"Un film e due tele per i miei ragazzi di cristallo".

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"Un film e due tele per i miei ragazzi di cristallo".
LETTERA Un film e due tele per i miei ragazzi di cristallo
di padre Alberto Caccaro
14/01/2011 - Da dieci anni nel Paese dei khmer, padre Alberto racconta cosa sta
scoprendo in missione. E cosa desidera: «Insegnare ai ragazzi a chiamare le cose
con il loro nome»
Per le vie del villaggio di Balang.
Prey Veng, 9 Gennaio. Battesimo del Signore
The fragility of crystal is not
a weakness but a fineness”
… to call each thing by its right name
(dal film Into the wild)
C’e un gruppetto di studenti che arriva a scuola sempre in ritardo. E non sono nemmeno i
piu lontani. Hanno sempre una scusa pronta. Allora quando ritardano, io gioco di anticipo.
Provo a spingerli avanti, a far loro credere che possono fare meglio... in tempo. La nostra
scuola non ha particolari ambizioni. Fin dall’inizio ci affascinava l’idea che avesse almeno
un orologio. Con degli insegnanti puntuali e degli studenti per i quali le sette fossero le
sette ed un esame fosse un esame. Cose semplici, ovvie, ma vere, da custodire come tali
nel tempo. Tutto qui: fare bene il bene, fare veramente quello che in questo momento della
nostra e della loro vita è opportuno... Un orario vero, un prof vero, un esame vero, un
cinque vero, un nove vero, un diploma finale vero, una vita vera, con le proprie capacità e i
propri sogni, veri! Non una fiction...
Qualche settimana fa abbiamo visto il film Into the wild del regista americano Sean Penn.
Racconta la storia vera di Christopher McCandless. A 22 anni, dopo il college, lascia tutto
e intraprende un viaggio che lo porta in Alaska, Into the wild, appunto. È spinto dal
desiderio di cercare la natura delle cose, il loro senso, il loro vero sapore. Quello che in
famiglia, e nella societa del suo tempo, non aveva ancora trovato lo va a cercare nella
natura più selvaggia, senza denaro, senza accessori, senza maschere. Un bisogno di
verità che lo rende vulnerabile, lo espone. È fragile come il cristallo, dice la sorella che
spesso interviene come voce narrante e spiega il perchè di questa ricerca. «The fragility of
crystal is not a weakness but a fineness» (La fragilità del cristallo non costituisce la sua
debolezza, ma la sua finezza). Il cristallo è fragile non perchè debole, ma perché fine,
trasparente, puro. Christopher ha un estremo bisogno di verità, fino alla fine. Quando, ad
un certo punto della ricerca, vorrebbe tornare indietro, dopo aver capito che bisogna
«chiamare ogni cosa con il suo proprio nome», non può più farlo. E muore di stenti.
«To call each thing by its right name» è una delle ultime battute del film. Christopher
prende questa citazione da Il dottor Zivago di Pasternak. Bisogna chiamare ogni cosa con
il suo proprio nome e rispettarne la natura. Un orario è un orario, un esame è un esame,
un matrimonio è un matrimorio, un figlio è un figlio; vorrei dire ai miei studenti: «To call
each thing by its right name». La voce narrante della sorella ci dice che il matrimonio da
cui nasce Christopher non è un vero matrimonio. La madre è solo la seconda moglie di
suo padre. Ma non sono realmente sposati. Dopo la nascita di Christopher, il padre riesce
ad avere ancora una relazione con la prima moglie da cui nasce un altro figlio, mai
riconosciuto. «Their fraudulent marriage and our father’s denial of this other son was, for
Chris, a murder of everyday’s truth» (Il loro matrimonio non autentico e il fatto che nostro
padre avesse negato quel figlio, fu per Chris l’assassinio della verità di ogni giorno). Per
questo ha bisogno della verità, perchè «They made his entire childhood seem like fiction»
(Hanno fatto sembrare la sua intera infanzia come una finzione). Christopher non rivela
mai niente di tutto ciò, ma cammina, cammina, e muore. Era nato come me, nel 1968.
