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La Palombella
Arte e passione d’amore fra le antiche mura di Villa Medici
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Jean-Baptiste Carpeaux, La Palombella
Erano trascorsi solo pochi mesi da quel 5 aprile 1997, giorno nel quale avevo consegnato
alla cultura italiana l’avventura passionale e artistica di Jacques Zwobada verso Antonia
Fiermonte, per un certo verso legata all’Accademia di Francia a Roma [1], che un altro
episodio nato a Villa Medici viene ad offrirmi l’emozione di scoprire ancora una trama di
intenso romanticismo.
Il “pensionato” di Villa Medici credo sia davvero una inesauribile fonte di forti emozioni:
protagonisti sono i personaggi che anno dopo anno vi risiedono, irrequieti, geniali,
curiosi e soprattutto giovani, che ne forniscono la materia prima. Villa Medici è uno dei
parchi più affascinanti di Roma, con il suo palazzo severo e disadorno che nasconde le
delizie del suo interno: una facciata unica nel suo genere e, nel giardino, un quieto
boscoso ritiro per artisti e poeti. “Lieta reggia cardinalizia e papale dei Medici nei primi
del ’600, passò nel tempo ai loro successori nella sovranità di Toscana e da essi a
Napoleone, che ne fece (1803) l’ultima sede romana, magnificamente degna,
dell’Accademia di Francia, fondata (dietro i consigli del Bernini) da Luigi XIV e da
Colbert nel 1666”.
La durata della permanenza dei “pensionanti” a Villa Medici ha subito nel tempo
numerose variazioni, ma già negli anni venti del XX secolo era, ed ancora oggi è, di tre
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BENESSERE
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anni e quattro mesi: inizia il primo di gennaio e finisce il trenta di aprile. Vengono
ospitati gli artisti più meritevoli, in seguito a severo concorso. I pensionanti vengono a
Roma per maturare il loro ingegno, per prendere contatto con i capolavori classici e
piena conoscenza della loro personalità e della loro arte. In principio Luigi XIV ve li
mandò per arricchire i suoi palazzi, in altre parole perché lavorassero per la sua gloria;
sin dalla fondazione infatti, i pensionanti, in cambio dovettero fornire allo Stato alcune
opere. Furono chiamati invii, stabiliti dal “regolamento” con rigorosa meticolosità;
questo infatti prescrive: “Lo scultore [...] nel primo anno consegnerà un bassorilievo di
grandezza naturale rappresentante una figura nuda o due figure seminude. Nel secondo
anno una statua modellata dal vero. Nel terzo anno la realizzazione marmorea della
stessa statua. Lo scultore deve fare un viaggio di studio in Grecia [...]. Gli invii saranno
mandati a due esposizioni: Roma e Parigi [2]”. Con tale metodica, le opere d’arte
nacquero e andarono a popolare i giardini e i saloni di Versailles, i parchi e gli
appartamenti reali, i castelli e le aiuole dei nobili e dei finanzieri.
Quella che voglio qui raccontare è una storia degna del miglior melodramma
ottocentesco: la trama è davvero un classico! Nasce con un incontro fortuito; si sviluppa
con l’allegra vampa d’amore, intensa e avviluppante; viene ostacolata da una nonna,
previdente e inflessibile, che deve far da madre alla nipote orfana di padre; sfocia in un
matrimonio di convenienza con un benestante contadinotto del borgo; si conclude
tragicamente con la morte della fanciulla ventenne; esita nell’amore platonico e
indimenticabile dell’artista, finalmente celebre, che ormai non può che perpetuarne
l’effigie nelle sue opere più importanti. E questa fanciulla - protagonista di tanto intreccio
- interessa il territorio posto a Nord-Est di Roma: nacque infatti a Palombara Sabina.
