A colloquio con gli insegnanti

Transcript

A colloquio con gli insegnanti
A colloquio con gli insegnanti
Mi trovo ad un colloquio periodico con gli insegnanti. Uno degli appuntamenti che
chi è genitore deve mettere in conto di tanto in tanto.
Si tratta di un appuntamento consueto, come i tanti che fanno parte della vita, che
molti affrontano però con un malcelato senso di fastidio, come un dovere da
assolvere paragonabile al pagamento delle imposte. C’è, forse, in tanti la percezione
che questi momenti rappresentino quasi una sfida, uno scossone al proprio amor
proprio, una specie di giudizio o di verifica sulla modalità con cui, in famiglia, si
affrontano (o non si affrontano) problematiche importanti quali l’educazione,
l’istruzione, la crescita dei figli. È comunque, sempre, un momento significativo di
sinergia tra scuola e genitori.
Alla porta di ogni aula sta appeso il nome dell’insegnante e davanti una fila di
genitori in attesa. Scorgo volti che in questi anni mi sono divenuti noti e altri che non
conosco affatto. Mamme e papà in attesa del proprio turno. La scuola è
particolarmente affollata. Molte giovani donne del paese, qualche uomo, si
ritrovano all’appuntamento scolastico dei propri figli. Ed è un modo per rivedersi,
per ritrovare fila di storie condivise. Quante volte si sono trovati tra queste mura?
Per altri figli, oppure, qualche decennio addietro, quando erano loro a vivere nei
panni degli studenti. La scuola ha rappresentato – e rappresenta – lo strumento che
permette ad ogni persona di crescere, di apprendere, di vivere un tempo prolungato
di formazione che gli permetterà di entrare nel mondo con valori umani e con
competenze culturali e professionali. Accanto a questi genitori “locali”, “autoctoni”
ve ne sono altri che provengono da altri luoghi, da altre città, da altri mondi. Hanno
lo sguardo un po’ più discreto, forse anche più sperduto, degli altri. Non partecipano
alla comune conversazione o lo fanno in maniera molto limitata, solo se richiesti o
interpellati. Non sono nati qua. Non si trovano nella scuola in cui loro stessi hanno
studiato e sono cresciuti, anche se probabilmente questo momento rappresenta un
forte richiamo all’esperienza scolastica che anche loro hanno vissuto in luoghi
lontani da questo.
La scuola non è solo un edificio, e neppure solo un’istituzione. È una idea, un
valore,un patrimonio trasversale ad ogni luogo e ad ogni tempo. La Scuola (con
l’iniziale maiuscola) è superiore al luogo in cui è situata, non gli appartiene
semplicemente come, per esempio, qualche altro monumento o edificio che può
caratterizzare, anche dal punto di vista storico-ambientale, un determinato
territorio. E non gli appartiene neppure se è stata costruita con i denari dei
contribuenti locali. Anche dal punto di vista architettonico l’edificio scuola
www.gerico.info
rappresenta qualcosa di altro rispetto all’ambiente nel quale è ubicata. Le scuole
(parlo di quelle recenti) si somigliano un po’ tutte, in qualunque luogo. Non mi
esprimo sul fatto che siano più o meno belle. Forse non sono affatto belle, dal punto
di vista estetico. Rappresentano, in ogni caso, qualcosa di altro rispetto alla vita di
un paese. Un valore, un punto di riferimento più alto. A organizzare e gestire la
Scuola è lo Stato, non il comune, non le autonomie locali. E nella Scuola tutte le
persone che stanno passando per la fase evolutiva della vita, vengono educate a
diventare cittadine e cittadini di questo Stato. Lo Stato garantisce il diritto allo studio
perché senza studio non ci possono essere cittadini consapevoli, maturi,
responsabili. Lo studio (non solo quello finalizzato all’apprendimento di una
professione) a cui la Scuola introduce rappresenta quel “di più” che rende la nostra
vita bella, significativa, saporita. Differente dalla semplice esistenza animale.
Confrontandomi con i genitori che stanno facendo come me la fila davanti alla porta
dell’aula rifletto sul fatto che ogni bambino, ragazzo o giovane ha diritto alla scuola.
Non si è persone complete se non si vive questa esperienza. Il diritto allo studio fa
parte dei diritti primari che ogni persona ha assieme al cibo, alla salute.
E assieme ai ragazzi ci sono le famiglie. Quanto è cambiata l’utenza che in questo
edificio è transitata dal giorno in cui è stato costruito? Mi trovo nella scuola di un
paese di provincia, eppure quanti, tra i suoi frequentatori, sono oggi ragazzi e
ragazze che provengono da altre città o regioni della nostra nazione e magari da
altre nazioni stesse? Ha ancora senso parlare di provincia nel grande villaggio
globalizzato che è diventato il mondo? la rete ha distrutto in questo senso ogni
demarcazione tra città e provincia. Chi è connesso è oggi cittadino di questo mondo
globalizzato. Chi non lo è ne è escluso.
Mi immagino che tanti anni fa’ a formare la fila davanti a queste stesse porte fossero
genitori che parlavano, nella quasi totalità, la stessa lingua, magari il dialetto locale.
Ora non è più così. È vero, la lingua predominante, lungo il corridoio, è ancora il
dialetto, ma molti genitori presenti non lo parlano affatto. Forse lo capiscono in
parte, forse non lo capiscono per niente, visto che per loro è già un’operazione
ardua riuscire a comprendere e ad esprimersi in italiano. Soprattutto non lo parlano
i figli, ne quelli delle coppie autoctone e neppure quelli provenienti da fuori. E
neppure lo parla la gran parte dei professori che stanno oltre le porte. E che
provengono, soprattutto i più giovani, da altre regioni italiane.
