Tempo presente - FILT Lombardia

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Tempo presente - FILT Lombardia
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Primo Piano
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SOMMARIO
La democrazia immaginaria
della rete
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Tempo Presente
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Ciao, Bruno
Una firma consapevole, un accordo
positivo
I servizi di pubblica utilità tra
liberalizzazione e intervento
pubblico
Sempre caldo il tema della mobilità
in Lombardia
Cambiamenti climatici
Sviluppo sostenibile: se non ora,
quando?
L’Italia ha bisogno di un serio piano
nazionale di risparmio energetico
Trasporti in Friuli Venezia Giulia
In Linea
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Qui Comprensorio Brianza
Malpensa tra crisi e sviluppo
Il trasporto Merci in continua
trasformazione
Senza Frontiere
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Il potenziamento delle Trasversali
Nord-Sud Europa: quali impatti
sulle Tangenziali milanesi?
Sguardi e traguardi
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Milano: una città metropolitana
femminile, maschile, plurale
Finestre
“Linate 8 ottobre 2001: la strage”
“Molto forte, incredibilmente vicino”
e “Ogni cosa è illuminata”
di Jonathan Safran Foer
L’altra New York: la propria
NOSTOP News
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Il servizio fotografico è stato realizzato da
Ettore Lo Iacono - [email protected]
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La democrazia
immaginaria
della rete
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di Nino Cortorillo,
Segretario Generale Filt-Cgil Lombardia
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Nelle prossime settimane l’agenda del
paese, ed anche del sindacato confederale, prevede una scansione di appuntamenti di grande importanza, ciascuno
portatore di scelte che possono aprire
scenari carichi di opportunità, ma anche
di rischi.
Finanziaria 2008, consultazione sull’accordo del 23.7.07, elezione diretta del
segretario del Partito Democratico (e
contemporaneo scioglimento di D.S. e
Margherita), manifestazione del 20 ottobre della sinistra radicale.
La sovrapposizione e l’intreccio di questi appuntamenti, alcuni di portata storica, possono, se non gestiti con grande
linearità, pregiudicare l’autonomia della nostra organizzazione.
Autonomia che non può consistere nell’essere o considerarsi estranei o neutri
a quanto avviene nel paese, nel governo, o nella sinistra. Autonomia che
sarebbe messa in forse se si costruisse
un’analisi politica tendente a spiegare
ogni avvenimento come frutto di una
strategia, considerando le scelte che la
nostra organizzazione compie subordinate a logiche esterne all’ambito delle
nostre decisioni.
La leggerezza con cui si assiste nel
paese ad un progressivo dissolvimento
della funzione della politica, stretta
tra incapacità di esercitare un’efficace
funzione di governo e ondate di qualunquismo, davvero non può lasciarci
indifferenti.
Sono convinto che il centro sinistra, la
sinistra, debbano riformarsi, riaggregandosi su progetti che guardino al futuro, sottraendo spazio al potere di veto e
interdizione a soggetti dotati di rappresentatività vicina al 1%. Un paese ingovernato o, peggio, nel quale qualunque
governo diventa bersaglio di ogni
responsabilità è in realtà specchio di un
paese che si sta privando di elementi di
certezza istituzionali, sociali e politici.
Non è in crisi la politica, è in crisi il
paese. Una crisi infinita. Non si comprende quali risposte possano ridare
fiducia e futuro. In questo vuoto crescono e si alimentano solo le ragioni della
difesa di un interesse, di una conservazione, sapendo che gli esiti possono portare verso regressioni pericolose.
La così detta antipolitica è, infatti,
fenomeno troppo antico e radicato nella
nostra storia e da cui non siamo vaccinati. Berlusconi dal 1993 è stato l’antipolitica e non solo ha coperto un vuoto,
ma ha trasformato la politica e le istituzioni in un luogo di conflitto permanente e di cui diffidare.
La cosiddetta “casta” non è, però,
un’invenzione giornalistica, segna un’insofferenza verso riti, luoghi, privilegi,
che sempre più diventano insopportabili
per le persone.
La democrazia mediatica realizzata da
Grillo si inserisce in questo clima e si
indirizza verso spazi in cui i contenuti
assumono un carattere populista e le
proposte un obiettivo salvifico. Si può
sfasciare un computer 10 anni fa sul palcoscenico e oggi creare una rete via
internet. Essere contro l’indulto e contro la Tav, sposare un giorno una tesi e
domani il suo opposto. Di destra un giorno e di sinistra l’indomani.
E ad ogni fatto legare una responsabilità individuale. Come se la povertà fosse
dovuta ad una sola legge o un omicidio
ad un ministro. La formazione dei contenuti è data sempre da alcuni elementi: l’emotività, la semplificazione dei
temi, l’assenza di confronto, la volontà
di ergersi al di sopra di istituzioni e luoghi formali della partecipazione, il giudizio emesso per nome e per conto di un
popolo virtuale. L’inganno dei capipopolo, anche condotto con forme moderne,
è in realtà antico. Quando si dice che
nessuno che sia stato iscritto ad un partito ha diritto a rappresentare questo
movimento a quale passato del nostro
paese, anche inconsapevolmente, ci si
rivolge? A quale democrazia sostanziale
si pensa? Una visione e divisione tra
bene e male, tra verità e menzogna che
era già dentro il dibattito politico e che
si sta ancor più radicalizzando.
La consultazione che il sindacato confederale sta realizzando ed il voto che
riguarderà milioni di pensionati, lavoratori e cittadini avviene in questo umore
che attraversa il paese e non lascia
indenne alcuno strato sociale, nemmeno il corpo dei nostri iscritti.
Non si tratta di contrapporre con troppa
facilità la nostra rete costruita nella
partecipazione, nel dibattito, nella critica, nella sintesi, nell’ascoltare per
modificarsi, nel procedere in avanti
tenendo conto di altre opinioni, alle reti
immateriali che chiamano ad un impegno mediatico e privo di responsabilità.
Con tanta nettezza dobbiamo contrastare queste demagogie, ma con altrettanta chiarezza dobbiamo sapere che il sindacato confederale, la sua rappresentanza costituita è a rischio d’identificazione, di sovrapposizione con la casta
politica del paese.
Chi tra noi pensa che basti una dichiarazione di autonomia o il ritenersi estranei ai partiti sbaglia a capire la profondità del malessere. Che investe le forme
della politica e i luoghi nei quali si esercita, la stessa rappresentanza sociale
scissa tra organizzazioni strutturate e
dispersione sociale.
La consultazione che stiamo compiendo
è un momento di democrazia reale,
quanto le primarie e le manifestazioni
di piazza.
Prima che altre macerie sommergano
ogni iniziativa, e anche noi si sia identificati come parte di una casta, dovremo
ripensare a come siamo, a cosa trasmettiamo, a quali necessità il mondo
del lavoro ci chiede.
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ciao,
Bruno
Abbiamo chiesto a Bruno Ugolini ed a
Franca Donaggio un contributo per
onorare la memoria di Bruno Trentin e
per rendere omaggio, anche sulle pagine di NOSTOP, al dirigente sindacale e
politico, all’intellettuale, all’uomo.
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Bruno Ugolini, giornalista
utonomia, lavoro, libertà. Sono le tre parole care a
Bruno Trentin. E tornano in mente ora, mentre tento di
ripensare, così come l’ho conosciuta, la vita di un dirigente sindacale, di un dirigente politico, di un leader della
sinistra italiana ed europea. A molti poteva apparire come un
aristocratico, un raffinato intellettuale, chiuso nella sua
torre d’avorio. Ma era lo stesso uomo che nell’autunno caldo
affrontava tempestose assemblee operaie. Aveva il gusto del
confronto, aspro, non solo con gli avversari politici, con le
controparti imprenditoriali. Sapeva affrontare anche masse
di lavoratori agitati da ribellismi corporativi. Considerava i
“salariati” come dei protagonisti, dei “produttori”. Così li
aveva chiamati nel titolo di un bel libro “Da sfruttati a produttori”. Era il senso di una battaglia fatta di unità, di lotte
e di conquiste ma soprattutto intrisa di un concetto a lui
molto caro “autonomia”. E’ la sua prima parola. Autonomia
per il sindacato, per la Cgil, per i lavoratori, autonomia per
“sé”. Nella Cgil di Giuseppe Di Vittorio dirige la Fiom per 15
anni fino 1977. Sono gli anni dell’autunno caldo ma anche in
queste circostanze Trentin mette in campo una filosofia che
lo accompagnerà nel corso degli anni. Quella contro la “faciloneria”, contro quei dirigenti sindacali che amano sommare
tutte le “esigenze”, senza scegliere. Così è contrario, ma
resta in minoranza, agli aumenti eguali per tutti, battendosi
per il cosiddetto salario di qualifica. Perché la professionalità è frutto di sacrifici, di studi, di impegno, “da far pagare
al padrone”. Sono tempi non facili, come quando occorre
battersi per i nuovi organismi di base, al posto delle vecchie
commissioni interne. C’è negli interventi di Trentin la determinazione a puntare più sugli assetti di potere nella fabbrica e nella società che alla redistribuzione del reddito.
Nel 1988 assume la carica di Segretario generale della Cgil.
Sono gli anni della concertazione allorché, nel 1992, firma un
accordo che cancella la scala mobile senza contropartite e si
dimette. Ha agito per senso di responsabilità di fronte al tracollo economico. Un anno dopo contribuisce a costruire un’intesa (governo Ciampi) con un nuovo sistema contrattuale
come alternativa alla scala mobile. E’ lui a promuovere quella che diventa la nuova organizzazione degli atipici, il Nidil. E
sempre da segretario generale consegna al suo sindacato,
attraverso una lunga discussione collettiva, una piattaforma
per il futuro, un “programma fondamentale” imperniato sui
diritti e sulla solidarietà.
Abbiamo citato la parola autonomia. Bisogna citarne un’altra:
“lavoro”. E qui arriviamo ai suoi ultimi impegni, durante
l’esperienza di europarlamentare per i Democratici di sinistra
e a capo dell’ufficio programma del partito. Trentin non può
ipotizzare una sinistra staccata dai temi del lavoro.
L’obiettivo sta nel cambiare il lavoro nei suoi aspetti di fatica e di stress, ma anche nel rapporto con le gerarchie proprietarie. Il perno centrale sta nel sapere, nella conoscenza,
da conquistare giorno per giorno. E’ un po’ il senso delle sue
parole con un gruppo di studenti che mi piace rammentare.
E così arriviamo alla terza parola: “libertà”, la libertà di vivere una vita degna di essere vissuta. Sono il modo migliore per
ricordarlo: “mi chiamo Bruno Trentin, ho 71 anni. Ho passato
tutta una vita nel lavoro sindacale. Probabilmente questa
scelta l’ho fatta perché ho scoperto, anche quand’ero molto
giovane, nella classe lavoratrice, una straordinaria voglia di
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conoscenza e di libertà, proprio in quei lavoratori che non
avevano avuto la fortuna di un’educazione, di partecipare ad
un’esperienza di studi. Proprio lì ho trovato un bisogno straordinario, molto più grande di quello di avere un alto salario, ecco, di diventare persone libere, di esprimersi attraverso il proprio lavoro liberamente, di conoscere. E questo spiega anche la grande fierezza, che risorge continuamente nel
mondo del lavoro, in tutti i continenti, in tutti i paesi.
Questa è la cosa che mi ha profondamente affascinato e che
mi ha dato la voglia di mettermi proprio al servizio di questa
causa”.
Uomini come Bruno Trentin sono nati e vissuti per questi ideali. Qualcuno oggi sostiene che sono ideali morti e sepolti.
Perché tutto è cambiato e quell’antico, orgoglioso mondo del
lavoro non esisterebbe più. Come se nelle nuove forme lavorative, quelle che impegnano milioni di giovani e meno giovani, non rinascesse una spinta proprio alla riconquista di spazi
di libertà e autonomia. E’ la lezione che nasce dagli ultimi
scritti di Trentin, nella sua tenace e troppo spesso ignorata
scrittura di un programma per la sinistra. Dove non ci si rifugia nella nostalgia del passato, ma si delinea una strategia
innovativa basata su nuovi obiettivi. A cominciare da quelli
che parlano di conoscenza, di formazione, le armi moderne
per rendere davvero ancora una volta liberi milioni di donne
e uomini che trascorrono gran parte della propria vita, anche
dopo il duemila, lavorando. E connotando così profondamente le proprie esistenze.
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Franca Donaggio, Sottosegretario Ministero della Solidarietà Sociale
icordare Bruno Trentin, per qualsiasi sindacalista della
mia generazione, significa ripercorrere tanta parte
della propria vita trascorsa nel mondo del lavoro e nei
passaggi cruciali della vita sociale e politica del nostro Paese.
Bruno è stato per tutti noi un grande punto di riferimento e
non solo per il suo rigore intellettuale e morale, ma perché è
stato vissuto da tutto il Sindacato confederale come il dirigente che, anche nei momenti più difficili, sapeva indicare
una strada alta alla soluzione dei problemi, con una capacità
straordinaria di interpretare i cambiamenti più profondi che
spingevano verso l’esigenza di una modernizzazione del
Sindacato, per governare e rappresentare le trasformazioni in
divenire.
E’ stato così quando ha anticipato l’esigenza di una profonda
riforma della struttura del salario, della contrattazione, delle
strategie redistributive del sistema di welfare, del sistema di
rappresentanza.
In questi giorni è ricorso molto spesso il ricordo degli avvenimenti che portarono alla firma del protocollo del 23 luglio
1993, a partire dalla difficile notte del 31 luglio dell’anno
precedente, che consentì di delineare la stagione della concertazione e della politica dei redditi.
Io vorrei ricordare un altro dei grandi meriti di Bruno Trentin
e cioè la scelta di aprire alle donne l’accesso alla dirigenza
del Sindacato a tutti i livelli. Anzi, a partire dalla Segreteria
Confederale Nazionale.
Oggi, che sta nascendo un partito nuovo dove il 50% è costi-
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tuito in maniera vincolante da donne, può sembrare scontata
la loro presenza alle più alte responsabilità, ma nel 1989 non
era così. La segreteria della CGIL era composta solo da uomini e con grande difficoltà alcune donne riuscirono a farsi
posto, ma a patto che “fossero brave” e naturalmente l’esame era fatto dai loro colleghi maschi. Il processo di omologazione era la regola ed il femminismo, la teoria della differenza, le battaglie per l’emancipazione e la parità erano vissute
con insofferenza, quasi non ci fosse un problema che riguarda anche il Sindacato e la sua capacità di rappresentare non
solo il lavoro degli uomini, ma anche il lavoro delle donne.
Bruno Trentin fu uno dei pochi, in quegli anni, a capire che le
nuove generazioni di donne, più scolarizzate e più sicure di se
stesse, avrebbero chiesto cambiamenti profondi e, forti di
un’identità collettiva, non avrebbero abbandonato il terreno
dell’impegno politico e sociale.
Nella prima conferenza programmatica di Chianciano, Trentin
riconobbe che nel Sindacato si era affermato un movimento
di donne che chiedevano cambiamenti anche al mondo del
lavoro, non più rivendicando una parità generica, ma esigendo una politica di pari opportunità e di riconoscimento come
soggetto collettivo di cambiamento.
Entrarono, allora, in Segreteria 3 donne e nell’Esecutivo
Nazionale, costituito solo da uomini, fecero il loro ingresso
ben 32 donne. I coordinamenti delle donne furono riconosciuti statutariamente con poteri di intervento e, in mezzo a
tante contraddizioni, sostennero ovunque il processo di femminilizzazione della CGIL, investendo anche CISL e UIL, dove
le donne non rimasero indifferenti a quanto avveniva nella
Confederazione più grande.
Io ho avuto il privilegio di lavorare con Trentin in quegli anni
come Coordinatrice Nazionale delle donne e la lezione che ho
imparato è stata fondamentale per la mia formazione e la mia
crescita politica.
L’onestà intellettuale, il disinteresse personale, la coerenza
tra ciò che si dice e quello che poi si pratica sono lo stile che
Trentin ha impresso alla sua lunga carriera sindacale e politica, e chiunque lo abbia avvicinato si è sentito confrontato e
valutato con questo suo rigore e spessore morale.
Sino all’ultimo Bruno Trentin ha continuato ad elaborare analisi ed idee su come affrontare il nuovo e le trasformazioni in
divenire.
Ricordarlo significa anche continuare a lavorare facendo vivere il suo pensiero perché esso è ancora una grande bussola per
ogni persona che voglia fare buona politica nel segno del
riformismo.