La prima volta che mi interessai alla Palombella scrissi: “Le notizie che possiamo fornire
in questo breve saggio non sono complete poiché non esiste un solo testo in lingua
italiana che accenni a questa meravigliosa storia nata tra i vigneti di Trastevere ove JeanBaptiste Carpeaux vagava in cerca di emozioni, dopo essere approdato a Roma, vincitore
del Grand Prix de Rome de Sculpture [3]”. Oggi, dopo quel primo saggio, la Comunità
sabina ne ha preso consapevolezza ed è nata l’Associazione socio-culturale “La
Palombella” che svolge un’attiva ricerca per colmare i punti oscuri di quella lontana
vicenda: negli anni, ha pubblicato pure dei volumi in bella edizione con contributi di
molti ricercatori [4]. Angelo Gomelino, nel capitolo La storia della Palombella
raccontata dagli organi di stampa...[5], scrive: È questo un saggio più complesso,
completo e ben articolato con il quale gli autori cercano per primi di scandagliare più a
fondo e di mettere in evidenza fatti e circostanze meno note e poco chiare ma anche di
una proposta; un lungo lavoro sarà quindi da programmare in loco e in Francia,
qualora questa bella storia d’amore dovesse interessare il comune di Palombara
Sabina. Lo spunto è dato dal libro 'Zwobada a Mentana'…
Carpeaux non era stato favorito dalla sorte affacciandosi alla ribalta della vita, poiché era
nato nella più profonda miseria; suo padre l’aveva inviato in una classe di architettura a
Valenciennes diretta da Jean-Baptiste Bernard. L’allievo non fu bene accettato perché
considerato assai incolto: la mancanza di istruzione si tradiva nelle sue composizioni con
degli anacronismi assai bizzarri, anche se ben presto si dovette riconoscere che da questo
caos apparente si elevava la fiamma di un genio nascente. All’inizio della carriera la
famiglia pesò su Jean-Baptiste come macigno; il padre infatti pensò bene di seguire il
figlio nella esperienza parigina conducendo con sé, in cerca di fortuna, l’intera famiglia
composta dalla moglie e cinque figli [6]. Durante il giorno Carpeaux si improvvisava
facchino alle Halles, i mercati di Parigi oggi demoliti, mentre la sera copiava delle
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statuette commerciali o ingrandiva dei bozzetti per il mercante Michel Anron. Si adoperò
in ogni modo per restare se stesso, gli vennero commissionati vari lavoretti che gli
consentirono di sbarcare il lunario mentre andava affinando la sua arte.
Nel 1852 sfiorò il primo premio che però raggiungerà solo due anni dopo: il Grand Prix
de Rome de Sculpture, lo condusse nella città dei Cesari e dei Papi. La figlia dello
scultore, Louise Clément-Carpeaux, in un’opera-verità, lo presentò con questo titolo che
ne voleva richiamare l’essenza [7]. Si chiese infatti: “Ci si domanda cosa sarebbe stato
della carriera di Carpeaux se non fosse vissuto qualche anno a Roma e se non si fosse
entusiasmato per Michelangelo; il suo genio si sarebbe espresso con uguale potenza? Si
potrebbe dubitarne, constatando l’impressione profonda, incancellabile che gli ha
lasciato il primo contatto con il re degli scultori”. E io stesso, per la stessa prospettata
ipotesi, qualora Carpeaux non fosse venuto a Roma, difficilmente starei qui a scrivere di
Palombella; egli infatti poté incontrarla solo perché nel 1854 aveva ottenuto quel tanto
desiderato “primo premio” presentando alla commissione la scultura Ettore che implora
gli Dei a favore di suo figlio Astianatte.
L’arrivo nel “paese delle meravigliose scoperte” - come chiamò la città di Roma la figlia
Louise - gli mostrò “prima fra tutte, le strade di Roma: com’erano diverse allora da quelle
di oggi. […] Se la maestà di Roma è stata preservata, le sue strade e la vicina campagna
non brulicano più della gente gioiosa, gesticolante, cantante e danzante nell’aria che
vibra. Le belle trasteverine nobili anche nei loro stracci non passano più con la loro
camminata allegra, portando sulla testa pesanti panieri sostenuti dalle loro braccia in un
gesto antico [8]”. A Roma, Carpeaux divenne girovago e osservatore; quel periodo venne
documentato ancora dalla stessa figlia: “Carpeaux si è inebriato - sempre con la matita in
mano - di questa frenesia di movimento e di colori. Più tardi, evocando questo periodo
della sua evoluzione artistica, l’ha denominato l’educazione della strada. Pur tuttavia il
suo impulso di osservatore appassionato non si sarebbe limitato a questo: egli visita i
grandi musei traboccanti di tesori, le chiese, dove scoprirà Michelangelo, il suo dio”.
