le “cose”, che nella
loro materialità pesante dovrebbero avere vita
più lunga della carta (e oggi diremmo ancor
più di quella di un esile nastro magnetizzato o
di una pellicola forata da un raggio laser),
subiscono anch’esse la inesorabile legge del
tempo a cui si contrappone l’ingegnosa
capacità dell’uomo di ricuperare e riutilizzare,
di modificare e di trasformare, viaggiando
contro, per quanto è possibile, al destino
dell’entropia.
Archeologia, piuttosto che storia,
interpretazione di lacerti materiali e
soprattutto investigazioni, che spesso devono
ricorrere alle medesime metodiche di un
detective o di un anatomopatologo, sono le
discipline e le prassi che deve attuare chi
vuole ricostruire e prendere coscienza di ciò
che è accaduto prima, dei progenitori degli
oggetti che ci circondano e che, lo sappiamo
bene, non sono usciti dal laboratorio di
Archimede Pitagorico. Altrimenti, come
spesso accade, si generalizzano le poche
osservazioni oggettuali e dalla mancanza di
prove si “presume” ciò che rischia di essere
assolutamente “falso”.
Dall’invenzione all’innovazione
Proprio per la mancanza di “prove” il
Medioevo, anche se ormai molti storici si
sforzano di affermare il contrario, rischia di
cadere sotto il colpo inesorabile di un giudizio
di condanna: evo buio, ignorante, bigotto,
credulone e così via. Invece proprio da questo
tempo di crisi, politiche e militari, religiose e
scientifiche, sono sorti i germi del
Rinascimento; dalle tecniche e dalle culture
materiali di questi secoli, che forse per la
prima volta hanno sofferto di una vera crisi
energetica, sono nati i fondamenti ideologici e
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tecnologici della rivoluzione industriale. Nella
storia nulla avviene con forti discontinuità e
ciò che chiamiamo “rivoluzionario” non è
catastrofico, ma piuttosto irreversibile. In
questo senso, ciò che accadde nel Medioevo,
sul piano del fare e del produrre, fece
imboccare all’umanità una strada da cui non
si è potuto più tornare indietro.
Afferma Marc Bloch che il mulino ad acqua,
“invenzione antica”, è “medievale dal punto
di vista della sua effettiva diffusione” (Bloch,
1959). In questo senso il mulino idraulico, già
noto presso i Romani, che a Barbegal presso
Nimes installarono un imponente complesso
idraulico per la macinazione del grano,
divenne “innovazione” intorno all’XI secolo.
Ogni comunità si appropriò di questa
tecnologia, sostituendo ad esso le pratiche
antiche di macinare i cereali manualmente o
con l’aiuto di un asino o un bue. L’antico mito
cantato da Antipatro di Tessalonica
nell’Antologia Palatina (IX, 418) era
definitivamente diventato parte del
quotidiano: “Macinatrici accordate riposo alle
mani; dormite,/dormite, anche se all’alba di
già cantano i galli./Cerere impose alle Ninfe
dall’acque il lavoro: d’un balzo/si lanciano
esse al sommo vertice d’una rota/e fan che
l’asse giri: comunicava questa il suo moto/ai
raggi ed alle cave macine dei Nisèi./Siamo
all’età dell’oro tornati di nuovo, se i doni/di
Demetra possiamo gustar senza fatica”.
Nel Doomesday Book, compilato nel 1086, si
contano 5624 mulini operanti in circa 3000
comunità inglesi. Ma il Medioevo non è solo il
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mulino ad acqua; anche se questa macchina si
diffonde a macchia d’olio in tutto l’Occidente.
