Alcune riflessioni critiche sulla definizione di atteggiamento nei

Transcript

Alcune riflessioni critiche sulla definizione di atteggiamento nei
Alcune riflessioni critiche sulla definizione di atteggiamento nei confronti della
matematica.
Pietro Di Martino – Dipartimento di Matematica, Pisa
e-mail: [email protected]
È sempre più presente nelle valutazioni degli insegnanti di matematica e nelle parole
degli studenti di ogni livello scolastico il riferimento a considerazioni affettive. D’altra
parte anche se gli studi sui cosiddetti fattori affettivi (emozioni, convinzioni,
atteggiamenti) sono rimasti a lungo al margine della ricerca, gli organi preposti alle
stesure dei curricula e degli obbiettivi formativi della matematica ne hanno spesso
sottolineato il ruolo. Questo è vero anche fuori dai confini nazionali, per esempio negli
Stati Uniti: “Gli ultimi tentativi di riformare i curricula matematici danno speciale
importanza al ruolo dei fattori affettivi. Il Consiglio Nazionale degli Insegnanti di
Matematica ha riaffermato la centralità di obbiettivi affettivi (…) Similmente, il report
del Consiglio Nazionale della Ricerca sul futuro dell’educazione enfatizza la necessità
di cambiare le convinzioni e gli atteggiamenti nei confronti della matematica.”
(McLeod, 1992, p.575-576)
A questo punto sono necessarie due considerazioni:
1. Sono convinto che un’educazione matematica che dia risalto non solo agli aspetti
cognitivi, ma comprenda anche quelli metacognitivi e affettivi, sia più completa ed
efficace. Per usare le parole di Schoenfeld (1988), bisogna superare la convinzione
che “il buon insegnante è uno che ha 10 modi differenti di dire la stessa cosa; e che
presto o tardi lo studente sia sicuro di assimilarla.” (p.148) Tra l’altro l’efficacia di
quella che ho chiamato un’educazione completa è testimoniata, per esempio, dai
risultati di due corsi di recupero sperimentali tenuti a Pisa al corso di laurea in
Scienze Biologiche e ad un liceo pedagogico (Zan 1996a, 1996b, 2000).
2. Il divario tra la ricerca sui fattori affettivi, poco sviluppata e in cui non c’è ancora
condivisione sulla terminologia usata (Di Martino & Zan, 2001), e l’enfasi data agli
obbiettivi affettivi dagli organi competenti, può generare confusione e provocare
scelte dannose. Illuminante mi sembra questa frase di Neale (1969), che commenta
la richiesta di favorire un atteggiamento positivo nei confronti della matematica negli
studenti: “Implicita in tale raccomandazione è una convinzione che qualcosa
chiamata atteggiamento giochi un ruolo cruciale nell’apprendimento della
matematica.” (p.631)
Entrambe le considerazioni sottolineano l’importanza e la necessità di riflessioni
teoriche sui fattori affettivi. Proprio a commento dei risultati soddisfacenti del corso di
recupero svolto all’Università, Zan (1996a) cita la seguente osservazione di Brown et
altri (1983): “Se l’intervento ha successo, possono essere fatti degli ulteriori studi per
scoprire le componenti responsabili del risultato. Tale ricerca è teoricamente
necessaria.” (p. 80) E tra le variabili in gioco in questo intervento di recupero ci sono
anche quelle affettive.
Considerazioni teoriche sui fattori affettivi sono dunque molto importanti e
particolarmente legate ai temi di questi Internuclei. Infatti possono mettere in crisi
alcune concezioni dell’insegnante sul modo di favorire un atteggiamento positivo della
matematica, proprio a partire da considerazioni epistemologiche sulla nostra disciplina.
Ma soprattutto i fattori affettivi sono uno strumento molto utile per interpretare
comportamenti che possono sembrare senza senso dei nostri studenti. Spesso ci
troviamo di fronte a tali situazioni anche con studenti a cui non sembrano mancare le
conoscenze. Cobb (1986) parla di “storie d’orrore delle cose apparentemente senza
senso che gli studenti di tutti i livelli fanno quando tentano di risolvere problemi
matematici. In questa casistica ci sono esempi di studenti con concetti relativamente
sofisticati, che usano metodi primitivi e di basso livello in certe situazioni.” (p.2)
Famoso, a questo proposito, è l’esempio (fatto dallo stesso Cobb, 1985) di Scenetra,
una bambina di seconda elementare che viene messa di fronte a due espressioni di
questo tipo:
34+9=43 34+11=
La bambina trova il risultato della seconda addizione mettendo in colonna i due numeri
e eseguendo correttamente l’algoritmo. Quando la maestra chiede se può usare il
risultato della prima somma per risolvere la seconda, Scenetra risponde di no
rimanendo visibilmente sconcertata dalla domanda.