Sul sito
www.rassegna.it
c’è uno speciale dedicato
a Bruno Trentin
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Si sentirà la mancanza di una voce che sapeva guardare con lucidità e con speranza le vicende di un mondo, di un Paese,
di una politica che a stento cerca il filo di un futuro incerto . Bruno Ugolini
”
“
Scompare con Trentin un grande protagonista delle battaglie del mondo del lavoro, del processo di autonomia e di unità
del sindacato, della storia democratica del Paese dagli anni della Resistenza alle lunghe stagioni della costruzione e dello
sviluppo dell’Italia repubblicana cui fino alla fine ha dedicato le straordinarie risorse della sua intelligenza, del suo impegno
civile e sociale e della sua moderna visione degli interessi generali della Nazione . Giorgio Napolitano
”
“
Bruno Trentin aveva, come immagine della modernità, un’eguaglianza solida di diritti garantiti e di accessi possibili.
Credeva in un mondo in cui ha senso parlare di mercato solo se rendi forte, orgogliosa e rispettata la parte debole e la metti
al sicuro dall’essere folla e dall’essere massa . Furio Colombo
“
”
Per fortuna la vita e il lavoro di un uomo come Bruno Trentin non vanno via con la morte. Restano le orme di un percorso nobile che altri scopriranno e seguiranno. E’ un percorso che si chiama civiltà e che, anche a distanza di anni, aiuta a
distinguere, a capire, a rifiutare il peggio, a fare un po’ meglio . Furio Colombo
”
“
Bruno era anzitutto una persona affascinante. Direbbe Manzoni che uno, il carisma, non se lo può dare. Lui lo aveva naturalmente. Chi ha avuto la fortuna e l’onore di conoscerlo personalmente come amico e anche di lavorare al suo fianco sa che
cosa vuol dire quello che definirei il pudore della ragione. Non c’era mai, nel suo discorso, una parola di troppo. C’era anche,
in quel discorso, la presenza di una profonda simpatia umana, di cui faceva parte anche l’indignazione contro l’ingiustizia e
la stupidità, i due grandi peccati contro l’umanità . Giorgio Ruffolo
”
“
Difficile riassumere in poche parole una figura complessa e una storia lunga e intensa come quella di Bruno Trentin…. Un
grande contributo dell’eredità di Bruno è l’idea moderna di welfare, che aiuta a declinare l’idea dei diritti: sul piano del lavoro, il diritto all’occupazione, al reddito; nella dimensione contrattuale, il diritto ad affermare la propria dimensione di libertà e di controllo del ciclo produttivo; e poi quella dimensione moderna che non si limita ai diritti del lavoro, ma fa dei diritti
di cittadinanza il perno essenziale dell’idea di eguaglianza e di democrazia. E dentro questo, naturalmente, la centralità della
persona: oltre la classe, oltre la dimensione collettiva, la dimensione del soggetto come persona . Guglielmo Epifani
”
“
Siamo onorati che Bruno abbia scelto questa parte, che è la nostra, e che sia voluto restare fino in fondo coerente con
questa scelta che aveva fatto sessant’anni fa. Ed è in ragione di questo che, anche in un giorno doloroso come questo, credo
si possa portare dentro un grande, motivato e infinito orgoglio per quello che è stato, per quello che ci ha dato. Anche per
questo, come dice il nostro manifesto, “grazie Bruno . Guglielmo Epifani
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Bruno Trentin (nel Discorso per la laurea honoris causa all’Università Ca’ Foscari di Venezia, 13.9.2002)
“Il tema di questo mio intervento riguarda il rapporto tra lavoro e conoscenza. L’ho scelto perché mi sembra che in questo
straordinario intreccio che può portare il lavoro a divenire sempre più conoscenza e quindi capacità di scelta e, quindi, creatività e libertà, proprio perché si tratta soltanto di una potenzialità, di un esito possibile ma non certo, delle trasformazioni in atto nelle economie e nella società contemporanea, sta la più grande sfida che si presenta al mondo all’inizio di questo secolo. La sfida che può portare a sconfiggere le vecchie e nuove disuguaglianze e le varie forme di miseria che dipendono soprattutto dall’esclusione di miliardi di persone da una comunità condivisa”.
Bruno Trentin (in un’intervista ai Quaderni di Rassegna Sindacale, 3/2005)
“In un periodo nel quale – con la terza rivoluzione industriale – la flessibilità, l’innovazione permanente e continua diventano una condizione fisiologica per la stessa sopravvivenza delle imprese, c’è bisogno di una nuova stagione di diritti, di un
“nuovo contratto di lavoro” (da far valere tanto a livello nazionale quanto decentrato) nel quale sancire nuovi diritti: il diritto all’informazione, alla formazione permanente, al controllo sull’organizzazione del lavoro e sul tempo di lavoro, il diritto
alla crescita professionale, il diritto alla parità di salario a parità di lavoro (superando discriminazioni di genere, di età, di
etnia, e sapendo che le soluzioni basate su salari d’ingresso o simili rappresentano una spinta che va in senso opposto a quello della qualificazione del lavoro, degli investimenti in formazione e ricerca, oltre a provocare la rivolta dei giovani come
abbiamo visto a Melfi o tra gli autoferrotranvieri a Milano).”
“In una situazione nella quale i processi di ristrutturazione e anche di delocalizzazione tendono a diventare la fisiologia e
non la patologia del sistema, il sindacato deve saper sviluppare una nuova cultura industriale che consenta di realizzare il
“governo possibile” dei processi di trasformazione. Credo che la sostanza di tale governo del cambiamento sia nella capacità di prevedere le tendenze e i processi, di prevenirne gli effetti negativi, di guidarne gli sbocchi verso esiti di crescita economica, culturale, sociale e civile”.
“Non capisco la nostra reticenza sul tema della contrattazione territoriale. Io credo che dovremmo essere noi i primi – proprio per consolidare il nostro sistema di relazioni industriali, ma anche per estendere la contrattazione decentrata alla grande maggioranza dei lavoratori che non ne usufruiscono – a esplorare un terreno nuovo di concertazione, in particolare in un
paese di piccole imprese e di distretti industriali, sui processi di riorganizzazione industriale, sulle politiche di investimento nella ricerca e sviluppo, sulla ricostruzione delle condizioni di crescita di fronte alle nuove sfide della competizione internazionale, sulle politiche di formazione permanente, sulla costruzione di centri per l’impiego come strumenti di governo del
mercato del lavoro, di amministrazione di sussidi, di governo della rete degli enti di formazione. Credo cha da questo punto
di vista, si continui a trascurare il ruolo delle Camere del lavoro. Agli albori del movimento sindacale, le Camere del lavoro
furono il luogo di unificazione e rappresentanza di un mercato del lavoro nel quale la figura centrale non era quella dell’operaio della grande impresa, tutelato dal proprio contratto di categoria, ma quello del bracciante a giornata, che faceva una
parte delle sue giornate in edilizia e una parte ancora come ambulante. Oggi, di nuovo, in un mercato del lavoro frammentato e disperso, nel quale molti giovani sono costretti a passare da un lavoro a un altro, da un settore a un altro, le Camere
del lavoro potrebbero tornare a svolgere quel ruolo di unificazione”.
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Una firma
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Il tema dell’equità era davvero il tema centrale da avviare a soluzione, compiendo
scelte di priorità. Scegliere, questa è la difficoltà del nostro mestiere: scegliere,
ragionare sui criteri delle decisioni, condividerli, parteciparli. E’ questo che comincia a disegnare una strategia che si dia obiettivi, percorsi di avvicinamento, tappe.
di Marigia Maulucci, Segretaria nazionale CGIL
Cominciamo dal riassunto delle puntate precedenti. Occorre
riandare intanto a quell’esperienza irripetibile che è stata la
Finanziaria 2007, della quale speriamo che il Governo e la sua
maggioranza faccia tesoro.
A mente fredda, possiamo valutarne i risultati positivi, con l’occhio che vada al di là del gran trambusto che ha fatto di tutto per
occultarli.
E’ stata sicuramente positiva l’azione di risanamento dei conti
pubblici: rientrare definitivamente nel Patto di Stabilità, uscire
dall’emergenza di un deficit che superava il 3 %, programmarne
il suo azzeramento, insieme alla riduzione del debito e alla ricostituzione dell’avanzo primario, è davvero un valore eccellente.
Consente tempo e modo per avere a disposizione risorse da investire nella crescita, senza il taglieggiamento che i vincoli di
finanza pubblica hanno sempre imposto alle, peraltro scarse,
risorse prodotte e alle imposte pagate. Insomma, detta in altri
termini, risanare i conti pubblici è una cosa di sinistra.
L’altro risultato positivo è stato l’avvio, solido, mirato, strutturale, di una lotta vera all’evasione fiscale. E’ vero, in un paese normale, un governo lotta contro l’evasione fiscale: è suo dovere e
interesse farlo. Il contrario sarebbe follia o collusione.
Sarà forse che questo è poco un paese normale, tant’è che il
grosso degli strali contro l’esecutivo è arrivato da chi per anni si
è infilato in quella zona grigio-nera di benessere, di indubbio vantaggio competitivo, di illegittimità sul piano dei doveri fiscali e
dei diritti dei lavoratori.
Contemporaneamente, tra il 2006 e il 2007 abbiamo rivisto
segnali positivi dalla nostra economia reale, forse a dimostrazione del fatto che, intanto che in superficie appariva il declino,
nelle viscere del nostro apparato produttivo qualcosa si cominciava a muovere.
La somma di avvio di risanamento e crescita dell’economia reale
ha prodotto (e speriamo continui a farlo) risorse aggiuntive non
previste che hanno creato le condizioni materiali per un inizio di
redistribuzione.
Si trattava, nella fattispecie di 10 miliardi, dei quali 7,5 destinati al risanamento della finanza pubblica e 2,5 al, diciamo così,
Welfare.
Quando ci siamo seduti a quel tavolo, di problemi da affrontare
ne avevamo parecchi, tutti ruotanti intorno alle difficoltà materiali dei lavoratori e pensionati, con retribuzioni e pensioni in
affanno. Nella Finanziaria 2007, il Governo aveva provato a ridi-
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segnare la curva delle aliquote, ripristinando quella progressività del sistema che
il governo precedente aveva cancellato.
La manovra si è infilata in quel ginepraio
che sappiamo, risorse scarse rispetto alla
bisogna e platea di riferimento molto
ampia, con in aggiunta il colpo di grazia
dell’aumento delle addizionali locali, concesso dal Governo a compensazione della
riduzione dei trasferimenti.
Dunque, il tema dell’equità era davvero il
tema centrale da avviare a soluzione,
compiendo scelte di priorità. Scegliere,
questa è la difficoltà del nostro mestiere:
scegliere, ragionare sui criteri delle decisioni, condividerli, parteciparli. E’ questo
che comincia a disegnare una strategia
che si dia obiettivi, percorsi di avvicinamento, tappe.
Abbiamo dunque condiviso col Governo
che l’emergenza si chiamava pensioni
basse e condizioni lavorative dei giovani
e su questo abbiamo ragionato per la
ripartizione delle risorse messe a disposizione. Perché, a differenza di tanti altri
tavoli della nostra storia, questa volta
delle risorse (e nemmeno tanto scarse)
c’erano.
Non abbiamo mai detto che con quelle
risorse si sarebbe dovuto coprire il superamento del famoso scalone della legge
Maroni, perché, alla faccia di tutti coloro
che ci accusavano, ci accusano e ci accuseranno di difendere i protetti invece dei
precari, abbiamo voluto indicare nei giovani e negli anziani in gravi difficoltà
l’obiettivo di quel tavolo di confronto.
Difficile non riconoscere che abbiamo portato a casa dei considerevoli risultati.
I pensionati, titolari di pensioni basse a
seguito di bassi contributi, dunque pensionati già lavoratori con basse qualifiche o
vita lavorativa insufficiente a garantire un
reddito decente, avranno incrementi medi
dell’ordine di 336 euro per un’anzianità
contributiva fino a 15 anni, 420 da 15 a 25
anni, 504 per oltre i 25 anni. Il testo è già
nella legge 127/07 e la misura sarà operativa dal mese prossimo, per coloro che
hanno diritto, con un’erogazione in
un’unica soluzione.
L’accordo prevede, inoltre, la rivalutazione al 100% al costo della vita dei trattamenti pensionistici per le fasce comprese tra tre e cinque volte il trattamento minimo.
Per i giovani, occorreva rafforzare intanto
il loro quadro contributivo, essendo totalmente dentro questo regime, secondo
quanto previsto dalla riforma del ’95.
E’ previsto, dall’accordo, il riscatto
della laurea a condizioni più vantaggiose delle attuali, la totalizzazione dei
periodi lavorativi, cumulando tutti i
contributi maturati in qualsiasi gestione
pensionistica e riducendone il requisito
minimo di permanenza e l’aumento di
tre punti percentuali (nel triennio 2008-
2010) delle aliquote previdenziali dei
parasubordinati.
Quest’ultima misura non solo rafforza lo
zaino di contributi a fini previdenziali ma,
di fatto, riduce l’appeal di forme di lavoro precarie rispetto a forme di assunzioni
più solide.
Per quanto riguarda poi gli ammortizzatori sociali, fermo restando l’impegno alla
riforma di “sistema”, si stabilisce l’aumento della durata dell’indennità ordinaria e quello dell’importo dell’indennità.
Sul piano del mercato del lavoro, confermando e rafforzando la lotta al sommerso
che la Finanziaria 2007 ha iniziato, si
incentiva il part-time lungo, si affida alla
contrattazione la definizione della clausole elastiche e flessibili, si stabilisce il diritto di precedenza in caso di posti a tempo
pieno disponibili. Si cancella il lavoro a
chiamata.
E qui ci fermiamo, perché, com’è noto,
sulle questioni che attengono alla necessità di superamento dello staff leasing e di
una maggiore cogenza nella trasformazione
dei contratti a termine dopo 36 mesi occorre riaffermare la nostra esigenza - nostra di
CGIL CISL UIL, cioè - di continuare nella
lotta contro la precarietà.
L’ho fatta tanto lunga sui risultati ottenuti non certo per ragioni trionfalistiche ma
per dire che davvero c’è materia per dire
che abbiamo portato a casa risultati che
avviano a soluzione alcuni problemi di non
poco conto, che da anni ci trascinavamo
nelle nostre rivendicazioni. Per dire,
insomma, che la nostra firma è il risultato
di un bilanciamento costi/benefici che si è
positivamente risolto a favore dei benefici. Quando firmiamo, così è.
E poi c’è lo scalone.
Abbiamo lavorato al suo superamento,
costruendo un nuovo impianto di requisiti che corregge le rigidità e le iniquità
di quelli attualmente in vigore sulla
base della legge Maroni, escludendo i
lavori usuranti che andranno in pensione con un anticipo di tre anni del requisito anagrafico, riaprendo le quattro
finestre per la decorrenza della pensioni di anzianità, lavorando alla rivisitazione dei criteri per la definizione dei
coefficienti di trasformazione.
Questo, in estrema sintesi, il quadro
della riforma dello scalone: questo
quanto possibile, stante il vincolo delle
risorse disponibili, tutte trovate all’interno del sistema.
Ricordo, per inciso, che si tratta di
coperture con una certa valenza di
merito: l’aumento della contribuzione
dei parasubordinati (che incorpora i
vantaggi che dicevo), il taglio di pensioni “d’oro”, l’impegno all’unificazione di
enti che nella loro dupli-tripli-cazione
costituiscono davvero una fonte di
aggravio di risorse pubbliche che possono, ovviamente nel rispetto dei diritti di
chi ci lavora, essere utilmente qualificate e ottimizzate.
Va da sé che ci sarebbe piaciuto un sistema di quote più flessibile, vale a dire che
non incorporasse la rigidità del requisito
anagrafico e contributivo: non sempre,
però, il desiderio coincide con le condizioni della reale percorribilità dello stesso.
L’aver salvaguardato ampie fasce di lavoro usurante tranquillizza rispetto a scelte
che, in coerenza con la legge Dini da una
parte e con il quadro demografico di questo Paese che vede fortunatamente prolungarsi la speranza di vita dall’altra, tendono a realizzare un graduale aumento
dell’età lavorativa.
Aver corretto delle iniquità palesi e riaffermato l’immutabilità dell’età pensionabile delle donne è un risultato che non
possiamo che considerare positivo.
Da ultimo, nel quadro dei risultati dell’accordo, va ricordata la piena pensionabilità
e gli sgravi contributivi delle retribuzioni
erogate a titolo di premio di risultato dalla
contrattazione di 2° livello, oltreché
un’ipotesi, tutta da costruire, su una parziale detassazione delle stesse.
Questo è quanto: ora la parola passa ai
lavoratori.
A loro va trasmessa un’informazione meticolosa e puntuale dei singoli aspetti di
merito, ma anche e soprattutto delle
ragioni che ci hanno convinto a siglare
l’intesa, sulla quale il nostro giudizio è
positivo.
Ognuno deciderà con la sua testa ed esprimerà, segretamente, il suo voto. Quella
espressione è per noi il valore più alto di
questa verifica.
