María Inés Krimer, Sangue Kosher, traduzione di

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María Inés Krimer, Sangue Kosher, traduzione di
RECENSIONI
María Inés Krimer, Sangue Kosher, traduzione di Raul
Schenardi, Roma, Atmosphere libri, 2015, 150 p., euro 14
Sangue Kosher è un noir circolare, che inizia e finisce con un
funerale ebraico. A ogni fine, però, corrisponde un nuovo inizio,
e sembra proprio che il destino voglia che Ruth Epelbaum, la
detective idishe, sia ingaggiata durante i funerali. Ruth è una donna
di mezza età originaria di Paraná, trasferitasi a Buenos Aires dopo
il pensionamento anticipato dall’archivio della Società Israelita.
Nella capitale, durante il funerale di sua cugina Rosita, Ruth
incontra José “Chiquito” Gold, gioielliere e membro della
comunità ebraica di Buenos Aires. Chiquito chiede a Ruth di
ritrovare sua figlia Debora, scomparsa da una settimana dopo
essere andata col suo personal trainer, Willie, a una festa in una
casa nel Tigre. Ruth accetta l’incarico, ma non per soldi, dei quali
ha comunque bisogno perché la pensione non basta, bensì per
qualcosa legato al suo vecchio lavoro di archivista. Per trent’anni,
infatti, Ruti aveva dedicato anima e corpo all’archivio, arrivando a
conoscere la comunità come il palmo della propria mano. Ruth
era diventata la memoria stessa della comunità, ed era
intenzionata a esplorarne anche i lati più oscuri: «Mi avevano
chiesto di parlare di candelabri, foto e sputacchiere, ma a me
interessava soltanto parlare dei postriboli. La mia via era tracciata.
Avanzavo verso il precipizio» (p. 11).
L’ossessione principale di Ruth era la Swi Migdal, la famosa
organizzazione dedita alla tratta delle bianche attiva fino al 1930.
Una storia che pareva non importare a nessuno, così come
sembrava non importare a nessuno il destino di donne come la
zia Malke, la zia di Ruth, arrivata a Buenos Aires con un “viaggio
di reclutamento” dell’organizzazione. Ruti teme infatti che
Debora sia caduta in una rete di prostituzione, ed è per questa
ragione che comincia a indagare, spinta dalla necessità di
conoscere la verità: «Come all’epoca in cui lavoravo all’archivio,
volevo solo che si conoscesse la verità. Ma la verità era soltanto
una domanda, un punto interrogativo» (p. 43).
«PAGINE INATTUALI», N. 5, LUGLIO 2016, ISSN 2280-4110
RECENSIONI
Le ricerche condotte da Ruth la porteranno a scoprire
l’esistenza di una società che riprende il modus operandi della Swi
Migdal, traendo in inganno giovani ragazze di provincia o della
stessa Buenos Aires attraverso feste private e casting nelle
palestre. La nuova organizzazione che ha preso il posto della Swi
Migdal si scoprirà essere stata creata dal giudice Fontana, nipote
di José Rijter, il magnaccia che Raquel Liberman aveva
denunciato alla fine degli anni Venti, dando inizio al processo che
portò alla fine della società nel 1930. Purtroppo, però, a parte la
perdita del riconoscimento della figura giuridica, nessun membro
dell’organizzazione fu condannato, e venne alzato un muro di
silenzio durato fino ai nostri giorni. Tuttavia, il caso della Swi
Migdal era stato molto singolare a suo tempo, per via della ferma
opposizione che l’intera comunità ebraica aveva mostrato nei
confronti dei magnaccia, arrivando a negar loro persino la
sepoltura. I trafficanti di bianche si videro così costretti ad aprire
un proprio cimitero e una propria sinagoga nella sede centrale
dell’organizzazione, in cui furono celebrati matrimoni clandestini
allo scopo di stabilire un legame religioso tra le prostitute e i
ruffiani. Risalendo alle origini del problema, infatti,Ruth afferma
che «se le polacche erano sfruttate dai ruffiani del loro paese,
bisognava cercarne le cause nella condizione delle donne
all’interno del tempio […] La donna, in principio, era qualcosa di
impuro. In sinagoga, le madri e le mogli erano su un altro piano,
separate, e non avevano accesso ai testi sacri né allo studio» (pp.
50-51). Dalle parole di Ruti emerge così la sottile critica che
l’autrice di Sangue Kosher, María Inés Krimer, indirizza alla
condizione delle donne nell’ebraismo e al modo in cui la Swi
Migdal aveva utilizzato la religione per avere maggior controllo
sulle prostitute.
La Krimer non è la prima scrittrice a cedere al fascino
letterario di questa organizzazione criminale, fondata nel 1906 ad
Avellaneda col nome di Sociedad Israelita de Socorros Mutuos
Varsovia de Barracas al Sud y Buenos Aires. Il primo presidente,
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il sedicente anarchico Noé Trauman, era stato amico di Roberto
Arlt e ispiratore della figura di Arturo Haffner, il Ruffiano
Malinconico dei Sette pazzi. Tuttavia, risulta interessante il gioco di
sovrapposizioni di tempi e spazi che l’autrice riproduce attraverso
un linguaggio che è proprio degli ebrei argentini contemporanei.
Un linguaggio infarcito di termini idishe, dei quali a volte non si
conosce nemmeno il significato originario, dato che la maggior
parte dei parlanti non conosce lo yiddish (e a volte nemmeno
l’ebraico). Questa parlata, a tratti pittoresca, serve a raccontare la
Buenos Aires ebraica, che si presenta come una città nella città,
composta da una serie di spazi accessibili ai soli membri della
comunità. A questa sovrapposizione spaziale se ne aggiunge
anche una temporale, che lascia emergere nel presente di Ruth
Epelbaum le tracce di quel passato che lei stessa ha disseppellito.
I luoghi che Ruth esplora, le persone che incontra, richiamano
episodi della storia della Swi Migdal, che confluiscono nella
narrazione, si mescolano al presente della protagonista e a volte vi
si sovrappongono. Il risultato è un noir denso, senza vincitori,
che lascia più interrogativi che risposte, e riflette l’essenza del
pensiero ebraico, basato sul dubbio e la memoria. Il romanzo
della Krimer conferma, inoltre, il genere nero come chiave di
lettura efficace per decodificare i processi più occulti che regolano
la società ebraica contemporanea, un mondo chiuso e
all’apparenza autosufficiente, ma di certo non privo di lati oscuri.
Davide Aliberti
«PAGINE INATTUALI», N. 5, LUGLIO 2016, ISSN 2280-4110