L`ascolto del minore e la legge 8 febbraio 2006, n. 54

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L`ascolto del minore e la legge 8 febbraio 2006, n. 54
Fondazione Guglielmo Gulotta
di Psicologia Forense e della Comunicazione
L’ascolto del minore
e la legge 8 febbraio 2006, n. 54:
dalla norma all’incontro
Autore:
Dott.ssa Loredana Palaziol
Psicologa – Psicoanalista SPI
Tutor:
dott.ssa Giulia Capra
Docente: dott.ssa Anna Balabio
2010
0
INDICE
ABSTRACT…………………………………………….......pag.1
INTRODUZIONE…………………………………………..pag. 2
L’ASCOLTO DEL MINORE NELLA NORMATIVA
INTERNAZIONALE………………………………………pag. 4
L’ASCOLTO DEL MINORE NELLA NORMATIVA
NAZIONALE……………………………………………….pag. 6
SENTIRE ESAMINARE ASCOLTARE…………………...pag. 10
L’ASCOLTO IN PSICOLOGIA…………………………....pag. 12
L’ASCOLTO DEL MINORE E LA LEGGE 54/2006:
ASPETTI CRITICI………………………………………….pag. 17
L’ASCOLTO DEL MINORE E LA LEGGE 54/2006:
APPLICAZIONE……………………………………………pag. 24
CONCLUSIONI…………………………………………….pag. 29
BIBLIOGRAFIA……………………………………………pag. 32
APPENDICE: INTERVISTE
1
ABSTRACT
La legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e
affidamento condiviso dei figli)
ha introdotto nell’ordinamento italiano il principio
dell’obbligatorietà dell’ascolto dei minori nei procedimenti di separazione dei coniugi
(art. 155 sexies c.c.). Il legislatore nazionale non ha indicato criteri applicativi uniformi
per un istituto che si colloca in un terreno di confine fra psicologia e diritto.
Il presente lavoro affronta il tema dell’ascolto del minore dal punto di vista psicologico e
individua e sviluppa alcuni punti critici nell’applicazione della norma introdotta dalla
legge.
In appendice vengono riportate le interviste al Presidente della VII Sezione civile del
Tribunale di Torino (Sezione Famiglia) e ad Avvocati del Foro di Torino e di Pinerolo
che illustrano la situazione locale per quanto concerne l’attuazione del nuovo istituto.
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INTRODUZIONE
"Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato
"Storie vissute della natura ", vidi un magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa
nell'atto di inghiottire un animale (..) C'era scritto: "I boa ingoiano la loro preda tutta
intera, senza masticarla, dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i
sei mesi che la digestione richiede."
Meditai a lungo sulle avventure della giungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio
primo disegno. II mio disegno numero uno. Era così:
Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava.
Ma mi risposero: "Spaventare ? Perché mai uno dovrebbe essere spaventato da un
cappello ? ".
II mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un
elefante. Affinché vedessero chiaramente che cosa era, disegnai l'interno del boa.
Bisogna sempre spiegargliele le cosa ai grandi!
II mio disegno numero due si presentava così:
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Questa volta mi risposero di lasciare da parte il boa, sia d i fuori che di dentro. Fu così
che a sei anni io rinunciai a quello che avrebbe potuto essere la gloriosa carriera di
pittore.
II fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva
disarmato.
I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni
volta."
Fin qui, il racconto di Saint Exupéry ( 1943).
Ppotremmo proseguire domandandoci che cosa sarebbe successo se invece di limitarsi a
vedere il disegno del piccolo Antoine, i “grandi” avessero provato a guardarlo; se anzichè
mortificarlo, facendolo sentire un po' sciocco, avessero accolto il suo invito a guardare
insieme la paura che egli aveva cercato di raffigurare; se avessero saputo guardare dentro
e oltre il cappello e sì fossero accorti che non era un cappello (e nemmeno un boa) ciò di
cui voleva parlare loro Antoine. Non sappiamo che cosa sarebbe successo, ma sappiamo,
invece, che cosa é successo: un'occasione di incontro tra il bambino e i "grandi" é andata
perduta. Il possibile dialogo tra un bambino egli adulti si é trasformato in una delusione,
in una incomprensione frustrante che ha generato il pensiero che cercare di farsi capire
dai "grandi", sia una impresa destinata a fallire e quindi da abbandonare.
Ma il brano citato, attraverso la vividezza della narrazione, ci suggerisce anche un'altra
cosa: che i bambini ci provano e ci riprovano a comunicare con gli adulti; essi cercano
continuamente e con tutti i mezzi a loro disposizione una relazione con l'adulto che sia in
grado di rispondere ai loro bisogni, che sappia ascoltarli. Lo fanno col loro linguaggio, un
linguaggio che l'adulto ha posseduto, ma non sempre é capace di ritrovare. E' tuttavia un
linguaggio che dovrebbe essere inteso e parlato da tutti gli adulti che per ragioni diverse
si relazionano con i bambini, ma in particolar modo da coloro che questa relazione la
vivono nello svolgimento della loro professione. Essi hanno nei confronti dei bambini un
grado maggiore di responsabilità: la responsabilità di cercare di trasformare ogni incontro
in un "buon incontro".
Queste considerazioni ci introducono al tema che affronteremo nel presente lavoro.
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CAP. I
L’ASCOLTO DEL MINORE E LA NORMATIVA
INTERNAZIONALE
Sul tema dell’ascolto del minore all’interno dei procedimenti giudiziari che lo riguardano si
dibatte da circa un ventennio e sono numerosi i contributi sull’argomento da parte della
giurisprudenza e della dottrina. Importanti convenzioni internazionali hanno richiamato gli
Stati al rispetto dei diritti del bambino, che da oggetto di tutela è sempre più considerato
portatore di diritti e, da una certa età in poi, capace di esprimere opinioni che devono essere
prese in considerazione (Bandini, Alfano e Ciliberti,2008).
La normativa internazionale sull’ascolto costituisce un importante quadro di riferimento,
poiché vi sono enunciati principi generali frutto di dibattito e di confronto fra Nazioni
diverse e perciò largamente condivisi. Tale riferimento consente di interpretare in modo
coerente la normativa nazionale, laddove questa si presenti carente o contraddittoria.
La Convenzione dei diritti del fanciullo dell’ONU
(New York, 20 novembre 1988),
ratificata con la Legge n. 176/1991, attribuisce ad ogni minore “capace di discernimento”,
all’art. 12, il diritto “di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo
interessa”; prevede cioè che sia riconosciuto al fanciullo capace di formarsi una propria
opinione, il diritto di esprimerla, tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità. A
tal fine, in ogni procedura che lo riguarda, egli ha diritto “ad essere ascoltato, sia
direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera
compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale”.
La Carta Europea dei diritti fondamentali (c.d. “Carta di Nizza”, 7 dicembre 2000) all’art.
24 stabilisce che i bambini possono esprimere liberamente sulle questioni che li riguardano
la propria opinione, che viene presa in considerazione in funzione della loro età e della loro
maturità.
La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori (Strasburgo, 1996), ratificata
e resa esecutiva, per alcuni procedimenti, con la Legge n. 77/2003, mira a rendere effettiva
la tutela dei diritti del minore ad essere informato, rappresentato, ascoltato. In particolare
gli artt. 3, 4 e 5 riconoscono al minore capace di discernimento, nei procedimenti che lo
riguardano, il diritto di ricevere ogni informazione pertinente; di essere consultato e di
esprimere la sua opinione; di essere informato di eventuali conseguenze di qualsiasi
decisione. Il minore può richiedere, direttamente o tramite altre persone o organi, la
designazione di un rappresentante speciale nelle procedure che lo concernono dinnanzi ad
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una autorità giudiziaria. L’art. 6 prevede inoltre che l’autorità giudiziaria debba tenere in
debita considerazione le opinioni da lui espresse.
La Convenzione dell’ Aja (28 ottobre 1980), relativa alla sottrazione internazionale dei
minori, va nella stessa direzione: in essa è prevista, infatti, l’audizione del minore, che può
opporsi al suo rientro. Di questa opinione il giudice deve tenere debito conto e deve darne
atto in motivazione pur non essendo ovviamente vincolato ad essa. In particolare, qualora
il minore fosse riconosciuto “maturo”, e quindi in grado di esprimere un’opinione libera e
non condizionata, il giudice dovrà congruamente motivare una decisione contraria.
La Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della sua
dignità riguardo all’applicazione della biologia e della medicina
(Oviedo, 4 aprile 1997,
ratificata con la Legge n. 145 del 28.03.2001) prevede all’art. 6 che l’opinione del minore
debba essere presa in considerazione in modo via via più determinante in ragione dell’età
e del grado di maturità.
Il Regolamento europeo n. 2201/2003 del Consiglio d’Europa (c.d. Bruxelles 11-bis)
relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia
matrimoniale e di responsabilità genitoriale, prevede l’audizione del minore come uno dei
requisiti per il riconoscimento e l’esecutività negli altri paesi europei di decisioni
riguardanti il diritto di visita e il ritorno del minore in caso di sua sottrazione (artt. 23, 41,
42). Non é necessario che sia sentito in giudizio, ma il suo parere deve essere accolto da
un’autorità competente secondo il diritto interno. Il minore deve quindi essere ascoltato,
salvo che ciò appaia inopportuno in ragione della sua età o del grado di maturità.
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CAP. II
L’ASCOLTO DEL MINORE E LA NORMATIVA NAZIONALE
Se, come abbiamo visto, sul piano internazionale il tema dell’ascolto del minore è stato
oggetto di particolare attenzione negli ultimi decenni, sul versante interno per lungo tempo
non vi sono state analoghe spinte innovative.
In sede di giudizio penale diverse disposizioni disciplinano le modalità di ascolto del
minore.
Esse riguardano l’ ascolto assistito del minore imputato nel processo penale
minorile (art. 12 DPR n. 448 del 22 settembre 1988), l’ascolto del minore testimone nel
processo penale ordinario o minorile (art. 498, 4° comma, c.p.p.) e l’ascolto del minore
parte lesa dei reati sessuali (art. 609 decies, 2° e 3° comma c.p.).
In particolare, per quanto concerne l’esame del minore in casi di abuso sessuale e di abuso
sessuale collettivo, gli esperti fanno riferimento rispettivamente alla Carta di Noto
(1996,aggiornata a luglio 2002) e al Protocollo di Venezia (2007) .
La Carta di Noto contiene delle linee guida che “devono considerarsi quali suggerimenti
diretti a garantire l’attendibilità dei risultati degli accertamenti tecnici e la genuinità delle
dichiarazioni, assicurando nel contempo al minore la protezione psicologica, nel rispetto
dei principi costituzionali del giusto processo e degli strumenti del diritto internazionale”.
Le linee guida valgono per le figure professionali (ove specificato) e “per qualunque
soggetto che nell’ambito del procedimento instauri un rapporto con il minore”
Il Protocollo di Venezia (1) nel far propri i principi della Carta di Noto delinea e specifica,
alla luce delle attuali conoscenze scientifiche, le linee guida alle quali gli esperti
dovrebbero attenersi nell’affrontare casi di abuso sessuale collettivo sui minori.
Tale Protocollo contiene inoltre, in allegato, una dettagliata guida metodologica per
l’assessement dei minori coinvolti in presunti abusi sessuali collettivi, che rappresenta
l’indicazione da seguire per una “buona prassi”.
L’ascolto del minore é previsto da diverse disposizioni del codice civile e da leggi speciali
(v. L 149/2001 sull’adozione), ma dalla lettura delle norme, come scrive Cesaro(2006),
“emerge un quadro alquanto disomogeneo e frammentato, senza un chiaro criterio
discriminante: talvolta si prevede l’obbligatorietà dell’ascolto e talvolta la sua mera
facoltatività; altre volte ancora si attribuisce carattere vincolante all’opinione del minore,
richiedendo il suo consenso per il perfezionamento di dati atti, mentre in altre si lascia alla
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libertà e discrezionalità del giudice la decisione circa il peso da attribuire alle
dichiarazioni del minore stesso”.
L’ascolto dei figli minorenni da parte del giudice non era contemplato nella norma del
codice civile sulla separazione dei coniugi.