Indipendentemente da ciò che accade nel
mondo islamico, verso il 1185, lungo la costa
del Mare del Nord dove i venti spirano per lo
più in direzione costante, si mette a punto una
struttura a quadruplice velatura che si
sostituisce alla ruota idraulica. L’edificio del
mulino si innalza su un treppiede, per meglio
esporsi all’azione del vento. Le velature sono
irrobustite da un’intelaiatura grigliata, in
legno. Nel volgere di pochi anni il mulino a
vento è noto in tutta Europa. Ben presto
anche su queste nuove macchine cala la scure
delle “tasse papali”. Poche, ma significative
scritture contabili testimoniano la presenza di
queste nuove macchine: a St. Mary presso
Swineshead nel Lincolnshire (1170 ca.), in
Normandia (1180 ca.), a Weedlley nello
Yorkshire (1185) dove l’impianto è affittato
per 8 scellini all’anno, a Buckingham
nell’abbazia di Oseney (1189). Agli inizi del
XIII secolo, nelle Fiandre, presso Ypres, si
conteranno più di 120 mulini a vento. Nel
1192 il mulino a vento è fatto conoscere dai
crociati in Palestina, e questa macchina si
impone come nuova macchina strategica,
perché permette di macinare il grano
anche nelle città cinte di assedio.
Guido da Vigevano nel Texaurus
Regis Francie (inizi del XIV
secolo), Konrad Kyeser nel
suo trattato De
Bellefortis (1405), e poi
ancora più avanti sino
ad arrivare a Francesco
di Giorgio nei Trattati di
architettura civile e militare
(metà del XV secolo)
annoverano il mulino tra le
macchine più innovatrici e a
esse affidano anche la
sopravvivenza delle città in
tempo di pace e di guerra.
“Al volger ruota di molin
terragno”(Inferno, 23,47-48),
e con la forza prodotta dal
“molin che ‘l vento gira”
Lotte tra uomini, Anzy-Le-Duc, chiesa
della Trinità, capitello.
(Inferno, 34,6), lo stesso Dante Alighieri non
può fare a meno di ricordare che c’è tutto un
mondo che si muove. La nuova tecnologia
sottilmente si insinua nella società medievale e
la trasforma. Si macina farina (Paradiso 12,3
e 21,81), si follano i panni di lana, si soffia
l’aria nei mantici delle forge (Purgatorio
15,51) si esercita l’arte del martello ora non
più impugnato del fabbro, ma mosso da
bracci meccanici (Paradiso 2,128). Gli
“oriuoli” (Paradiso 10,139 e 24,13) sono i
nuovi gioielli di una meccanica che cerca la
miniaturizzazione e la perfezione sino a
diventare il modello del mondo dove Dio è il
“grande orologiaio”.
Ma sono le nuove imbarcazioni, quelle che
presto renderanno fattibile la conquista del
“nuovo mondo”, e gli arsenali a diventare il
modello ante litteram di attività che solo
ingenuamente si possono chiamare
“protoindustriali”. In esse la “tecnica del
tecnico”, la divisione e l’organizzazione del
lavoro, la supremazia del “saper far fare” sul
“saper fare” sono realtà già pienamente
condivise e della cui potenza culturale si ha
piena coscienza. All’Arsenale di Venezia
operano già quei “proti”, gli architetti navali,
che susciteranno l’ammirazione di Galileo
Galilei: “Quale ne l’arzanà de’ Viniziani/bolle
l’inverno la tenace pece/a rimpalmare i legni
lor non sani/che navigar non ponno - in
quella vece/chi fa suo legno novo e chi
ristoppa/le coste a quel che più vïaggi
fece;/chi ribatte da proda e chi da poppa/altri
fa remi ed altri volge sarte;/chi terzeruolo ed
artimon rintoppa”. (Inferno, 21,7-15).
L’albero (Inferno, 31,145), l’ancora (Inferno,
16,134), la prora (Paradiso, 23,68), i remi
(Inferno, 3,111), le sartie (Inferno, 27,81), le
vele (Inferno, 7,13), e altri indispensabili
accessori come la bussola (Inferno 20,121 e
Paradiso, 12,29), sono elementi di sistemi
tecnologici così diffusi da diventare metafore
nella Commedia dantesca.
I fondamenti dell’ingegneria moderna
Le “macchine” del Medioevo più illustri sono
certamente le cattedrali gotiche e non per
nulla Roland Barthes nei suoi Miti d’oggi le
paragona alle automobili più
tecnologicamente innovative:
simboli di una
TECNICA
tecnologia ormai diffusa “creazione d’epoca,
concepita da artisti ignoti, consumata nella
sua immagine, se non nel suo uso, da tutto un
popolo”.