Le assemblee nelle quali siamo impegnati in questi giorni devono essere un
momento vero di partecipazione attiva,
di coinvolgimento nel processo di formazione di una scelta, di sostegno
rispetto ad un impianto strategico che
certamente non si ferma qui.
I lavoratori devono sapere che CGIL CISL
UIL sono in campo, per consolidare i risultati, metterli alle spalle e ripartire nella
continuità della battaglia sindacale che ha
come centralità la difesa dei diritti e del
miglioramento delle condizioni materiali
delle persone che rappresentiamo.
Davanti a noi, una non facile legge
Finanziaria che dovrà declinare l’impegno
assolutamente prioritario della crescita
del PIL, perché senza crescita, senza
aumento della produttività e della competitività, non ce n’è per nessuno, giovane,
vecchio, precario, donna.
Il consenso di oggi diventa forza di rappresentanza nelle scadenze successive: chiediamo dunque un consenso ragionato, partecipato, consapevole e responsabile.
Chiediamo, insomma, l’esercizio di una
soggettività, quella del lavoro, che si fa
classe dirigente del paese.
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I servizi
di pubblica utilità
tra liberalizzazione e
intervento pubblico
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I servizi a rete - quali acqua, energia,
trasporti pubblici e telecomunicazioni
- sono un fattore cruciale per lo sviluppo delle persone, della società e
dell’economia.
di Ivan Panzica
Dal 17 al 19 maggio a Venezia, presso l’Università Internazionale, nell’isola di San Servolo, si è tenuta la sessione annuale
della Scuola Internazionale di Sussidiarietà, che ha affrontato
il tema dei servizi di pubblica utilità, tra i quali i trasporti.
L’edizione del 2007 della Scuola ha previsto la presentazione di
numerosi casi aziendali e di policy da parte di regolatori,
amministratori pubblici, professori universitari, provenienti da
diversi Paesi. I servizi a rete - quali acqua, energia, trasporti
pubblici e telecomunicazioni - sono un fattore cruciale per lo
sviluppo delle persone, della società e dell’economia, a livello
sia locale sia nazionale.
Quali elementi permettono di passare ad una più ampia libertà
di scelta da parte dei consumatori, ad una migliore qualità dei
servizi, ad investimenti di modernizzazione? Oggi sono numero-
se le città, le regioni e i paesi che ancora si trovano nel mezzo
del processo di riforma.
Le sessioni che hanno composto la Scuola hanno permesso di confrontare e discutere le soluzioni adottate nei diversi settori e nei
diversi Paesi in ambiti importanti quali le forme di regolazione
dei servizi, la proprietà e la governance delle imprese, il finanziamento delle infrastrutture, i sistemi indicatori di qualità.
La Scuola organizzata dalla Fondazione per la Sussidiarietà trae
ispirazione dal principio di sussidiarietà che afferma il primato
della persona rispetto alla società e della società rispetto allo
Stato, affinché ogni decisione attinente l’interesse generale sia
presa al livello più vicino al cittadino.
La sussidiarietà è così intesa come impegno perché ogni apporto e ogni cultura possano esistere. Si esprime nella valorizzazione del singolo, delle sue potenzialità e nell’educazione alla
libertà e alla responsabilità.
Su questi presupposti la Scuola ha portato avanti il teorema
della possibilità di modelli diversi di titolarità per reti e impianti nei servizi di pubblica utilità, modelli basati appunto sul principio di sussidiarietà.
La proposta sostenuta durante le varie sessioni della Scuola è
stata quella di affidare la gestione della cosiddette public utilities alle Fondazioni.
Le motivazioni partono da un’analisi della gestione pubblica
che è considerata insufficiente: investimenti insufficienti, effi-
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cienza operativa ridotta, scarsa qualità del servizio, crescente
inaccettabilità del ricorso al debito pubblico e all’imposizione
fiscale, costi nascosti del dirigismo.
Inoltre, nell’attuale sistema di gestione della public utilities vi
è, secondo i promotori dell’iniziativa, una rappresentanza solo
formale dei cittadini/utenti: vi è una sostanziale governance
politica e dominanza dei manager pubblici.
I punti di forza, invece, della proposta delle non-profit utilities
(Fondazioni di derivazione pubblica) starebbero nella vera titolarità dei cittadini, patrimonio vincolato al servizio (nessun
pagamento di dividendi o di canoni di concessione), proprietà
non trasferibile. Altri elementi a loro favore sono l’efficienza e
la capacità di finanziamento maggiore delle attuali strutture. Il
tutto deriva anche dal fatto che la privatizzazione della publicutilities non è sempre adeguata, soprattutto quando si tratta di
monopoli naturali.
A sostegno di queste tesi sono state portati all’attenzione casi
di non-profit utilities in Gran Bretagna, per la gestione dell’acqua e della rete ferroviaria, e negli Stati Uniti, con le autorità
municipali di Detroit nella gestione delle reti elettriche.
Autorevoli sono stati gli interventi, come si evince dall’elenco.
Marco Piuri, FNM Group (Italia), Management delle utilities tra
regolamentazione, assetti proprietari e governance.
Paola Garrone, Politecnico di Milano (Italia), Non profit e servizi di pubblica utilità.
Sam Peltzman, Università di Chicago (USA), Liberalizzazione e
intervento dello Stato: passato, presente, futuro. ·
Keith Bastow, Arriva plc (Regno Unito), Trasporto pubblico
locale: qualità del servizio ed investitori privati. Un caso di
successo.
Daniel R.lrvin, Private Public Funds (USA), Finanza pubblica
per gli investimenti in infrastrutture negli Stati Uniti.
Raffaele Tiscar, Regione Lombardia (Italia), Riforma dei servizi pubblici locali: l’esperienza della Regione Lombardia.
Andrei Dunn, Office of Water (Regno Unito), Incentivi per un
buon servizio al cliente nel settore dell’acqua (Inghilterra e
Galles)
Michel Quidort, Veolia (Francia), Scelta per i clienti: l’esperienza di Veolia.
Mario Saporiti, Utilità (Italia), Libertà di scelta e rapporto
con gli utenti nel settore dell’energia: testimonianza di un
operatore.
Una proposta per le reti
di pubblica utilità:
dare spazio al non-profit
di Marco Piuri,
FNM Group
Nello sviluppo delle infrastrutture e servizi dei sistemi città e
paese non è sufficiente l’intervento diretto dello Stato né
quello di regolazione del mercato e delle imprese, ma è
necessario attribuire all’utente una posizione centrale attraverso cui sia garantita:
● libertà di scelta del fornitore
● libertà di iniziativa per le imprese for-profit
● libertà di iniziativa per le non-profit utilities1
Mentre i primi due punti sono presenti nelle riforme degli ultimi
anni, l’apertura a forme di titolarità delle reti e degli impianti di
tipo non-profit non ha finora trovato spazio nel dibattito pubblico e nell’azione politica. Seguendo l’esempio delle esperienze di
altri paesi rispetto a specifici settori, la Fondazione per la
Sussidiarietà propone un riconoscimento delle potenzialità delle
non-profit utilities.
Non-profit utilities: motivazioni ed esperienze internazionali
Il servizio idrico, i trasporti pubblici, la gestione dei rifiuti e
le reti dell’energia costituiscono ambiti normalmente sviluppati in un regime di monopolio strutturale. In questo campo
le non-profit utilities possono svolgere un ruolo essenziale,
come dimostrano numerose esperienze nei paesi con una
grande tradizione di apertura al mercato, Regno Unito e Stati
Uniti su tutti. Il loro successo è motivato anche dai limiti della
gestione pubblica e da evidenti difficoltà di regolazione che,
di fatto, nascondono il costo altissimo del sacrificio del
potenziale dell’economia e della società. In ogni caso, lo sviluppo delle non-profit utilities è da considerarsi complementario a quello delle imprese private e delle attività operative
e delle logiche concorrenziali.
Esperienze significative sono, ad esempio, quelle della Glas
Cymru-Welsh Water, azienda gallese leader nel livello di servizio
che dal 2001 offre il servizio idrico a più di un milione di utenti,
facendo outsourcing con i migliori fornitori specializzati e trasferendo i dividendi ai consumatori con tariffe ridotte o l’inglese
Network Rail Ltd, creata nel 2003 in seguito al grave dissesto
della privatizzata Railtrack, che continua a ricevere sussidi pubblici, ma ha smesso di essere in perdita. Le non-profit utilities
presentano forme societarie diverse, ma alcune caratteristiche
comuni: re-investimento degli utili, diritti di proprietà non trasferibili, indebitamento elevato ma sostenibile (date le caratteristiche del settore), manager specializzati, utenti che partecipano alla governance.
Non-profit utilities: elementi qualificanti
Pur con origini, esperienze e forme societarie differenti, le nonprofit utilities condividono alcuni tratti fondamentali.
1. Rappresentanza dei cittadini e degli altri stake-holder2. I
cittadini, le imprese e le associazioni del territorio di competenza sono riconosciuti come effettivi titolari in quanto sono
i principali destinatari degli investimenti e ne sostengono
interamente i costi.
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2. Patrimonio destinato al servizio. Gli utili sono re-investiti
nelle reti e nelle altre risorse finalizzate alla qualità e alla diffusione dei servizi.
3. Finanziamento degli investimenti. Avviene prevalentemente
tramite l’emissione di titoli di debito a lungo termine sui mercati finanziari. La sostenibilità finanziaria degli investimenti è
garantita ai mercati dalla possibilità di definire autonomamente
le tariffe, dalla fiscalità di scopo, dalla presenza di specifici sussidi e dalla patrimonializzazione degli utili.
4. Gestione aziendale e accountability3. Le non-profit utilities
sono gestite secondo criteri aziendali da manager specializzati
che ricorrono a fornitori privati per le attività operative.
L’accountability è assicurata da documenti finanziari pubblici,
dal controllo del regolatore e dagli organi di governo.
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Non-profit utilities in Italia: spunti e linee di lavoro
Per l’implementazione della proposta occorrono attente valutazioni sui singoli servizi e per i singoli territori che facilitino
l’abbandono al ricorso esclusivo alla fiscalità generale, sviluppino strumenti e regole a garanzia dell’informazione per cittadini e operatore, valorizzino operatori con modelli di governance che rappresentino tutti gli stake holder. In questa direzione è possibile tracciare precise linee guida di lavoro:
● Fondazioni di pubblica utilità. Uno strumento promettente per realizzare il legame tra patrimonio e servizio è rappre-
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sentato dalle Fondazioni, da una parte proprietarie delle reti
e degli impianti, dall’altra titolari delle decisioni di investimento per lo sviluppo e il rinnovo.
● Governance. Le Fondazioni permettono un’efficace rappresentanza dei diversi stake-holder tra cui i rappresentanti
nominati dagli Enti locali, i rappresentanti dei cittadini residenti e i rappresentanti degli utenti industriali.
● Finanziamento degli investimenti. Nel rapporto con i mercati finanziari (emissione del debito), le Fondazioni permettono di condividere gli aumenti tariffari e le decisioni di investimento direttamente con gli stake-holder; al contempo la
proprietà diretta degli asset riduce il rischio economico e
quindi il costo del capitale.
● Differenze con le attuali utilities locali. La Fondazione
consente di superare alcune ambiguità tipiche delle società di
capitale a controllo pubblico che in molti casi sono esposte
alle interferenze della politica e, al tempo stesso, estraggono
rendite nella forma di dividendi e canoni di concessione.
In conclusione, l’apertura al non-profit nel mondo delle utilities può far leva su numerose esperienze internazionali, su
alcune debolezze dell’impresa statale e degli investitori forprofit e su specifici punti di forza della forma non-profit. Per
l’Italia, particolare interesse riveste la possibilità che la proprietà e il finanziamento delle infrastrutture siano affidate ad
enti quali le fondazioni.
Imprese non-profit nei
servizi di pubblica utilità:
caratteristiche ed
esperienze internazionali
di Paola Garrone,
Politecnico di Milano
Il problema degli investimenti di pubblica utilità
La diffusione, la qualità e la stessa efficienza dei servizi di pubblica utilità, su base locale o nazionale, dipende in maniera cruciale dagli investimenti, ma l’Italia è ancora in molti settori
caratterizzata da una generale arretratezza di reti e impianti.
Per risolvere questo problema è opportuno interrogarsi sui
modelli proprietari. Mentre la natura dei titolari non ha particolari implicazioni nei settori dove si osserva qualche forma di
concorrenza (ad esempio, generazione elettrica, telecomunicazioni, attività operative nei servizi pubblici locali), nelle attività svolte in monopolio o caratterizzate da speciali difficoltà di
regolazione la scelta di un opportuno modello proprietario può
contribuire ad avviare il recupero degli investimenti. Ciò appare particolarmente urgente nel servizio idrico, nel trasporto
pubblico e nella gestione dei rifiuti urbani, settori nei quali il
processo di riforma ha avuto effetti minori; peraltro anche le
reti elettriche e del gas presentano specifiche aree di ritardo.
Le non-profit utilities1 non sono ancora presenti in Italia; tuttavia l’esperienza di Stati Uniti e Gran Bretagna mostra che in
alcuni casi esse possono presentare diversi vantaggi rispetto alle
tradizionali utilities pubbliche e alle stesse utilities private.
Imprese non-profit nei servizi di pubblica utilità
Le non-profit utilities presentano forme societarie diverse nei
diversi paesi, ma condividono alcuni tratti fondamentali.
a. Rappresentanza dei cittadini e degli altri stake-holder2.
Nel Regno Unito e negli Stati Uniti, i cittadini, le imprese e le
associazioni del territorio di competenza intervengono nelle
decisioni di tipo strategico delle non-profit utilities. La rappresentanza degli stake-holder negli organi di governo avviene attraverso elezione diretta da parte dei cittadini, nomine
dall’industria e dalle associazioni, deleghe del governo locale
o statale.
b. Reddito di impresa destinato al servizio e agli utenti. Gli
utili sono re-investiti nelle reti e nelle altre risorse finalizzate
alla qualità e alla diffusione del servizio; come impiego alternativo del valore creato, vanno segnalati i “dividendi clienti”
(sconti tariffari). Non sono previsti dividendi per gli azionisti o
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canoni di concessione per le amministrazioni di riferimento;
negli Stati Uniti, le non-profit utilities non pagano imposte sul
reddito.
c. Finanziamento degli investimenti. Il finanziamento delle
attività è realizzato in misura preponderante con l’emissione di
titoli di debito a lungo termine sui mercati finanziari. La sostenibilità finanziaria è assicurata dalla leva tariffaria, dalla fiscalità di scopo (negli Stati Uniti), da specifici sussidi ai nuovi investimenti, dalla patrimonializzazione degli utili.
d. Gestione aziendale e accountability3. Le non-profit utilities sono gestite da manager specializzati. L’accountability è
assicurata da documenti finanziari pubblici e dalla presenza
di organismi di controllo e regolazione. Inoltre, le azioni dei
manager sono sottoposte al controllo degli stake-holder presenti negli organi di governo e allo scrutinio dei mercati
finanziari.
Le non-profit private britanniche
Un caso che illustra bene le potenzialità delle non-profit private UK è un’esperienza del settore idrico, l’acquisizione dell’operatore gallese privato Welsh Water da parte di una nonprofit. Il settore dei servizi idrici del Regno Unito è stato privatizzato a partire dal 1989. Dalla seconda metà degli anni
Novanta, alcuni operatori hanno manifestato in maniera crescente problemi reddituali, finanziari e di livello di servizio.
Nel 2001 un gruppo di manager, esperti del settore ed amministratori pubblici, ha elaborato un piano per costituire una
non-profit privata, Glas Cymru, che acquisisse per 2.700 milioni di euro gli asset di Welsh Water, un’impresa che offriva il
servizio a circa 3 milioni di cittadini gallesi. L’operazione è
stata finanziata con l’emissione di obbligazioni (capitale di
debito). L’obiettivo dichiarato è quello di offrire il servizio
idrico ai “cittadini del Galles alla miglior qualità e al minor
prezzo possibili”.
Il governo dell’impresa, stante l’assenza di azionisti, è assicurato dai soci e dai loro rappresentanti in un consiglio detto
Board of Trustees. I soci sono scelti dal presidente in base alle
proposte di un comitato indipendente nel mondo delle professioni, dell’amministrazione, dell’associazionismo locale ed
ambientale, del settore idrico e non hanno interessi finanziari
nell’impresa. La struttura finanziaria è dominata dal capitale
di debito, nella forma di obbligazioni scambiate su mercati
finanziari e valutate da parte di analisti finanziari; va poi notato che gli utili reinvestiti hanno costituito nel tempo una riserva di capitale proprio.
Le prestazioni sono lusinghiere, soprattutto in termini di qualità del servizio; Welsh Water, partendo dalle ultime posizioni del
benchmarking (analisi dei risultati periodica) diffuso dal regolatore negli ultimi cinque anni, è diventata leader del settore.