Fu introdotto dalla legge n. 898/1970
(modificata dalla L. n. 74/1987) sul divorzio, che prevedeva che il giudice, li sentisse, ove
lo ritenesse “strettamente necessario, anche in considerazione della loro età” (art. 4,
comma 8°, Legge sul divorzio, modificata dalla Legge 6 marzo 1987, n. 74).
Nei procedimenti sulla potestà dei genitori l’ascolto del minore non é esplicitamente
previsto neppure dalle disposizioni processuali introdotte nel 2001 ed entrate in vigore nel
luglio 2007, che prevedono la difesa anche per il minore (art. 37 L. 149/2001, che integra
l’art. 336 c.c.).
Nei procedimenti di adottabilità e di adozione la L. 184/1983, modificata dalla L. 149/2001,
prevede che il minore debba essere sentito quando abbia compiuto 12 anni, o anche meno
se si ritiene abbia “capacità di discernimento” (v. art. 4, art. 7, comma 2°, art. 10, comma
5°, art. 22, comma 6°)
Nella legge sull’adozione il minore non viene ascoltato, ma semplicemente sentito.
La legge n. 194/1978 sull’interruzione della gravidanza, all’art. 12 prevede particolari
modalità di ascolto della minore nelle procedure di autorizzazione a decidere senza
l’intervento dei genitori.
La necessità che venga interpellato il minore nei procedimenti che lo riguardano viene
prevista anche da diverse norme del codice civile, in modo
“un po’ confuso ed
apparentemente casuale” (M.G. Domanico ,2008)
Ad esempio:
art. 145 c.c. (intervento del giudice del tribunale ordinario in caso di disaccordo su
questioni familiari di particolare rilevanza, quali la fissazione della residenza o altri “affari
essenziali”) ; art. 316 c.c. (intervento del tribunale per i minorenni in materia di potestà dei
genitori); art 348 c.c. (relativo alla scelta del tutore) ;art, 371 c.c. (provvedimenti circa
l’educazione e l’istruzione);
art. 250 c.c. (disciplina dell’azione di riconoscimento);art. 284 c.c. (disciplina l’azione di
legittimazione).
La nuova legge 8 febbraio 2006, n. 54 (“Disposizioni in materia di separazione dei coniugi
e affidamento condiviso”), costituisce un importante novità in tema di ascolto dei minori.
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Essa sostituisce il vecchio art. 155 c.c.. Il nuovo testo, rubricato “provvedimenti riguardo
ai figli”, contiene l’affermazione del principio della “bigenitorialità”, inteso quale diritto
soggettivo del minore a crescere con la presenza di entrambi i genitori.
Una innovazione assai rilevante, inoltre, é contenuta nell’art. 155 sexies della stessa legge e
rubricato: “Poteri del giudice e ascolto del minore”.
Esso dispone, nel primo comma : “Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei
provvedimenti di cui all’art. 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio,
mezzi di prova.
Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia
compiuto gli anni dodici ed anche di età inferiore se capace di discernimento”
L’art. 4 della stessa legge estende
tutte le disposizioni anche ai procedimenti di
scioglimento, cessazione degli effetti civili e nullità del matrimonio, nonché a quelli relativi
ai figli di genitori non coniugati.
Per quanto riguarda i procedimenti di separazione sono state quindi recepite dal nostro
legislatore, con la L. n. 54/2006, le indicazioni delle Convenzioni internazionali sulla
necessità che si proceda all’ascolto dei minori prima che vengano assunte delle decisioni
che li riguardano.
Infatti, fino all’entrata in vigore della legge, all’interno delle norme relative al giudizio di
separazione non vi era nessuna disposizione che prevedesse l’ascolto del minore, mentre la
norma dell’ascolto previsto dalla legge per il divorzio, già citata, ha sempre avuto scarsa
applicazione. I cambiamenti, per la carica innovativa della nuova disciplina, sono assai
rilevanti, in particolare nei seguenti aspetti:
-
si sono unificati i criteri concernenti l’età minima per l’ascolto, individuandola con
precisione come momento iniziale del diritto del minore ad essere ascoltato;
-
si è esteso il diritto all’ascolto anche all’età inferiore alla minima, quando il minore
abbia capacità di discernimento;
-
si é esteso l’ascolto a tutti i procedimenti relativi a casi di frattura della coppia
genitoriale, eliminando così una ingiustificata differenza
-
si è sottratto l’ascolto del minore dall’ambito dei mezzi di prova (Fadiga,2006).
Inoltre, la nuova disciplina introduce nell’ordinamento italiano l’obbligatorietà
dell’ascolto del minore nei procedimenti indicati .
Al riguardo, tuttavia , non vi é unanimità di interpretazione. Tra coloro i quali si esprimono
per l’esistenza di un obbligo di audizione citiamo, oltre a Fadiga, Tommaseo(2006),Della
valle(2006), De Marzo (2006).
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Di parere contrario Algostino (2010, intervista), Dosi (2006), Martinelli e Mazza Galanti
(2008). Secondo questi ultimi, nelle separazioni consensuali, divorzi a istanza congiunta e
nei provvedimenti di revisione che si concludono con un recepimento di un accordo tra le
parti, il giudice non si troverebbe nella necessità di disporre l’ascolto del minore, ascolto
che viene disposto con una interpretazione “ragionevole” (Dosi,cit.; Dionisio,intervista). In
questa direzione si esprime anche il “Protocollo sull’interpretazione e applicazione legge 8
febbraio 2006, n.54 in tema di ascolto del minore” (2006) dell’Osservatorio per la giustizia
civile di Milano.
Inoltre, in base alle Convenzioni internazionali citate e alla successiva Convenzione
europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo (1996), l’esercizio di questo diritto deve
essere facilitato da altri due diritti, strumentali al primo:
quello di ricevere tutte le
informazioni pertinenti e quello di essere informato sulle possibili conseguenze delle
opinioni da lui espresse, oltre che delle possibili conseguenze di ogni decisione.
“Inquadrato in questa prospettiva, l’ascolto del minore (o meglio l’ascolto delle opinioni
del minore) acquista una pregnanza sino ad ora ignota al nostro diritto processuale e
sostanziale”. (Fadiga, cit.)
NOTA
(1)
A conclusione dell’incontro di esperti tenutosi a San Servolo (Venezia) nei giorni 21-23 settembre
2007 organizzato dalla Fondazione Guglielmo Gulotta, dall’Università degli Studi di Padova e
dall’Università degli Studi di Torino, si é proceduto, con l’apporto interdisciplinare di avvocati,
psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili, criminologi e responsabili di Servizi, alla stesura del
Protocollo di Venezia in tema di diagnosi forense di abusi sessuali collettivi.
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CAP. III
SENTIRE ESAMINARE ASCOLTARE
Prima di considerare l’istituto dell’ascolto giudiziario ed i suoi nodi problematici, è
necessario fare qualche considerazione di carattere semantico e precisare così “di che cosa
si sta parlando, per evitare equivoci”(Domanico,cit.)
Nelle varie norme che si riferiscono alla partecipazione attiva nei processi giudiziari del
minore capace di discernimento, il legislatore ha utilizzato termini diversi, che rinviano a
significati non sovrapponibili.
Il minore può essere sentito, esaminato, ascoltato da parte del giudice, direttamente
,indirettamente o tramite un ausiliario (ex art. 68 c.p.c.)
I diversi significati semantici dei verbi utilizzati possono determinare la costruzione di
differenti modelli di partecipazione del minore ai procedimenti che lo riguardano e nello
stesso tempo anche diverse attribuzioni di significato ai contenuti espressi, oltre a un
diverso loro utilizzo nel processo.
Nel procedimento penale, l’imputato minorenne viene esaminato, cioé viene interrogato
allo scopo di chiarire i fatti ed il suo grado di responsabilità.
Il minore testimone e/o vittima di reato, in particolare in materia sessuale, viene sentito, in
quanto testimone appunto, con modalità atte ad evitare il più possibile l’impatto traumatico
che potrebbe avere l’ingresso in un’aula giudiziaria e l’incontro con l’imputato. Si tratta
dell’ “audizione protetta”, un esame che si svolge alla presenza delle parti processuali, ma
in modo non invadente. Si utilizzano infatti stanze apposite, con specchi unidirezionali e
sistemi di videoregistrazione, che consentono alle parti di partecipare all’incontro in modo
“indiretto”.
Questo tipo di ascolto è volto ad ottenere dal minore una testimonianza relativa ai fatti che
lo riguardano direttamente o che lui stesso ha osservato. “La testimonianza vede come
protagonista chi interroga (giudice, avvocato, p.m., polizia) e ha come suo contenuto dei
fatti. In essa rileva ciò che interessa a chi interroga e non ciò che il testimone vuole o
desidera dire”. ( Pazé,2003)
Nei procedimenti civili il minore può essere sentito o ascoltato.
Il verbo sentire “implica che siano raccolte informazioni, da parte di chi compie l’attività,
utili per il procedimento e utilizzabili in esso. L’attività con cui si sente il minore
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costituisce pertanto un atto istruttorio con tutte le implicazioni in termini di rispetto del
contraddittorio e di modalità di verbalizzazione” ( Domanico, cit.).
In altri termini, sentire il minore secondo tale accezione sarebbe considerato mezzo di
prova (Sergio ,1999).
Sull’attendibilità dellla testimonianza dei bambini o ragazzi è fiorita una vasta letteratura.
Non altrettanto approfondito é stato il tema dell’ascolto, ovvero l’interazione, nel contesto
giudiziario, col minore, non finalizzata alla sua testimonianza (ovvero non come mezzo di
prova), ma alla creazione di un dialogo che consenta la sua partecipazione alle decisioni
che lo riguardano secondo quanto richiesto dalle Convenzioni internazionali (Dell’Antonio,
2001).
Per la lingua italiana ascoltare e sentire sono verbi di significato diverso. Il sentire non
richiede un atto di volontà: é un fenomeno di fisica acustica. L’ ascoltare richiede qualcosa
di diverso. Comporta accettare di entrare in relazione con l’Altro, recepire e comprendere
ciò che vuole esprimere e comunicarci: con le parole, con un’espressione del viso, del
corpo, e perchè no, col silenzio. Ascoltare significa disponibilità ad accogliere l’Altro e a
modificare le nostre opinioni, lasciandoci “fecondare” da nuovi contenuti e significati.
L’ascolto, nel tema che stiamo trattando, ha come soggetto attivo il minore ed é strumento
per raccogliere il suo pensiero, la sua opinione e i suoi desideri, all’interno di una vicenda
processuale che lo tocca da vicino.
“Nell’ascolto non siamo alla ricerca della verità, perché il nostro interesse è rivolto alla
persona del minore prima che ai fatti”. (Lombardi ,Tafà, 1998)
In termini giuridici quindi, l’ascolto non é strumento di autodifesa, ma “dà forma al diritto
del minore di partecipare alla sua tutela” ( Dell’Antonio, cit.), analogamente all’audizione
prevista “in sede di giurisdizione volontaria (come d’altra parte anche in sede
amministrativa)” (Gulotta,1980), che mira alla valutazione delle esigenze del minore.
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CAP.IV
L’ASCOLTO IN PSICOLOGIA
Affronteremo l’atto di ascolto, dal punto di vista psicologico, esaminando due aspetti che lo
caratterizzano: quello della comunicazione e quello dell’osservazione, concetti, questi, che
contribuiscono a definire il processo di conoscenza all’interno della relazione
interpersonale.
Possiamo dare
una sintetica definizione di comunicazione:
“La comunicazione è la
trasmissione di idee, emozioni, atteggiamenti e atti da una persona all’altra”
(Campbell,1979).
Il filosofo americano Ch. Morris, ha suddiviso la scienza generale dei segni (semiotica) in:
sintattica, semantica e pragmatica.
Il punto di vista pragmatico, in particolare, prende in considerazione come la
comunicazione influenzi la condotta degli interlocutori.
La comunicazione, così intesa, non è un fenomeno unidirezionale, ma un processo di
interazione in cui entrambi i partecipanti si influenzano reciprocamente. In tal senso la
comunicazione diviene sinonimo di relazione.
La Scuola di Palo Alto, in California, negli anni ’60 del secolo scorso ha studiato gli aspetti
pragmatici della comunicazione,
costruendo un modello interpretativo di relazione
interpersonale (e di psicopatologia), particolarmente attento agli aspetti non verbali della
comunicazione umana (Watzlawick e coll.,1971).