Su esempi simili Baroody, Ginsburg & Waxman (1983) commentano così: “Questo
non implica che il principio non sia conosciuto. Per esempio alcuni bambini avrebbero
potuto rinunciare ad accorciare i conti perché sentivano che stavano barando.”
(p.168)
Sono in definitiva d’accordo con Cobb (1986) quando conclude: “Questi e numerosi
altri esempi indicano che comportamenti degli studenti apparentemente bizzarri molto
spesso non possono essere spiegati in termini di difficoltà concettuali. Per usare una
frase di Schoenfeld c’è bisogno di andare oltre il puramente cognitivo.” (p.2)
Tra i fattori affettivi - emozioni, convinzioni ed atteggiamenti - sicuramente
quest’ultimo è quello che ha maggior risalto sui documenti “ufficiali” e sul significato
del quale tutti, tranne i ricercatori, concordano (Di Martino & Zan, 2001).
Nella varietà delle definizioni di atteggiamento usate nella ricerca ne possiamo
identificare due su cui la maggior parte dei ricercatori si divide:
1. La prima vede l’atteggiamento come una semplice disposizione emozionale
associata all’oggetto e di una certa stabilità nel tempo (McLeod, 1992).
2. La seconda, più articolata, vede l’atteggiamento come la composizione di
emozioni e convinzioni suscitate dall’oggetto nell’individuo: dalla loro interazione
nasce una predisposizione ad un certo comportamento nei confronti dell’oggetto
(Hart, 1989).
Invece, come ricorda Hannula (2001), “la nozione comune di atteggiamento si riferisce
ad un semplice mi piace/non mi piace nei confronti di un oggetto familiare. Insegnanti
e gente comune spesso assumono implicitamente che l’atteggiamento sia uno dei
principali fattori di motivazione, scelta di corsi futuri e risultati di apprendimento.”
(p.2) Quindi si avvicina molto alla prima definizione di atteggiamento citata.
Per questo mi concentrerò su questa definizione di atteggiamento, descrivendo le
conseguenze che tale scelta ha a livello di ricerca, in particolare come si tenta di
riconoscere un atteggiamento positivo, e a livello didattico, ovvero quali implicazioni
comporta nelle scelte degli insegnanti volte a favorire la formazione di un
atteggiamento positivo nei confronti della matematica.
La definizione semplice di atteggiamento deve gran parte del suo successo non solo
alla vicinanza con il significato comunemente associato alla parola atteggiamento, ma
anche al fatto che permette di misurare tale costrutto che assume caratteristiche
descrivibili con un numero intero. È infatti chiaro che la risposta da una domanda del
tipo mi piace/non mi piace darà il ‘segno’, mentre il grado di adesione ad una delle due
posizioni fornisce il modulo. In questo modo si può cercare di stabilire se esiste o
meno una correlazione tra atteggiamento positivo e successo. Per la misurazione di
atteggiamento sono stati approntati molti questionari che prendono generalmente in
considerazione “i costrutti FACILE/DIFFICILE; PIACE/NON PIACE;
UTILE/INUTILE” (Lucock 1987, p.127).
Detto della mia convinzione che un costrutto come l’atteggiamento sia per sua natura
non misurabile (come l’intelligenza), cerco di confrontarmi con questa posizione molto
diffusa, facendo vedere come questi parametri possano essere inadeguati da un punto
di vista “diagnostico”1 e potenzialmente pericolosi per quanto riguarda le scelte degli
insegnanti (Zan, 2001) e istituzionali.
Lucock sostiene la sua scelta a favore di questo tipo di questionari argomentando in
questo modo: “I bambini più bravi in matematica tendono a vedere la matematica
come più facile e utile, e ad essi la matematica piace di più.” (p.131) Deve poi
ammettere però che l’idea che questi bambini hanno di matematica è quella di esercizi
di routine. A parte questa osservazione non da poco (negli esercizi di routine non c’è
nessun fascino, ma solo la necessità di farli bene: è quindi chiaro che gli studenti li
preferiscano facili), mi sembra che da questa ricerca emerga che il vedere la
matematica come facile, utile e piacevole sia una conseguenza del fatto che uno è
bravo e non il viceversa che sarebbe più interessante. Tra l’altro, avevo parlato
dell’interesse per la correlazione tra questa misurazione di atteggiamento positivo e
successo, ma tale correlazione si è dimostrata statisticamente molto debole (Ma &
Kishor, 1998).