L’impresa sostiene investimenti materiali annui dell’ordine dei
400 milioni di euro e offre un “dividendo” ai clienti, nella forma
di uno sconto pari a circa 18 milioni di euro all’anno. Una caratteristica qualificante è l’intenso ricorso a fornitori privati eccellenti nelle diverse attività operative, attraverso gare molto
competitive.
Un altro caso di non-profit privata si trova nel settore ferroviario, dove dopo la privatizzazione si erano registrati gravi disservizi e il dissesto del gestore della rete. Nel 2002, gli asset di
Railtrack sono stati conferiti a Network Rail Ltd, una società
non-profit che si occupa di sviluppare e gestire le tracce ferroviarie e le stazioni. Anche in questo caso non vi sono azionisti
ma soci, uno dei quali, con diritti speciali di voto, è espresso dal
Ministero dei Trasporti; un comitato indipendente seleziona gli
altri soci. Con oltre 4.500 milioni di euro l’anno di investimenti, Network Rail mantiene, rinnova e ammoderna l’intera rete.
Anche in questo caso il ricorso al mercato finanziario per la raccolta del capitale di debito è assai significativo (oltre 15.000
milioni di euro di debiti a lungo termine). I ricavi di Network
Rail sono superiori ai 5.500 milioni di euro e provengono sia dal
“pedaggio” pagato dalle compagnie dei treni sia dai finanziamenti dell’autorità di settore; dopo anni di perdite, proprio nel
2006 si sono registrati i primi utili.
Le “non-profit municipali” statunitensi
Le utilities e autorità municipali USA sono assai diverse dalle
nostre imprese di proprietà comunale e sono descrivibili come
“non-profit municipali”. Dominano servizi idrici e trasporto
pubblico locale; sono presenti anche nel settore elettrico (insieme alle cooperative di utenti, tipiche delle zone rurali).
Perché le utilities municipali statunitensi sono classificabili
senza forzature come “non-profit”?
Prima di tutto, esse presentano una clausola non-profit nello
statuto: destinano il reddito di impresa agli investimenti; sono
esenti da imposte su reddito e immobili e da canoni di concessione. In alcuni casi il Comune riceve una quota massima predeterminata dei ricavi (dell’ordine del 5%), utilizzabile solo per
specifiche necessità, non per la gestione ordinaria.
Secondo, la governance è improntata alla rappresentanza degli
interessi dei cittadini. L’equivalente del Consiglio di
Amministrazione è un Board of Trustees, di nomina politica ma
con buoni gradi di autonomia: mandati con scadenze diverse,
remunerazioni nulle o ridotte, obbligo di consultazione dei cittadini per operazioni straordinarie, svolgimento pubblico delle
riunioni.
Infine, anche la struttura finanziaria caratterizza le municipali
USA come non-profit. Gli unici sussidi ammessi sono contributi
destinati esclusivamente a nuovi investimenti (non possono
essere destinati alle attività operative). In funzione di determinati piani di sviluppo sono emesse obbligazioni municipali ed
obbligazioni garantite dai ricavi e valutate dalle agenzie di
rating; inoltre, le municipali statunitensi possono proporre l’imposizione di tasse di scopo. La sostenibilità finanziaria è assicurata dal basso rischio associato all’esistenza di riserve (re-investimento degli utili) e dal controllo sulle tariffe.
Un esempio fra i molti possibili è offerto dal Detroit Water and
Sewerage Department, che offre servizi idrici a più di 4 milioni
di utenti nella città di Detroit e zone vicine (Michigan). Con riferimento alla governance del City of Detroit Water Fund (acquedotto) e del City of Detroit Sewerage Fund (acque reflue), essa
è assicurata da un comitato, il Board of Water Commissioners,
con 7 rappresentanti scelti dal Sindaco (4 cittadini di Detroit e
3 rappresentanti delle zone suburbane); i commissari hanno un
mandato di 4 anni a scadenze differenziate e non godono di
remunerazione finanziaria. Gli utili sono interamente reinvestiti, mentre i ricavi tariffari sono disegnati per coprire costi operativi e costi del capitale. I due fondi godono di una completa
esenzione da tasse su reddito, immobili e vendite e non pagano
alcun canone di concessione al Comune; inoltre, sono assenti
pagamenti alla città anche minimi.
Conclusioni
Nel nostro paese, la preferenza per la proprietà pubblica delle
reti e degli impianti e per il ricorso al confronto concorrenziale
per l’erogazione del servizio è del tutto coerente con un modello di gestore non-profit delle attività di investimento.
In una “Fondazione di pubblica utilità” il reddito di impresa
dovrà essere re-investito; gli organi di governo saranno espressione degli utenti e degli altri stake-holder, secondo i modelli di
governo delle non-profit private britanniche; non è esclusa la
derivazione pubblica, su esempio delle utilities municipali statunitensi.
1 utilities = servizi
2 stake-holder = gruppi di interesse
3 accountability = responsabilità
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Gestione e governo
di reti
e infrastrutture
di Antonio Panzeri, Vice Presidente Commissione Affari Sociali e Occupazione - Parlamento europeo
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Dibattito aperto in Europa sulle liberalizzazioni. Gli interrogativi sul tema della
separazione tra proprietà e gestione nelle pubbliche utilities. Le prospettive.
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L’Unione Europea ha fra i suoi principi fondanti la libera circolazione dei cittadini, delle merci, dei capitali e dei servizi
all’interno dei confini comunitari. Tale principio, a sua volta,
affonda le proprie radici negli assunti del pensiero liberale in
materia di libera iniziativa economica e di libertà di scelta dei
singoli individui.
In tale contesto, da tempo si discute come possa essere attuato il principio generale di libero mercato con riferimento alla
somministrazione di determinati servizi, quali quelli di pubblica utilità, caratterizzati da forti valenze sociali, esigenze
di universalità e di accessibilità economica.
Allo stato attuale, a livello comunitario si fa sempre più strada l’idea di contemperare esigenze di mercato ed esigenze di
socialità nel livello delle prestazioni erogate, procedendo al
c.d. unbundling (suddivisione) delle filiere in cui si articolano
i vari servizi, in modo da riservare a ciascun segmento di esse
un diverso trattamento normativo e un diverso punto di equilibrio fra libertà di intrapresa ed intervento pubblico.
Si tende così a separare la gestione delle reti e delle infrastrutture sia dalla fase “a monte”, dedicata alla produzione
del servizio, sia dalla fase “a valle”, riguardante l’erogazione
della prestazione all’utente finale.
Per quanto riguarda la fase di produzione/approvvigionamento è ormai opinione comune la necessità di una completa liberalizzazione del mercato, nell’indifferenza riguardo al regime
proprietario delle imprese in reciproca competizione.
Parimenti, è opinione condivisa la necessità di una liberalizzazione anche dei mercati a valle, sia pur nell’ambito di una
competizione regolata, oltre che vigilata, da apposite
Authority di settore.
Molto più dibattuto è, invece, il tema riguardante il sistema
di gestione e governo delle reti e delle infrastrutture. Ed è su
questo punto che vorrei brevemente soffermarmi. In particolare, con riferimento alla tendenza invalsa nel nostro Paese pressoché unico in Europa- volta ad imporre una separazione
forzosa fra la proprietà e la gestione delle infrastrutture afferenti ai servizi di pubblica utilità -soprattutto locali- e l’assegnazione della gestione sempre e comunque tramite gara.
Tale scelta non solo non risponde ad alcun obbligo comunitario, ma introduce -a mio avviso- una scissione non funzionale
oltre che dannosa per il servizio stesso.
Le varie Autorità di settore hanno d’altronde evidenziato più
volte le inefficienze e la scarsa propensione agli investimenti, risultanti dalla ripartizione delle responsabilità che la
separazione tra proprietà e gestione implica.
Il proprietario non investe poiché non coinvolto nei benefici
derivanti dall’eventuale aumento di produttività della gestione. Il gestore, viceversa, non investe nel medio/lungo periodo su beni non propri, gestiti -per giunta- a scadenza (senza
contare le incertezze rivenienti dal sicuro contenzioso fra
gestore uscente ed eventuale gestore entrante).
Le reti devono garantire condizioni di accesso eguali e trasparenti a tutti gli operatori attivi “a monte“ e “a valle” dell’infrastruttura. Se tali condizioni, in primis quelle tariffarie,
sono tutte regolamentate da un’Autorità terza, che senso ha
la separazione forzosa fra proprietà e gestione del network?
Quali benefici porta al tanto decantato interesse del consumatore?
Che il proprietario debba avere, prima di ogni altro, il potere
di usare e gestire ciò che gli appartiene, costituisce, d’altronde, la regola base di un’economia di mercato, là dove la possibilità per un terzo di gestire un bene altrui costituisce sempre e comunque l’eccezione.
Sotto questo profilo, il diritto del proprietario di utilizzare e
gestire il proprio bene, non solo non incide in alcun modo sui
principi comunitari in materia di libera circolazione dei capitali e dei servizi ma, anzi, ne costituisce, se mai, il presupposto necessario, senza il quale non si potrebbe avere né
un’economia di mercato né -a maggior ragione- una libera circolazione dei capitali e dei servizi.
Obbligare il proprietario a metter in gara la gestione del proprio bene altro non significa che confezionare un surrettizio
provvedimento d’esproprio, in esatta antitesi con i principi
base dell’economia di mercato, nel nome del cui sviluppo e
tutela si dice invece agire.
Se si vogliono le liberalizzazioni, è possibile chiedersi cosa ci
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sia di più liberale del consentire il pieno esercizio del diritto
di proprietà?
Continuare ad incentrare prioritariamente il tema del governo delle reti e delle infrastrutture, anziché sulla proprietà,
sull’istituto dell’affidamento (qualsiasi configurazione esso
assuma) porta con sé un’altra conseguenza esiziale.
Quella di lasciare esposta al mutevole orientamento dei giudici la verifica della legittimità di ciascun singolo affidamento e, di conseguenza, le sorti delle varie imprese coinvolte.
Ed è, infatti, ciò che sta puntualmente avvenendo. Le utilities italiane non sanno se gestiranno domani i beni che gestiscono oggi, e le scelte in tema di sviluppo e ammodernamento delle infrastrutture sono determinate, non già in funzione
di una precisa politica industriale, bensì a traino degli orientamenti della Corte di giustizia comunitaria (presso la quale è
ormai rimessa ogni questione -occorre dirlo- con uno zelo
senza pari in tutta Europa).
La separazione forzosa fra proprietà e gestione e l’assegnazione della gestione tramite gara implica, inoltre, l’identificazione di un perimetro gestionale da mettere in gara.
Ma qual è il bacino minimo di un dato servizio a rete?
L’individuazione “a priori” di un ambito supposto ottimale è
un esercizio estremamente complesso, i cui risultati sono -il
più delle volte- scarsamente attendibili.
La dimensione geografica ottimale di un servizio, soprattutto
se a rete, ben difficilmente può essere predeterminata da un
regolatore, sia esso nazionale o regionale. Un determinato
livello tariffario può rendere il servizio remunerato momentaneamente coerente con un predeterminato ambito territoriale di operatività, ma ci vuole poco a capire che una semplice
modifica nella struttura dei costi può rendere di lì a poco tale
dimensione territoriale del tutto inadatta o non più efficiente in termini dimensionali.
Non esiste, dunque, una dimensione ottimale del servizio,
fissa e astrattamente definibile “a priori”.
Esiste piuttosto ed è, bilanci alla mano, perfettamente calcolabile, una dimensione ottimale dell’impresa, soggetta a continue modifiche e adattamenti. Ed è alla libera determinazione delle imprese e alla loro autonoma iterazione che va
lasciato l’obiettivo del raggiungimento della dimensione produttiva efficiente della rete.
In un comparto che continuerà ad essere fortemente regolamentato come quello delle reti, devono essere gli standard di
qualità e i livelli tariffari prefissati dal regolatore che determinano il dimensionamento ottimale delle imprese, non la
predeterminazione a tavolino del livello ottimale dell’impresa, che determina gli standard di qualità e i livelli di costo del
servizio.
Si vogliono promuovere le aggregazioni delle utilities domestiche. Bene. Quale sarà la relazione fra le logiche del perimetro
della proprietà delle reti definito per via amministrativa e la
dimensione assunta nel frattempo dalle società di gestione?
Si è realizzata l’auspicata fusione imprenditoriale fra Bergamo,
Brescia e Milano per la gestione integrata delle infrastrutture
reticolari di distribuzione dell’energia. Ma ha poi un senso, c’è
da augurarsi, la polverizzazione amministrativa del perimetro
della proprietà degli assets gestiti e la gara per la loro futura
gestione?
Da questo punto di vista si può dire che più l’aggregazione
imprenditoriale della conduzione delle reti è perseguita,
tanto meno il regime della diarchia fra proprietà e gestione
diventa plausibile.
Ci siamo occupati, sin qui, delle modalità di governace delle
reti, auspicandone l’unità fra proprietà e gestione. A questo
punto non può non sorgere la domanda su quale possa essere
il miglior regime proprietario per tali reti, su “chi” debba
esserne il proprietario.
Si tratta di un tema molto importante, che attiene alla configurazione della ricchezza di un Paese. Spero di poterlo affrontare in una prossima occasione.
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Sempre caldo
il tema della mobilità
in Lombardia
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di Franco Giuffrida, Segretario Cgil Lombardia
Il sindacato unitario Cgil-Cisl-Uil della Lombardia, congiuntamente con i sindacati di categoria dei trasporti Filt-Fit-Uilt e
dei pensionati Spi-Fnp-Uilp, ha richiesto ripetutamente un
tavolo di confronto con la Giunta regionale per affrontare i
temi legati al sistema della mobilità nella regione.
Il confronto stenta a decollare, anche se prima della pausa
feriale abbiamo avuto un incontro con l’assessore Raffaele
Cattaneo su una serie di temi ed in particolare sui seguenti:
le tessere agevolate, i servizi ferroviari ed automobilistici di
trasporto pubblico locale e regionale.
In tale incontro erano state presentate le posizioni sia della
Giunta Regionale sia del sindacato unitario sulle materie
oggetto del confronto negoziale ed il tavolo era stato riaggiornato a fine settembre per definire congiuntamente le
scelte sui temi in discussione.
In particolare, l’assessore alla mobilità ed infrastrutture ci
aveva comunicato la decisione del consiglio regionale di
prorogare le tessere agevolate al 31.12.2007. Ci riferiamo
a quei soggetti che usufruiscono di quanto previsto nella
legge regionale n. 25 del 9 dicembre 2003, che permette,
con l’acquisto di una tessera, di viaggiare con agevolazioni
tariffarie su tutti i mezzi di trasporto pubblico locale della
nostra regione.
In attesa del 31 dicembre 2007, le Organizzazioni Sindacali
unitarie hanno avanzato proposte di miglioramento alla citata legge, al fine di aumentare le agevolazioni per i soggetti
deboli della società e quindi incrementare l’utenza del trasporto pubblico.
Chiediamo di inserire tra coloro che dovranno avere un abbonamento annuale gratuito i cittadini con età pari o superiore
a 70 anni, utilizzabile nelle fasce orarie di morbida. Mentre,
per coloro che rientrano tra i possessori di tessera regionale
agevolata (abbonamento trimestrale a 15 euro o abbonamento annuale a 60 euro), si chiede di abbassare le percentuali di
invalidità civile dall’attuale 67% al 48%. Si richiede anche di
sperimentare una tessera agevolata rivolta ai giovani under
30, con esclusione degli studenti che già usufruiscono di abbo-
namenti a tariffa agevolata, con l’obiettivo di incentivare
l’uso dei mezzi pubblici.
I punti annunciati dall’assessore Raffaele Cattaneo riguardano: lo sviluppo del servizio ferroviario regionale al 2009, anno
in cui si libereranno nuove tracce per il T.P.L. perchè sono
attivate le nuove linee ad alta capacità; una verifica dell’attuazione della legge di riforma del TPL che ha liberalizzato il
settore attraverso le gare di servizio di trasporto locale.
Per rendere possibile l’aumento dell’offerta ferroviaria, la
Regione ci informa che necessitano circa 50 milioni di euro, in
aggiunta ai circa 300 milioni di euro che annualmente si spendono in Lombardia per i servizi ferroviari regionali.
Queste risorse aggiuntive, come dichiarato più volte dall’assessore, non possono gravare sui futuri bilanci della Regione e
quindi c’è il serio rischio che sia compromesso il miglioramento della qualità dell’offerta del servizio ferroviario nella
nostra regione.
Il sindacato ha dato la propria disponibilità ad affrontare e
trovare tutte e soluzioni idonee per far sì che non siano solo
gli utenti a subire, attraverso un inasprimento del sistema
tariffario, il peso delle risorse finanziare necessarie per pagare i servizi aggiuntivi.