I dati della pragmatica, infatti, non sono solo le parole del discorso (CV), ma anche i fatti
non verbali (CNV) che ad esse si accompagnano, ovvero tutti quegli aspetti che connotano il
discorso, oltre l’aspetto semantico: “i segnali gestuali, mimici e posturali, ma anche gli
aspetti spaziali (prossemici) delle interazioni” (Poli,1980). Quello della CNV è un concetto
fondamentale nello studio della comunicazione fra le persone, perché consente di ampliare
il campo di osservazione all’interno della relazione.
Gli studiosi della “pragmatica della comunicazione umana” (Watzlawick, cit.) hanno
individuato alcune proprietà fondamentali della comunicazione.
Due di esse sono di
particolare rilievo nel discorso che stiamo affrontando:
1) “il comportamento non ha un suo opposto”. Ciò significa che non esiste un “non
comportamento” e, di conseguenza, in una relazione interpersonale non é possibile
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“non comunicare”: l’attività e la passività, la parola e il silenzio, hanno tutti infatti
valore di messaggio.
2) “La comunicazione non soltanto trasmette informazioni, ma al tempo stesso impone
un comportamento”. Si parla cioé dell’aspetto di report (notizia) e dell’aspetto di
command (comando) di ogni comunicazione: mentre la notizia trasmette il
contenuto del messaggio, il comando si riferisce alla relazione tra i comunicanti. (1)
Esso fornisce un’informazione sulla relazione, ovvero una “comunicazione sulla
comunicazione” o “metacomunicazione”, a sua volta suddivisibile in due aspetti, fra
loro collegati: il primo relativo a come il messaggio deve essere assunto (es.:“sto
scherzando!” “é un ordine !”; ecc.); il secondo a quale tipo di relazione intercorre
tra gli interlocutori, in quel momento (“ecco come ti vedo”; “ecco come mi vedi”;
“ecco come vedo che tu mi vedi;ecc.; ma anche: “che cosa mi aspetto da te”; ”che
cosa tu ti aspetti da me”; ”che cosa immagino tu ti aspetti da me”; “che cosa tu
immagini io mi aspetti da te”, ecc.)
La metacomunicazione può tradursi, nel discorso, in un’espressione verbale, consapevole ed
esplicita, ma più spesso è veicolata nell’interazione in modo non verbale e inconsapevole.
E’ questa, infatti, l’area in cui trova maggior espressione la CNV: una comunicazione che si
avvale del linguaggio analogico in cui il significante “allude” al significato, contrariamente
a ciò che avviene nel linguaggio numerico o digitale, che è quello che utilizza l’alfabeto e la
sintassi, convenzionalmente accettati ed univoci.
La CNV è pertanto una comunicazione equivoca, ambigua, che necessita di altri tipi di
informazione per essere dotata di significato: ad esempio, ma non solo, un riferimento al
contesto in cui essa si produce, ovvero alle caratteristiche spazio-temporali in cui ha luogo
lo scambio comunicativo, e all’insieme delle circostanze, storiche e psicologiche, che
concorrono a rendere significativa l’interazione, alle caratteristiche degli interlocutori e ai
loro ruoli.
La CNV è la modalità di comunicazione in cui trovano espressione gli aspetti della
personalità meno soggetti al controllo della razionalità: gli aspetti emotivo – affettivi.
L’attenzione agli aspetti non verbali della comunicazione ci fornisce quindi un prezioso
indicatore del fatto che “qualche cosa” accade nell’interazione con l’Altro, al di là delle
parole.
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Tuttavia, il significato di ciò che accade e la motivazione per cui accade non sono dati
estrapolabili dall’osservazione del comportamento. Infatti, per accostarci al significato che
l’esperienza assume per il soggetto, all’interno della relazione, dobbiamo ricorrere “alla
modalità conoscitiva propria del comprendere” attraverso ”l’approccio psicodinamico e
fenomenologico” (Fornari,2008).
Dobbiamo, in altri termini, guardare dentro a quella “scatola nera”, la mente, che il modello
teorico della pragmatica della comunicazione volutamente esclude dal campo d’indagine,
considerando il concetto di mente “un costrutto ipotetico assolutamente inutile ai fini della
ricerca e dell’interpretazione della condotta umana” (Gulotta, 2000)
Pertanto, capovolgendo l’affermazione di Watzlawick, noi riteniamo di non poterci limitare
ad osservare i rapporti di “ingresso – uscita” dalla “scatola nera” o tra le “scatole nere” (v.
sistema familiare), ovvero la comunicazione e il comportamento nei suoi aspetti manifesti,
se il nostro obiettivo è quello di dotare di significato l’esperienza della persona, significato
che Watzlawick stesso definisce
“una nozione indispensabile per l’esperienza soggettiva
della comunicazione con gli altri”, pur attribuendo ad essa uno scarso valore euristico in
quanto “oggettivamente indecidibile” (Watzlawick, cit.).
A proposito di conoscenza dei fenomeni viventi, scrive Hutten (1975): “Noi dobbiamo
ammettere che i processi viventi, in confronto con gli oggetti inanimati, hanno più
parametri o attributi. Essi posseggono almeno una dimensione in più: automovimento,
crescita, sviluppo. A meno di impiegare una terminologia sufficientemente ricca, non
possiamo descrivere adeguatamente un fenomeno vivente.
La difficoltà è che il
comportamento osservabile (....) assomiglierà ad un moto meccanico, ma la direzione o la
tendenza, l’obiettivo, lo scopo o ragione, non sono invece necessariamente visibili e devono
essere scoperti interrogando la persona o attraverso qualche tipo di introspezione” .
Ancora Hutten: “Se insistiamo che l’evidenza deve essere del tipo dei dati sensoriali (...),
allora abbiamo reso a priori impossibile provare mai qualsiasi teoria non meccanicistica”,
e ciò in base alla concezione secondo cui “la struttura della spiegazione e il metodo di
conferma devono essere gli stessi in ogni scienza”, ma “una spiegazione in termini di
motivo è molto differente da una spiegazione causale (...); un motivo non é una causa (...),
non é un accadimento esistente nello spazio-tempo (...) ma una disposizione dell’essere
umano ad agire in un certo modo” e in quanto tale, una disposizione può essere elaborata in
molti modi differenti.
Pertanto, mentre nella descrizione causale dei fenomeni fisici noi consideriamo solamente
eventi ed oggetti esterni, nella descrizione del comportamento umano dobbiamo fare
15
riferimento a processi interni: pensieri e sentimenti, consci ed inconsci, che costituiscono
il mondo interno della persona.
La rivoluzione scientifica del XX secolo ha determinato una trasformazione epistemologica
introducendo, nel campo dell’osservazione, le realtà del limite della conoscenza scientifica.
In fisica, col “principio di indeterminatezza” di Heisenberg, l’osservatore é entrato con
forza nel processo conoscitivo, alterando il campo ed influenzando con la sua presenza le
caratteristiche dell’oggetto di studio.
L’interazione tra l’osservatore e il fenomeno è ovviamente di grado molto diverso, a
seconda che si tratti di osservazione di fenomeni fisici o, viceversa, di osservazione di esseri
viventi, ma diviene di primaria importanza quando l’oggetto di indagine è un altro essere
umano. Qui il principale strumento di indagine è il ricercatore stesso: “la sua interazione
col soggetto fornisce la certezza su cui si fonderà la spiegazione” (Hutten,cit.). .Al tema
dell’osservazione come strumento di conoscenza della persona e della relazione
interpersonale la ricerca psicoanalitica dà il suo contributo ponendo al centro dell’atto
osservativo la relazione soggetto-oggetto. “L’uomo è costituito prettamente di relazioni; la
relazione è pertanto la via migliore per conoscerlo e l’unica area di indagine veramente
osservabile” .( Borgogno, 1978)
Come scrive Aron (2004): “la mente stessa è un costrutto relazionale e può essere studiata
solo nel contesto relazionale con altre menti”.
Secondo il modello psicoanalitico, pertanto, l’osservatore si costituisce come il principale
strumento di conoscenza e l’osservazione, così intesa, non é un atto impersonale e asettico,
nè tanto meno passivo; non può fondarsi solo sul guardare, ma deve contemplare al suo
interno l’essere e il sentire. Nel campo dell’osservazione umana non tutto, infatti, ha una
controparte sensoriale: non si osservano direttamente l’amore o la tenerezza, l’odio o il
rancore o l’invidia, e neppure il bisogno o il desiderio.
Non sempre essi manifestano un correlato fisiologico o somatico esterno, anche se spesso,
come abbiamo visto, trovano una via espressiva nella comunicazione non verbale.
Il soggetto alla base della ricerca psicologica chiede di essere conosciuto emotivamente e
sarà proprio l’esperienza soggettiva, personale, dell’Altro in relazione con lui che consentirà
di raggiungere questa conoscenza, attraverso il contatto empatico.
Empatia, dal greco empatheia, “sentire dentro”, é un termine inizialmente usato dai teorici
dell’estetica per indicare la capacità di percepire l’esperienza soggettiva altrui.
16
Essa é, per la psicoanalisi, una forma di conoscenza che concerne la comprensione
dell’esperienza altrui e della propria (capacità di autoosservazione), la consapevolezza dei
pensieri e dei sentimenti di un’altra persona, la capacità di vedere il mondo come questa lo
vede. Essa ha come presupposto l’autoconsapevolezza: quanto più siamo in contatto e in
grado di riconoscere e gestire le nostre emozioni, tanto più saremo in grado di leggere
quelle degli altri.
Nell’empatia svolge un ruolo centrale l’ ”identificazione”, che è “la forma più originaria
del legame affettivo con un oggetto” (Freud, 1932) ed è la prima modalità di conoscenza.
Scrive Stern (1977) : “Immaginare sul piano cognitivo come potrebbe essere l’esperienza
di un’ altra persona non è empatia, ma solo un atto elaborato di assunzione di ruolo, ove
non ci sia infusa perlomeno una scintilla di risonanza emotiva”.
La rappresentazione che in tal modo abbiamo delle persone e del mondo sarà sempre
colorata dalle nostre personali emozioni ed è per questo che nel processo di conoscenza
dell’altro che abbiamo delineato gioca un ruolo fondamentale la capacità di
autoosservazione, di introspezione.
In altri termini diviene fondamentale la nostra
consapevolezza, in quanto osservatori, di essere dentro alla relazione e ancor più, di essere
nella relazione, una variabile che influenza in maniera significativa la relazione stessa.
Ciò in una definizione e ridefinizione continua della propria e dell’altrui posizione nella
relazione, come messo in luce dalla teoria della Pragmatica della Comunicazione, ed in una
co-costruzione del campo relazionale, dei costrutti e dei significati che in questo campo
vengono espressi, come sviluppato nel pensiero psicoanalitico, a partire dal lavoro di S.
Ferenczi, dalla riflessione degli “Indipendenti” della Scuola Inglese (Rayner, 1995) e, negli
Stati Uniti, dagli esponenti della Psicoanalisi relazionale e dagli Intersoggetivisti (Aron,cit.)
NOTA
(1) Il termine command è suscettibile di una errata interpretazione nella traduzione italiana. Non si tratta infatti
di trasmettere un ordine, ma di esercitare una pressione inconsapevole sull’Altro, perché confermi le nostre
aspettative e le nostre richieste all’interno della relazione.
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CAP. V
L’ASCOLTO DEL MINORE E LA LEGGE 54/2006 : ASPETTI CRITICI
La legge 54/2006 collega l’audizione del minore a due elementi: l’ età anagrafica (12 anni)
e la capacità di discernimento , in questo modo confermando l’impostazione delle
Convenzioni internazionali (New York, L’Aia, Strasburgo) e della legge sull’adozione.
La capacità di discernimento viene introdotta per valutare l’opportunità di ascoltare il
minore infradodicenne, laddove il minore ultradodicenne viene ritenuto convenzionalmente
in possesso di tale capacità.
Si é posto quindi il problema di chiarire quale contenuto debba essere attribuito a questo
concetto, che non trova una definizione chiara né in ambito giuridico, né in ambito
psicologico, e che richiede su entrambi i fronti un notevole sforzo interpretativo.
Dal punto di vista giuridico il legislatore ha mutuato il concetto di discernimento dalla legge
28 marzo 2001, n. 149, che a sua volta lo ha mutuato dal testo francese (“ enfant ...
capable de discernement”) della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, e lo ha
introdotto nel nuovo procedimento di adottabilità (Fadiga, cit.). Ma il testo inglese, che é
quello ufficiale, non utilizza il termine “discernement”, bensì il concetto di “level of
understanding necessary for children to be considered as being capable of forming and
expressing their own views” (Rapporto esplicativo della Convenzione, punto 36).