Lo scultore inoltre, a Roma, ebbe la fortuna di suggellare un’amicizia, fondamentale per
la sua formazione, con Joseph Soumy, pittore e incisore di talento [9], il cui concorso per
Villa Medici era stato un trionfo; a questi piacque la natura fiera e indipendente del
nuovo amico: notando l’ardore nel lavoro e le innate qualità, mise in mano a Carpeaux il
pennello, iniziandolo pure alla tecnica della pittura; così egli, percorrendo la città e la
campagna intorno a Roma e temporaneamente tralasciato lo scalpello, perdutamente
dipingeva, disegnava, “cercando tutti i mezzi di espressione per captare il fiume di vita
mobile che scorre[va] davanti ai suoi occhi abbagliati”. Egli però era stato mandato a
Roma per la scultura e se lo sentiva ripetere ossessivamente dal direttore di Villa Medici,
il quale non perdeva occasione per ricordargli che il blocco di marmo per l’annuale invio
lo attendeva nello studio.
Intanto un altro accadimento imprevisto sconvolse la sua vita romana: intersecò la sua
strada la giovane musa. In una breve nota, Franco Pompili, un saggista locale [10], così
volle tramandare l’incontro fatidico, lavorando un po’ di fantasia: Fu in Trastevere
ch’ebbe inizio la dolce storia. Era maggio, un tardo pomeriggio che i timpani di Santa
Maria diventavano rossi della luce del tramonto. C’erano sulla piazza ragazze a gettar
briciole di pane ai colombi. Venivano alcune da Palombara, un paese a qualche diecina
di miglia da Roma, per ‘scacchiare’ le vigne negli orti di Trastevere. Jean-Baptiste era lì
e guardava una di loro, bella, esile e vivace. Le chiese se voleva posare per lui. Ella
accettò, quasi aggressiva, poi rise con le compagne all’idea di posare per uno scultore.
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Giunse allo studio dell’artista con un cesto di frutta.
- Come ti chiami?
- Barbara Pasquarelli
- Ti chiamerò “Palombella”.
I giorni trascorsero lietissimi nello studio romano aperto su una Roma piena di cielo.
Barbara era ogni giorno la più soave delle donne e Jean-Baptiste ne era pazzamente
innamorato. Così si è voluto tramandare in loco l’incontro; forse vi è un po’ di letteratura
rosa nel racconto, volto nel breve termine in tragedia. L’incontro con la fresca e
spontanea fanciulla sabina deve avere inebriato Carpeaux al punto che ne volle
presentare (e preservare) le sembianze con una delle sue prime opere scultoree: la
Palombella. Lo confermò la figlia Louise: “Si sa che la scultorea bellezza della bella
incantatrice di colombe (da cui il suo nome) ha impressionato profondamente l’uomo e
l’artista: è un meraviglioso antico che ha preso vita per lui soltanto [11]”. Il bozzetto di
quest’opera, insieme con quello dell’Imbronciato (a volte intitolato Bruto fanciullo), fu
presentato alla Esposizione di Belle Arti come esempio della prima produzione
dell’artista a Roma.
Riferì la figlia: “[...] Si dice che lo stesso Carpeaux avesse riportato in Francia i bozzetti
originali o modelli, il che fece scherzosamente supporre al sig. Henry Lapauze, poco
esperto di tecniche scultoree che - sempre ferito d’amore - mio padre avesse avuto
l’audacia di sbarcare a Parigi accompagnato dalla Palombella in carne ed ossa! In realtà
la povera piccola Trasteverina non conobbe mai altro che il bel cielo d’Italia, sotto il
quale avrebbe dovuto morire tanto giovane”. In nota ella precisò che Lapauze [12] aveva
erroneamente scritto: “Ben presto Carpeaux potè ritornare in Francia, accompagnato
dalla sua modella [13]”, confondendo il termine “modello”, prova scultorea d’autore, con
“modella”, fanciulla che posa nello studio dell’artista. L’idillio, purtroppo, voltò
rapidamente in tragedia; il regolamento dell’Accademia di Francia era sin troppo
drastico sull’argomento “matrimonio”: questo era totalmente vietato sino al termine del
“pensionato”, pena l’immediata espulsione dall’Accademia.