La Scuola, dunque, non è di un comune. E’ di tutti. E’ un bene universale; un
patrimonio dell’umanità. In essa si ritrovano ragazzi provenienti da famiglie del
posto e da famiglie immigrate, arrivate in questo luogo spinte da motivazioni
economiche e professionali. Sono figli di famiglie per lo più dinamiche e
www.gerico.info
intraprendenti, coraggiose, che hanno intrapreso la sfida di abbandonare il luogo di
origine per cercare un nuovo paese per vivere una vita più dignitosa. Ogni persona è
alla ricerca del proprio sbocco professionale e, assieme a questo, di una sempre
migliore sistemazione economica per la propria famiglia. Guardando il volto di ogni
ragazzo ci si può immaginare chi sono i suoi genitori, chi o cosa rappresenta lui per
loro. Da dove proviene questo ragazzo, qual è la pianta che ha originato questo
virgulto, questo essere che sta crescendo rapidamente verso la sua statura di uomo
e di donna adulto?
Attorno a me sento l’odore di famiglie diversissime tra loro. E’ vero, come ho già
detto, che prevale ancora il dialetto nelle chiacchierate assordanti che si svolgono in
questi corridoi affollati. Ma non tutti partecipano alla conversazione. Anzi, a ben
guardare a tener banco è una minoranza, una minoranza che, in certo modo, si
sente “padrona di casa”.
Tanti sono genitori provenienti dalle diverse regioni del nostro meridione. Poi c’è
una mamma magrebina, con il capo completamente fasciato dal velo, una bionda
polacca, un’ucraina, diverse rumene, un’albanese che si è perfettamente integrata
nella realtà del paese tanto da saperne comprendere in pieno anche il dialetto. E c’è
la mamma di colore del Ghana che fatica a capire i meccanismi di una realtà che non
conosce e a cui altre mamme sorridono con benevolenza. Penso a quanto la scuola
possa rappresentare per tutte queste giovani donne o coppie una occasione e un
esempio di integrazione.
Poi mi soffermo su genitori che non lo sembrano affatto.
Mamme quarantenni longilinee e flessuose come adolescenti. Madri e figlie si
confondono per la statura, per la foggia dei capelli, per l’abbigliamento. Una
mamma con fujeau attillati in simpatici stivaletti all’ultima moda assieme alla figlia
coperta da una gran giacca con il pelo. Un’altra, seduta accanto a me, porta i jeans
strappati in più punti. Dal volto mi accorgo che deve appartenere alla categoria dei
genitori, delle mamme, non delle figlie.
Genitori sempre più giovani (e questo è invece il segno che io sto invecchiando):
quarantenni, trentacinquenni. Con figli di tredici quattordici anni. Genitori più
giovanili, forse un po’ trasgressivi, alla moda, in ogni caso molto differenti dai
genitori di un tempo. Cambia l’età dei genitori, assieme alla foggia del loro
abbigliamento. Cambia, è cambiato, il loro linguaggio, il loro modo di sentirsi
genitori. La differenza culturale che la scuola contiene non è dovuta solo alle
differenti etnie che si trovano al suo interno. O meglio in quella che credevamo
www.gerico.info
essere una tribù uniforme e dalla forte impronta identitaria (il paese di provincia)
sono sorte e si affermano continuamente nuove e differenti etnie.
Tante famiglie approdate nelle nostre valli spinte dalla necessità di lavorare. Il lavoro
è la base della vita. l’”economia” nel suo senso etimologico (“oikos”= casa e
“nomos” = legge, norma) indica la stabilità, la concretezza della casa (intesa nella sua
dimensione di famiglia).”Primum vivere deinde philosophare”. L’economico, inteso
nel senso di ciò che permette di vivere, è il motore di ogni famiglia. E l’economia è
generata dal lavoro, dal rendersi utili, dal produrre qualcosa. Ogni cosa si struttura,
in una famiglia, attorno al lavoro, perché è il lavoro che permette di vivere. E così
succede che per lavoro si è costretti a spostarsi. E’ sempre successo. In ogni luogo. In
fondo siamo tutti migranti. O lo siamo stati. Pochissimi hanno la fortuna (se di
fortuna si può parlare) di rimanere per tutta la vita nel proprio luogo di origine. Ma
forse alla categoria di migrante che caratterizza ogni essere umano sarebbe bene
aggiungerne sempre un’altra, complementare: quella di appartenente al comune
genere umano. Si eviterebbero assurde derive razziste se ci considerassimo tutti
appartenenti alla stessa razza umana.
Tornando al discorso iniziale, la scuola non è, non può mai essere, esclusivamente la
scuola del paese. Semmai possiamo dire che sia la Scuola dello Stato che, in un
determinato paese o territorio, dovrebbe formare i giovani per farli diventare buoni
cittadini di questo Paese (con la iniziale maiuscola), dal punto di vista civico,
culturale e professionale.
Perché non immaginare (o sognare) che questa scuola che i nostri figli stanno
frequentando non possa aiutare un po’ anche i genitori, quelli che sono (o
dovrebbero essere) già cittadini adulti, ad integrarsi maggiormente tra di loro?
A sentirsi loro stessi un po’ di più cittadini di questo stato? La formazione, infatti, è
permanente. Deve continuare e accentuarsi nell’età adulta, ovvero in quella che
dovrebbe essere l’età della consapevolezza.
Mi accorgo che questo “sogno” (va un po’ di moda parlare di sogni ultimamente) ha
reso meno noiosa l’attesa davanti alla porta dell’aula di mia figlia.
Stefano Costa
www.gerico.info