Infine, la Cgil Lombardia presenterà in un appuntamento specifico, presumibilmente alla fine di ottobre, un progetto per
un nuovo sistema tariffario integrato. Su questo problema, da
tempo ormai, si richiede da più parti una tariffa integrata ma,
alla fine, emergono solo le difficoltà ed il progetto positivo di
integrazione è subito abbandonato.
Noi pensiamo che un sistema di tariffa integrata serva alla
mobilità nella nostra regione, per favorire positivamente l’avvicinamento di nuova utenza al trasporto pubblico. Per questo motivo avanzeremo una proposta ai soggetti interessati e
ci confronteremo con le varie rappresentanze degli interessi,
in modo da acquisire un ampio consenso.
Anche questo è un modo di misurarsi con i problemi concreti
dei cittadini e costruire proposte che siano rispondenti agli
interessi della nostra rappresentanza.
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Cambiamenti
climatici
Prima la Conferenza nazionale “Cambiamenti climatici e lavoro: le proposte
della Cgil”, il 12 luglio.
Poi la prima Conferenza governativa sui
cambiamenti climatici, il 12 e 13 settembre. Il tema è tra i più seri e prioritari, di
quelli che richiedono una linea di rigore.
Con una consapevolezza: è troppo tardi
per azzerare il danno ma, agendo subito,
si può prevenire il disastro.
“Il cambiamento climatico non è una sorta di impazzimento
della natura, la causa è nella politica di rapina e dominio
della natura”. Siamo di fronte a uno dei più gravi e complessi problemi globali del nostro tempo. Proprio l’Italia, assieme a Spagna, Portogallo e Grecia si trova sul fronte più esposto e la crescita della temperatura è ben superiore alla
media mondiale. Coste sommerse e rischio desertificazione
non sono scenari apocalittici dipinti da esperti in vena di fare
allarmismo. Le piogge ridotte e tropicalizzate, con aumento
del rischio di alluvioni e frane, il Po ridotto ai minimi storici,
la progressiva erosione dei ghiacciai non sono certo invenzioni. Scienziati e politici concordano sulla diagnosi, ma occorre
una strategia seria, una nuova linea energetica (con al centro
la drastica riduzione delle emissioni di gas serra) e una riprogrammazione dell’attività economica.
Vediamo, in sintesi, qual è il piano del Governo a conclusione
della Conferenza, che ha visto impegnati esperti, scienziati,
ricercatori, istituzioni nazionali e sopranazionali, il governo,
le associazioni ambientaliste, quelle datoriali, il sindacato.
Nel “Manifesto per il clima”, con sottotitolo “Un new Deal per
l’adattamento sostenibile e la sicurezza ambientale”, si stabilisce che entro il 2008 il ministero dell’Ambiente definirà una
strategia nazionale per l’adattamento sostenibile ai cambiamenti climatici e per la sicurezza del territorio, che poggerà
su tredici azioni: si va dal sostegno alla bioedilizia alle etichette che indicano quanta acqua costa ogni prodotto che consumiamo; dal patto con le associazioni agricole per razionalizzare l’irrigazione all’incentivazione delle colture tradizionali più
resistenti alla siccità; dal recupero delle dune costiere alla
riforestazione anti frane; dall’early warning meteoclimatico
(possibilità di avere anche con 5 giorni di anticipo una previsione di un possibile stato d’allerta) nelle aree a maggior
rischio alle nuove norme della contabilità ambientale. Tale
programma sarà rilanciato tutti gli anni nel Climate Day, il 16
febbraio, anniversario della ratifica del protocollo di Kyoto,
perché “sia sempre più alta l’attenzione all’impatto delle
nostre attività sull’ambiente”.
Le proposte della Cgil ci sono illustrate da Claudio Falasca,
Coordinatore Dipartimento Ambiente e Territorio, Cgil
Nazionale.
La posizione di Confindustria è esposta da Giancarlo Coccia,
Vice Direttore Area Impresa e Territorio di Confindustria.
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Sviluppo sostenibile: se non ora, quando?
di Claudio Falasca
Coordinatore Dipartimento Ambiente e Territorio CGIL
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L’
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effetto serra è un fenomeno che in condizioni naturali
garantisce la vita sul pianeta impedendo la dispersione
del calore nello spazio esterno (senza l’effetto serra la terra
sarebbe più fredda di almeno 15 gradi centigradi) ma che, se
esasperato con una maggiore concentrazione di gas serra in
atmosfera, in particolare l’anidride carbonica (CO2), produce
un progressivo surriscaldamento del pianeta.
Per 650.000 anni la concentrazione di CO2 in atmosfera si è
mantenuta tra 180 e 300ppm (parti per milione). Prima della
rivoluzione industriale era 280. Ora è di 380 ppm, con una
crescita tra il 1995 e il 2005 di 1,9 ppm/anno.
La popolazione mondiale è oggi di oltre 6 miliardi (fine 2006)
con una previsione di crescita fino a 9 miliardi nel 2050 (stima
ONU). Questa crescita si accompagnerà, presumibilmente ad
una più che proporzionale crescita dei consumi (si pensi, ad
esempio, alla crescita esponenziale di autovetture in Cina).
Crescerà conseguentemente la domanda energetica, che si
stima fino al 100% entro il 2050 (+37% Europa). Negli ultimi
anni, in Italia, c’è stata crescita dei consumi di energia anche
quando il PIL era piatto.
A fronte di questi dati, anche se c’è ancora chi avanza dei
dubbi, i cambiamenti climatici sono ormai una realtà confermata tanto dalle più importanti istituzioni e agenzie scientifiche internazionali a partire dal Comitato d’esperti dell’ONU
(IPCC), quanto ed ancor più evidentemente, dai fenomeni
naturali che da alcuni anni interessano varie regioni del pianeta e che coinvolgono direttamente l’esperienza di comunità e di singoli cittadini. E, pur se tra limiti e ritardi, stiamo
assistendo ad una progressiva crescita di sensibilità. È auspicabile che rispetto alle misure da assumere si creino le indispensabili convergenze della comunità internazionale. E’ questo, infatti, il livello decisivo. In assenza di un impegno serio
di paesi come USA, Cina, India è difficile pensare di ottenere
risultati significativi.
Il rischio è che, in assenza di interventi, si realizzi lo scenario
descritto nel Rapporto Stern, promosso dalla Gran Bretagna,
che valuta fino al 20% del PIL mondiale l’impatto economico
del cambiamento climatico.
D’altra parte, come potrebbe essere diversamente se consideriamo che le conseguenze dei cambiamenti climatici comporteranno l’innalzamento della temperatura e del livello del
mare, cambieranno i venti e le correnti marine, si scioglieranno i ghiacci, aumenteranno i fenomeni estremi con desertificazioni e alluvioni, le popolazioni più povere saranno costrette a ulteriori migrazioni e la godibilità di un non-inverno,
come l’ultimo, sarà pagato pesantemente con crisi idriche in
diverse regioni del pianeta.
L’Unione Europea, che ha istituito una specifica Commissione
coordinata da Guido Sacconi, sta compiendo significativi sforzi
per porre il problema all’ordine del giorno dell’agenda internazionale. Si tratta, infatti, di riuscire a sviluppare un’azione concertata tanto globalmente quanto localmente.
Sempre l’Unione Europea, a segnare con quale grande attenzione e preoccupazione segue questo enorme problema, nel marzo
2007 ha deciso che i paesi membri si debbano impegnare per realizzare entro il 2020 il 20% di risparmio energetico, il 20% di produzione energetica da fonti rinnovabili, il 20% di riduzione gas
serra rispetto al 1990 (per l’Italia vuol dire meno 40%!).
Per il nostro paese c’è da prevedere che gli effetti dei cambiamenti climatici riguarderanno, in particolare, l’agricoltura, l’industria, il turismo, i trasporti, il sistema sanitario, le
risorse disponibili, gli insediamenti produttivi e urbani, le
infrastrutture, l’uso dell’acqua, la mobilità. Cioè riguardano
in via diretta il lavoro, l’occupazione e la sua qualità. Gli
esempi possono essere innumerevoli, ci limitiamo a ricordare
che le lavoratrici e i lavoratori sono i primi a pagare le conseguenze di produzioni inquinanti e di un lavoro di bassa qualità e a basso tenore di diritti.
E’ a partire da questo insieme di problemi e loro possibili conseguenze, che il Sindacato si sente fortemente chiamato in
causa. La CGIL fin d’ora rivendica il diritto-dovere di essere
protagonista, assieme alle altre confederazioni, delle decisioni politiche che dovranno essere assunte a livello internazionale, nazionale e locale, in merito in particolare alle conseguenze dei cambiamenti climatici dal punto di vista del lavoro al fine di definire i necessari adeguamenti di carattere
sociale, legislativo e contrattuale,
Già dalla prossima Legge Finanziaria, come già previsto nel
DPEF, riteniamo che il Governo debba assumere significative
decisioni. Dobbiamo essere coscienti, infatti, che volenti o
nolenti, contrastare il cambiamento climatico comporterà
l’impegno di ingenti risorse in politiche di risanamento, precauzione e adattamento. Questo è necessario al fine di evitare in futuro ben più pesanti oneri per il nostro sistema economico, sociale ed ambientale.
Sarebbe veramente grave se, anche su questo argomento, si
dovesse scatenare una polemica. Non bisogna mettere in contrapposizione il bisogno di continuare nel risanamento economico e le ragioni di adattamento e precauzione per contrastare i cambiamenti climatici. Occorre invece una manovra
finanziaria che coniughi lo storico connubio risanamento/sviluppo, aggiungendo non come appendice la questione
ambientale che, per la CGIL, è un’emergenza divenuta programmatica e non occasionale. Un segno particolarmente
significativo in questa direzione potrebbe derivare dalla
esclusione dal Patto di Stabilità Europeo dei finanziamenti per
contrastare il cambiamento climatico.
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Assumere con convinzione questo indirizzo significa che, a
fronte della limitatezza delle risorse disponibili, si deve compiere il massimo dello sforzo per qualificare la spesa delle
risorse ordinarie indirizzandola verso obiettivi di sostenibilità.
E’ da questo impegno prioritario che può derivare la garanzia
di uno sviluppo capace di futuro.
E’ per questa ragione che la Confederazione ha condiviso la promozione della conferenza governativa sui cambiamenti climatici che si è tenuta a Roma a metà Settembre. E’ in rapporto a
questa scadenza che la CGIL, nella conferenza del 12 Luglio 2007
su “Cambiamenti climatici e lavoro: le proposte del sindacato”,
ha ritenuto necessario indicare alcune priorità, di particolare
interesse sindacale, cui dedicare la necessaria attenzione.
Le indicazioni della CGIL si inseriscono tutte nelle due strategie individuate dal Comitato di esperti dell’ONU: la strategia
di mitigazione dei cambiamenti climatici; la strategia di adattamento ai cambiamenti climatici.
In questo quadro le proposte si sforzano tutte di rendere centrale la dimensione del lavoro: dalle politiche di settore virtuose ed
integrate, alla qualificazione della spesa; dalla lotta contro gli
sprechi collettivi ed individuali, all’impegno nella innovazione,
ricerca e trasferimento tecnologico; dalla corretta informazione,
alla negoziazione della qualità; dalla qualificazione del lavoro, al
sostegno al reddito dei lavoratori per cause ambientali.
Questo a significare che la lotta ai cambiamenti climatici
deve prevedere non solo l’uso intelligente delle risorse disponibili, ma anche sedi e strumenti dedicati poiché non può
essere affidata solo alle periodiche conferenze, ai gruppi di
lavoro, alla sensibilità dei singoli decisori, all’impegno del
Ministro o dell’Assessore di turno. Tanto meno può poggiarsi
sul personale precario come avviene attualmente.
Le misure di contrasto ai cambiamenti climatici, secondo la
Confederazione e come indicato nella risoluzione del
Parlamento Europeo e nell’importante documento elaborato
dalla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati,
devono investire integralmente l’insieme delle politiche e
quindi la responsabilità d’ogni singolo decisore nell’ambito di
un indirizzo condiviso e vincolante, maturato con un forte
coinvolgimento dei protagonisti economici e sociali, sulla
base del principio di precauzione e della responsabilità comune, ma differenziata.
Assumere quest’impostazione significa che il contrasto ai
cambiamenti climatici deve essere anche l’occasione per
costruire quella strumentazione e quella cultura indispensabile a governare nel tempo le politiche per la sostenibilità.
Per rendere chiaro cosa s’intende può essere d’aiuto pensare
a quel processo che nell’800 e nel ‘900 rese possibile ideare
quegli istituti indispensabili per rendere esigibili i diritti dello
stato sociale ed in cui il movimento dei lavoratori ed i loro
sindacati svolsero un ruolo da protagonisti.
Oggi la sfida è più alta e complessa, si tratta di ideare e promuovere gli istituti per rendere esigibile e governabile la
sostenibilità dello sviluppo. Il disegno di legge sulla contabilità ed il bilancio ambientale, appena approvato dal Consiglio
dei Ministri, è un importante passo in questa direzione. Di
converso, la conferenza nazionale che si è appena conclusa,
se per alcuni aspetti fa registrare un bilancio positivo, da questo punto di vista mi sembra di poter dire che c’è ancora
molto da lavorare se teniamo conto che è stata pressoché
assente la voce di regioni ed enti locali.
In questo difficile compito, comunque, il Paese può contare
sull’impegno del sindacato.
L’Italia ha bisogno di un serio piano nazionale
di risparmio energetico
di Giancarlo Coccia
Vice Direttore Area Impresa e Territorio Confindustria
I
gas serra non conoscono confini e per contrastarne l’accumulo
può essere efficace solo un’azione di carattere transnazionale.
E questa azione non può che essere avviata dai governi per raggiungere poi tutti gli individui.
La storia di questi anni ci ha insegnato, però, quanto sia difficile
in questo campo attivare azioni condivise anche a livello dei
governi.
Dal momento in cui è stato ideato il Protocollo di Kyoto ad oggi
la situazione è mutata in modo sostanziale e con una rapidità che
forse nessuno di noi avrebbe immaginato.
Abbiamo nuove aree del pianeta che stanno diventando le principali fonti di emissione di gas serra e sono estranee a qualunque
tipo di vincolo dettato dal Protocollo di Kyoto e altre aree che,
essendo già grandi emettitrici di CO2, non sembrano comunque
porsi il problema di un cambiamento del proprio modo di essere
per affrontare la questione dei cambiamenti climatici.
E, viste le intenzioni di tutti questi Paesi, la situazione non sembra destinata a migliorare.
A questo punto, si pone una prima considerazione: quale può
essere il ruolo dell’Europa?
L’Europa, in questi anni, ha deciso di procedere unilateralmente
all’attuazione del Protocollo di Kyoto e ha già ragionando sul Post
Kyoto, vale a dire sugli impegni successivi al 2012 che dovranno
essere presi per contrastare il cambiamento climatico.
E’ positivo che l’Europa voglia giocare un ruolo di leader in questa partita che, se ben giocata, può anche rappresentare una
prospettiva positiva per l’economia e per le imprese, oltre che
un miglioramento della qualità della vita di tutti i cittadini.
Il principale obiettivo, però, cui dovrebbe mirare l’Europa per
combattere efficacemente i cambiamenti climatici è quello di
condividere politiche e misure che possano coinvolgere realmen-
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te ed efficacemente tutti i Paesi: innanzi tutto quelli industrializzati, ma anche quelli caratterizzati da una rapida industrializzazione che stanno diventando la principale origine delle emissioni. Questo coinvolgimento, però, non può più seguire gli schemi stabiliti anni fa con il Protocollo di Kyoto. La comunità internazionale e l’Europa in primo luogo dovranno studiare nuove
politiche e creare nuovi strumenti che possano garantire una partecipazione attiva di tutti i Paesi.
E l’Italia in questo contesto rischia di fare una gran brutta figura.
La sfida per contrastare i cambiamenti climatici, infatti, deve
essere vissuta dall’intero Paese e non può essere lasciata in carico solo al settore industriale, come invece sta avvenendo nel
nostro Paese. Obiettivi vincolanti sono stati stabiliti solo per il
settore industriale.
Le imprese italiane che già sopportano un costo dell’energia
superiore del 30% rispetto a quello di altri Paesi europei, hanno
effettuato, soprattutto negli ultimi 15 anni, importanti investimenti per ridurre le proprie emissioni ed aumentare l’efficienza
energetica, sia attraverso programmi di innovazione tecnologica
ed impiantistica, sia ricorrendo maggiormente a combustibili
meno inquinanti.
Queste imprese applicano, già oggi, le migliori tecniche disponibili riconosciute a livello europeo, collocandosi quindi ai massimi
livelli in termini di rendimento energetico e livelli di emissione.