Intorno alle cattedrali gotiche è nato anche il
termine modernus (moderno) per indicare
appunto quel nuovo modus di costruire tanto
diverso dal romanico. Le stesse cattedrali non
avrebbero potuto sorgere se dietro di esse non
fosse esistita una tecnologia articolata e
versatile, ricca di “machine et ordegni”.
Nel Taccuino che Villard de
Honnecourt
scrisse intorno al 1260 e che fu ritrovato nel
XIX secolo nella Biblioteca “Sancti Germani a
Pratis”, ossia a St. Germain des Près a Parigi,
non vi sono solo le regole che un buon
maestro della charpenterie e della maçonnerie
deve conoscere ma anche tutte le macchine
che appunto aiutano il tecnico “moderno” a
compiere il suo lavoro.
“Villard de Honnecourt vi saluta e prega tutti
coloro che faranno uso delle macchine di
questo libro, di pregare per la sua anima e di
ricordarsi di lui,
poiché in questo
libro si possono
Qui si fonda l’ingegneria moderna, una
scienza del fare fondata sui modelli
matematici (li ars de iometrie) e sul disegno
(la portraiture), ma che soprattutto fa uso di
engiens: le macchine.
“Engien”, è parola che deriva dal latino
“ingenium”, opera dell’ingegno. Da essa
deriveranno l’italiano “congegno,
marchingegno” e la stessa “ingegneria”, ma
soprattutto porterà al termine inglese
“engine”, macchina motore. Engien è la
parola chiave del Medioevo: non “machina”,
che nel mondo classico ha sempre voluto
indicare un’astuzia della ragione contro la
natura (si pensi al deus ex machina o al
cavallo di Troia), ma qualcosa di molto più
profondo, del prodotto di un’alchimia in
cui convergono conoscenze teoretiche ed
esperienze pratiche.
Dall’aratro pesante alla staffa
trovare
buoni
consigli
sulla grande
arte delle
costruzioni e sulle
macchine di
carpenteria; e
troverete in
esso l’arte
del disegnare,
i fondamenti, così
come li richiede ed
insegna la disciplina
della geometria”1.
Aquila-San Giovanni, lago d’Orta, Isola di
San Giulio, abbazia di San Giulio, pulpito.
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Gli studiosi dei processi innovativi sono
concordi nell’affermare che nei periodi di
agiatezza e di ricchezza la creatività
tecnologica regredisce per lasciare il posto alla
diffusione e soprattutto allo sfruttamento
generalizzato delle innovazioni, mentre sono
proprio le grandi crisi a stimolare la creatività,
a sperimentare nuove soluzioni alternative. In
questo senso, la caduta dell’Impero Romano e
i grandi progressi migratori che travagliarono
il mondo occidentale tra il V e il X secolo, ma
soprattutto la necessità di nuove risorse,
prima di tutto alimentari misero in crisi il
sistema precedente che aveva portato, per
esempio, a dimenticare il mulino ad acqua di
fronte alla grande disponibilità di
manodopera umana a basso costo. Le
macchine nell’antichità, già concepite nella
loro essenzialità funzionale, per molti aspetti anche se esistono numerose eccezioni rimasero giocattoli e certamente non si
diffusero quanto invece nel Medioevo. Il
processo di accrescimento della popolazione
portò ben presto alla necessità di produrre più
alimenti e l’agricoltura fu certamente il
terreno in cui la tecnologia ebbe modo di dare
i suoi primi frutti.
L’aratro pesante a ruote (carruca, da cui
proviene il francese charrue), la bardatura del
cavallo, e la rotazione delle colture nei campi
TECNICA
sono alla base di questi processi che
determinarono cambiamenti così
fondamentali da mutare completamente il
paesaggio in tutta Europa.