Asher Lev invece è solo il protagonista di un romanzo. Nasce dal genio letterario di Chaim
Potok, dall’altra parte del mondo. Nel romanzo Il mio nome è Asher Lev, Asher è un ebreo
osservante che dipinge con una creatività che rompe tutti i confini. Uno dei suoi soggetti
preferiti è la Crocifissione: «Io, un ebreo osservante che lavora su una crocifissione perché
nella sua tradizione religiosa non esiste alcun modello estetico al quale far risalire un
quadro di angoscia e di tormento estremi» (Chaim Potok, Il mio nome è Asher Lev, Milano
2002, p. 280). Lotta per potersi esprimere perché suo padre e la tradizione religiosa che
incarna, gli vietano di darsi alla pittura e a un simile soggetto. Dipinge una prima
Crocifissione, ma non è soddisfatto: «Il quadro non diceva completamente ciò che avrei
voluto dire; non rifletteva completamente l’angoscia e il tormento che avevo voluto
metterci. Dentro di me, una voce ammonitrice parlò tacitamente di frode. Avevo portato nel
mondo qualcosa di incompleto» .
«Lasciarlo incompleto avrebbe fatto di me una puttana (…) Avrebbe reso sempre più
difficile disegnare con quell’in più di dolore, nello sforzo creativo, che sempre costituisce la
differenza fra integrità e inganno. Non volevo essere una puttana nei confronti della mia
propria esistenza» . Ci riprova con una seconda tela, medesimo soggetto, ma mentre nella
prima, la figura della madre appare sullo sfondo rispetto alla croce, nella seconda la madre
è sulla croce: «Per tutto il dolore che hai sofferto, mamma. (…) Per il Padrone
dell’Universo il cui mondo di sofferenza io non capisco».
Di questa seconda tela, chiamata Crocifissione di Brooklyn II, Asher è soddisfatto.
Quello che vorrei afferrare, e custodire, è l’onestà intellettuale di questo giovane pittore. Il
suo genio creativo non tace, non mente, resiste a qualsiasi compromesso e violenza, per
esprimersi ad ogni costo, spesso rompendo le righe. Teme di portare «nel mondo
qualcosa di incompleto». Vorrei che la scuola, in Cambogia come altrove, si occupi di
questo sacro timore e si impegni ad assicurare a ciascuno studente profondità d’animo,
autonomia di pensiero e il coraggio di non mentire a se stessi. «Tutto è nelle mani del
cielo, tranne il timore del cielo», dice il Rebbe ad Asher, per questo dovremmo
occuparcene noi.
Penso ai miei studenti come a quel cristallo di cui parla la sorella di Christopher. Fragili. E
penso che ciascuno di loro abbia bisogno della verità. Come Christopher e come Asher.
Non devono diventare stumento della menzogna e portare «nel mondo qualcosa di
incompleto», ma capaci di dire, di fare, di sognare la verità. E chiamare ciascuna cosa con
il suo proprio nome. La vita non è una fiction.
Into the wild è un film da vedere e Il mio nome è Asher Lev è un libro da leggere. Eviterei
l’Alaska e l’epilogo tragico della vita di Christopher. Rimane però l’urgenza di offrire ai
giovani la possibilità di rintracciare il senso non altrove, ma negli orizzonti della vita
quotidiana. Nelle relazioni di ogni giorno. E poi, leggere, leggere tanto. Leggere per
leggersi dentro. Ben più vasto è il nostro mondo interiore!
Che papà, mamme, maestri, dottori, psicologi, psicoanalisti, tutti!, possano considerare «il
rapporto con Dio come l’ipotesi di lavoro più adeguata all’incremento e alla realizzazione
dell’unità della personalità» (Luigi Giussani, Alla ricerca del volto umano, Milano 1995, p.
164).