In particolare, il settore termoelettrico è impegnato, ormai da
alcuni anni, in un importante piano di investimenti volto a migliorarne l’efficienza, che si inserisce in un contesto nazionale caratterizzato dalla costante crescita di domanda di energia elettrica,
sia nel settore industriale che privato. Il contemporaneo spostamento complessivo verso combustibili e fonti a minore impatto
climalterante ha indotto una riduzione di oltre il 18% delle emissioni unitarie medie.
Analogamente, già da diversi anni, i settori caratterizzati da
emissioni di processo (acciaio, calce, cemento, laterizi) si sono
posti come obiettivo strategico il miglioramento dell’efficienza
energetica, soprattutto a causa dell’elevato costo dell’energia.
Essi hanno pertanto attuato ambiziosi investimenti che hanno
consentito loro un incremento della propria efficienza termica ed
energetica quantificabile fino al 20% rispetto ai valori del 1990.
Infine, altri settori, come la carta o le raffinerie, caratterizzati
da emissioni dovute a processi di combustione, hanno realizzato
investimenti volti soprattutto ad introdurre, nelle sedi di produzione, impianti e tecnologie di autoproduzione di energia elettrica, ad esempio attraverso un ampio ricorso alla cogenerazione ad
alta efficienza oppure, nel caso specifico del settore petrolifero,
utilizzando combustibili autoprodotti.
Bisognerà, quindi, affiancare, alle misure prese per l’industria,
altre azioni e strumenti che contribuiscano alla riduzione delle
emissioni di gas a effetto serra provenienti dagli altri comparti
economici e sociali. In particolare, due sono le macroaree su cui
si dovrebbe intervenire prioritariamente: da un lato il settore
civile e residenziale, dall’altro i trasporti. Questi due comparti
sono responsabili di più del 60% delle emissioni di CO2 dell’Italia.
La promozione di un serio Piano nazionale di efficienza energetica rappresenta, quindi, una delle priorità per trasformare la lotta
ai cambiamenti climatici in una sfida vissuta da tutto il Paese.
In caso contrario, non solo non otterremmo i risultati attesi sul
versante della riduzione delle emissioni di CO2, ma andremmo a
penalizzare ulteriormente la nostra struttura produttiva, già
pesantemente impegnata nel raggiungimento di stringenti obiettivi di riduzione delle proprie emissioni.
Attraverso un concreto obiettivo di risparmio energetico l’Italia
potrà trarre importanti benefici in termini di minor dipendenza
energetica, tutela ambientale e stimolo all’innovazione.
Ecco perché in Confindustria è stata costituita una Task Force ad
hoc sull’efficienza energetica coinvolgendo tutte le associazioni
e strutture del sistema e, nello scorso mese di luglio, abbiamo
pubblicato il documento finale che riporta le proposte del settore industriale italiano per il Piano Nazionale di efficienza energetica. Proposte che riguardano non solo il settore industriale ma
anche comparti quali terziario, residenziale, infrastrutture/trasporti.
Solo per fare alcuni esempi:
■ nel settore della climatizzazione si può ottenere una riduzione del consumo di energia tra il 30 e il 50% rispetto agli impianti tradizionali;
■ nel campo della coibentazione si possono ridurre le emissioni
di CO2 di circa 20 Mtonn/anno;
■ per quanto riguarda gli elettrodomestici, con le indicazioni fornite dalle Proposte di Confindustria, si può ottenere, da qui al
2015, un risparmio di 30 Mtep equivalenti a circa 68 Mtonn di CO2;
■ sul versante dell’illuminazione si possono ridurre del 38% i
consumi elettrici;
■ favorendo l’adozione di motori elettrici ad alta efficienza ed
inverters il risparmio può arrivare a circa 20 TWh/anno (7% dei
totali consumi elettrici italiani).
Affinché questi risultati possano essere raggiunti occorre, però,
che le politiche di incentivazione siano improntate a logiche di
lungo periodo in grado di orientare gli investitori costituendo un
contesto stabile e affidabile e non siano, invece, sottoposte a
continua contrattazione per ottenere un risultato di mercato predeterminato.
La prossima Finanziaria sarà un decisivo banco di prova per capire se la sfida del miglioramento dell’efficienza energetica sta
diventando una sfida dell’intero paese o se, sul versante della
lotta ai cambiamenti climatici, in Italia il settore industriale continuerà ad essere il solo impegnato nel raggiungimento di specifici obiettivi.
Urgenza, poi, riveste anche la necessità di potenziare le infrastrutture energetiche del Paese, troppo spesso ostaggio di veti e
rinvii. Occorrono nuovi impianti, a cominciare dai rigassificatori.
Le imprese sono pronte con programmi di investimento importanti: devono essere messe in condizione di poterli realizzare in
tempi comparabili con quelli degli altri paesi. E’ in gioco non solo
una maggiore competitività del Sistema Italia, ma un importante
interesse generale come la sicurezza energetica del Paese.
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Trasporti in Friuli Venezia Giulia
Un
laboratorio
per il trasporto integrato
di Silvano Talotti, Segretario Generale Filt-Cgil Friuli Venezia Giulia
Il Friuli Venezia Giulia, dal 1963 regione con statuto di autonomia speciale per la sua particolare collocazione geopolitica, ha una superficie inferiore a 8 mila chilometri quadrati
con una popolazione di un milione e 200 mila abitanti.
Pur essendo una piccola entità, con l’allargamento
dell’Unione ha assunto un’importanza strategica essendo
luogo di incontro con i paesi neocomunitari, nonché punto
centrale nelle correnti di traffico tra ovest ed est e tra il bacino del mediterraneo (e il far east) e nord Europa, ed è fornito di un importante sistema di infrastrutture di trasporto.
Le infrastrutture
Tre porti, tra cui quello di Trieste con fondali naturali di 17
metri, in grado di ricevere le nuove superportacontainer da
oltre 10 mila teu, che un’intesa tra Regione e parti sociali
vuol riunificare in un Distretto Portuale, mutuando il modello
dei distretti industriali, propedeutico ad uno più ampio che
racchiuda tutto l’Altoadriatico, da Ravenna a Fiume.
Quattro autoporti doganali, riconvertiti in interporti con la
caduta del confine, ed un aeroporto, abilitato ad accogliere
qualsiasi tipo di velivolo, collocato nei pressi dell’autostrada
A4 e della ferrovia, futuro snodo del Corridoio 5.
La rete autostradale, lunga 240 chilometri, unisce alla
Slovenia ed all’Austria il resto dell’Italia, attraverso la famigerata Tangenziale di Mestre, imbuto che entro il 2009
dovrebbe essere eliminato con il Passante, essendo finalmente iniziati i lavori.
L’infrastruttura ferroviaria, gestita da RFI, ha un’estensione
di 442 Km (314 a doppio binario e 347 elettrificati). È in esercizio da pochi anni la nuova linea di montagna Pontebbana ad
alta velocità (200 Km/h) tra Udine ed il confine di stato italoaustriaco. Esiste, con annesso interporto, lo scalo smistamento carri di Cervignano, uno dei 5 esistenti in Italia.
Sembrerebbe una situazione idilliaca, in realtà esistono molti
problemi, a cominciare dalla necessità di mettere in rete
queste infrastrutture, farne un sistema che costituisca
un’unica piattaforma logistica integrata.
Il Corridoio 5
Una riflessione a parte merita il Corridoio 5, per il cui com-
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pletamento serve la terza corsia sull’A4, i cui lavori sono stati
sbloccati in questi giorni con un accordo Prodi-Illy, e soprattutto l’infrastruttura ferroviaria AV/AC. Paradossalmente, è
quest’ultima l’opera sulla quale gli ambientalisti stanno
manifestando la loro opposizione, sia pure con minor seguito
rispetto a quanto accaduto in Val di Susa.
La tratta del Corridoio 5 in regione è divisa in due lotti: quello dall’aeroporto a Trieste, e quello dall’Isonzo al
Tagliamento. Nel primo caso, la soluzione è un tracciato di
oltre 30 Km in galleria, condiviso dalle amministrazioni comunali dopo modifiche di progetto accolte anche dalla
Commissione nazionale di VIA. Si sta percorrendo la stessa
esperienza nella Bassa friulana, con ben quindici alternative
di progetto: entro l’anno sarà pronta una soluzione condivisa.
Determinante è stato il processo democratico seguito, con
confronti/scontri anche aspri con le popolazioni interessate.
La FILT ha sempre fornito un contributo di idee e di iniziative
per la realizzazione delle infrastrutture ed anche nell’innovazione dei modelli gestionali.
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Il decentramento amministrativo
È il caso del modo, originale, con cui si sta realizzando la
“regionalizzazione” delle strade statali (costituzione di una
società mista Regione FVG ed ANAS) e la riforma del trasporto pubblico.
Al contrario di quanto accaduto nel resto del paese, ove il
D.Lgs. 422/97 non ha trovato reale attuazione, in virtù della
sua specialità in Friuli Venezia Giulia è stato possibile anticipare e realizzare la riforma del TPL con la Legge regionale 7
maggio 1997, n.20. Con quella legge dal 1 gennaio 2001 le
concessioni dei servizi sono state affidate tramite gara e contratto di servizio a quattro società (in precedenza erano 13),
una per ogni unità provinciale di gestione, concessioni che
scadranno il 31 dicembre 2010.
A dieci anni dalla promulgazione di tale norma, si preannuncia un’altra trasformazione profonda che riguarda tutto il
sistema del trasporto delle persone, che potrà rappresentare,
se non un modello, un punto di riferimento per il resto del
paese. Infatti, pervenuto a definizione il quadro normativo
con il D.Lgs. 111/04 (che, in attuazione del decentramento
amministrativo avviato dalla Bassanini, prevede il trasferimento delle funzioni in materia di viabilità, trasporto ferroviario e motorizzazione civile alla Regione) e definite le risorse con l’approvazione della finanziaria 2007, la Giunta ha elaborato un disegno di legge regionale per recepire tale decreto, che il Consiglio ha tradotto nella Legge Regionale 20 agosto 2007, n.23.
La riforma del Trasporto Pubblico Regionale e Locale
È importante evidenziare il ruolo fondamentale avuto al tavolo di concertazione dalla FILT, che ha avanzato proposte per
costituire un sistema integrato di mobilità ferro - gomma –
mare. Tali proposte hanno modificato profondamente ed integrato il testo originario del disegno di legge, e sono state in
gran parte accolte ed inserite nella norma approvata in aula.
L’Assessore regionale ai trasporti Lodovico Sonego ha avviato
un tavolo di concertazione all’inizio del 2005, solamente dopo
nostre numerose sollecitazioni, a quasi due anni dal suo insediamento. Dopo pochi sporadici e sterili incontri, solo all’inizio di giugno di quest’anno ci è stato presentato il testo del
disegno di legge di recepimento del D.Lgs. 111/04.
Per questo motivo, insieme agli altri sindacati, abbiamo criticato l’assenza di una vera concertazione. Tuttavia, come in
ogni confronto, anche in questo caso si è arrivati alla stretta
finale, dove si è svolta una concertazione vera, e ciò proprio
mentre CISL e UIL hanno deciso di disertare il tavolo e dare
vita ad un tardivo quanto sterile conflitto.
Vediamo allora quali sono i risultati prodotti dalla concerta-
zione, quelli ottenuti nell’ultimo mese dalla sola FILT, congiuntamente alla confederazione.
Avevamo proposto che in un periodo transitorio, sino a fine
2010, andasse stipulato un contratto di servizio con l’attuale
gestore del trasporto regionale ferroviario. Al contrario, l’intenzione dell’amministrazione regionale era quella di accelerare i tempi della gara, ma in seguito ha deciso di assegnare
il servizio, come noi avevamo proposto, con affido diretto a
Trenitalia per una fase di transizione di tre anni, a partire dal
prossimo gennaio, previo accordo sul costo dei servizi.
Sul tema dell’organizzazione del sistema della mobilità in
Friuli Venezia Giulia, la Regione aveva costantemente e tenacemente dichiarato di voler tenere un’unica gara regionale
per l’assegnazione di tutto il trasporto pubblico, sia su ferro
che su gomma e mare, ad un unico soggetto gestore, che
avrebbe dovuto trasformarsi in una società per azioni.
Prendendo atto della determinazione della Giunta, insieme
alla confederazione abbiamo a questo punto deciso di raccogliere la sfida.
Non condividevamo, però, la soluzione avanzata, il fatto che
il soggetto gestore avrebbe dovuto essere un’unica SpA, perché si trattava di gestire un servizio complesso, integrato.
Inoltre, in tal modo si sarebbe rischiato di esporre a colonizzazione il nostro territorio, consegnando il servizio ad una
multinazionale estera, in grado per le sue dimensioni di vincere una gara, da 250 milioni di euro annui, che richiederà
ingenti investimenti iniziali.
L’obbligo di trasformazione in SpA ci sembrava una turbativa
del mercato, poiché avrebbe impedito possibili alleanze fra
gli attuali soggetti gestori del trasporto su gomma e di quello
su ferro. Infatti, per Trenitalia non è possibile la cessione di
rami di azienda, in altri termini la frammentazione della sua
divisione Trasporto regionale in tante società quante sono le
regioni del nostro paese. Pertanto, risultava impossibile per
quella impresa la partecipazione ad una SpA locale.
Noi propendevamo per una soluzione che riuscisse a coniugare diverse esigenze: migliorare il servizio offerto alla comunità, salvaguardare la proprietà pubblica dei gestori, tutelare
l’occupazione e le condizioni del lavoro.
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Tempo presente
Per raggiungere questo scopo, siamo stati più determinati ed
ostinati dell’assessore: sin dall’inizio del confronto abbiamo
evidenziato alla Regione che, se desiderava un unico interlocutore per la gestione dei servizi, non necessariamente esso
doveva essere un’unica impresa di capitali. Ciò si sarebbe
potuto ottenere attraverso un’ATI (Associazione Temporanea
di Imprese) o un Consorzio o una Società consortile, attraverso cioè un soggetto con natura giuridica tale da consentire a
diverse imprese di allearsi, pur mantenendo la propria autonomia societaria. È una soluzione che anche il Governo Prodi
ha avanzato in questi giorni al tavolo tecnico sul TPL.
Questa proposta rende possibile un’alleanza fra le quattro
società attualmente esercenti il Trasporto Pubblico Locale
con Trenitalia. Il gruppo che potrebbe costituirsi sarebbe in
grado di competere con le multinazionali estere, oltre che
con le maggiori società nazionali.
In caso di aggiudicazione della gara gran parte degli utili (che
per il solo sistema regionale del TPL attualmente supera i 10
milioni di euro, con un corrispettivo della regione di 111
milioni), anziché remunerare il capitale di azionisti stranieri,
resterebbero in regione. Per la quota parte di proprietà dei
comuni e delle province, andrebbero a beneficio delle comu-
sul turn over nel corso della durata della concessione.
Il pericolo di esuberi ci pare inconsistente a maggior ragione
dopo che l’Assessore ci ha assicurato che nelle previsioni dell’amministrazione c’è un sia pur lieve incremento dei servizi
del trasporto regionale ferroviario, nonché di quello su
gomma in alcune aree territoriali con servizi attualmente
insufficienti.
È passata la nostra richiesta di inserire nella norma una clausola sociale a tutela dei lavoratori, tutela che non c’era nella
Legge regionale 20 del 1997.
La norma prescrive che l’affidatario è tenuto ad applicare,
per ciascuna tipologia di attività del comparto dei trasporti
svolta nell’ambito del contratto di servizio, il rispettivo
CCNL. Il personale manterrà tutti i diritti acquisiti tramite la
contrattazione collettiva nazionale di lavoro, la contrattazione integrativa aziendale e in generale per ciò che attiene la
retribuzione, l’anzianità ed il profilo professionale.
È prevista la decadenza della concessione in caso di gravi irregolarità sulla tutela giuridica, normativa e contrattuale dei
lavoratori dipendenti.
Nel caso di subaffido di servizi, sono state accolte parzialmente le nostre richieste. Innanzitutto, la possibilità di
subappaltare allo scopo di migliorare la qualità dei servizi di
trasporto pubblico, non per un mero risparmio economico.
Sono state poi introdotte importanti tutele per i lavoratori, in
quanto manterranno i diritti acquisiti tramite la contrattazione collettiva nazionale di lavoro, la contrattazione integrativa aziendale e in generale tutto quanto attiene la retribuzione, l’anzianità ed il profilo professionale. Al termine del
subaffido, rientrano alle dipendenze dell’affidatario.
Chiedevamo fosse introdotto un limite massimo a quei servizi
che l’affidatario può subappaltare, che devono essere solo
marginali. Ciò sarà recepito nel bando di gara, ove sarà anche
introdotto un meccanismo premiante per il futuro gestore,
anche per prorogare la scadenza dei 9 anni della concessione,
nel caso di una sua collaborazione alla modifica dei servizi
che produca incremento di utenza.
Infine, la legge introduce un’importante novità quando stabilisce riduzioni di corrispettivo conseguenti a riduzioni nel programma di esercizio, fra i quali evidenziamo minori servizi
per scioperi del personale aziendale. Potrebbe essere un
modello nazionale, un contributo verso la definizione dello
sciopero solidale.