Ecco il racconto dell’epilogo tramandato dalla figlia Louise: “Benché innamorato,
Carpeaux non sacrificherà la sua arte alla Palombella; essa stessa ebbe il coraggio di
consigliarglielo. La poverina sperava che, libero dopo due anni, Carpeaux le avrebbe
portato una felicità soltanto differita. I fatti sono noti: Carpeaux si dedicherà alla sua arte
con frenesia; d’altra parte non sarà libero nel tempo previsto; colpita, assillata dalla
vecchia madre[14] avara ed indigente, Palombella consentirà al matrimonio, agli inizi del
1861, con uno zotico fornito di mezzi, [...] che ha inoltre un piccolo impiego nella milizia
[15]”. La Palombella quindi era in verità solo una ragazzina orfana di padre, con una
madre che doveva provvedere al sostentamento dei sopravvissuti e allevata dalla nonna,
la quale non aveva – forse non poteva avere in quella loro situazione - sentimenti
materni e teneri.
Su questo passaggio della vita della Palombella fu dello stesso parere Franco Pompili; egli
infatti scrisse: La madre [16] intanto aveva già pronte le nozze con Bernardino
Palmieri, il ‘casarecciotto’ con gli scudi. Quando Carpeaux tornò dalla Francia si era
alla vigilia del matrimonio. La vecchia aveva percosso e minacciato la fanciulla, eppure
la Palombella era lì nel padiglione di Villa Medici ad attenderlo. Jean-Baptiste era
trionfante. Aveva smosso perfino il ministro ed aveva il permesso in mano [17].
Barbara comprese che in quel momento [per Carpeaux] era più importante il gruppo
dell’Ugolino. Si avviò alle nozze pallida e muta. Anche Bernardino era trionfante
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quando scese le scale di S. Biagio con al braccio la più bella sposa di Palombara.
Trionfante era la madre [e la nonna] per il buon affare concluso, euforici i convitati fra
boccali di vino. Cominciarono così i tristi giorni nella casa di via dei Portici. Carpeaux
lavorava sul marmo, Barbara soffriva, percossa dal marito geloso. Jean-Baptiste
esponeva con grande successo di pubblico, Barbara era minata dalla tisi [18] e stava
per morire. Era il dicembre del 1861 e faceva freddo. Un pastore suonò a Villa Medici.
Un biglietto per Carpeaux: “Io sto per morire. Vieni domani. La gente va alla fiera. In
casa resta soltanto chi è malata come me”. Lo scultore corse a Palombara (...). Gli occhi
spenti di Palombella si illuminarono: “Hai sacrificato il nostro amore alla tua statua.
Non ne sono gelosa. Il bambino è nato pochi giorni fa. Abbine cura, Gian Battista”. Egli
piangeva e baciava le labbra di lei brucianti. Aveva 19 anni Barbara [19] quando fu
sepolta nel piccolo cimitero di Santa Maria del Gonfalone, il 18 dicembre 1861 [20].
La tragedia si compì totalmente con la morte del piccolo qualche settimana dopo. Il
Pompili adombra la possibilità che la fanciulla sia morta di “tisi”; è un argomento da
approfondire; dalle altre fonti si penserebbe più a una patologia diversa: la “sepsi
puerperale [21]”. Personalmente - avevo scritto circa la causa della morte della
Palombella - darei più credito alla tesi della “sepsi puerperale”. Più logica, inoltre, poiché
la salute della fanciulla veniva sempre data come ‘piena di vita e di allegria’, stato
d’animo non consono a un soggetto affetto da “tisi”. Il dubbio tuttavia credo si potrebbe
dirimere ricercando fra gli atti comunali il certificato di morte, se al tempo il medico
doveva indicarne la causa clinica del decesso. Questo, se conservato negli archivi,
potrebbe portare alla soluzione del dubbio [22]. Carpeaux non dimenticò mai la sua
Palombella; di lei portò vivido il ricordo per la vita. Lo testimonia una lettera in data 14
dicembre 1862, riportata dal Pompili, nella quale Carpeaux allegava dieci scudi perché la
nonna non facesse mancare i fiori sulla tomba della fanciulla: [...]) È ormai quasi un
anno che piango la più dolce delle donne. Da quel tempo io son sempre triste ed il bene
che io le volevo su questa terra è rivolto al cielo ove si trova la mia Palombella. Come
oggi saremmo felici s’ella mi avesse atteso. Il matrimonio non era per me, e sono stato
ben disgraziato di non essere libero quando l’ho conosciuta. Dovevo fare il gruppo
dell’Ugolino. Ora che come artista ho una magnifica posizione, Barbara non è più e la
felicità è lontana da me [...] Ho sempre Monte Gennaro dinanzi agli occhi e credo
sempre di rivedere la mia Palombella col suo sorriso. Ah come ella mi era cara [...].
