CHI E - Corriere della Sera
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Corriere DESIGN Mercoledì 10 aprile 2002 5 le interviste Il progettista e architetto milanese contesta il significato ricorrente che si attribuisce all’estetica dei prodotti industriali «Una menzogna dire che l’unione tra stile e funzionalità sia figlia del XX secolo. Io l’ho trovata in un artigiano dell’antico Egitto» «Le case degli italiani? I mobili finto-classico le rendono come musei ma per contrasto la modernità si scatena in cucina» Giulio Cappellini «Il made in Italy solo nel rispetto delle altre culture» Pierluigi Panza Alessandro Cannavò L CHI E’ Mario Bellini nel suo studio con il modellino del Portello (foto S. Covarrubias Gray) vanno per istinto all’infinitamente semplice, a quell’atto del sedersi che l’uomo ha sviluppato «da quando ha deciso di non appoggiarsi più sui talloni o sul pavimento». Perché, secondo Bellini, proprio in una semplice sedia si individua meglio che altrove «quel flusso antropologico che ci dà la consapevolezza di essere figli di altri tempi, oltre che testimoni del nostro tempo ed eventualmente anticipatori dei tempi a venire». Ed è proprio attorno a un oggetto così arcaico ed eterno che Bellini esprime anche il massimo disincanto per la definizione di design. «Con questa parola si getta fumo negli occhi, si cerca di contrabbandare l’ipotesi che a partire dagli inizi del Novecento sia nata improvvisamente una nuova disciplina, il design, appunto. La parola è anglosassone e in inglese non connota nulla, e infatti richiede accanto un aggettivo, il più delle volte industrial. Industrial design è quell’attivi- tà di progettazione che l’umanità ha dovuto intraprendere da quando i modi produttivi da artigianali sono diventati industriali, di serie, con il necessario distacco del momento della progettazione da quella della produzione. Tutto qui. Ma in architettura questa separazione c’era anche al tempo della costruzione delle Piramidi. Voglio dire, l’esercizio stilistico è sempre esistito, l’aveva persino l’artigiano ignoto di Amenophis II. Quello che conta è l’apporto creativo, artistico in rapporto alle circostanze. La mia sedia Cab era pensata con la solidità indispensabile in un ufficio ed è stata dunque venduta in centinaia di migliaia di esemplari, le sedie in ramoscelli di betulla di Andrea Branzi sono state ideate come oggetti di culto fuori dai cicli produttivi. Sono entrambi ritenuti prodotti di design. Dunque i designer sono i progettisti, i bravi progettisti. E la parola design finisce per connotare lo stile del nostro tempo, come in altre epoche lo è stato lo jugendstil o il biedermeier». Ma come sono, secondo Bellini, le case degli italiani? C’è un po’ di tutto come, peraltro, in quelle degli americani o dei giapponesi. Certo, non si possono fare generalizzazioni, ma prevalgono ancora i mobili finto antico, con la testata del letto capitonné, magari tenuta con il cellophane e il copriletto con sopra le bambole. Ci si chiede se vengano mai usate o se per caso in qualche stanzino ci siano delle brande utilizzate effettivamente per dormire. Poi quei saloni-museo con le specchiere, i tavoli lucidati, le maniglie dorate, le vetrinette. Per contrasto la cucina è il regno della modernità tecnologica con gli ultimi modelli di frigo, forno e lavatrice». E certo nei grandi numeri del Salone del Mobile ci sarà anche la produzione di questa Italia che rappresenta in buona parte il miracolo economico del nostro settore arredamento. Ma poi prevale l’immagine dello stile, della creatività artistica. Una contraddizione solo apparente che secondo Bellini è intrinseca nella natura di Milano. «È la città con uno dei più brutti arredi urbani, dai cestini dei rifiuti alle fioriere e, tanto per fare un esempio di aree tenute in modo vergognoso, a passeggiare tra i Navigli si prova imbarazzo e sdegno. Eppure qui ci sono i più bei negozi del mondo, i più prestigiosi show room, le più ricche riviste di design e architettura. Qui fioriscono gli studi dei progettisti e anche chi non vive qui, come Philippe Starck, tanto per fare un esempio famoso internazionale, ruota attorno al sistema Milano che offre idee e garantisce la qualità della produzione. Forse non ci sono le più importanti scuole di design, ma non importa: la scuola è Milano». E lo era anche negli