Protestantesimo: fedeli a Dio e giusti verso gli esseri
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Protestantesimo: fedeli a Dio e giusti verso gli esseri
Protestantesimo: fedeli a Dio e giusti verso gli esseri umani di Luca Baratto in “Confronti” - mensile di fede politca e vita quotidiana – del settembre 2014 Se si scorrono gli atti dei Sinodi delle chiese metodiste e valdesi italiane degli ultimi anni, ci si accorge facilmente che la riflessione sulla famiglia – o meglio sulle famiglie, al plurale, per anticipare un elemento costitutivo del dibattito – è tornata di stretta attualità. A riaprire l’argomento è certamente la questione delle coppie omoaffettive e la decisione dello stesso Sinodo, nel 2010, di permetterne la benedizione nel contesto di quelle chiese locali che abbiano raggiunto al loro interno «un consenso maturo e rispettoso delle diverse posizioni». Proprio questa decisione sinodale ha reso evidente come ormai non si possa parlare più di famiglia al singolare, né nella società né nella chiesa, ma di famiglie al plurale, sia omosessuali che eterosessuali. Per questo nel 2011 è stata istituita un’apposita commissione il cui lavoro è ancora in corso. Negli stessi anni, anche la Chiesa evangelica luterana in Italia ha riflettuto sui medesimi argomenti producendo, nel 2011, un ampio documento sulle «comunioni di vita» che il sinodo luterano ha approvato in vista della benedizione di coppie sia omo che eterosessuali. Se poi si passa dal contesto italiano a quello internazionale e a quello ecumenico – limitandoci, in questo secondo caso, a quegli organismi in cui sono presenti anche le chiese protestanti storiche, cioè quelle che hanno un diretto legame con la Riforma del XVI secolo – il dibattito non fa che ampliarsi. Per fare solo due esempi: 1) lo scorso anno la Conferenza metodista britannica ha posto ufficialmente la domanda se, in relazione alle novità giuridiche che nel Regno Unito permettono le unioni omosessuali, la chiesa non debba modificare la sua tradizionale concezione di matrimonio, oggi limitata all’unione di un uomo e una donna; 2) nel 2012 la Commissione Chiesa e società della Conferenza delle chiese europee – un organismo continentale che raccoglie chiese anglicane, ortodosse, protestanti e veterocattoliche – ha prodotto un documento di studio sulle politiche europee della famiglia, dove il concetto di famiglie al plurale è il presupposto di ogni altra affermazione. Questa breve panoramica mette in evidenza alcuni elementi che accompagnano la riflessione delle Chiese protestanti. Il primo è l’attualità dell’argomento: ovunque, in Italia e nel mondo, le Chiese nate dalla Riforma discutono, come in realtà è sempre avvenuto dal 1500 ad oggi, di famiglia/famiglie. Questo per smentire l’impressione, talvolta veicolata dal mondo dell’informazione, secondo cui la famiglia stia a cuore solo a chi ne difende un modello tradizionale. Non è così. Il secondo elemento, è il fatto che le attuali discussioni ripropongono le stesse modalità di analisi e riflessione dalla Riforma del XVI secolo. Primo fra tutti, l’atteggiamento di dialogo e ascolto critico con la società e le sue istanze, senza sentire di dover difendere una specifica idea di famiglia. La Riforma del XVI secolo I Riformatori furono autori di una robusta rivalutazione dell’istituzione familiare ispirata ad un principio che potremmo descrivere così: «fedeli a Dio e giusti verso gli esseri umani». Si tratta di uno «slogan» che nessuno dei Riformatori ha mai esplicitamente affermato e che mi sono preso la libertà di desumere da una frase polemica di Giovanni Calvino che accusava le leggi ecclesiastiche sul matrimonio di essere «per un verso cattive nei confronti di Dio e per l’altro ingiuste nei riguardi degli uomini» (Istituzione della religione cristiana, IV, XIX 37; ed. it, Torino, Utet, 19832, vol. II, pag. 1710). Fedeli a Dio significa prima di tutto dare grande attenzione a ciò che la Bibbia afferma – o non afferma, com’è il caso del celibato ecclesiastico il cui obbligo i Riformatori contestarono aspramente. E significa, soprattutto, ricollocare il matrimonio e la famiglia nell’ambito che è loro proprio: non quello ecclesiastico della sacramentalità, ma quello umano della creaturalità. Il testo fondativo di Genesi 2:24 – «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne» – compare nel contesto dei racconti della creazione e in esso deve rimanere, come espressione di un dono offerto da Dio a ogni essere umano, cristiano o meno che sia. Come scriveva Lutero ne La cattività babilonese della chiesa (1520): «Il matrimonio è esistito fin dall’inizio del mondo e ancora perdura presso gli infedeli, non ci sono ragioni perché lo si possa chiamare un sacramento della nuova legge e della sola chiesa. I matrimoni dei padri non erano meno santi dei nostri, né quelli degli infedeli sono meno