L’aratro dei Romani era essenzialmente un
chiodo di legno, foderato nella sua punta di
metallo (ferrum) e con esso l’aratura in
pratica consisteva nella semplice
frantumazione del terreno. Questa operazione
doveva avvenire, per avere una minima
efficienza nel permettere ai sali minerali di
risalire dagli strati più profondi per
capillarità, per due passaggi tra di loro
perpendicolari. Ne conseguiva che il campo,
che doveva essere arato prima da nord a sud e
poi da est a ovest, manteneva la sua forma
ottimale nel quadrato. La campagna coltivata
dai romani era suddivisa, nella centuriazione,
in appezzamenti quadrati e ancora oggi in
alcune parti della Pianura Padana se ne
riescono a leggere le tracce nei segni lasciati
da strade e canali.
Con l’aratro pesante, in cui la punta metallica
si trasforma nella combinazione del coltro
(per tagliare il solco), del vomere (per staccare
la zolla all’altezza delle radici della stoppia) e
del vomere, per rivoltare la zolla, l’operazione
dell’aratura diventa molto più efficace e
soprattutto più veloce. Non è più necessaria
l’aratura incrociata del campo, che per questo
motivo si allunga e assume la forma
leggermente falciforme quale si può leggere
ancora oggi sul territorio. Più pesante nella
sua struttura ha bisogno di un supporto a
ruote, che impediscano anche alle lame di
affondare troppo nel terreno, e deve essere
trascinato da una forza maggiore. Non più un
solo bue, ma due, talora quattro cavalli da
tiro.
Ma il cavallo non è adatto a ricevere il giogo e
il collare lo porta allo strozzamento.
Contemporaneamente alla diffusione del
nuovo aratro e causa appunto del suo successo
è la scoperta di come una bardatura con
finimenti di cuoio che cingano il petto del
cavallo all’altezza del suo sterno, rendano
questo animale il motore ideale per mettere in
moto l’aratro, anche su terreni umidi e
“pesanti”. Nuove razze di cavalli da tiro
nascono da sapienti incroci, che per molti
versi preludono, seppure con le debite
differenze, agli interventi genetici di oggi.
Il cavallo, d’altra parte, diventa il
protagonista sia delle comunicazioni veloci sia
dei campi di battaglia per via di un’altra
invenzione, solo apparentemente minore: la
staffa. Nel mondo antico i cavalli erano
cavalcati “a pelo” e senza far uso di altri
accessori tra il cavaliere e la schiena del
cavallo. L’unico intervento per guidare
l’animale era affidato alle redini e al morso,
ma ciò impediva al cavaliere di essere un
tutt’uno con il destriero. Il cavallo permetteva
spostamenti veloci anche sul campo di
battaglia, ma il combattimento doveva sempre
svolgersi a terra e quando il cavaliere doveva
scagliare una lancia, aveva bisogno di un
palafreniere che gli tenesse fermo l’animale di
sotto. Con la sella e soprattutto con la staffa il
cavaliere entra in perfetta unità meccanica
con il cavallo, che può essere guidato anche
con l’aiuto degli arti inferiori di chi lo monta.
Anche la tecnica di combattimento a cavallo
muta rapidamente e il combattimento “a
lancia in resta” (ossia con la lancia
appoggiata alla corazza del cavaliere) diventa
micidiale perché proietta verso il nemico non
solo la massa dell’arma ma anche quella del
cavallo che le sta imprimendo la velocità.
Esplosione di novità
Le miniature dei codici, gli affreschi sulle
pareti di chiese e palazzi e anche i versi delle
canzoni popolari ben presto si arricchiscono di
queste innovazioni che stanno cambiando il
mondo, ma che soprattutto stanno
migliorando il tenore di vita della società.
Da dove provengano i germi di questa
esplosione di novità è difficile deciderlo con
precisione, ma si può a buona ragione
affermare che a fianco di una creatività
originaria dovuta alle necessità imposte dalle
crisi del momento si aggiunse sia la tradizione
del mondo antico, sia l’ingresso di nuove
conoscenze scientifiche e tecnologiche
dall’Islam e dal lontano Oriente.