Ma discutiamo singolarmente i tre indici usati per misurare l’atteggiamento:
FACILE/DIFFICILE: Se è evidente che i bambini più bravi trovino più facile la
matematica, è molto discutibile che le cose facili contribuiscano alla formazione di un
atteggiamento positivo nei confronti della matematica:
• “Della matematica a me piacciono le divisioni e i problemi; le divisioni mi piacciono
perché secondo me sono semplici e, i problemi perché sono misteriosi.” (Federica
1 Citerò alcuni brani tratti da temi dal titolo “Io e la matematica” fatti da alunni di ogni livello scolastico e frutto di una ricerca del
N.R.D. di Pisa.
5ª elementare)
• “Questa materia mi appassiona e mi piace perché è abbastanza complessa e
bisogna ragionare. Infatti a me piacciono problemi difficili da ragionarci un po’.”
(Arianna 1ª media)
Dalla lettura dei temi dei ragazzi si rafforza la convinzione che ciò che appassiona in
matematica (anche se a volte intimorisce un po’) sono le cose su cui “bisogna
ragionare”.
Ma spesso il ‘bravo’ insegnante (cioè colui che si fa carico anche di considerazioni
affettive) tenta di rendere la vita più facile ai propri studenti per accrescere il loro
senso di auto-efficacia. Questa scelta, in realtà, non incide sul senso di auto-efficacia
dello studente, che percepisce che gli esercizi sono facili (e quindi al limite si ottiene
l’effetto opposto se lo studente comunque non riesce nel compito, Di Martino, 2001).
Inoltre tale scelta manda una serie di messaggi impliciti agli studenti che possono
risultare dannosi (Zan 2001). Significative a tal proposito sono le parole di Zofia
Krygowska (1957), molto attuali nonostante il tempo in cui sono state dette: “Questa
accortezza didattica consiste nella scelta, da parte del professore abile, delle difficoltà
che l’allievo incontrerà sulle vie del ragionamento in modo che l’occasione di
commettere errori sia minima. Certi manuali e certe raccolte ci offrono esempi al
riguardo. Gli esercizi sono raggruppati sistematicamente, dopo che alcuni sono
presentati come esempio, le istruzioni sono talmente suggestive che è difficile, anche
ad un alunno che capisca poco, di commettere un errore. Un simile blocco degli errori
non dà risultati positivi che apparentemente. Quello che è oscuro nel cervello
dell’alunno rimane oscuro benché il segnale errore non si accenda. Questo modo di
procedere dà delle illusioni ai professori e agli alunni e il primo passo sulla via del
verbalismo è compiuto, l’abolizione delle difficoltà non essendo equivalente alla
vittoria riportata sopra di esse.” (p.176)
UTILE/INUTILE: L’assunzione che l’utilità sia legata al piacere di fare matematica è in
primo luogo contestata dal pensiero di molti matematici, presenti e passati.
Ma molti documenti ufficiali sottolineano il risalto che deve avere l’utilità della
matematica, in maniera implicita o esplicita. Per esempio, la riforma dei cicli scolastici
prevede, per quanto riguarda il curriculum matematico, già nel primo biennio di
insegnare ad organizzare una ricerca con metodi statistici, e nel secondo triennio ad
eseguire la stessa ricerca anche applicando le prime nozioni di calcolo delle
probabilità. La cosa interessante, a prescindere dall’accordo o meno con questi
cambiamenti, è che implicano una necessità di legare i contenuti matematici ad aspetti
applicativi (e quindi in qualche modo all’utilità) più di quanto sia stato fatto in passato.
Tanto è vero che gli oppositori a questa riforma sostengono che “si toglie alla
matematica tutto il suo valore astratto e la si riporta a competenze pratiche mentre
questa disciplina è proprio il veicolo dell’astrazione” (Da L’Espresso n.7 Febbraio
2001, p.50).