Nel suo breve pro-manuscripto il Pompili aveva parlato di altre lettere inviate da
Carpeaux alla nonna senza però dare indicazione sul possessore di tali lettere. Anni dopo,
ormai divenuto di pubblico dominio l’avventura non fortunata di Barbara Pasquarelli, a
seguito della notorietà saggistica in loco, le lettere di Carpeaux alla madre della
Palombella furono trovate e pubblicate da Antonio Chilà [23]; venivano inviate “al padre
dell’avvocato Domenico Margottini perché le leggesse alla madre della Palombella, Maria
Giovanna Luttazi, analfabeta”. Ma ancor più lo Scultore ne perpetuò il ricordo nella sua
arte; quando elaborò il tema della Francia portatrice di luce nel mondo e protettrice
della Scienza e dell’Agricoltura, nella composizione generale egli si era ispirato a quella
tripartita di Michelangelo nella cappella mortuaria dei Medici a San Lorenzo di Firenze:
le Cappelle Medicee.
L’ispirazione fu confermata dallo stesso Carpeux a Falguière [24]: La mia composizione è
felice ed ho qui l’occasione di mostrare l'importanza degli studi che ho avuto la fortuna
di fare con te a Roma. È certo che nella statua della Francia “il volto della Palombella, di
cui eseguì il busto e che ossessionava sempre il suo ricordo, abbia trovato lì un suo altero
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destino [25]”.
Il busto della Palombella, il Piccolo imbronciato e il Pescatore napoletano con la
conchiglia misero in evidenza le due principali caratteristiche del talento dello scultore: il
vigore e la grazia; ma il capolavoro che consentì di farlo conoscere al mondo e posarlo come lui stesso scrisse - “su un piedistallo che il tempo non distruggerà mai”, fu il suo
Ugolino, primo premio al salone del 1863. Dopo la presentazione di quest’opera fu il
trionfo; fino al 1875, anno della sua morte, impastando creta e tagliando marmo senza
posa, l’artista terminò circa ottanta gruppi, busti e statue, abbozzò una quantità
straordinaria di progetti e schizzi, dipinse una sessantina di tele, eseguì parecchie
centinaia di disegni a matita, una moltitudine di bozzetti e parecchie acqueforti [26].
Avevo scritto in precedenza che la bibliografia da me consultata in loco non mi aveva
fornito elementi circa la possibilità che la presenza di Carpeaux a Palombara Sabina fosse
stata interamente ritrovata. Il dubbio era legittimato da una riflessione della figlia
Louise, che aveva scritto, senza ulteriori precisazioni: “Il racconto del toccante idillio è
arrivato ai nostri giorni, anche se alcuni documenti recentemente scoperti a Palombara
tentano invano di sciuparlo”. Né mai in precedenza era stata volta attenzione al riepilogo
di tutte le opere nelle quali vengono ricordate le sembianze della Palombella. A stimolare
questa nuova ricerca fu ancora la figlia Louise quando scrisse: “Carpeaux ha lasciato
numerosi studi dipinti della “Madre della Palombella” [in realtà la nonna, n. d. A.], in
cui sembra quasi abbia modellato i bei tratti di un viso rovinato, con l’aiuto dei suoi
pennelli. Di contro, non si trova nella sua opera nessuna pittura, nessun disegno che
rappresenti la fanciulla la cui bellezza aveva rapito il suo cuore. Strana eccezione,
inspiegabile. Carpeaux ha forse distrutto i ritratti eseguiti, sono stati sottratti nel corso
della sua lunga agonia, sono stati soltanto vergognosamente deteriorati? Non saprei,
al presente, come chiarire questo mistero [27]”.
Ed anche la ricerca della tematica scultorea sulla Palombella non si presentava facile: già
il primo impatto mi aveva fatto suonare un campanello d’allarme! Nell’unico servizio
giornalistico in lingua italiana riferito alla storia della fanciulla di Palombara [28] e
pubblicato da Nayereh Maglietta, veniva riportata l’illustrazione del busto della
Palombella con la didascalia: Il poeta Raoul Villedieu nel giardino di Villa Medici
davanti al teatro di Palombella. Si trattava di quello stesso busto che aveva trionfato nel
Salone di Parigi e che poi era stato posto sul piedistallo, nel boschetto che li aveva visti
nei rari momenti di felicità. Il poeta venne a Roma, in occasione del centocinquantesimo
anniversario dell’insediamento a Villa Medici della prestigiosa Accademia, per cantare
l’idillio “che ha tanto inciso sulla vita e sull’arte di Carpeaux”.