Con la sua iniziativa la FILT ha cooperato alla stesura di un
quadro legislativo che regolerà le prossime tappe della riforma che questa Giunta, con la collaborazione delle parti sociali, vuole attuare prima delle elezioni del maggio 2008: il cronoprogramma prevede l’approvazione del Piano regionale del
trasporto pubblico regionale e locale entro la fine di novembre ed il bando di gara entro marzo. A questo punto resterà
solo un lavoro “notarile”. La riforma è fatta e sarà operativa
dal 1 gennaio 2011.
nità locali. Questo beneficio si sommerebbe a quello derivante dall’obbligo di stabilire la sede legale in regione.
La soluzione avanzata dalla FILT è stata recepita in una legge,
che prevede l’individuazione nel bando di gara della natura
giuridica che l’affidatario dovrà assumere per tutta la durata
dell’affidamento, in caso di partecipazione in ATI. Non comprendiamo perciò le motivazioni dell’opposizione di alcuni
sindacati ad un gestore unico di questa natura.
In questo caso è difficile si possano determinare esuberi di personale, poiché si potrà procedere ad un efficientamento delle
imprese tramite economie di scala ed agendo in modo indolore
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Lavori
in
corso
per la nuova
Provincia
di Massimo Stanzione, Segretario Generale Comprensorio Filt Brianza
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QUI
COMPRENSORIO
BRIANZA
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Nel novembre del 2004, in un articolo sul
Comprensorio Brianza, dichiaravo che
aveva inizio una bella favola basata sulla
solida volontà di costruire, attraverso
progetti realizzati, un’esperienza proficua per i lavoratori del comprensorio e
per il sindacato. Alla fine dell’articolo
mi auguravo di aver scritto solo il primo
capitolo di una storia avvincente da condividere con tutta l’organizzazione.
Oggi proverò a scrivere il secondo capitolo di quella storia, cercando di dare
spazio alla progettualità e tenendo
conto del momento storico che la città
di Monza sta per vivere.
Nel 2009, Monza e Brianza concluderà il
suo iter burocratico per diventare
Provincia con l’elezione del suo
Consiglio Provinciale e del suo
Presidente.
La Filt, in questo Comprensorio, ha registrato un aumento degli iscritti pari al
160%, da 425 iscritti nel 2004 a 683 nel
secondo trimestre del 2007. Voglio precisare che, mentre rimane invariato il
numero d’iscritti del settore ferroviario
e del trasporto pubblico, aumenta in
modo esponenziale il numero d’iscritti
del settore merci e cooperazione; è un
dato che deve far riflettere, rispetto
alle potenzialità del territorio e ai progetti di sindacalizzazione che non sono
ancora arrivati a compimento.
Dal 2004 ad oggi, molti eventi politici e
sociali hanno interessato la vita sindacale del comprensorio come:
■ il VII° Congresso della FILT-Brianza e
il XV° Congresso della CGIL;
■ il Centenario della Confederazione
Generale del Lavoro;
■ la campagna per la scelta della destinazione del TFR.
Sono tutti eventi che hanno dato la possibilità alla categoria di effettuare, con
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duro impegno della segreteria, stagioni di assemblee anche in
aziende dove il sindacato di categoria non aveva mai dato il
suo apporto.
Mentre scrivo questo articolo, si sta concludendo il Gran
Premio d’Italia di Formula Uno a Monza, evento sportivo di un
fascino notevole perché richiama migliaia di spettatori che
alimentano notevolmente l’indotto commerciale di Monza,
ma è di tutta evidenza la poca attenzione che si è avuta in
passato sul tema dei trasporti in Brianza. Dal punto di vista
della mobilità e del traffico l’area a nord di Milano, dove è
inserita la Brianza, rappresenta una realtà complessa che
pone problemi di non facile soluzione. Essa è una zona densa
di insediamenti abitativi e industriali con una forte domanda
di mobilità, con l’aggravante che le problematiche ambientali rendono difficile l’insediamento di nuove infrastrutture.
Ricordo che la Brianza si trova al centro di una rete di collegamenti nazionali e internazionali, oltre che integrata in un
sistema regionale e metropolitano.
Alla luce di quanto detto, possiamo commentare positivamente le priorità evidenziate all’interno del documento di confronto tra Regione Lombardia e Ministro delle Infrastrutture
per la nuova Provincia di Monza e della Brianza, perché si
tratta di opere infrastrutturali e interventi sul trasporto pubblico di vitale importanza. Vediamoli in dettaglio.
■
■
■
a)
b)
c)
d)
e)
Completamento tangenziale nord Milano
3^ Corsia Milano-Meda
Interventi sulla Viabilità Ordinaria:
Riqualificazione di Viale Lombardia ovvero Monza –
Cinisello per eliminare il “tappo” fra Monza e Milano;
La Variante SP 118 a est di Barlassina;
La Variante di Muggiò e Nova alla SP 131;
La Variante alla SP6 per il collegamento del Centro e)
Ospedaliero di Monza;
La Variante sud di Vimercate alla SP2.
■ Interventi relativi al Trasporto Pubblico:
a) nuova Linea Seregno – Bergamo;
b) progetto definitivo della Linea Ferroviaria SaronnoSeregno;
c) ammodernamento della Ferrovia Nord Milano- Meda;
d) riqualificazione della Linea Monza-Molteno-Oggiono;
e) prolungamento della linea M1 da Sesto San Giovanni in
direzione di Monza;
f) metrotranvia Milano-Desio-Seregno;
g) prolungamento della linea metropolitana M5 in direzione
di Monza.
E’ evidente che la realizzazione degli interventi elencati
avrebbe l’effetto di:
● ridurre la congestione del traffico
● evitare di perdere le connessioni con i collegamenti internazionali
● creare l’opportunità di migliorare il sistema dei trasporti
locale e regionale.
La convinzione che nel prossimo futuro saremo attori dell’avvio dei progetti elencati è forte, ma nell’immediato qualche
proposta ci sentiamo di metterla in campo affinché il cittadino che poi è anche utente e lavoratore della Brianza, sia
meno stressato e più contento della nuova Provincia.
Oggi tutti i sondaggi riportano un basso utilizzo dei mezzi
pubblici da parte dei cittadini perché il servizio non è idoneo.
I motivi della inidoneità sono noti: la pulizia dei mezzi, la
puntualità e l’efficienza. Oltre ad affrontare e risolvere questi problemi, un’attenzione particolare deve essere riservata,
nell’immediato futuro, a interventi mirati per incentivare
l’utilizzo dei mezzi pubblici al posto dell’auto:
● sincronizzare l’interscambio gomma – ferro;
● servire con pulman i territori senza rete ferroviaria con
corse più frequenti negli orari di pendolarismo per lavoro e
scuola;
● attrezzare e rendere economicamente accessibili le aree
d’interscambio auto-ferrovie;
● cercare almeno per la Brianza (nuova Provincia) l’istituzione del biglietto unico.
Il realizzo di questi obiettivi darebbe l’immagine di una provincia che guarda con attenzione ai problemi della mobilità,
offrendo al cittadino un servizio ottimo ed esente da critiche,
realizzando una sostanziale riduzione del traffico sulle reti
stradali e, cosa non trascurabile, anche una notevole diminuzione di smog.
Infine, sempre per migliorare la mobilità e favorire lo sviluppo produttivo, sarebbe opportuno che la classe politica regionale e provinciale ricercassero nel territorio Brianteo un’area
logisticamente funzionale per costruire un interporto per
tutte le opportunità che offre, come la riduzione delle lunghe
code di autotreni sulla rete stradale esistente e una riduzione dei costi di trasporto per le aziende.
Una nota per concludere: una parte della nuova Provincia
(rimane esclusa Vimercate sud) sarà interessata a novembre,
a seguito dell’aggiudicamento della gara del lotto 2 “Area
Nord”, dalla nuova gestione del trasporto pubblico locale su
gomma. Si tratta di una vera rivoluzione per il territorio. Il
lotto è stato aggiudicato ad un’associazione temporanea
d’impresa composta dal TPM, dal CTNM e da AGI s.p.a..
Un’ATI destinata presto a trasformarsi in società consortile a
tutti gli effetti, o in una S.p.A. (quello che spero) per meglio
interfacciarsi con gli enti pubblici. C’è da augurarsi che
l’utenza della nuova Provincia possa usufruire di un servizio
dignitoso ed efficiente.
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Impediamo che il sistema
aeroportuale di Milano
diventi campo di un
esperimento giocato su
troppi tavoli e non tenga
conto dei lavoratori e
delle persone. Allo stesso
tempo, evitiamo che i
mancati ricavi trascinino
Sea ed altre imprese in
un dissesto economico
difficilmente sostenibile.
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Malpensa
tra crisie sviluppo
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Se nelle prossime settimane le decisioni
del C.d.A. di Alitalia, e quindi del governo, saranno confermate, la funzione di
Malpensa sarà radicalmente modificata.
Non solo nei livelli quantitativi di traffico, che potranno forse essere recuperati
nell’arco degli anni, ma anche nel suo
ruolo per il trasporto aereo nazionale e
internazionale. Si rischia la fine dell’hub
e la sua trasformazione in un aeroporto a
prevalente traffico low cost.
Gli elementi sono ormai noti. Alitalia
di Nino Cortorillo, Segretario Generale Filt-Cgil Lombardia
individua, nella sua presenza in Malpensa
e nei voli intercontinentali che effettua,
la causa fondamentale della sua crisi o
almeno l’unica o la principale su cui
agire nel breve periodo per programmare una riduzione del suo debito. Questo,
si sostiene, per evitare il definitivo fallimento della Compagnia e quindi per non
pregiudicare definitivamente l’ultima
occasione di vendita della quota azionaria, circa il 49%, posseduta dallo stato,
attraverso il Ministero del Tesoro e che
dovrebbe realizzarsi, dopo l’esito negativo dell’asta, entro la fine dell’anno.
Il taglio di pressoché tutti i voli intercontinentali, cancellati o spostati a
Fiumicino, e di quasi tutti i voli nazionali, 150 movimenti (ovvero 75 voli di andata e ritorno), pari a circa 6/7 milioni di
passeggeri anno, sarebbe parzialmente
compensato da un incremento, al
momento imprecisato, di voli low cost e
charter, tramite il gruppo Volare, e voli
cargo. Questa decisione ha avuto il consenso pressoché unanime, ancorché non
sempre esplicito, del Governo, dei partiti del centro sinistra, dal centro ai radicali, di quelli di centro destra, dei sindacati confederali ed autonomi nazionali.
Tanto che le sole voci contrarie, spesso
dissonanti tra loro, sono localizzate in
Lombardia e nel nord del paese.
L’incapacità, in questi giorni, da parte di
Regione Lombardia, Comune e Provincia
di Milano e Provincia di Varese di chiedere un incontro congiunto al governo ed
Alitalia, ma di andare in ordine sparso a
riunioni con richieste ed esiti diversi,
aggiunge un ulteriore segnale negativo.
Abbiamo sempre sottolineato gli errori
ed i ritardi di chi ha gestito Sea in questi
anni, di chi doveva preoccuparsi delle
infrastrutture di collegamento, come il
Comune di Milano e la Regione
Lombardia; abbiamo contrastato una
campagna contro l’hub che ha avvelenato le ragioni di chi, come noi, si è sempre battuto per unire sviluppo, ambiente
e buona occupazione.
Malpensa aveva ed ha nemici non solo al
centro, ma anche tra coloro che oggi si
ergono a sua difesa e che risiedono in
questa regione. Sembra quasi che
Malpensa e le scelte che si sono prese, o
non prese, i comportamenti che si sono
tenuti, da parte di istituzioni, politica,
sindacati, imprese, media, siano un
paradigma dell’Italia. Un esempio negativo di come il Paese sia stato capace di
sprecare investimenti e credibilità inter-
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nazionale, dilaniandosi in dispute infinite e in analisi settarie,
difendendo interessi localistici, dimostrandosi incapace di fare
sistema e di ragionare per obiettivi comuni. L’opposto di quanto avviene in tanti altri paesi europei e che appare nel nostro
una normalità irrealizzabile. Dove, infatti, è accaduto che la
nascita di un’infrastruttura di queste dimensioni, forse l’unica
nata negli anni ’90 in Italia, abbia attirato per quasi 15 anni un
fronte di oppositori così vasto e tante menzogne così evidenti?
La più grande è quella che fa derivare la crisi di Alitalia proprio
dalla nascita di questo aeroporto, cosa che fa evidentemente
risultare sbagliate le tante scelte strategiche, sia industriali sia
di mercato, realizzate in questo decennio. Alitalia andava sottratta ad una presenza della politica e di un management troppo condizionato o attraverso un’alleanza organica con un’altra
compagnia europea o attraverso una presenza di capitale privato. Alitalia, per essere la compagnia che assolveva il compito d‘essere il baricentro del trasporto aereo nazionale, doveva
riposizionarsi proprio nell’area del paese dove la competizione
diventava più evidente: il nord.
Se a dieci anni dall’avvio di Malpensa e nonostante accordi ed
impegni ripetuti, centinaia di dipendenti, dai piloti, agli assistenti di volo, ai tecnici, continuano a operare in missione o
trasferendosi via aereo, con enormi costi economici e produttivi, si ha il quadro di quanto tutti abbiano creduto in quella
scelta. Così come l’assetto del sistema aeroportuale di Milano
e del nord non è frutto del caso, ma di scelte operate ad ogni
livello, da quello europeo a quello nazionale.
Eppure, anche il numero elevato di aeroporti nel nord, tenendo però conto di quelli che superano una soglia di traffico, ha
trovato nelle nuove compagnie, tra cui quelle low cost, una
capacità di dare risposte alla nuova domanda dell’utenza. Così,
sbagliando, si sostiene che il trasporto aereo è in crisi. Mentre
lo è Alitalia. Il costruire risposte ad una crisi di sistema non
vera ha, però, fatto compiere, anche alle nostre analisi, errori
che ci hanno portato ad individuare o condividere soluzioni di
emergenza che quasi sempre hanno avuto come sbocco un
aumento di capitale e un’uscita incentivata di personale. Oltre
a soluzioni di grande novità, quali l’ingresso temporaneo nel
C.d.A. dell’allora Segretario Generale della Filt o della assegnazione gratuita di azioni ai dipendenti al posto di un aumento salariale.
Resto convinto che i settori dei trasporti non siano in crisi, che
anzi vi sia una domanda da parte dell’utenza, sia in qualità che
in quantità, che non trova risposta adeguata. Sono in crisi le
imprese, ed in primo luogo le imprese pubbliche che non hanno
retto al passaggio da un’economia protetta ad un’aperta, da
un’offerta uniforme ad una domanda differenziata.
La decisione di Alitalia su Malpensa crea forse condizioni più
favorevoli per una sua vendita ad un vettore straniero, in primis Air France, o ad una cordata nazionale, in primis Air One.
Noi sostenevamo la necessità di un’alleanza e la necessità che
fosse il governo a condurre la trattativa proprio perché nel
futuro di Alitalia vi era la possibilità di fallire. E quindi sarebbe stato meglio trattare quando ancora si era in condizione di
poter chiedere garanzie.
L’uscita da Malpensa, pur con tutte le variabili possibili che si
possono determinare, genera nella nostra regione impatti enormi pesantemente sottovalutati. Il primo dei quali attiene a
Malpensa e Linate, alle conseguenze economiche sul gruppo
Sea, ad un esubero non prevedibile, ma che certamente supererà le migliaia di persone, che coinvolgerà anche la stessa
Alitalia, il catering, l’indotto commerciale.
In queste ore si sono fatte avanti compagnie quali Ryanair e
Easy Jet, low cost tra loro concorrenti, prospettando forti investimenti in aerei e nuove rotte da posizionarsi su Malpensa.
In modo superficiale si potrebbe sostenere che quel che si
perde con Alitalia si recupera con altre compagnie. Peccato
che tipologia dei voli, destinazioni, utilizzo di personale, servizi forniti non possano essere comparabili. Sarebbe come se su
una linea ad alta velocità ferroviaria si facessero andare treni
regionali.
La stessa querelle sugli slot, e quindi sull’utilizzo di quelli che
lascerà Alitalia, è emblematica della confusione, ed anche di
una certa dose di strumentalità politica, quale la volontà di
Formigoni di avere un ruolo nell’assegnazione degli slot che la
legge non prevede.
Ben più grave è che, a dati attuali, l’effetto dei tagli di Alitalia
determinerà su Sea mancati ricavi per circa 150 mln di euro,
che andrebbero ripartiti tra Sea Spa e Sea Handling.