Si riferisce, cioé, al minore in grado di formarsi un’opinione e di esprimerla, in ragione
della capacità di comprensione (understanding) raggiunta..
“La legislazione italiana non contiene una precisa definizione di sufficiente capacità di
discernimento e molto spesso viene lasciato all’autorità giudiziaria il compito di
individuarla caso per caso. Nè finora sono stati individuati criteri validi e condivisi per
discriminare i minori che posseggono capacità di discernimento da quelli che non la
posseggono. Si può concludere che la capacità di discernimento, in quanto categoria
giuridica, deve ancora essere elaborata dalla giustizia civile italiana” (Cesaro, 2006) (1)
Sul versante della psicologia le cose non vanno meglio: la “cacità di discernimento”non é
una nozione scientificamente utilizzata in nessun modello psicologico dello sviluppo. Dal
punto di vista psicologico, riguardo a questo concetto, ci sembra di poter affermare quello
che Fornari (2008) sostiene a proposito del concetto di “maturità o immaturità” del minore:
“Allo stato mancano sicuri criteri sui quali il tecnico si possa obiettivamente fondare per
formulare un siffatto giudizio, che rimane sempre e solo affidato alla capacità,
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all’abilità, alla preparazione, alla sensibilità e alla serietà dell’osservatore. Questi deve”
calare” il suo giudizio clinico e la sua valutazione forense in un contesto culturale,
relazionale e sociale”.
E’ pertanto un concetto che utilizza un vocabolo della lingua italiana, che a sua volta deve
essere dotato di significato specialistico, condiviso, per poter trovare applicazione. Il punto
di partenza é dunque il significato del termine in lingua italiana.
Il vocabolario Treccani definisce la parola “discernimento”come “giudizio, criterio, la
facoltà del discernere”; e il verbo “discernere” come “vedere chiaro, distinguere con la
vista, afferrare con la mente, facendo distinzione fra una cosa e l’altra; giudicare”.
Quindi, la capacità di discernimento dal punto di vista semantico sarebbe la capacità di
comprendere (“afferrare con la mente”), di distinguere una cosa da un’altra, di giudicare
(nel senso di ritenere, essere di opinione); e secondo il legislatore di questa capacità
sarebbero dotati i minori ultradodicenni.
Sulla peculiarità psicologica del minore ultradodicenne, tale da qualificarlo come idoneo
all’ascolto giudiziario, ci vengono in aiuto gli studi sullo sviluppo del pensiero. “Fra i nove
e i dodici – tredici anni “ - cioé tra la fine della fanciullezza e l’inizio dell’adolescenza – “si
verifica nello sviluppo delle strutture mentali, e, di conseguenza, nello sviluppo cognitivo
un progresso assai importante anche se non improvviso(...) Nei processi di pensiero di cui
il bambino, e poi il ragazzo, divengono capaci acquista un ruolo di sempre maggior rilievo
la rappresentazione di realtà o situazioni «possibili» “ (Petter, 1972). Ci riferiamo al
processo di pensiero che Piaget ha indicato come pensiero “ipotetico – deduttivo”.
Intorno ai 12 anni, quindi, si può ragionevolmente ritenere che il fanciullo abbia
mediamente acquisito la capacità di utilizzare le categorie logico – formali del pensiero, che
consentono di pensare anche in termini astratti.
Parallelamente allo sviluppo del pensiero, si assiste allo sviluppo del linguaggio, col
superamento del confine tra linguaggio egocentrico e linguaggio socializzato
(Piaget,
1970).
Quindi, in linea teorica, da questa età in avanti è ragionevole supporre di poter realizzare col
minore un incontro basato sul dialogo, che non presenta particolari difficoltà o problemi
interpretativi, dal punto di vista del linguaggio verbale: le parole e i concetti espressi dal
minore e dall’adulto saranno verosimilmente caratterizzati da una valenza semantica
condivisa e univoca e il minore sarà in grado di esprimere il suo pensiero.Tornando alla
nozione di “capacità di discernimento” cui fa riferimento il legislatore, e ponendola in
relazione ai minori ultradodicenni, ci sembra allora di poter concludere che, dal
19
punto di vista psicologico, essa attiene principalmente all’ area dello “sviluppo cognitivo”,
nei suoi aspetti di sviluppo del pensiero e del linguaggio.
Le considerazioni svolte nel capitolo precedente ci hanno avvicinato alla complessità
dell’atto di ascolto e più in generale della relazione interpersonale di cui esso é parte.
L’ascolto previsto dalla legge 54/2006 si situa in un’area che potremmo definire
transizionale, al confine tra giurisprudenza e psicologia.
Esso si distingue nettamente dalla testimonianza, come abbiamo visto nelle pagine
precedenti, e si caratterizza, invece, come un mezzo per conoscere il minore affinchè il
giudice possa meglio valutare l’adeguatezza delle decisioni ai suoi bisogni affettivo –
relazionali.
L’ascolto così inteso rinvia ad un atto “evocativo di tematiche psicologiche, più lontano
dalle tematiche processuali”
(Martinelli – Mazza Galanti, 2008), e presuppone
“la
capacità dell’adulto di entrare in sintonia con lui e stabilire una comunicazione che gli
permetta di superare resistenze e distorsioni (...) E’ una comunicazione che richiede anche
una autoconsapevolezza dei propri meccanismi di difesa di fronte all’affiorare del disagio
dell’interlocutore”, ed é certamente “cosa non facile in una relazione in cui uno dei due
componenti è un giudice, che per il suo ruolo non è tenuto ad entrare in empatia coi
problemi del suo interlocutore” (Dell’Antonio, 2001).
Si tratta quindi di un ascolto che, ponendosi l’obiettivo di capire, e non solo di sapere, che
cosa pensa e prova il minore, non può prescindere dall’entrare in relazione con esso,
avvalendosi delle modalità di comunicazione più adatte, secondo l’età del minore stesso.
Affinché l’incontro non si esaurisca in una burocratica sequenza di domande e risposte,
sarà necessario allora dare spazio all’espressione libera del minore sui temi oggetto
dell’audizione, tenendo conto dei diversi livelli di comunicazione presenti nel discorso e
delle valenze emotivo-affettive presenti. Ci riferiamo al fatto che le affermazioni, le
opinioni, i pensieri espressi dal minore “non possono e non debbono essere accettati senza
che se ne comprenda a fondo le motivazioni e il significato” (De Carlo Giannini, 2004)
Occorre allora essere consapevoli del fatto che “i personaggi” che popolano lo scenario del
mondo interno del bambino e del ragazzo e che entrano nella sua narrazione, non hanno
caratteristiche totalmente sovrapponibili alle persone reali del contesto familiare e, a volte,
se ne discostano di molto.
Ciò in virtù del fatto che essi sono il risultato di una
elaborazione, una trasformazione più o meno significativa, che le persone “reali”
subiscono, in ragione della storia personale di quel bambino, di quel ragazzo, delle sue
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relazioni affettive passate, delle sue fantasie, dei suoi vissuti, della sua personale
elaborazione dell’esperienza presente, di rottura degli equilibri familiari, oltre che della sua
età e quindi della specifica fase di sviluppo psico-affettivo che sta attraversando.
Per descrivere la peculiarità di queste componenti del mondo interno del bambino,
Winnicott ha creato il termine di “oggetti soggettivi” (Winnicot, 1962).
Chi si pone all’ascolto del minore, quindi, in un contesto di per sé doloroso e lacerante,
come quello caratterizzato dalla rottura della coppia genitoriale, deve essere consapevole
che gli argomenti portati dal minore, le sue opinioni, il suo punto di vista sugli avvenimenti
che riguardano la coppia genitoriale, lui stesso e la famiglia in senso esteso, possono
rappresentare le sue esigenze di crescita, ma possono anche essere espressione di bisogni
primari regressivi, che sarebbe dannoso assecondare.
Più spesso, si dovrà tener conto del fatto che entrambe queste esigenze saranno presenti nel
discorso.In questo senso occorre certamente una adeguata conoscenza delle caratteristiche
di ciascuna fase dello sviluppo psicologico del minore e dei meccanismi di difesa che
potrebbero venir messi in atto, nella personale elaborazione affettivo-cognitiva della
vicenda familiare e nella audizione stessa.
Ovviamente, è altresì necessaria una accurata conoscenza della situazione reale di cui il
minore é uno dei protagonisti nella vicenda processuale.
E’ opinione diffusa, in ambito giudiziario, che “al di sopra dei 12 anni non dovrebbero
esserci difficoltà ad un ascolto diretto (del giudice) , mentre nella frazione di età compresa
tra i 5 e gli 11 anni l’intermediazione di uno psicologo dell’età evolutiva può rendere assai
più appropriato l’ascolto indiretto (...) Infatti è vero che, a mano a mano che si retrocede
verso l’infanzia, l’entrare in comunicazione con un bambino richiede conoscenze e tecniche
specifiche” (Martinelli – Mazza Galanti, cit.).
Questo pensiero contiene certamente una parte di verità, ma non è, a nostro avviso,
totalmente condivisibile. E’ vero, infatti, che per realizzare una comunicazione efficace con
un minore nella prima e nella seconda infanzia occorrono specifiche conoscenze nel campo
dell’età evolutiva, oltre che conoscenze relative a particolari “tecniche” che consentono e
facilitano l’incontro col bambino, ma questo non autorizza a considerare l’ascolto del
minore ultradodicenne un ascolto cui
si possa procedere senza competenze di tipo
psicologico.
Diremo meglio: che il ragazzo sia in grado di avere una sua opinione sulla vicenda che lo
coinvolge e di esprimerla correttamente; che egli sia in grado di comprendere ciò che il
21
giudice gli illustra riguardo alla vicenda processuale dei suoi genitori, non ci dà alcuna
garanzia rispetto al suo livello di organizzazione emotivo-affettiva, che ha invece una sua
specificità. Ci riferiamo al minore adolescente, un minore che attraversa “fisiologicamente”
una fase evolutiva, che dura alcuni anni, e che lo vede impegnato in una definizione e
ridefinizione di sè e delle proprie relazioni interne ed esterne, operazione che spesso sfocia
in un elevato grado di conflittualità con l’ambiente circostante, in un’altalena emotiva assai
impegnativa per il ragazzo oltre che per le persone che con lui si rapportano.
E’ certamente vero che per relazionarsi con un adolescente non occorre possedere
particolari “tecniche” comunicative, come invece è indicato nel caso si ascoltino dei
bambini, ma occorrono ugualmente una competenza ed una “attrezzatura interna” che solo
un professionista specificamente preparato può avere, se, come già detto, l’obiettivo
dell’audizione non è sapere (che cosa pensa, che cosa prova), ma capire (che cosa significa
ciò che pensa e qual é, per lui, il senso dell’esperienza che ci racconta), ovvero, se non si
vuole correre il rischio di vedere “un cappello” in luogo di un “boa che ha mangiato un
elefante”(Saint Exupéry, cit.).
Ciò é tanto più vero in quanto l’ambito nel quale il minore è chiamato a pronunciarsi
nell’audizione ex art. 155 sexies c.c., ovvero la vicenda processuale della separazione o del
divorzio dei suoi genitori, va a toccare precisamente quelle aree del suo mondo interno e
delle relazioni oggettuali che proprio in questa fase evolutiva cercano una nuova e non
facile ridefinizione. La separazione dei genitori in concomitanza con l’adolescenza è stata
definita da Nagera una “interferenza di sviluppo”. Il risultato di questa “interferenza”
dipenderà da molti fattori, ma certamente non sarà priva di significato.
L’adolescente é chiamato a confrontarsi con una serie di trasformazioni rapide che
riguardano innanzi tutto il suo corpo e il suo funzionamento. Alle modificazioni corporee
si accompagnano grandi movimenti intrapsichici che possono essere paragonati ad un
lavoro di elaborazione del lutto( Haim 1970; A. Freud, 1958). Si tratta dell’esperienza di
separazione dalle figure genitoriali , del cambiamento delle modalità di relazione con esse,
dei progetti e dei piaceri elaborati in comune (Marcelli, .Braconnier, 1996). Nell’affrontare
questo “lavoro” l’adolescente utilizza una serie di modalità difensive, alcune delle quali
tipiche della fase evolutiva, quali l’intellettualizzazione e l’intransigenza, la messa in atto,
la scissione e i meccanismi ad essa correlati quali l’identificazione proiettiva,
l’idealizzazione primitiva, la proiezione di tipo paranoide. In particolare, ci sembra
interessante per l’argomento che stiamo trattando sottolineare l’importanza del meccanismo
difensivo della scissione e della identificazione proiettiva.