In occasione della mia visita alla sede dell’Accademia di Francia del mese di aprile 1997
non ho più trovato nel luogo indicato né busto né basamento; non ho avuto neppure
indicazione sulla destinazione dell’opera rimossa. In quella prima scultura le sembianze
della Palombella sono severe e gravi; successivamente lo Scultore apportò varie
modifiche in altrettante sculture; qualcuna veniva dichiarata scomparsa già dalla figlia.
Sino al tempo del mio primo articolo [29] solo il pro-manuscripto di Pompili e una
epigrafe posta sulla parete della casa che assistette all’epilogo della triste avventura in
occasione del centenario della morte erano i modesti, visibili segni posti a testimoniare
che la Palombella non fosse stata del tutto dimenticata dai suoi concittadini; questa
epigrafe su marmo, fatto collocare dalla Pro-loco, reca incisa la dedica: Barbara
Pasquarelli / in questa che fu via dei Portici / prostrata e vinta d’amore / gli occhi
chiuse / il 18 dicembre 1861/ all’arte aprendo quelli dell’artista / Jean-Baptiste
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Carpeaux / scultore francese / la vita ne illuminò / ne ispirò l’opra / egli / Palombella /
l’amò.
Ho creduto opportuno tornare su questa pagina sabina poiché “il tempo è martello [30]” ;
nella mostra del 24/06 – 28/09 del 2014, presso il Museo d’Orsay a Parigi, Carpeaux
(1827 – 1875), uno scultore per l’Impero, tutto quanto sopra scritto è riassunto in poche
parole: Jean-Baptiste Carpeaux, figlio di un muratore e di una merlettaia di
Valenciennes, si costruisce un destino fuori dal comune strettamente legato alla "festa
imperiale" durante il regno di Napoleone III. Carpeaux, per quanto fosse un artista
singolare nell’ambiente del suo tempo, rappresentò una delle più perfette incarnazioni
dell’ideale romantico dell’artista maledetto: tutto questo in virtù della sua breve e
splendente carriera, concentrata in una quindicina di anni, dell’intenso, appassionato e
accanito lavoro sui soggetti da lui scelti o a lui commissionati […] Anche la vita
quotidiana del popolo italiano gli ispira numerosi studi dal vero. L'entusiasmo di questi
anni romani deve molto anche alla relazione con una giovane contadina dei Monti
Sabini, Barbarella Pasquarelli, detta "La Palombella".
L’avventura vissuta nel suo breve volgere di anni dalla Palombella è trama del più
appassionante melodramma che nulla porrebbe ad un livello meno qualificante dei
palpiti d’amore e di dolore suscitati nella Tosca o nella Traviata, nella Bohème o in
Andrea Chénier: anch’essa darebbe vita a un “libretto” o a un romanzo nel quale i tipici
contrasti di sentimenti, propri dei singoli personaggi che nel triste accadimento si
agitano, arrivano al clima più esasperato e sanguigno, sino al sopraggiungere della più
acerba tragicità del finale.
Note:
[1] Il 5 aprile 1997 avevo presentato il mio Zwobada a Mentana, amore folgorante,
simbolismo erotico (Editoriale Umbra, Foligno 1997) con queste parole: “Non è un
romanzo quello che viene descritto in queste pagine; la vita sa essere molto spesso più
fantastica di ogni umana fantasia. Dico subito invece che quanto riferirò è vero come gli
avvenimenti di un saggio storico, vissuti, goduti o sofferti dai singoli personaggi: il mio
compito in questa storia è quello di semplice cronista, divertito se si vuole, ma che nulla
inventa e tutto solamente riporta”. Narravo la storia di un amore nato a Villa Medici a
Roma fra uno scultore, René Letourneur e la sua modella italiana, Antonia Fiermonte,
proseguita a Parigi, nell’atelier usato in comune con lo scultore Jacques Zwobada, e con
l’innamoramento folgorante di Antonia per l’artista nuovo incontrato. Un romanzodocumento, insomma, che “iniziò un giorno di febbraio del 1995 con la solita
chiacchierata telefonica alle sette del mattino con il prof. Federico Zeri; egli stava
leggendo la biografia di una straordinaria donna francese da poco consegnata alla storia,
una scrittrice da lui presentata come una delle grandi signore dell’alta società parigina,
rappresentante di una élite culturale e mondana, sopravvissuta alle due guerre, che
viaggiava, sapeva divertirsi, […] lanciava le mode intellettuali sino a consacrare talenti
artistici e inventare il gusto. Questa donna, che ebbe un’importanza notevole nello
svolgimento di questa storia, si chiamava Louise de Vilmorin.