anni giovanili di Bellini quando al Politecnico, in una sala a gradoni che sembrava uno studio di anatomia, Ernesto Rogers svelò in anteprima ai suoi allievi il progetto della Torre Velasca realizzato insieme con Belgiojoso, Banfi e Peressutti. «Ma la lezione che ricordo perfettamente è quella in cui tracciò sulla lavagna due assi cartesiani. Sulla verticale scrisse una U per utilità, sulla orizzontale la B di bellezza. Poi unì le due lettere con una curva. "Ecco ragazzi, questa curva contiene la qualità. Il design, probabilmente". Ingenuo? No, semplice. Come un atto di fede». IRONICA MONOVOLUME CHE HA ANTICIPATO I TEMPI LE OPERE DI UN MAESTRO COLORI E ROTONDITA’ DEL MANGIADISCHI Il prototipo Kar-A-Sutra, (ironico riferimento alle posizioni del Kamasutra) è un antesignano delle attuali auto monovolume. Nata in collaborazione con Cassina permetteva di stare in piedi all’interno dell’abitacolo e al posto dei sedili utilizzava cuscini modellabili Una forma rotonda e levigata per il mangiadischi Pop 45 Minerva, oggetto di culto in plastica colorata per i giovani degli anni Settanta IL FASCINO DEL CUOIO PER UNA SEDIA DI SUCCESSO È una delle sedie più celebri e longeve la Cab di Cassina, realizzata nel 1977 riprendendo il tema della membrana di cuoio su una struttura metallica MACCHINA D’UFFICIO CON LINEE RIGOROSE Linearità formale nella macchina per scrivere Praxis 35, una delle tante attrezzature d’ufficio, come le calcolatrici Divisumma e Logos, realizzate per Olivetti mpara l’arte e mettila da parte, diceva un vecchio proverbio. Impara l’arte e coniugala con un progetto d’impresa può essere il motto di Giulio Cappellini, creatore di uno stile e di una immagine nel campo del design che l’anno scorso è valsa alla sua azienda la copertina di un supplemento del Times e il riconoscimento di azienda dal «design cosmopolita». Design cosmopolita vuole dire buonanotte al «made in Italy»? «Trovo arrogante sbandierare il cosiddetto made in Italy. Non perché io sia esterofilo, ma perché ogni Paese ha una propria tradizione. "Made in Italy" aveva senso negli anni di Ponti e Zanuso; oggi è un’accezione provinciale, da duty-free. Ma questo non vuol dire che non ci sono più buoni designer in Italia! C’è stata una età dei maestri, come Castiglioni e Sottsass, un’età alla De Lucchi, dove importava anche la comunicazione, e ora si affacciano designer under 30, come Lorenzo Damiani o Studio Mat, con un chiaro segno italiano ma libero da convenzioni». Il design è dunque un elemento della globalizzazione? «Si muove tra localizzazione e globalizzazione. Ovvero, l’oggetto va pensato per un mercato globale, ma realizzato anche secondo una tradizione specifica e comunicato nel rispetto delle diverse culture. Un mobile giapponese si deve distinguere da uno finnico e questo da uno italiano. I prodotti devono essere adatti ai diversi ambienti ed è bene che siano un po’ eclettici, contaminati da varie culture». Intanto lei vende all’estero e lavora con designer stranieri... «Esportiamo in 65 Paesi e realizziamo all’estero l’80% del nostro fatturato, che quest’anno si aggira sugli 80 milioni di euro. Ma lavoro con tutti i designer, non solo con Jasper Morrison o Tom Dixon, che ho scoperto anni fa e ora sono diventati famosi». Veniamo alle nuove tendenze: come si sta trasformando la casa? C’è davvero un ritorno d’interesse per la cucina? «Le sale, specie quelle da pranzo, stanno morendo. La cucina viene riscoperta come luogo polifunzionale: vi si cucina, si usa il personal computer, si ricevono amici su divani che diventano zattere sulle quali si può anche dormire. E’ vero, la maggior parte deIl produttore che ha lanciato gli appartamenti non sono hanno ancora una divisiomolte star: «Più loft, ne tradizionale dei locali. Ma giusto parlare questi locali sono sempre più di creatività polifunzionali e le stanze sono ambigue, nomadi, cangianti». cosmopolita» E dentro queste stanze «ambigue e nomadi», come cambierà il design? «Tutto sarà possibile, anche se intravedo un recupero delle forme anni ’50 e ’60 con materiali e tecnologie nuove o derivate da altri settori. Noi stiamo per presentare un tavolo di Jasper Morrison lungo ma sottilissimo, perché è un tamburato in alluminio, e delle poltroncine di Ron Arad prodotte a stampo con doppia verniciatura. C’è poi la tendenza delle case di design