veri di quelli dei fedeli». In effetti, la Riforma protestante può essere descritta come la proposta teologica e spirituale di un cristianesimo che si riappropria della vita secolare e in essa vive la sua vocazione e testimonianza di fede. La «de-sacramentalizzazione» del matrimonio è un passo importante di questa proposta che intende spostare l’attenzione dalla chiesa e dal monastero alla città; e, nella città, alla famiglia come suo primo nucleo sociale, per fare di quest’ultima il luogo privilegiato della vocazione cristiana. Scriveva Calvino nella sua Istituzione della religione cristiana: «Cosa bellissima abbandonare i propri beni per essere libero da ogni sollecitudine terrena, Dio però apprezza maggiormente la condizione di un uomo che, libero da ogni spirito di avarizia, ambizioni, concupiscenza carnale, abbia cura di governare rettamente e santamente la sua famiglia ponendosi quale meta il servire Dio in una giusta vocazione da lui approvata». Qui nasce il nesso tra vocazione ed etica del lavoro, e qui anche si consolida l’idea di famiglia come luogo di vocazione e condivisione, in cui il primato spetta non alle leggi ecclesiastiche, ma alla coscienza cristiana illuminata dall’evangelo. La famiglia Lutero Il protestantesimo, allora come oggi, non ha inteso definire e difendere un immutabile modello di famiglia, quanto affermarne il valore di luogo privilegiato in cui vivere la testimonianza e la vocazione cristiana. Per i Riformatori fu la riscoperta di una ricchezza che alcuni di loro non solo teorizzarono ma vissero concretamente nella loro esperienza di mariti e padri. Lutero, che si sposò in tarda età con Katharina von Bora, appare nelle sue lettere conquistato dalla dimensione familiare nella quale si impara a declinare l’amore in molti modi, a partire da quello per i figli: «Figlio, che cosa mai hai fatto perché io debba amarti tanto? Eppure hai sporcato ogni angolo e strillato per tutta casa...» (le citazioni di Lutero sono tratte dal libro di Roland H. Bainton Le donne della Riforma, vol. I, ed. Claudiana). Si coniuga l’amore con la responsabilità: «Il matrimonio, meglio di ogni altra condizione, favorisce le buone opere perché si fonda sull’amore: amore tra marito e moglie, amore dei genitori per i figli che essi nutrono, vestono, curano ed educano. Se un bimbo si ammala, i genitori si preoccupano, se si ammala il marito la moglie si preoccupa come se stesse male lei stessa». Si impara ad affrontare insieme i momenti difficili: «Non c’è niente di più dolce dell’armonia di una coppia e nulla di più angoscioso del suo disaccordo». Ecco allora che anche al grande teologo impegnato nella mischia delle controversie del suo tempo, la vita matrimoniale appare come una vocazione alla quale dedicarsi con tutto se stesso, di cui accettare con impegno e con riconoscenza le incombenze, e in cui poter gustare per grazia di Dio la pace nella pena, il piacere nel dispiacere, la gioia nell’afflizione. Una continuità di pensiero Questo excursus storico ci permette di affermare che – sebbene dal XVI al XXI secolo il modo di essere famiglia sia cambiato molto, tanto che lo stesso Lutero probabilmente non vi si riconoscerebbe – c’è sostanziale continuità tra il pensiero dei Riformatori e il modo in cui oggi le chiese protestanti affrontano le questioni legate alla famiglia. Le «aperture» alle nuove famiglie, dalle convivenze alle coppie omoaffettive, non sono un cedimento rispetto alle debolezze della modernità, bensì un rimanere fedeli a un approccio che intende essere fedele a Dio e giusto verso gli esseri umani, e a una concezione della famiglia non basata sulla difesa giuridica di una istituzione, ma sulla ricerca di un modo evangelico di vivere una condizione che coinvolge l’intera società. Significativo – e conclusivo, per quel che riguarda questo articolo – è quanto scrive in un proprio documento la Commissione del Sinodo valdese sulle nuove famiglie: «Per il protestantesimo, i nuovi modelli e le nuove forme familiari (single con o senza figli, separati e divorziati, famiglie ricomposte, convivenze e aggregazioni di tipo familiare) non costituiscono un problema ma sono semmai una ricchezza per articolare una riflessione sempre rinnovata e feconda sulla vocazione dei credenti, a partire dalle unioni attraverso cui si testimonia l’Evangelo nella società. Occorre continuare a vivere tutte le forme di famiglia in modo cristiano, senza però “cristianizzarle” ma mantenendo quella distanza critica che consente di relativizzare ogni modello di famiglia. Nel pensiero riformato, ogni ambito di vita è un luogo in cui si esprime la propria vocazione. All’interno della ricerca multiforme di relazioni coniugali e familiari, il credente trova uno degli spazi privilegiati di espressione della fede e dell’amore conosciuti in Cristo» (www.chiesavaldese.org/documents/comunicato_famiglie.pdf).