[2] Vicario, Zwobada …, cit., p. 32.
[3] Salvatore G. Vicario-Iosetta Giuriati, La Palombella di Palombara Sabina, “Annali n.
3” dell’Associazione Nomentana di Storia e Archeologia, suppl. a “Mezzaluna”, a. XV, n.
1, novembre 1997, pp. 131-134.
[4] Aa. Vv., Carpeaux e la Palombella, arte e amore, Aletti ed., 2009; è in corso la 2a
edizione aggiornata; Aa. Vv., Giornata Carpeaux-La Palombella, Palombara Sabina
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2009.
[5] Aa. Vv., Carpeaux e la Palombella, cit., p. 185.
[6] Lo scultore fu sempre tormentato dalla avidità del padre e del fratello Émile fino agli
ultimi anni della sua vita; scrive Antonio Chilà, Lo scultore del Grande Impero, in
“Carpeaux e la Palombella, cit.”, p. 35: “… Abitavano in Brompton Square ove c’era anche
un modesto atelier che consentiva al nostro scultore di lavorare in tutta tranquillità,
lontano dal padre e dal fratello, divenuti sempre più avidi. Erano persino giunti a
costringere il debole Jean-Baptiste a chiedere in prestito all’Imperatrice cinquemila
franchi”.
[7] Louise Clement-Carpeaux, La vérité sur l’Oeuvre e la Vie de J.B. Carpeaux, Dousset
et Bigerelle, Paris 1934, p. 63.
[8] Ibid.
[9] Cito, per Joseph Soumy, da Fabiola Mercandetti, Storia del bulino, 2007, p. 84:
“Henriquel Dupont ricerca una variazione all’interno del sistema dei tagli,
tradizionalmente sostenuto da “losanghe tristi e regolari” (Laran) e rende più libero il
segno, attraverso una mescolanza delle tecniche, per una maggiore funzionalità
espressiva. Tale libertà, sempre vincolata al tradizionale sistema di tagli incrociati e di
intenso modellato, viene tramandato ai suoi seguaci Joseph P.M. Soumy e Charles
Waltner, mentre tra i discendenti, si ricordano Jacquet, Boutelié, Rouseaux e Lèopold
Flameng, quest’ultimo, di Bruxelles, allievo di Calamatta e Gignoux”.
[10] Franco Pompili, Palombella 1861-1961, promanuscripto composto di pp. 4,
Palombara Sabina 1961.
[11] Clement-Carpeaux, cit., p. 64.
[12] H. Lapauze, Histoire de l'Académie de France à Rome, Paris 1924.
[13] Clement-Carpeaux, cit., p. 64.
[14] Qui la figlia Louise tramanda una confusione dei personaggi. La frase: “… colpita
dalla vecchia madre avara e indigente” non è corretta. Vecchia era la nonna Mariarosa; la
mamma, Mariagiovanna con Barbara, per lavoro scendevano a Roma insieme. Al
momento dell’incontro della Palombella con Carpeaux sia Mariarosa che Mariagiovanna
erano vedove. Nella gestione della famiglia, quindi, il matriarcato dava autorità a
Mariarosa, la nonna.
[15] Clement-Carpeaux, cit., p. 64.
[16] La madre-madrona, cioè la nonna (n. d. A.).
[17] Aveva il permesso per scolpire il gruppo marmoreo seguendo i tratti del suo modello
contestato, il modello dell’Ugolino (n. d. A).
[18] Il Pompili la tramanda come affetta da ‘tisi’ senza citare qualche fonte.
[19] Il certificato di morte, pubblicato in Aa. Vv., Carpeaux e la Palombella, cit., p. 215, la
dichiara “di anni venti”.
[20] Pompili, cit.