a proporre anche altri oggetti: noi presenteremo un cd, perché anche la musica ha a che fare con gli interni domestici, e delle magliette firmate da diversi designer». Così si stringe ulteriormente il legame con la moda. Un legame che lei ha curato lavorando per Gucci, Saint Laurent e altre famose «maison» sino ad essere definito l’azienda della «moda» nell’arredo. «Gli stilisti invidiano la cultura del mondo del design; noi invidiamo i loro fatturati. Grazie alla moda il design è diventato più disinvolto, capace di cambiare di anno in anno come un vestito; loro guardano con interesse all’attenzione al sociale che ha il design. Infine anche noi, come loro, apriamo negozi un po’ in tutto il mondo: noi stiamo per riaprire a Vienna e Los Angeles e sbarcheremo anche a Hong Kong». C’è un oggetto da lei prodotto al quale è rimasto più legato? «Naturalmente è difficile dirlo, sono tutti miei figli! Di certo la cassettiera della serie Progetti Compiuti, per intenderci quella che sembra una esse gigante, ha segnato un po’ il nostro marchio. La voglio ricordare perché chi l’ha progettata, Shiro Kuramata, non è più con noi». I I PROTAGONISTI e più stupefacenti affinità le ha trovate con un oscuro artigiano di tremilacinquecento anni fa. «Costruì una sedia per il figlio del Faraone Amenophis II, ritrovata nel tesoro di Tutankhamon — spiega Mario Bellini —. Cercavo un antenato, ho scoperto un maestro. Tolti alcuni elementi decorativi, quell’oggetto è un capolavoro di essenzialità e di design, ha un rapporto miracoloso tra linguaggio estetico ed economia della funzionalità: il sedile con la curvatura nelle due direzioni, lo schienale avvolgente e inclinato con due asticelle che allo stesso tempo danno alla membratura leggerezza e rigidità, le barrette tra le gambe che garantiscono un assetto stabile... Se si era giunti a quel risultato già allora, chissà nelle centinaia di anni precedenti quanti esperimenti erano stati fatti. E noi oggi che cosa disegniamo se non la stessa sedia?». Mario Bellini Nel suo atelier in- è nato a Milano dustriale «nasco- nel 1935 e sto» in uno dei si è laureato sorprendenti cor- al Politecnico tili della zona dei nel ’59. Ha Navigli, Mario lavorato per Bellini si muove aziende come con discrezione Olivetti, come se del suo Brionvega, piccolo regno Italia, Lancia. non fosse l’artefi- Ha vinto otto ce ma un ospite. compassi d’Oro Eppure l’architet- e i suoi lavori to milanese 67en- sono esposti ne, laureato al in numerosi Politecnico, che musei. Ha fu allievo di Giò realizzato, tra Ponti e di Erne- l’altro, sto Rogers nella i padiglioni magica stagione della Fiera meneghina degli al Portello. Al anni Cinquanta, Salone q u i d i r i g e presenta il letto un’azienda a 360 «Night and gradi pronta a Day» per B&B sfornare contemporaneamente progetti architettonici, allestimenti di esposizioni, design della luce e dell’arredamento. L’uomo delle fortunatissime sedie Cab e dei sensuali divani Le Bambole, il disegnatore di alcune icone degli anni Settanta come le calcolatrici portatili Divisumma o il mangiadischi Minerva, l’ideatore della prima macchina monovolume ante-litteram, quella Kar-A-Sutra dal chiaro riferimento erotico presentata 30 anni fa con scalpore al Moma di New York, in questi giorni è immerso con una troupe di architetti inglesi nella stesura del progetto che parteciperà al concorso-appalto per l’estensione della Fiera di Milano nella zona di Rho-Pero. «Una sfida pazzesca, però come si fa a resistere alla tentazione di ideare il più grande impianto fieristico del mondo?». Ma appena riesce ad appartarsi, i suoi pensieri Insomma, dal prodotto per pochi eletti a quello di massa. E Bellini si mostra affascinato dal caso Ikea. «Un fenomeno stranissimo. In Italia è stato lanciato dai giovani un po’ snob di buona famiglia che con quel minimalismo volevano contestare il mobile di lusso. Poi certamente è diventato un successo interclassista. La gente compra lì per il prezzo ma anche perché istintivamente percepisce il fascino di una proposta democratica nordeuropea. Il discorso qualitativo passa in secondo piano. Ogni tanto ci vado anch’io, le mie figlie hanno preso dei guardaroba e dei carrelli portadischi, poi però vi hanno accostato il tavolo dell’Ottocento acquistato al mercato di antiquariato e un paio di sedie e poltrone disegnate da me».