22
Si tratta di meccanismi arcaici, che in adolescenza fanno la loro ricomparsa in modo
transitorio, ma pregnante. La presenza di meccanismi scissionali è rintracciabile nei bruschi
passaggi da un estremo all’altro, da uno stato emotivo all’altro, da un ideale all’altro, da
un’opinione all’altra. Allo stesso modo si percepisce la presenza di questa difesa, nel
comportamento dell’adolescente, caratterizzato da forti contraddizioni, di cui non sembra
essere consapevole.
Rispetto all’identificazione proiettiva ( Hogden, 1991) l’aspetto più interessante, ma anche
più inquietante in un’ottica relazionale, è che si tratta di un meccanismo difensivo che
consente al soggetto di liberarsi di parti di sè non tollerate facendo contemporaneamente
vivere al proprio interlocutore quelle esperienze psichiche per lui non contenibili. Siamo in
presenza, quindi, di un doppio meccanismo che descrive l’interazione di due elementi:
l’intrapsichico e l’interpersonale. Nell’identificazione proiettiva il soggetto non si limita a
vedere l’oggetto in maniera “distorta”, in quanto l’oggetto stesso, in virtù della pressione
esercitata su di lui da questo meccanismo di difesa, percepisce se stesso sulla base delle
fantasie inconsce dell’altro. E’ questo il modo in cui una persona “fa uso” di un’altra
persona per sperimentare e contenere un aspetto di se stessa, non contenibile, non
elaborabile, per ragioni diverse. E’ questo uno dei meccanismi più importanti che troviamo
alla base dei processi di manipolazione all’interno della relazione interpersonale, in quanto
é un meccanismo che influenza chi ne è fatto oggetto nei pensieri, nei sentimenti, nei
comportamenti.(2) E’ uno dei meccanismi utilizzati frequentemente in adolescenza,
meccanismo la cui portata non può essere sottovalutata nella comprensione della dinamica
relazionale che si instaura col minore, ancor più quando sollecitato ad affrontare temi ad
elevato tasso di emotività.
Scrive Bommassar (2003):”Il minore é un oggetto che tocca aspetti personali profondi in
chi gli sta di fronte (...) Comunemente si osservano due tipi di oscillazione: a volte ci si
identifica col ragazzo, a volte col genitore. Possiamo essere portati ad identificarci coi
vissuti di abbandono del bambino, col suo bisogno di accoglienza, ma possiamo altre volte
identificarci con la fatica del genitore ad accogliere questi bisogni. Con l’adolescente
questi meccanismi sono ancora più intensi. Chi ha esperienza di lavoro con essi sa che
quasi mai si riesce a mantenere un atteggiamento neutrale, ma si é spinti a prendere
posizione con o contro di loro” A decidere quale polarità seguiremo, o se saremo in grado
di mantenere una giusta distanza, sarà la nostra storia personale, il nostro essere stati
adolescenti, il nostro essere genitori, ed infine, non meno importante, la nostra competenza
professionale.
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NOTE
(1) La capacità di discernimento del minore è un termine che ha fatto la sua comparsa in campo penale e che
era presente nel codice Zanardelli. E’ stata invece rifiutata dal codice Rocco, che vi ha preferito la nozione di
“capacità di intendere e di volere”. Siamo pertanto di fronte a un concetto nato in campo penalistico e del tutto
nuovo in campo civilistico (Fadiga,2006)
(2) Il meccanismo di difesa dell’identificazione proiettiva ha a nostro avviso molti punti di contatto col
concetto di “comando” della comunicazione, che abbiamo affrontato nel IV capitolo, ma non è questa la sede
per approfondire l’argomento. Ci limitiamo a sottolineare come entrambi i concetti si riferiscano al reciproco
influenzamento inconsapevole dei soggetti impegnati nella relazione.
24
CAP.VI
L’ASCOLTO DEL MINORE E LA LEGGE 54/2006: APPLICAZIONE
Il principio dell’ ascolto del minore é stato certamente più applicato e tutelato nel penale
(Cesaro, 2004), ambito dal quale provengono numerosi contributi da parte di magistrati,
avvocati e operatori del settore, impegnati in campo minorile.
Le nuove norme sull’ascolto del minore nel processo civile, introdotte con la legge 54/2006,
pongono delicati problemi processuali, che impongono notevole sforzo interpretativo agli
operatori del diritto e a coloro che operano, con diverse professionalità, nella gestione della
giustizia minorile e dei procedimenti “familiari” (Cesaro, 2006).
Ad essi è lasciato il delicato compito di indicare dei criteri guida che favoriscano la
partecipazione del minore al processo, nel pieno rispetto dei suoi diritti e della sua
personalità.
Nel tentativo di definire delle linee guida cui fare riferimento per l’ascolto del minore, sono
stati elaborati diversi
Protocolli
interpretativi, alcuni più strutturati, altri, tratti
dall’esperienza sul campo, sono stati illustrati in varie sedi congressuali.
Il Protocollo sull’interpretazione e applicazione della legge 8 febbraio 2006, n.54, in tema di
ascolto del minore, dell’Osservatorio per la Giustizia Civile di Milano contiene indicazioni
non vincolanti di carattere pragmatico, volte ad individuare e valorizzare norme di
comportamento e prassi organizzativa finalizzate a garantire che l’audizione del minore
avvenga con modalità adeguate e rispettose della sua personalità. Il gruppo di studio
milanese, nella consapevolezza di trovarsi ad affrontare un tema “al confine tra psicologia e
diritto”
(Cesaro, cit.), si é avvalso dell’ausilio di esperti in scienze psicologiche e
pedagogiche, producendo un testo “avanzato” (Martinelli, 2010), nel quale emerge a nostro
avviso la particolare attenzione riservata alle tematiche psicologiche, in questo senso
differenziandosi da altri testi, quale, ad esempio, il Protocollo di Roma (2007).
Il Protocollo milanese richiama il principio di minima offensività e sollecita una limitazione
dell’ascolto ai soli procedimenti contenziosi,
prevedendo l’ascolto nei procedimenti
consensuali solo qualora particolari circostanze lo rendano opportuno (art. 1). L’ascolto
potrà inoltre non essere imposto nei casi in cui il giudice lo ritenga motivatamente non
rispondente all’interesse del minore.
25
Vengono stabilite modalità riguardanti i tempi e il luogo dell’ascolto giudiziario (art. 2),
garantendo al minore riservatezza e tranquillità. L’ascolto, ex art. 155 sexies c.c. viene
chiaramente distinto dall’ascolto del minore in sede di CTU (art. 8), mentre, per ciò che
riguarda il tipo di ascolto (diretto o indiretto), il Protocollo prevede la modalità di audizione
c.d. assistita che vede impegnato il magistrato togato “unitamente” al giudice onorario, ove
previsto, oppure “con la nomina di un ausiliario ex art. 68 c.p.c. esperto in scienze
psicologiche o pedagogiche “ (art. 3), in relazione all’età del minore.
Ugualmente, il ricorso all’esperto é previsto ove si tratti di valutare la “capacità di
discernimento” (art. 1).
In merito ai tempi dell’ ascolto, si indica la necessità di disporlo “al fine di prevenire
eventuali inasprimenti del conflitto”: sembra quindi di poter intendere l’indicazione
all’ascolto nella fase presidenziale.
Riguardo alla presenza degli avvocati e delle parti, l’art. 5 indica chiaramente la non
opportunità della loro presenza, garantendo ad essi la possibilità di far sentire la propria
voce sottoponendo al giudice “temi e argomenti sui quali ritengono opportuno sentire il
minore”
Infine, per quanto attiene al diritto all’informazione del minore, il Protocollo (art. 5) si
richiama all’art. 3 della Convenzione di Strasburgo, mentre, riguardo alla verbalizzazione,
viene indicata “una forma sommaria” di verbale che il minore avrà il diritto di leggere e di
sottoscrivere.
L’ascolto del minore, come delineato nel Protocollo milanese, é pertanto un ascolto molto
attento alle esigenze psicologiche del minore.
A partire quindi dalla particolare sensibilità psicologica del Protocollo milanese ci é
sembrato di poter cogliere l’esistenza di uno spazio ulteriore di riflessione e di
approfondimento, nel tentativo di identificare le migliori condizioni per realizzare questa
grande opportunità offerta dal legislatore.
In questa direzione intendiamo proporre le osservazioni che seguono.
Esse intendono approfondire il tema del setting dell’audizione, con particolare riferimento
all’aspetto dell’informazione del minore per ciò che concerne la riservatezza o meno dei
contenuti del colloquio, le modalità della verbalizzazione e della “restituzione” alle parti
(principio del contraddittorio) .
Il setting, nel senso qui inteso, è costituito dall’insieme delle regole che guidano l’audizione
del minore e che costituiscono il necessario presupposto su cui si fonda la possibilità di
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realizzare un incontro autentico: ”Il setting è come il buio al cinematografo, come il
silenzio nella sala da concerto” (Flegenheimer, 1986).
La necessità di fornire una adeguata informazione al minore discende direttamente dall’art.
3 della Convenzione di Strasburgo (1996) e riguarda il suo diritto “ad essere informato sul
processo, dei motivi del suo coinvolgimento nello stesso, nonché dei possibili esiti del
procedimento, precisando che tali esiti non necessariamente saranno conformi a quanto
sarà da lui espresso o richiesto” (Protocollo di Milano, 2006). Si tratta tuttavia di
informazioni che non attengono in senso stretto all’audizione e che quindi dovrebbero – a
nostro avviso – essere completate, includendo un preciso ragguaglio sulle caratteristiche e le
regole di quell’incontro, informazione da darsi al minore all’inizio della seduta e non “alla
fine” (Pazè, 2004), proprio per contestualizzare la situazione in modo trasparente. Ciò nella
convinzione che solo una informazione chiara può consentire un incontro privo di ambiguità
all’insegna dei principi di “lealtà e fiducia”(Scolaro, intervista), conditio sine qua non per
consentire al minore di esprimersi liberamente, superando la naturale iniziale diffidenza.
A nostro avviso, quindi, è indispensabile chiarire al minore se e che cosa di ciò che dirà al
giudice (o ad altra figura delegata) potrà essere considerato confidenziale oppure no e,
quindi, che cosa dell’audizione verrà reso pubblico; se sarà possibile concordare insieme
che cosa riferire all’esterno e, al contrario, se sarà possibile omettere di verbalizzare
contenuti che il minore volesse considerare riservati.
E ancora: é necessario, di conseguenza, che il minore sia informato sulle modalità della
verbalizzazione del colloquio, che sarebbe opportuno avvenisse a fine seduta (e non durante
l’ascolto), in un momento appositamente riservato, in cui l’adulto e il minore potrebbero
costruire insieme una sintesi dell’incontro.
Questo atto potrebbe così assumere, per il minore, anche la valenza di una “restituzione”
che non potrebbe che arricchire di significato l’esperienza (nei termini di una breve
ricostruzione dell’audizione) e che, a nostro avviso, non dovrebbe mancare, essendo un
momento di assoluto rilievo dal punto di vista psicologico.
All’argomento della “restituzione”, intesa nel doppio significato di “restituzione” al minore
e “restituzione” agli avvocati e alle parti, non sono state dedicate molte riflessioni, mentre
é un argomento che meriterebbe una maggiore considerazione ed approfondimento.
La “restituzione” dell’audizione del minore agli avvocati e ai genitori dovrebbe essere un
momento della vicenda processuale da valorizzare. Esso potrebbe costituire un’occasione
per sensibilizzare i genitori rispetto alle esigenze dei figli, nella dolorosa vicenda che si
trovano ad attraversare, orientando così verso di loro l’attenzione, con un auspicabile effetto
27
di diminuzione della conflittualità ed un recupero delle rispettive potenzialità genitoriali.
Naturalmente, anche di questa fase processuale, il minore dovrebbe essere adeguatamente
informato .