Il ruolo dell’Islam nello sviluppo delle scienze
applicate in Europa tra il IX e il XIII secolo è
fondamentale, sia perché attraverso la scienza
musulmana arrivarono in Occidente testi e
conoscenze del mondo greco che altrimenti
sarebbero assolutamente scomparse, sia
perché soprattutto la meccanica e
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l’architettura, ma anche l’idraulica e la
metallurgia ebbero presso questi popoli
momenti di grande splendore.
Erone di Alessandria aveva scritto nel I secolo
dopo Cristo alcuni trattati che illustravano
curiosi meccanismi fatti soprattutto per
stupire ricchi e potenti. La Pneumatica e gli
Automati sono raccolte illustrate. Nel primo
fontane a sorpresa e altri ingegnosi dispositivi
idropneumatici pongono inconsciamente le
basi della scienza dei fluidi che avrà il suo
momento di splendore nel Rinascimento. Nel
secondo, ingegnosi meccanismi, che sfruttano
la dilatazione dei corpi al calore, l’uso delle
camme e dei manovellismi, l’impiego dei
contrappesi per accumulare energia, sono
presentati per far muovere piccoli teatrini
artificiali in cui personaggi e animali
meccanici sembrano vivere di una vita
meccanica.
L’unione della meccanica e della pneumatica
porta alla costruzione dei primi organi
musicali, già descritti nel De Architectura di
Vitruvio (I secolo a.C.), ma solo secoli più
tardi queste macchine trovano nelle abbazie e
nei nuovi centri di cultura dei comuni della
Mitteleuropa il terreno favorevole al loro
sviluppo.
L’abbazia, che secondo le regole monastiche di
San Benedetto e di altri fondatori di cenobi
occidentali unisce alla preghiera e alla
meditazione il lavoro e lo sfruttamento
razionale delle risorse, è il nucleo da cui la
società in crisi trova nuova linfa per risorgere
di fronte alle devastazioni e alle guerre
fratricide. Se si osserva la pianta dell’Abbazia
di San Gallo, databile intorno ai primi anni
del IX secolo, e conservata nella Biblioteca di
St. Gallen in Svizzera, essa rappresenta il
progetto di una comunità monastica ideale,
dove il monastero, come entità autonoma, è
anche l’espressione di un sistema produttivo
basato sull’autosufficienza rurale. Dalla
coltivazione dell’orto, dall’allevamento dei
maiali e delle oche, sino alla produzione
dell’olio, della birra, dei salumi, del pane,
tutto si esaurisce all’interno delle mura del
monastero.
L’abbazia è inoltre il luogo dove il tempo ha
bisogno di essere scandito con regolarità.
Come Lewis Mumford afferma che l’orologio,
e non il vapore, è il vero protagonista della
TECNICA
rivoluzione industriale, così anche lo
“svegliarino” monastico, progenitore dei
moderni orologi, pur non avendo ancora
beneficiato dell’invenzione del pendolo
(arriverà nel XVII secolo con Galileo Galilei e
Christian Huygens) è protagonista del
Medioevo perché anche in questo caso segna
“il tempo della Chiesa e il tempo del
mercante” per riprendere il titolo di un
fortunato saggio di Georges Duby.
Un catalogo sterminato
Il catalogo degli ingenia medievali è
sterminato e non bastano le prime
enciclopedie a descriverli tutti2. Dal telaio al
torcitoio da seta, dalle seghe meccaniche alle
macchine per infeltrire la lana, la varietà di
forme con cui la macchina sempre più
prepotentemente si sostituisce all’uomo è
davvero incalcolabile.
Forse varrebbe ancora la spesa di menzionare
l’arcolaio a pedale che permise di aumentare
notevolmente la produttività nella filatura
della lana. Agendo sul pedale di una nuova
macchina, e non più con i soli strumenti del
fuso e della rocca, la filatrice poteva tenere le
mani impegnate nello stirare le fibre,
lasciando completamente alla macchina il
moto della torcitura. Perché il moto alterno
del piede potesse trasformarsi in circolare non
era sufficiente un pedale, ma era necessario
che qualcuno provvedesse a far superare i
punti morti, quando il pedale raggiungeva gli
estremi della propria corsa. L’impiego del
volano, un disco rotante che era già noto come
accumulatore di energia meccanica sin
dall’antichità nella ruota del vasaio, fu
l’invenzione che riuscì a risolvere il problema
della conversione del moto alterno in moto
circolare, nel sistema biella/manovella. Le
prime testimonianze dell’impiego del volano
in un arcolaio sono testimoniate alla metà del
XV secolo.