[21] Era una malattia molto frequente, al tempo, causata dalla insufficiente igiene
assistenziale con conseguente infezione settica della cavità uterina: attraverso i seni
venosi continuamente vengono riversati in circolo batteri e tossine che si formano con
grande intensità sul posto della sepsi. All’inizio della forma morbosa, a volte, lo stato
generale può essere poco scosso e dare anche una falsa euforia, ma sarà un quadro di
breve durata: la tossinfezione fatalmente condurrà alla paralisi cardiaca.
[22] Il certificato è stato ritrovato, redatto in latino curiale e senza la causa della morte, e
pubblicato da Angelo Gomelino, La storia della Palombella raccontata dagli organi di
stampa …, ‘Carpeaux e la Palombella …’, cit., p. 215-216: “N. 39 – Nell’anno del Signore
Milleottocentosessantuno il giorno 18 dicembre Barbara figlia del fu Pietro Pasquarelli,
moglie di Bernardino Palmieri, all’età di venti anni, in comunione con la Santa Madre
Chiesa, sotto questa parrocchia San Biagio di Palombara Sabina, ha reso la sua anima a
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Dio. Rev.mo Luigi Massimi, riconfortata nel corpo dalla confessione al SS. Cristo,
fortificata dall’unzione dell’Olio sacro, raccomandata l’anima e aiutata nell’agonia, il suo
corpo è stato sepolto nella Chiesa di Santa Maria del Gonfalone In fede. Così sia, arciprete
Giulio Belli.
[23] Cfr. nota 4
[24] Alexandre Falguière (Tolosa, 7 settembre 1831, Parigi, 19 aprile 1900). Le figure del
F. hanno qualche cosa del fascino di quelle di J.-B. Carpeaux e degli scultori Secondo
Impero, ma la molle modellatura tondeggiante rivela spesso concetti banali. In un
periodo piuttosto povero di scultori, rappresentò bene l'arte ufficiale ed accademica (Enc.
Ital. Treccani, ad vocem).
[25] Sur les traces de Jean-Baptiste Carpeaux, “Le Pavillon de Flore”, Grand Palais, 11
marzo-5 maggio 1975, e fig. 248.
[26] E. Benezit, Dictionnaire critique et documentaire des peintres …, t. 2°, Librarie
Grund, Paris 1976, p. 543. [27] Clement-Carpeaux, cit., p. 65. Curioso che nessun tratto
sia rimasto, opera di Carpeaux, della madre Mariagiovanna.
[28] Nayereh Maglietta, Morta d’amore Palombella per il suo segreto idillio nel bosco di
Villa Medici, “Momento sera”, 2 luglio 1953, p. 6. In questo articolo l’Autore parlava di
Palombella “uccisa dal mal sottile”, la tesi sposata poi dal Pompili e terminava scrivendo:
“La gloria, la ricchezza, le gioie famigliali (di Carpeaux) e perfino gli insigni favori di cui
lo colmava la bella imperatrice Eugenia, tutto aveva per lui un immancabile senso di
vuoto. Ogni tanto scriveva ai nuovi pensionanti di Villa Medici chiedendo a loro di
recare, per suo conto, i fiori sulla tomba della Palombella (...). È probabilmente al ricordo
della Palombella che si deve la sfumatura di irrealtà che si scorge sui tratti sognanti dei
personaggi di Carpeaux. La lieve sfumatura di una felicità vera e perduta”.
[29] Cfr. nota 3.
[30] Questa ‘sentenza’ fu pronunziata dall’emiro di Beddumunti in Sicilia: scacciato,
dalla riconquista normanna, dai suoi possedimenti nella valle del Fitàlia, incontrato per
mare un abitante di quelle terre che erano state di suo dominio, gli chiese che ne era del
suo castello. Avutane, come risposta, che ormai era distrutto, nel pianto sentenziò: U ma
casteddu ‘u sdirrupau ‘u tempu ch’è marteddu (il mio castello l’ha abbattuto il tempo che
è martello).
Salvatore Vicario
25 febbraio 2015
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Didascalie
1. Gruppo Niobidi, Villa Medici, Roma
2. Jean-Baptiste Carpeaux, Bassorilievo
3. Palombara Sabina
4. Jean-Baptiste Carpeaux, Cupido
5. Jean-Baptiste Carpeaux, ritratto
6. Jean-Baptiste Carpeaux, Ugolino
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