Dal punto di vista pratico, potrebbe essere disposta una “udienza di restituzione”,
“finalizzata a far meglio intendere la posizione e i bisogni del figlio” (Ceccarelli, 209) ai
genitori.
In questo senso l’esperienza del Tribunale di Genova (Callero, Spada, 2003) ci sembra
possa ben rappresentare una prassi operativa virtuosa e di grande sensibilità nei confronti
dei minori e delle loro famiglie, oltre che una prassi avanzata sul piano culturale.
Il Tribunale di Genova, nella sezione Famiglia, presieduta dal giudice Paolo Martinelli, ha
stabilito una collaborazione con figure ausiliarie, psicologhe (ex art. 68 c.p.c.), per dare
attuazione al diritto del minore all’ascolto, secondo quanto prescritto dall’art. 12 della
Convenzione di New York; tale collaborazione è iniziata, infatti, alcuni anni prima
dell’entrata in vigore della legge 54/2006.
Si tratta di un ascolto indiretto dei minori, compresi gli adolescenti, disposto in fase
presidenziale e distinto dalla CTU: non vi è infatti quesito del giudice; non è rivolto alle
problematiche della coppia genitoriale, né alla patologia eventuale dei singoli soggetti; non
è un esame psicologico della personalità del minore, né un’indagine su come egli si ponga
in relazione con i suoi genitori. Si tratta, invece, di uno o più incontri che hanno lo scopo di
conoscere il suo pensiero rispetto alla situazione che sta vivendo in quel momento.
Al termine degli incontri vi è una “udienza di restituzione” alla presenza del giudice, delle
parti e dei legali, in cui l’ausiliare porta “la voce” del minore, da lui “interpretata” nel
rispetto del suo diritto alla riservatezza.
“Il coadiutore riferisce oralmente circa i contenuti dell’ascolto e, ad integrazione del
verbale predisposto dal giudice in udienza,
forma dopo l’udienza un resoconto delle
proprie considerazioni, completato con le risposte ad eventuali domande intervenute
nell’udienza medesima, che viene depositato e va ad integrare il verbale (che ad esso fa
rinvio)” (Martinelli, Mazza Galanti, 2008).
Nella prassi descritta, quindi, assume particolare rilievo l’ “udienza di restituzione” come
atto di sintesi di un percorso (quello dell’ascolto) che, collocato in una prima fase di
apertura del procedimento, “quando il giudice sta ancora valutando quali siano i nuclei
reali di conflitto di una coppia di genitori” ha una funzione “ricostruttiva, di esplorazione
del concreto interesse del minore e di trasformazione del conflitto in accordi (almeno
parziali) sulla responsabilità genitoriale” (Martinelli, 2010).
28
In questo senso condividiamo il pensiero espresso da Martinelli in ordine alla funzione di
ascolto e ai suoi reali destinatari.
Intendendo il procedimento di separazione come una tappa di un percorso di modificazione
dei rapporti personali, diviene obiettivo prioritario quello di distogliere i coniugi dalla
tentazione di trasformare il procedimento in un “giudizio universale sul passato”, per
mobilitare, al contrario, tutte le loro migliori qualità in quanto genitori. Ecco allora che i
veri destinatari dei messaggi che gli operatori di giustizia raccolgono da parte dei figli non
possono essere che i genitori stessi, poiché é a loro che spetta accompagnare la crescita dei
figli anche in presenza dell’evento separazione. In questa accezione, l’istituto dell’ascolto
non può che collocarsi “tra gli strumenti di sostegno della genitorialità”
Mazza Galanti, 2008).
(Martinelli,
29
CONCLUSIONI
Sono due gli strumenti previsti dalle norme internazionali che si sono recentemente
affacciati nel nostro ordinamento: la mediazione familiare e l’ascolto del minore.
Di quest’ultimo ci siamo occupati nel presente lavoro, con particolare riferimento alla legge
8 febbraio 2006, n. 54. La nuova disciplina che contiene una “grande carica innovativa”
(Fadiga, 2006) é stata accolta con molto interesse all’interno dell’ambiente giudiziario,
stimolando dibattiti e riflessioni, soprattutto intorno ai delicati problemi processuali che la
nuova norma lascia scoperti. E’ tuttavia opinione comune, tra gli addetti ai lavori, che
questo istituto processuale fatichi molto ad entrare nella prassi dei tribunali (ordinari, ma
anche per i minorenni) (Martinelli, 2010 – Fadiga, 2006)
Al riguardo, la realtà torinese, come emerge dalle interviste in appendice, conferma questa
osservazione: l’ascolto dei minori nei procedimenti di separazione dei coniugi si aggira
intorno al 2–3 % dei casi nel Tribunale Civile (Algostino, cit). Il Tribunale di Pinerolo se ne
discosta significativamente (10/20%), ma si tratta pur sempre di una percentuale non molto
alta (Pignatelli, intervista). Come afferma Martinelli (2010), il legislatore nazionale si é
limitato a raccogliere il suggerimento che veniva dalle Convenzioni internazionali “senza
troppo faticare” e senza pensare ad un vero e proprio innesto dell’istituto nella realtà dei
vari processi.
Infatti, ha lasciato totalmente scoperte le aree relative alle finalità, natura e modalità di
realizzazione dell’ascolto, in tal modo rischiando di renderlo un istituto “svuotato di
significato” (Dionisio, cit.). Inoltre, l’ascolto del minore, scisso da un dibattito culturale più
ampio sulla giurisdizione minorile, rischia di essere un istituto incompreso e generalmente
rifiutato nella prassi.
Storicamente, sono principalmente tre le ragioni che hanno limitato l’attuazione dell’ascolto
giudiziario del minore (Dell’Antonio, 2001; Cesaro, 2004) :
-
il timore di sottoporlo ad una esperienza potenzialmente traumatizzante in ragione
del contesto ambientale in cui si svolgerebbe l’audizione (l’ufficio del magistrato,
in tribunale, non essendovi solitamente luoghi idonei ad accogliere i minori); in
ragione del ruolo del giudice, la cui funzione giudicante difficilmente può essere
ignorata; in ragione, infine, del tema dell’audizione che attiene ad una vicenda
familiare dolorosa che vede coinvolto il minore;
30
-
il rischio di responsabilizzare il minore nella lite familiare esponendolo ad un
“conflitto di lealtà” nei confronti dei genitori, ma
anche, aggiungiamo, alla
seduzione di un ruolo caricato di “onnipotenza”, laddove dovesse percepirsi come
responsabile di scelte che altri dovrebbero fare per lui ;
-
la mancanza di competenze specifiche da parte del giudice, nei confronti di un
istituto che, come abbiamo visto, presuppone la capacità di stabilire una
comunicazione efficace superando resistenze e distorsioni ed entrando in sintonia
col minore.
Queste dunque le ragioni che storicamente hanno pesato ed ancora pesano sulla scarsa
applicazione dell’ascolto giudiziario del minore , che viene largamente delegato ai
Servizi Sociali .
I motivi di resistenza all’ascolto sopra menzionati, tuttavia, non ci sembrano sufficienti
a rendere ragione della difficoltà a far entrare nella prassi dei tribunali questo istituto
processuale. Infatti una collaborazione più stretta con figure professionali esperte
potrebbe ovviare ai rischi paventati. In tal senso, il ricorso ad un ausiliare – psicologo ex
art. 68 c.p.c., da utilizzare nella fase presidenziale, potrebbe certamente costituire la
garanzia di un ascolto competente, magari nella forma della c.d. “audizione assistita”
(Russo, 2008), alla presenza cioè del minore, del magistrato e dello psicologo, al quale
verrebbe anche affidato il delicato compito (generalmente ignorato) di preparare il
minore all’incontro, fornendogli adeguate informazioni sulla finalità e sulle modalità
dell’ascolto stesso.
Un ascolto così organizzato difficilmente potrebbe assumere per il minore una valenza
traumatica. Quindi, la possibilità di ricorrere a figure professionali, a garanzia di quella
competenza psicologica che molti magistrati non si riconoscono, dovrebbe consentire
una soluzione non troppo difficile del problema.
E’ possibile allora che vi siano altri aspetti che ostacolano l’applicazione della norma
prevista dall’art.155-sexies del codice civile.
Al riguardo sono interessanti i suggerimenti che provengono dalle interviste allegate in
appendice. Dal pensiero dei professionisti interpellati ci sembra di poter cogliere due
argomenti particolarmente significativi.
Un primo argomento vede la nuova norma come troppo avanzata rispetto al sentire
sociale e vede al suo interno “una valenza pedagogica più che precettiva” (Scolaro, cit.),
sottolineando anche come la totale assenza di indicazioni rispetto alle modalità attuative
porti, di fatto, a ridurla ad una mera enunciazione di principio.
31
Il secondo argomento attiene alla finalità dell’ascolto del minore, uno degli aspetti che il
legislatore non ha chiarito, ma che è stato unanimemente interpretato dagli esperti di
giustizia minorile e procedimenti “familiari” come volto a portare al giudice elementi di
conoscenza sui bisogni emotivo-affettivi del minore, al fine di consentirgli di adottare i
provvedimenti che meglio rispondono alle sue esigenze psicologiche di crescita.
Siamo come si vede, lontani dalla semplice raccolta di un’ ”opinione” (NewYork, cit.).
Ed è proprio in questa distanza (che è lo spazio che intercorre tra la registrazione di
un’opinione e la sua traduzione in espressione di un bisogno psicologico) che si situerebbe
l’ostacolo all’attuazione dell’ascolto diretto da parte del giudice: si tratta della difficoltà
(impossibilità?) di raccogliere, da parte del giudice, nel corso di una audizione, le
“informazioni giuste” (Toso, intervista), ovvero quelle informazioni che gli consentano di
decifrare i bisogni del minore, “le ragioni psicologiche” che sottostanno alle sue
affermazioni e “manifestazioni di volontà” (Pignatelli, cit.) e che non avrebbe alcun senso
limitarsi a registrare.
Vediamo come in questo pensiero siano due gli elementi critici: il primo, la competenza del
giudice; il secondo, la dimensione temporale dell’incontro.
Sul primo si è già detto. Rispetto al secondo, l’interrogativo che solleva riguarda la effettiva
utilità di un unico incontro in ragione della “portata” dell’obbiettivo. In tal senso ricordiamo
come l’esperienza citata del Tribunale di Genova riservi all’ascolto del minore un certo
numero di sedute, delineando così un percorso di ascolto.
Queste, sinteticamente, le difficoltà che abbiamo potuto rilevare nell’applicazione di una
norma, che tuttavia, secondo la maggioranza degli interpreti citati, contiene un grande
potenziale innovativo.
Una norma che impone ancora grandi sforzi di riflessione e confronto interprofessionale (tra
avvocati, magistrati, psicologi e operatori delle scienze sociali), per giungere ad un pensiero
condiviso che consenta di costruire una prassi condivisa. Una “buona prassi” che permetta
di ampliare gli spazi di incontro e ascolto del minore, sempre più inteso come persona
portatrice di un pensiero (e non di una responsabilità decisionale) in ogni “procedura
giudiziaria o amministrativa che lo concerne” (New York, cit.); un minore titolare di diritti
e quindi interlocutore dinanzi all’autorità giudiziaria.
______
32
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APPENDICE
I
Le interviste che seguono sono state rilasciate :
dal Giudice Dott. Pier Giorgio ALGOSTINO, Presidente della VII Sezione civile (Sezione
Famiglia) del Tribunale di Torino; dagli Avvocati del Foro di Torino: Giovanni DIONISIO,
Antonina SCOLARO, Paola TOSO e dall’Avvocato Francesca PIGNATELLI, del Foro di
Pinerolo.
Le interviste sono state realizzate secondo la traccia allegata nella pagina seguente .
II
La legge 8 febbraio 2006, n.54 dispone l’ascolto del figlio minore nei procedimenti di
separazione fra i coniugi.
Le domande che seguono hanno lo scopo di verificare se e in che modo tale norma é stata
recepita ed applicata nella prassi giudiziaria .
-
In che misura viene praticato l’ascolto del minore ?
-
Come viene intesa l’obbligatorietà dell’ascolto ?
-
L’audizione é un “mezzo di prova” o é volta alla raccolta di elementi di valutazione
dei bisogni del minore ?
-
Quale tipo di ascolto viene praticato (diretto o indiretto) ?