Ma a tal proposito ancora più significativo mi sembra questo passo di Vinner (2000):
“Viviamo in un mondo matematico, dice il già citato documento dei principi e degli
standard, ogni volta che decidiamo su un acquisto o scegliamo un’assicurazione o
un piano sanitario, ci relazioniamo con ragionamenti matematici…Il livello di
pensiero matematico e problem solving necessario nei luoghi di lavoro è cresciuto
drammaticamente…Le competenze matematiche aprono le porte ad un futuro
produttivo. Una mancanza di competenze matematiche chiude queste porte. Non è il
luogo per discutere compiutamente di quanto siano ingannevoli tali parole. In breve:
non c’è dubbio che la conoscenza matematica sia cruciale per produrre e mantenere i
più importanti aspetti della nostra vita presente. Questo non implica che la
maggioranza delle persone debba conoscere la matematica. Anche l’agricoltura è
cruciale almeno per un aspetto della nostra vita: il mangiare, tuttavia nei paesi
sviluppati, circa l’uno per cento della popolazione sopperisce alle necessità di tutta la
popolazione. Inoltre, se non siete convinti, guardatevi intorno ed esaminate la
conoscenza matematica di professionisti quali medici, avvocati, amministratori
d’azienda e molti altri, per non parlare dei politici e dei giornalisti. Perciò se le parole
precedenti circa la necessità di studiare matematica sono ingannevoli perché i nostri
studenti devono studiarla nonostante tutto? Potreste suggerire che gli studenti credono
in quel messaggio nonostante tutto.” (p.2-3)
Significativa nella sua contraddittorietà è questa frase di una ragazza di prima media:
• “[La matematica] Mi piace perché ci sono sempre cose nuove da scoprire, infatti
non è come l’Italiano che ha gli argomenti che non cambiano mai. Mi piace perché
è utile nel lavoro e nella vita. Non penso che la matematica sia più importante
dell’Italiano, perché se uno non sa scrivere non sa nemmeno spiegarsi.” (Veronica
1ª media)
Se ne desume che:
1. La matematica piace a Veronica più dell’Italiano.
2. La matematica piace a Veronica perché è utile nel lavoro e nella vita.
3. L’Italiano non è meno importante della matematica.
MI PIACE/NON MI PIACE: Qui sta il nodo centrale delle mie osservazioni: nel giudicare
se una persona ha un atteggiamento positivo/negativo nei confronti della matematica,
bisogna prima di tutto verificare se la persona ha un’immagine epistemologicamente
corretta della matematica. Significativi in tal senso mi sembrano questi brani:
“io non so il perché della matematica, perché quello schema, quel
procedimento e non un altro; perché, come dice il mio babbo:- Nell’aritmetica non
si inventa -; io a volte invento e sbaglio; vorrei proprio sapere i motivi, le cause,
perché così mi sembrano tutte regole astratte appiccicate qui e là.” (Luca 1ª
media)
“Della matematica mi piace tutto (…) io vorrei essere tanto una
calcolatrice.” (Sara 5ª elementare)
“A me piace tanto la sottrazione, l’addizione, la moltiplicazione e le
divisioni, ma non mi piacciono i problemi.” (Anna Maria 5ª elementare)
Da un questionario sugli atteggiamenti probabilmente risulterebbe che Luca ha un
atteggiamento negativo nei confronti della matematica, a differenza di Sara e Anna
Maria. A me sembra invece che Luca abbia, almeno apparentemente, il gusto
decisamente matematico di chiedersi il perché delle cose e di volerne creare di nuove,
mentre il piacere delle due bambine pare legato ad una visione della matematica
piuttosto limitata.
La mia convinzione più forte è che l’incoraggiamento allo sviluppo di un atteggiamento
positivo debba essere legato ad una visione della disciplina epistemologicamente
corretta, e non ad una presentazione della stessa secondo le preferenze dei nostri
studenti.
Questa osservazione può sembrare banale, ma non lo è affatto, tanto è vero che
spesso una conseguenza dell’obbiettivo affettivo ‘far piacere la matematica’ è la
decisione degli insegnanti o a livello istituzionale di eliminare dai curricula le
particolarità della matematica che possono causare reazioni emozionali negative (tra
l’altro lo stesso obbiettivo di tentare di evitare reazioni emozionali negative è secondo
me sbagliato: Di Martino, 2001).
In un lavoro del 1984 Suydam si chiede: “Cosa possono fare gli insegnanti per
migliorare l’atteggiamento degli studenti nei confronti della matematica? I risultati della
ricerca forniscono alcune risposte:
Rendere la matematica divertente in modo che i ragazzi sviluppino
percezioni positive della matematica e di loro in relazione alla matematica.
Mostrare che la matematica è utile sia per il lavoro che nella vita di tutti i
giorni.
Adattare l’istruzione all’interesse degli studenti.” (p.12)
Proprio quest’ultima raccomandazione è, secondo me, la più pericolosa. Per esempio
nel caso dell’insegnante della citata Anna Maria porterebbe a non fare problemi.