La diffusione di questo dispositivo ad
un’innumerevole schiera di macchine mosse
da pedali e bilancieri porterà sino ai giorni
nostri “alla teoria ed all’applicazione del
volano che in seguito avrà una funzione così
importante nella grande industria” (Marx,
1978, Libro I, Sez. IV, cap. 13.1, p. 460). I
torni tardarono qualche tempo a introdurre
questo dispositivo e ancora nel XVI secolo
erano impiegati i cosiddetti torni a balestra,
mossi a pedale, ma questo faceva scorrere una
fune che si avvolgeva sul pezzo da far ruotare.
La fune, assicurata all’altra estremità appunto
a una molla a balestra, aveva così la
possibilità di compiere automaticamente la
propria corsa di ritorno: il cilindro da tornire
non ruotava sempre nello stesso senso, ma
avanti e indietro, costringendo l’artigiano a
utilizzare solo una delle due corse.
Sarebbe infine incompleto il quadro del
Medioevo se non si contemplassero anche le
macchine da guerra: a fianco delle macchine
per costruire, di cui Villard de Honnecourt fa
ampia rassegna e dimostrazione, esistono le
catapulte e gli onagri, le balliste e le torri
ossidionali, le testuggini e i ponti mobili. Ma
più grande di tutte, ultima macchina
ossidionale è il trabocco - chatte o trebuchet
la chiamano i Francesi - che riproduce in
scala gigantesca il braccio di un lanciatore di
fionda. L’energia accumulata in un
contrappeso posto all’altra estremità del
pennone, che può raggiungere anche
un’altezza di dieci metri, provvede a
imprimere una violenta rotazione al braccio
che reca con sé la fionda. Le più grandi
macchine riuscivano a scagliare un proietto di
2-300 chilogrammi a una distanza che poteva
raggiungere i 400 metri. Villard ne descrive
una versione “migliorata” con l’impiego di
una balestra e nell’Ottocento Viollet le Duc ne
propose un’interpretazione assai fedele nella
sua Encyclopédie médievale. Fu una macchina
che rimase in auge per poco più di un secolo:
poi arrivarono le nuove armi da fuoco, che
mutarono la faccia del mondo.
Con il cannone e con la “nuova arte dei
metalli” il processo innovativo sembra
concludersi e passare il testimone ai processi
speculativi della “nuova scienza. Ciò che gli
umanisti chiamano Rinascimento diventa
un’epoca di benessere in cui gli investimenti
del Medioevo portano alla raccolta di nuovi
frutti. Le arti figurative e le lettere non
avrebbero potuto trovare i “teatri” per la
propria esternazione, se qualcuno non avesse
preparato il terreno. La natura “tacita” della
cultura di artigiani e tecnici ha fatto passare
quasi del tutto sotto silenzio l’esistenza degli
ingenia: solo pochi - come Guidobaldo del
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Monte, maestro di Galilei - riuscirono ad
affermare che “mechanico è vocabolo
honoratissimo”. ●
Note
1. “Wilars de Honecort vous salve, et si proie a tos ceus
qui de ces engiens ouverront con trovera en cest livre,
qu’il proient por s’arme et qu’il lor soviengne de lui, car
en cest livre peut on trover grant consel de le grant force
de maconerie et des engiens de carpenterie. et si troveres
le force de le portraiture, les trais insi come li ars de
iometrie le command et ensaigne”.
2. Si consiglia la lettura di Ken Follet, I pilastri della
terra, Milano, Mondadori, 1997 a chi volesse accostarsi
al Medioevo seguendo le strade della fiction, senza
peraltro perdere di vista il rigore storico, salvaguardato
dalla supervisione sul romanzo di Jean Gimpel.
Bibliografia
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Andoche, capitello.