-
In quale fase processuale (presidenziale o istruttoria) viene solitamente disposta
l’audizione ?
-
Quali sono le modalità di verbalizzazione e quale il contenuto ?
-
Il minore viene preparato al colloquio ? Se sì: da chi ?
-
Il minore viene informato dell’uso che verrà fatto delle sue dichiarazioni ? Se sì:
quando e da chi ?
-
Nel caso in cui gli avvocati e le parti non presenzino al colloquio, come viene
rispettato il principio del contraddittorio ?
-
Nell’attuazione dell’ascolto del minore si fa riferimento a modalità condivise dalla
comunità professionale, ad esempio attraverso l’utilizzo di linee guida o Protocolli
appositamente elaborati ?
-
Nell’ipotesi in cui l’ascolto del minore trovasse scarsa attuazione nella prassi
giudiziaria, quali potrebbero esserne le ragioni ?
III
INTERVISTA AL DOTT. PIER GIORGIO ALGOSTINO – PRESIDENTE DELLA
SETTIMA SEZIONE CIVILE DEL TRIBUNALE DI TORINO – 16.04.2010
L’ascolto del minore ai sensi dell’art. 155 sexies della L. 54/2006 è poco utilizzato nella
prassi. L’interpretazione letterale della norma. “il giudice dispone....” significa “il giudice
fa...”; quindi è un obbligo, ma é un obbligo abbastanza disatteso, con una motivazione
implicita: se non é strettamente necessario, l’ascolto del minore può essere non positivo.
Quindi, o l’ascolto è finalizzato alla sua tutela, o non serve.
Lo scopo del legislatore non é stato, io credo, quello di avere un mezzo di prova in più, ma
un provvedimento che soddisfi il più possibile le esigenze del minore.
Allora è importante che venga ascoltato, se necessario.
Se si tratta, ad esempio, di una separazione consensuale in cui vi è il pieno accordo tra i
coniugi sull’affidamento, la gestione, ecc., oppure se si tratta di una giudiziale in cui le
richieste riguardo all’affidamento convergono, é il caso che vada a disturbare il bambino,
ponendolo di fronte a questa presenza adulta, in un contesto come quello del tribunale ? Io
penso di no.
Quindi, quando é necessario, l’ascolto si realizza, ma raramente avviene da parte del
giudice.
Qui da noi le cose vanno di solito in questo modo:
prima dell’udienza presidenziale, quando viene iscritto il ricorso, i nostri fascicoli passano
tutti al vaglio del Servizio sociale che ha un ufficio presso il tribunale e fa da trait-d’-union
fra noi e i Servizi territoriali (del comune o della provincia: le cosiddette sedi distaccate)
Con questo primo vaglio del fascicolo, se il tenore del ricorso lo suggerisce o se la
situazione é già conosciuta al Servizio (controllano il nome del minore e verificano) si
chiede una relazione.
Il Servizio relaziona sentendo il minore, i genitori, gli insegnanti, e facendo la visita
domiciliare. Questo secondo me é un ascolto più protetto rispetto al contesto giudiziario.
I Servizi sociali lavorano bene, come pure l’NPI. Il minore in età di audizione dai dodici
anni in su, adolescente, viene sentito in NPI, da uno psicologo, con tutte le cautele e quindi
abbiamo uno spettro della situazione del minore per poter decidere sull’affidamento.
Quando siamo in una situazione conflittuale in cui il minore é coinvolto, é vittima, l’ascolto
avviene tramite una delega e siamo nell’ipotesi di CTU psicologica.
IV
Ove tutto questo non sia avvenuto, capita che il minore lo sentiamo noi giudici. I giudici
istruttori abbastanza poco, perché se é necessario approfondire, ricorrono alla CTU.
Il numero delle audizioni é di circa tre al mese su centoventi ricorsi. Quindi un due per
cento circa. Proprio poche.
L’audizione, che non é acquisizione di “mezzi di prova”, avviene senza la presenza delle
parti: vi é il minore, il giudice e il cancelliere che verbalizza ed é anche una garanzia per le
parti. Al termine dell’audizione il minore esce e si dice agli avvocati quello che è successo,
quindi il contraddittorio viene rispettato in un momento differito.
Idem dicasi per l’audizione fatta dai Servizi, nel senso che le relazioni delle assistenti
sociali arrivano, sono nel fascicolo, gli avocati le leggono prima dell’udienza e quindi
possono fare le loro osservazioni su quello che ha detto il minore, pur non partecipando
all’atto.
Dove potrebbero partecipare é in sede di CTU, ma lì é diverso: normalmente
partecipano attraverso i CTP.
Sulla preparazione del minore prima del colloquio non le so dire. Quando arriva da me io
gli dico qualcosa del tipo: “ Sai perché sei qua ? I tuoi genitori si stanno separando, ti
chiederò qualche cosa per sapere come la pensi....”
Il cancelliere verbalizza sotto mia dettatura. Quando il minore mi dà elementi per capire
come la pensa (ad esempio, sull’assegnazione della casa coniugale) ma mi dice di non voler
essere quello che determina la decisione, io gli garantisco che non metterò a verbale quel
contenuto, per non responsabilizzarlo.
Quindi, in questo caso c’è la garanzia di una forma di riservatezza, ma una spiegazione
precisa all’inizio dell’incontro sul fatto che ciò che dirà verrà riferito, del tutto o in parte,
agli avvocati, un vero e proprio avvertimento sulla verbalizzazione, una lettura insieme del
verbale non mi é mai capitato di farlo, forse perché non ne ho avuta l’occasione.
Comunque, nei casi più complessi il giudice preferisce la delega a personale più qualificato.
Io ritengo che il giudice non abbia gli strumenti per fare queste cose. Nel nostro curriculum
la psicologia non esiste, e l’esperienza ce la facciamo sul campo.
Io penso anche che il giudice non deve mettersi in
un determinato atteggiamento di
“complicità”, di “solidarietà” col minore, perché ha un altro ruolo.
V
Come giudice cerco di farlo al meglio, ma l’ascolto del minore può avere dei rischi per il
giudice, per la sua impreparazione e per il ruolo che svolge.
A Torino non abbiamo nessun Protocollo, perché ne facciamo molto pochi, come ho detto,
poiché l’ottica é quella della minore interferenza nella vita dl minore.
Non viene praticato neppure l’ascolto attraverso l’ausiliario ex art. 68 c.p.c.. Io sono qui
dall’ottobre 2007, ed ho trovato la situazione che le ho descritto.
La cosa più simile che noi facciamo é la delega alla NPI, dove il minore viene sentito dallo
psicologo e a noi arriva una relazione che ci dà già qualche indicazione su di lui e sulla sua
relazione con i genitori.
____
VI
INTERVISTA ALL’AVV. GIOVANNI DIONISIO – 01.04.2010
Alla luce dell’esperienza dello Studio Legale, l’ascolto previsto dalla L. 54/2006 è
scarsamente applicato, sia nei contenziosi di separazione personale fra coniugi, sia nei
contenziosi fra i genitori non coniugati davanti al Tribunale per i minori.
I timori di alcuni e i dubbi di altri si sono concretizzati in una scarsissima applicazione
dell’ascolto diretto da parte del giudice.
Anche presso il Tribunale per i minori è raro che ci sia un ascolto diretto da parte del
giudice onorario.
L’ascolto diventa meno raro nei casi in cui il minore supera i 12 anni e ciò perché per gli
infradodicenni vi è il problema della “capacità di discernimento” e si ritiene in tal caso
preferibile delegare il monitoraggio ai Servizi territoriali competenti o ad un CTU.
Pertanto, l’ascolto diretto è scarsamente praticato e viene superato dall’ascolto attraverso
procedure diverse: il ricorso a professionisti incaricati dal giudice (CTU) o la richiesta di
relazioni ai Servizi territoriali competenti, che vanno a dare una prima fotografia della
realtà familiare che poi, spesso, viene approfondita tramite la CTU.
E’ più facile che il giudice passi attraverso consulenti, anche perché tale strumento consente
un esame a 360 gradi della situazione familiare, in tempi moderatamente rapidi.
Nel caso di minori preadolescenti o adolescenti a volte il giudice vuole sapere direttamente
qual é la loro opinione, la loro volontà, il loro sentire nei confronti dei genitori, prima di
assumere una decisione, ma percentualmente il numero di audizioni é molto modesto.
E’ quindi una norma poco applicata e sostanzialmente “svuotata” di significato. A mio
parere, se la CTU é lo strumento che consente un monitoraggio dell’intero nucleo, delle
dinamiche tra i genitori, tra il minore e i familiari; ascoltare direttamente il minore,
soprattutto in fase pre o adolescenziale, potrebbe essere utile a completare il lavoro, dando
così la possibilità al giudice di avere un quadro esaustivo della situazione, e poter pertanto
assumere provvedimenti ancor più pensati. Un problema che mi sono posto riguarda il
rischio di caricare di responsabilità il minore, che nell’audizione può avere l’impressione di
poter essere l’”ago della bilancia” degli equilibri familiari, con conseguenze dannose, anche
solo potenziali, non irrilevanti.
VI
Secondo me questo pericolo, insieme alla necessità di acquisire tramite i citati strumenti
informazioni più complete sulle dinamiche familiari, é la ragione principale per cui la
norma sull’ascolto del minore è scarsamente applicata dai giudici.
Operativamente, quando il giudice dispone un ascolto diretto, il minore viene ascoltato da
solo, nell’ufficio del giudice. Genitori e avvocati non presenziano ed entrano per la
prosecuzione dell’udienza solo a colloquio concluso, senza la presenza del minore.
Le dichiarazioni del minore vengono o sintetizzate o omesse, riferendo oralmente il giudice
alle parti.
Se è comprensibile la valutazione di opportunità di non lasciare traccia scritta di eventuali
dichiarazioni “forti” del minore, soprattutto in casi in cui la conflittualità tra i genitori è
accesa, mi chiedo se tale modalità non sia, anche solo in astratto, lesiva del diritto delle
parti di svolgere difese sul tema.
E’ raro che l’ascolto avvenga in udienza presidenziale.
Non raramente, nei casi più delicati, il presidente dispone CTU psicologica, rimettendone la
valutazione al giudice istruttore.
In sintesi: l’ascolto previsto dalla L.54/2006 è una norma inapplicata. Tuttavia, rispetto
all’obbligatirietà dell’ascolto, a mio parere, la violazione della norma risponde
paradossalmente all’interesse del minore, in quanto è di certo preferibile, vista la materia
trattata, una valutazione discrezionale del giudice, sentite le posizioni delle parti, più che
una rigida ma poco efficace applicazione della norma stessa.
VII
INTERVISTA ALL’AVV. ANTONINA SCOLARO – PRESIDENTE AIAF PIEMONTE
E VALLE D’AOSTA – RESPONSABILE COMMISSIONE FORMAZIONE AIAF 12.04.2010
Sulla obbligatorietà dell’audizione prevista dall’art. 155 sexies introdotto dall’art. 1 della
legge 54/2006 non vi é accordo.
Molte volte viene formulata la richiesta di ascoltare i minori, ma non viene presa in
considerazione. Chi é più attento alla obbligatorietà é la Procura minorile.
Tecnicamente dovrebbe essere a pena di nullità il mancato ascolto, in quanto lo prevedono
le Convenzioni internazionali, e l’Italia le ha ratificate.
L’audizione non é un “mezzo di prova”, ma ha la funzione di acquisire di “elementi di
valutazione”: é uno strumento che dovrebbe arricchire il giudice di elementi conoscitivi
per poter adottare il migliore provvedimento nell’interesse del minore, tanto che al minore
non dovrebbero essere formulate domande dirette del tipo: “Dimmi con chi vuoi stare,
dimmi che cosa vuoi fare,ecc. “.
La Convenzione di New York é molto chiara: parla di opinione del minore, e questo non
rientra nei “mezzi di prova”.
Il contraddittorio si attua in un momento successivo all’ascolto, quando si prende atto del
verbale che il giudice ha sintetizzato con le dichiarazioni del minore. Quindi, normalmente
noi avvocati non presenziamo all’audizione.
I giudici difficilmente ascoltano direttamente. E’ più frequente se si tratta di un’età che dia
la possibilità di acquisire informazioni utili (oltre ai 10 – 11 anni). Più spesso vi é la delega
ai Servizi.