Questa conclusione, che può sembrare paradossale, è tutt’altro che tale; a livello
universitario ad esempio, c’è una forte tendenza ad eliminare le dimostrazioni dai corsi
di servizio di matematica, per questioni di tempo ma anche perché nessuno le segue,
non interessano gli studenti
Mi chiedo dunque: è la matematica senza dimostrazioni, senza problemi, vera
matematica? La risposta non solo per me è no, ma mi interrogo anche sul senso di
insegnare matematica in questi termini. L’atteggiamento positivo che può (in qualche
caso) scaturire da tali scelte non è, secondo me, nei confronti della matematica, ma di
un’altra materia molto più vicina alla religione, anche qui mi sembrano interessanti le
osservazioni di Luca che non capisce il senso delle regole che deve usare.
In conclusione lo sviluppo del piacere di fare matematica è sicuramente un obbiettivo
formativo importante, ma deve essere una conseguenza delle nostre lezioni e non il
fine ultimo. Deve essere cioè raggiunto attraverso scelte epistemologicamente corrette,
senza l’uso di facili (ma pericolose) scorciatoie.
Bibliografia.
Baroody A.J., Ginsburg H.P. & Waxman B. (1983) Children’s use of mathematical
structure. Journal for Research in Mathematics Education, n.14, p.156-168.
Brown A.L., Bransford J.D., Ferrara R.A., & Campione J.C. (1983) Learning,
remembering, and understanding. In Mussen P.H. (Ed.), Handbook of Child
Psychology (vol.3). Wiley, New York, p.77-166.
Cobb P. (1985) Two Children’s Anticipations, Beliefs, and Motivations, Educational
Studies in Mathematics, n.16, p. 111-126.
Cobb (1986) Contexts, Goals, Beliefs, and Learning Mathematics. For the Learning
of Mathematics, n.6, p.2-9.
Di Martino P. (2001) Emozioni e problem solving: un confronto tra bravi e cattivi
solutori. In: Livorni E., Meloni G. & Pesci A. (a cura di), Le difficoltà in matematica:
da problema di pochi a risorsa per tutti. Atti del Convegno Nazionale n.10 su
Matematica e Difficoltà, Pitagora Editrice, Bologna, p. 89-96.
Di Martino P. & Zan R. (2001) Attitude toward mathematics: some theoretical issues.
Submitted.
Hannula M. (2001) “Maybe i have been, in a way, more...been a bit, sort of,
interested?” A case study of attitude towards mathematics and its change. (Preprint).
Hart L. (1989) Describing the affective domain: saying what we mean. In McLeod,
Adams (Eds.), Affect and Mathematical Problem Solving. New York: Springer
Verlag, p. 37-48.
Krigowska Z. (1957) Sul pericolo del formalismo e del verbalismo nell’insegnamento
dell’algebra. Archimede, n.4-5.
Lucock R. (1987) Children’s attitudes to mathematics: a personal construct approach.
Proceedings of the XI PME, vol.1, p.126-132, Montreal.
Ma X. & Kishor N. (1997) Assessing the relationship between attitude toward
mathematics and achievement in mathematics, a meta-analysis. Journal for Research
in Mathematics Education, vol.28, n.1, p.26-47.
McLeod D.B. (1992) Research on affect in mathematics education: a
reconceptualization. In D.A.Grouws (Ed.) Handbook of research on mathematics
learning and teachin, New York: MacMillan, p.575-596.
Neale D. (1969) The role of attitudes in learning mathematics. The Arithmetic Teacher,
December 1969, p.631-640.
Schoenfeld A. (1988) When good teaching leads to bad results: the disaster of “welltaught” mathematics courses. Educational Psychologist, n.23, vol.2, p.145-166.
Suydam M. (1984) Attitudes toward mathematics. The Arithmetic Teacher, n.32,
p.12.
Vinner S. (2000) Procedures, rituals and man’s search for meaning. Lecture given at
ICME 9. Japan, July 31 - August 6, 2000.
Zan R. (1996a) Un intervento metacognitivo di “recupero” a livello universitario. La
matematica e la sua didattica, n.1, p.65-89.
Zan R. (1996b) Difficoltà d’apprendimento e problem solving: proposte per un’attività
di recupero, L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, vol.198,
n.4, p.311-350.
Zan R. (2000) A metacognitive intervention in mathematics at university level,
International Journal MathematicEducation Science Technology, vol.31, n.1, p.
143-150.
Zan R. (2001) I danni del ‘bravo’ insegnante. In: Livorni E., Meloni G. & Pesci A. (a
cura di), Le difficoltà in matematica: da problema di pochi a risorsa per tutti. Atti
del Convegno Nazionale n.10 su Matematica e Difficoltà, Pitagora Editrice, Bologna,
p.135-141.