L’ascolto in udienza presidenziale mi è capitato due volte, da quando é entrata in vigore la
legge 54/2006. Sono più frequenti le audizioni col giudice istruttore (tribunale ordinario,
per le coppie unite in matrimonio). Al tribunale minorile il minore viene “ascoltato” dai
giudici onorari; ma prevalentemente, sia presso il Tribunale per i Minorenni che presso il
Tribunale Ordinario l’ascolto avviene tramite la CTU, ma é un’altra cosa.
VIII
Quindi l’ascolto é veramente poco praticato.
Normalmente, i giudici onorari sono delegati all’ascolto del minore, perché già presenti
nelle componenti istituzionali del Tribunale per i Minorenni e in grado di fornire assistenza
al bambino che deve essere sentito.
Il Tribunale Ordinario, che non ha figure istituzionali, utilizza in modo improprio i Servizi
sociali (dovremmo aprire un capitolo a parte, ma andremmo troppo fuori tema).
L’ascolto, quando avviene da parte del giudice, si svolge nella sua stanza, a volte c’è il
cancelliere che verbalizza, e il verbale é una sintesi. Gli avvocati stanno fuori.
La preparazione del minore all’incontro è, secondo me, un grosso problema che riguarda
anche la possibilità di influenzarlo (ad esempio, il fatto di essere accompagnato
all’audizione dal papà o dalla mamma non é indifferente, credo).
Sarebbe forse utile disporre qualche incontro col minore con un professionista, formato
specificamente, che su incarico del tribunale
(tratto da un Albo che potrebbe essere
istituito) sia deputato ad avere uno o più incontri col minore per aiutarlo ad esprimere
esattamente ciò che lui vuole, riconoscendo i condizionamenti che possono derivare da un
genitore o dall’altro.
L’aspetto dell’informazione al minore su ciò che avviene nell’audizione e su che cosa delle
sue dichiarazioni viene comunicato ai genitori è un problema che mi sono posta tante volte,
partendo da una riflessione molto banale: la fiducia e la lealtà.
Allora: perché i giudici molte volte rifiutano questo ascolto? Si rifiuta ciò che non si sa
fare, ciò che imbarazza....
Se fossi io il giudice – mi sono domandata – in che posizione mi sentirei ?
Non
conoscendo il minore, non avendo con lui l’intimità che ha un genitore, come potrei
avvicinarmi ?
Mi sono detta che lo si può avvicinare su questi due principi fondamentali, che dovrebbero
improntare qualsiasi relazione umana: la lealtà e il potersi fidare.
Quindi, il minore si può fidare se dall’altra parte c’è una persona leale che gli dice: “Sappi
che i tuoi genitori saranno informati su ciò che mi dirai.”
Mi chiedo però quanti giudici facciano questo e siano capaci di fare questo.
Riguardo ai Protocolli, il tribunale di Torino non sa che cosa siano.
IX
In sintesi: l’ascolto viene praticato poco, non perché non se ne comprenda l’utilità e
l’opportunità. E’ che non c’è sufficiente formazione da parte di chi dovrebbe praticarlo e
chiarezza sulle modalità, su un Protocollo comportamentale che guidi passo per passo.
Norme di così alta levatura culturale, di adesione ai principi internazionali devono poi
essere arricchite da modalità attuative, in difetto delle quali è come se non fossero state
scritte.
Quella dell’ascolto é una di quelle norme che hanno una funzione pedagogico – educativa,
più che precettiva. Come la norma sull’affidamento congiunto, che era già previsto dalla
legge sul divorzio, ma veniva applicata nell’uno per mille dei casi,
perchè si trattava di
una norma troppo avanzata rispetto al sentire sociale.
Così l’ascolto: dovrebbe essere un automatismo (vista la capacità di discernimento), invece
non é così.
________
X
INTERVISTA ALL’AVV. FRANCA TOSO - 11.05.2010
L’obbligatorietà dell’ascolto del minore, nella mia esperienza, viene inteso come
valutazione da parte del giudice dell’opportunità di procedere all’ascolto stesso.
D‘altro canto, se l’ascolto viene disposto nell’interesse del minore, è necessario valutare
quando ciò risponde realmente al suo interesse.
Ad esempio, se c’è l’accordo fra i genitori, in assenza di altri parametri ( sofferenza del
minore, condizioni genitoriali particolari, ecc…) che lascino margine di dubbio sulla bontà
della soluzione adottata dai genitori, sentire il minore sarebbe, secondo me, contrario al suo
interesse.
L’ascolto del minore davanti al giudice prima e dopo la legge 54 è percentualmente basso.
Io non ho esperienza di audizione del minore davanti al presidente: quando viene disposto,
l’ascolto avviene davanti al giudice istruttore.
Si tratta, nella mia esperienza, di minori di una certa fascia di età: dai 14 anni in su, o
addirittura vicini alla maggiore età (16 – 17 anni).
Se per ”ascolto del minore”, invece, si intende il fatto che, nel corso di separazioni
giudiziali, il giudice provvede con strumenti istruttori adeguati a fare pervenire nel
fascicolo la voce del minore, questo avviene in un numero elevato di casi.
Il tramite sono i Servizi Sociali, la NPI, oppure lo strumento principe, la CTU. Quindi,
molte volte, la voce del minore giunge nel fascicolo, ma la forma dell’audizione diretta è la
meno usata. La ragione, secondo me, è che é veramente difficile ricavare le informazioni
“giuste”, ovvero informazioni che servano veramente al giudice.
L’audizione, che non é un “mezzo di prova”, é volta a raccogliere i bisogni del minore, ma
questo é un concetto molto delicato: come può una persona (il giudice) che ha una
formazione giuridica, valutare i bisogni del minore dalle sole dichiarazioni rese dal minore
in udienza ? Semplicemente, non ha gli strumenti e avrebbe comunque bisogno di un
supporto tecnico per valutare le affermazioni del minore.
XI
Nella prassi, quando si verifica l’ascolto diretto del giudice, io ho sempre accettato di non
presenziare all’incontro, allontanandomi dalla stanza per eliminare il condizionamento più
palese, quello determinato dalla presenza fisica delle parti ( che sono i genitori del minore)o
degli avvocati.
Quando il minore esce, gli avvocati e le parti entrano e il giudice illustra brevemente ciò
che ha chiesto al minore e le sue risposte. Si tratta di una sintesi del colloquio. E’ un modo
per rispettare il contraddittorio, anche se é chiaro che il contraddittorio effettivo non lo si fa
con la lettura degli atti.
La preparazione del minore al colloquio non é organizzata: io dico al mio cliente di
spiegare, con buon senso, al minore che cosa andrà a fare in tribunale. Le informazioni sul
colloquio vengono date al minore dal giudice, durante il colloquio stesso.
Nella prassi esistono delle modalità condivise dalla comunità professionale, ma non sono
codificate.
Si tratta di “buone prassi” elaborate negli anni con la collaborazione di professionalità
diverse.
Quindi: l’ascolto “diretto” del giudice é scarsamente praticato.
La ragione principale, a mio avviso, sta nel fatto che non vi é molta chiarezza sulle finalità
di questo tipo di ascolto. Ovvero: che cosa se ne può fare il giudice delle dichiarazioni di
un ragazzino, posto che non sono prova, ma sono una fonte di informazione ?
La mia opinione é che al giudice servono informazioni che provengono da una fonte
qualificata
Allora: potrebbe essere utile la presenza di un ausiliare psicologo nell’audizione ? A mio
avviso, non risolverebbe il problema perché decifrare i bisogni del minore richiede un
intervento più complesso, che non può esaurirsi nel tempo di un’udienza.
Inoltre, la eventuale presenza di uno psicologo che decripta le dichiarazioni del minore
come si concilia col rispetto del contraddittorio ?
L’unico modo in cui viene rispettato il contraddittorio effettivo è con al CTU, in cui le
parti sono presenti con i CTP, che hanno un ruolo molto importante, a mio avviso, poiché la
consulenza, se ben condotta, può aiutare la persona a vedere ciò che da sola non vede, a
XII
comprendere che i bisogni del figlio possono non coincidere con quelli da lei individuati,
a comprendere che ciò che intende come bisogno del figlio è, invece, un suo bisogno.
Queste sono cose molto delicate, che vanno condotte in uno spazio temporale apprezzabile.
Una consulenza ben fatta, infine, può anche essere utile (penso a coppie con bambini
piccoli) al giudice che interviene in un tempo successivo e che può trarre dalla consulenza
elementi importanti di comprensione e di valutazione.
_____
XIII
INTERVISTA ALL’AVV. FRANCESCA PIGNATELLI – 14.05.2010
L’ascolto del minore, presso il Tribunale di Pinerolo, sia per quanto attiene alla mia
esperienza, sia per le informazioni raccolte dal Giudice Dottoressa Melania Cafiero, viene
praticato abbastanza frequentemente, approssimativamente nel 10-20% dei casi di
separazione giudiziale con figli minori in età dai 10/ 12 ai 15/16 anni. Per i ragazzi più
piccoli vi è il problema della “capacità di discernimento” richiesto dalla norma di cui
all’art. 155 sexies c.c. e prevalgono le ragioni di cautela; su quelli più grandi di 16 anni
normalmente l’intervento del Tribunale in relazione al regime di visita è di portata più
limitata, e l’audizione risulta sovente superflua.
L’ ascolto viene praticato prevalentemente quando richiesto dalle parti ed il Giudice lo
ritiene opportuno per valutare le modalità di affidamento e di permanenza del minore con i
genitori.
Talvolta viene disposto d’ufficio dal Giudice quando dalle risultanze processuali emergano
elementi di grave contraddittorietà in merito alle presunte volontà del minore.
Generalmente in prima istanza vengono incaricati i Servizi Sociali o il CTU affinché
riferiscano della volontà del minore e relazionino in merito alla migliore regolamentazione
dei rapporti tra i genitori ed il minore e l’ascolto diretto da parte del Giudice viene disposto
solo successivamente, qualora le risultanze in merito alla volontà del minore non siano
chiare o siano contraddittorie.
L’audizione del minore è esclusivamente volta alla raccolta di elementi di valutazione dei
bisogni del minore e viene disposta prevalentemente in sede istruttoria.
Il Giudice incontra il minore nella sua stanza, da solo (senza genitori e avvocati), si siede
accanto a lui, e lo informa in modo colloquiale del le circostanze che hanno reso opportuna
la sua audizione.
Gli fa presente che quello che verrà detto, se rilevante ai fini del giudizio, potrà essere
utilizzato nella motivazione della sentenza, verrà verbalizzato e portato a conoscenza dei
genitori e dei loro avvocati. Non vi è pertanto spazio per dichiarazioni “riservate”.
XIV
Poiché la verbalizzazione avviene in modo sintetico, alla fine del colloquio, può accadere
che il Giudice ometta le affermazioni e le valutazioni rese dal minore che non abbiano
particolare rilievo per il giudizio.
Il minore non viene preparato al colloquio in senso tecnico. E’ probabile che i genitori,
consapevoli del fatto che il minore verrà sentito dal Giudice, in qualche modo lo informino.
Il contenuto del colloquio viene portato a conoscenza dei difensori e delle parti, mediante
lettura del verbale dopo il rientro in aula.
Non vengono utilizzati protocolli o linee guida per l’audizione del minore in questo ambito,
tuttavia vi è un frequente scambio di esperienze e di opinioni tra colleghi avvocati e tra
magistrati che si occupano di queste procedure.
L’ascolto del minore trova in genere scarsa attuazione nella prassi giudiziaria in quanto
tutti gli operatori cercano di evitare, quanto più possibile, il coinvolgimento del minore nel
conflitto giudiziale tra i genitori.
E’ opinione diffusa che l’audizione del minore generi quasi inevitabilmente l’esercizio di
pressioni, anche inconsapevoli, da parte dei genitori. La dichiarazione diventa quindi spesso
di scarsa utilità perché non libera, condizionata da aspettative e timori di “ritorsioni”, priva
di spontaneità . Risulta dunque più importante indagare le ragioni psicologiche dei desideri
e dei bisogni del minore, che non limitarsi a registrare, mediante l’audizione diretta dal
parte del giudice, manifestazioni di volontà che spesso possono essere meglio espresse
all’assistente sociale o allo psicologo incaricato dal Tribunale, e più approfonditamente
essere riportate agli atti nelle relazioni rese al giudice istruttore.