Sea SpA finirebbe in passivo di circa 40 e Sea Handling di oltre
80 mln di euro, portando la seconda sulle soglie del dissesto. A
questo va aggiunto che il piano industriale, che condividemmo
con l’accordo del 23.7.07, e che prevedeva 1 mld di euro di
investimenti, sarebbe privo di copertura adeguata.
Una situazione finanziaria ed occupazionale insostenibile che
rischia di portare non solo ad una forte crisi aziendale, ma ad
un impatto occupazionale drammatico e privo di qualunque
sostegno al reddito ed al lavoro per una realtà, gli aeroporti,
priva di ammortizzatori sociali.
Si tratta quindi di prendere rapidamente l’iniziativa sindacale,
con il più forte spirito unitario possibile. Gli obiettivi in una
fase di drammatica emergenza devono avere una forte dose di
realismo.
Puntare, quindi, ad impedire che il sistema aeroportuale di
Milano diventi campo di un esperimento giocato su troppi tavoli e che non tenga conto dei lavoratori e delle persone.
Puntare ad impedire che i mancati ricavi trascinino Sea ed altre
imprese in un dissesto economico difficilmente sostenibile.
Puntare a sostenere una fase di crisi acuta che avrà una durata di almeno 24 mesi e durante la quale vanno approntati strumenti quali gli ammortizzatori sociali che tutelino occupazione e reddito.
Puntare a mantenere i lavoratori a tempo determinato e somministrati all’interno delle prospettive delle imprese impedendo che siano i primi a pagare l’uscita di Alitalia.
Servono quindi in un periodo di transizione, in attesa che si
delineino nuovi equilibri e nuovo sviluppo, strumenti eccezionali pari a quanto sta avvenendo.
La decisione del governo di portare il tema di Malpensa, con le
conseguenze del piano di Alitalia al “Tavolo Milano”, ci sembra
importante e utilizzeremo la nostra mobilitazione perché le
ragioni del sindacato e dei lavoratori trovino ascolto e sede di
confronto.
Per approfondimenti sul tema, consulta il sito della Filt
Lombardia www.cgil.milano.it/filt
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Il trasporto
merci
in continua
trasformazione
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di Ettore Montagna, funzionario Settore Merci, Logistica e Cooperazione
Filt-Cgil Lombardia
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Sotto la spinta dei processi di globalizzazione del mercato e dalla concorrenza,
anche nel trasporto delle merci sono in
atto importanti ristrutturazioni.
Questi fenomeni, in continua evoluzione,
alternano periodi di trasformazioni a
periodi più stabili, con cicli che diventano
sempre più brevi fino a diventare continuativi, ponendo il sindacato ed i lavoratori in un costante stato di emergenza.
Assistiamo a processi di aggregazione da
parte di società di varie dimensioni a partire dalle multinazionali come Dhl, che
coinvolgono anche aziende più piccole.
L’accorpamento e la fusione di società
permette di realizzare una migliore economia di scala, oltre ad un’efficace concorrenza in un settore molto polverizzato ma, di fatto, gran parte dell’efficienza si traduce in una pura riduzione dei
salari. Nascono, così grandi soggetti di
spedizione e logistica che influenzano il
mercato con evidenti ricadute anche sull’autotrasporto, che in Italia rappresenta
la modalità più diffusa per lo spostamento delle merci.
Le possibilità per il sindacato di tutelare i
dipendenti coinvolti sono legate alla capacità di organizzare i lavoratori, in quanto
la legge 428/90 e l’art 2112 del c.c. permettono solo parzialmente di realizzare
accordi in grado di mantenere le condizioni economiche e normative acquisite.
Restano aperte, e da verificare nel breve
periodo, gli effetti di questi processi sui
livelli occupazionali e sulle diverse delocalizzazioni, con conseguenti effetti sul
trasferimento del personale, anche in
relazione ai nuovi corridoi di transito
delle merci.
Si sta realizzando una frantumazione del
ciclo produttivo.
All’esternalizzazione dei magazzini,
ormai generalizzata, si aggiunge quella
di altre attività come la bollettazione,
uffici dogane, call center. Diventa sempre più difficile stabilire il confine tra le
attività proprie delle società di spedizione e logistica e quelle esternalizzate,
spesso condizionate da una pericolosa
commistione tra dirigenti aziendali e
cooperative, che sviluppa una zona grigia
nella gestione degli appalti
La gestione dei magazzini è stata ceduta
a consorzi e cooperative, che utilizzano
soci lavoratori molto meno garantiti e
spesso ancora sottopagati. Lo scopo evidente è quello di ottenere una vasta flessibilità delle prestazioni lavorative ed un
abbattimento dei costi, realizzato essenzialmente penalizzando le retribuzioni di
questi lavoratori che, ancora oggi, non
godono a pieno di tutti gli istituti contrattuali, né dell’integrazione del trattamento di malattia ed infortunio. Ad essi,
sempre più diffusamente, sono applicati
contratti pirata: un abbattimento dei
costi che grava pesantemente sulle tutele e sui diritti più elementari, creando
una forte divisione tra lavoratori dipendenti e soci lavoratori.
L’estensione di questa frantumazione ad
ulteriori attività pone al sindacato il problema della ricomposizione del lavoro
nel ciclo delle merci: l’unicità contrattuale va difesa e completata come condizione essenziale.
Mancano strumenti idonei ad affrontare
queste esternalizzazioni, non contemplate
dalla 428/91 né dal codice civile; nemmeno il CCNL di riferimento è in grado di
imporre, alle aziende cedenti, regole fondamentali che governino questi processi.
L’esperienza di questi anni impone al sindacato un rinnovato impegno, coinvolgendo le rappresentanze aziendali che vanno
dotate di competenze e di un nuovo dettato contrattuale, che preveda il rispetto
integrale dello stesso CCNL anche per i
lavoratori delle aziende o cooperative in
appalto. Occorre predisporre una piattaforma per il rinnovo del CCNL, in scadenza ad ottobre 2008, che riscriva gli articoli relativi agli appalti ed alle terziarizzazioni prevedendo le clausole sociali, come
avvenuto per altre categorie (es. alimentaristi).
Un altro obiettivo fondamentale riguarda
le agibilità sindacali, che devono consentire, così come previsto per il rappresentante alla sicurezza dal nuovo ddl,
l’estensione della rappresentatività del
delegato oltre i confini aziendali, riconoscendogli titolarità nell’intero impianto
e/o gruppo, indipendentemente dalle
società o cooperative in esso operanti.
L’intero settore, che da anni vive questo
processo di trasformazione, non è tutelato dagli ammortizzatori sociali, previsti
invece per i settori industriali. Gravi difficoltà incontriamo nell’affrontare la
mobilità del personale e grandi aspettative sono riposte dai lavoratori del settore nell’esito della contrattazione col
governo sulla riforma dello stato sociale.
Il confronto si è concluso, ancora una
volta, senza aver prodotto l’agognata
estensione della mobilità retribuita che,
collegandosi a veri progetti formativi,
consentirebbe a questi lavoratori di passare da una mera fase difensiva ad una
ricollocazione, che li veda di nuovo protagonisti in un settore che si misura continuamente con una realtà troppo spesso
sottovalutata.
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Il potenziamento delle
Trasversali Nord - Sud Europa:
quali impatti sulle
Tangenziali
milanesi?
F R O N T I E R E
Senza frontiere
Il presente articolo prende spunto da una recente ricerca
effettuata dal CRMT dell’Università LIUC
La catena montuosa delle Alpi costituisce una barriera naturale che si oppone alla circolazione delle persone e dei beni
all’interno dell’Europa. Pertanto, la Commissione Europea ha
deciso di superare tale ostacolo con la costruzione delle
Trasversali Nord – Sud. Dal 2000, la progressione del traffico
merci attraverso le Alpi è stata molto elevata, nell’ordine del
3% circa all’anno, rispetto ad una media dell’1,7% all’anno
nell’Unione Europea. Le previsioni future indicano che tali
incrementi saranno mantenuti anche in futuro e, nel lungo
periodo (2030), il traffico dovrebbe raggiungere quota 300
milioni di tonnellate di merci l’anno, 120 dei quali transiteranno su ferro ed i restanti 180 su gomma.
Attualmente, la gran parte del traffico è su gomma e la crescente saturazione delle infrastrutture stradali dell’arco alpino costituisce un problema grave in termini di tempo di trasporto, rischi per la sicurezza degli utenti e danno ambientale. A tal proposito sono numerosi i progetti di potenziamento
delle infrastrutture di trasporto sulle Alpi.
Allo stato attuale, sui principali valichi alpini, cioè il Frejus,
Ventimiglia, Modane, Monte Bianco, San Bernardino,
Sempione - Lotschberg, San Gottardo e Brennero, trasbordano circa 130 milioni di tonnellate, in incremento del 20% circa
rispetto ai traffici registrati nel 1999.
S E N Z A
di Massimiliano Sartori
Centro di Ricerca sui Trasporti e le Infrastrutture CRMT
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Senza frontiere
S E N Z A
F R O N T I E R E
Tabella 1 – Traffico merci sui valichi alpini nel 1994, 1999 e 2004, in milioni di tonnellate
Fonte: CAFT 2004
Con specifico riferimento alla Lombardia1, il tunnel del
Lotschberg (inaugurato lo scorso giugno) ed il tunnel del San
Gottardo costituiranno collegamenti ad alta velocità Nord –
Sud Europa, passanti per la Lombardia, ed integreranno le
infrastrutture ferroviarie della Svizzera, dell’Italia e della
Germania. La costruzione dell’asse Nord – Sud soddisferà in
primo luogo il trasporto delle merci, rendendolo più attrattivo, e in secondo luogo collegherà in modo più efficiente le
aree economiche di Svizzera, Italia e Germania.
Tabella 2 – Previsioni sul traffico merci ferroviario in milioni di tonnellate all’anno
Attuale
BBT – 2015
LTF – 2020
BBT – 2025
LTF – 2030
Capacità teorica di carico annuo nel lungo periodo
Francia
Collegamento LTF
6,0
10,6
19,1*
11,0
33,4**
34,0
Svizzera
Lotschberg
San Gottardo
6,8
15,6
7,2
24,0
12,4
29,3
9,5
27,3
13,2
28,7
15,0
40,0
Austria
Brennero
10,3
22,6
26,2
26,7
37,8
41,0
Fonte: European Commission – DG TREN, Alptransit, CRMT
*senza tunnel di accesso
** progetto completato
In tale contesto, se si considera che la Regione Lombardia
detiene un peso vicino al 50% dell’interscambio commerciale totale del Nord Italia, vale a dire che quasi la metà del
commercio estero dell’intero Nord Italia è prodotto/generato dalla Lombardia, si comprende come la gran parte del
traffico attuale e degli incrementi futuri di traffico si concentreranno in Lombardia dove, attualmente, il sistema
della mobilità è in molti punti e per molte ore della giornata al collasso.
1 Si veda anche l’approfondimento di NOSTOP n. 55.
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A tal proposito, è importante rilevare come il traffico passeggeri e merci locale in entrata e in uscita dalla Svizzera e
dall’Italia è notevolmente più intenso del traffico passeggeri
e merci in transito.
La possibilità di avere collegamenti veloci, efficienti e con un
minore impatto ambientale, favorirà l’utilizzo della modalità
ferroviaria che, secondo le più recenti stime, dovrebbe servire il 40% della domanda totale di traffico merci sulle Alpi,
contro l’attuale 23%.
È necessario, pertanto, completare i progetti di potenziamento ferroviari attualmente in corso, nei tempi e nelle modalità
definite, al fine di razionalizzare i flussi di traffico ed evitare strozzature nel sistema di trasporto. In particolare, gli
interventi più importanti sono la riqualificazione della
Alessandria – Mortara – Novara, la sistemazione del Nodo di
Novara, il raddoppio della Vignate – Oleggio – Arona, la variante di Gozzano (linea Novara – Borgomanero), il potenziamento del Nodo di Genova e la realizzazione del terzo valico
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AV/AC, il quadruplicamento bivio Rosales – Seregno, la nuova
linea Seregno – Bergamo, il nuovo collegamento Arcisate –
Stabio, il sistema di potenziamento degli accessi a Malpensa
ed il potenziamento della direttrice Bellinzona – Novara.
Al fine di verificare l’impatto del traffico proveniente dai
valichi alpini sul sistema delle Tangenziali di Milano, legato
alla razionalizzazione delle linee ferroviarie di trasporto si
sono, in primis, analizzate le previsioni di crescita future con
riferimento al trasporto merci e passeggeri e, successivamente, si sono effettuate alcune simulazioni con riferimento agli
impatti prodotti.
In sintesi, dalle simulazioni effettuate è emerso come nei
prossimi anni, al completamento dei progetti di potenziamento ferroviari previsti, un numero sempre maggiore di
camion potrebbe essere sottratto al sistema delle Tangenziali
di Milano. In particolare, con l’apertura del traforo del San
Gottardo al 2015, gli autoarticolati sottratti si attesterebbero a circa 1.800 unità, per raggiungere quasi 7.000 unità nel
2030. Tale risultato è molto importante in quanto permette
di alleggerire il carico di domanda sul sistema delle
Tangenziali milanesi con benefici diffusi dal punto di vista
economico della mobilità e dell’ambiente.
Ancora, dalle simulazioni effettuate è emerso come in assenza d’interventi di potenziamento dell’infrastruttura ferrovia-
ria, fra il 2013 ed il 2014, il sistema potrebbe trovarsi in una
situazione di criticità strutturale. A tal proposito è essenziale evidenziare come già adesso in alcune ore della giornata,
in particolare in concomitanza con l’inizio e la fine della giornata lavorativa, il sistema di trasporto risulta inefficiente ed
inadeguato a rispondere alla domanda di mobilità.
Sulla base delle simulazioni effettuate, fra il 2013 ed il
2014, invece, il sistema delle Tangenziali di Milano si ritroverebbe in una situazione di congestionamento stradale per
la quasi totalità della giornata, ad esclusione di alcune
fasce notturne.
Come detto, un importante contributo al “decongestionamento” può derivare dal trasferimento di una quota consistente di traffico pesante dalla strada alla ferrovia, come
previsto debba accadere anche a seguito della messa in esercizio dei tunnel di base del Lotschberg e del San Gottardo.
A tal proposito, l’indicazione di massima proveniente dalle
stime sopra riportate, che valuta nell’ordine dei 7.000
camion al giorno la riduzione del traffico merci gravante sulle
Tangenziali milanesi, alla luce del peso più che proporzionale che tale traffico pesante ha in termini di capacità di congestionamento, porta a quantificare una traslazione in avanti di circa 5 anni del momento di raggiungimento del livello
di saturazione, spostando così al 2020 la data critica.
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S G U A R D I
E
T R A G U A R D I
Sguardi e traguardi
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Milano:
una città metropolitana
femminile,
maschile,
plurale.
di Fulvia Colombini, Segretaria Camera del Lavoro Metropolitana di Milano
Oggi il lavoro femminile
non rappresenta più una
parzialità, bensì la complessità e la trasversalità
su cui si giocano le sfide
per il futuro.
Il lavoro maschile non possiede più queste caratteristiche perché è cambiata
la società, la sua struttura
e composizione sociale,
sono cambiati i bisogni e i
desideri delle persone.
Il titolo dell’articolo è l’omonimo dell’interessante iniziativa
che si è svolta nella Sala degli Affreschi della Provincia di
Milano, lo scorso 18 settembre 2007, dove si è discusso dell’economia e del mercato del lavoro del nostro territorio
metropolitano.
Il rapporto OCSE 2006 conferma che Milano può ambire al
ruolo di capitale regionale dell’Europa meridionale, ma per
giungere a questo risultato è necessario includere tra le sfide
l’incremento quantitativo e qualitativo della presenza femminile nei processi di sviluppo locale.
La stretta correlazione tra aumento della partecipazione femminile e crescita socio-economica di un territorio è un dato di
fatto riconosciuto sia in ambito comunitario, sia a livello
nazionale.
La Provincia di Milano ha riunito una serie di attori significativi dello sviluppo e dell’economia milanese, tra cui la Cgil,
per discutere su quali strategie si vuole puntare per assicurare la presenza attiva delle donne in tutti gli ambiti e livelli di
partecipazione.
Sono stati presentati una serie di dati che descrivono una
situazione che può essere letta in modo ambivalente: positivo e negativo allo stesso tempo. A Milano le forze lavoro femminili superano il 60% e le occupate si attestano intorno al
59%. L’obiettivo raccomandato dall’Unione Europea di raggiungere entro il 2010 il 60% di occupazione femminile per
Milano si può considerare raggiunto e per il 2010 si può ragionevolmente ambire a superarlo.
Se, però, dall’analisi dei dati macro, passiamo ad un esame
più dettagliato vediamo che non si può parlare di “buona
occupazione”. Le donne entrano nel mercato del lavoro, ma
con contratti atipici, rimangono in una situazione lavorativa
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Sguardi e traguardi
di precarietà molto più a lungo rispetto ai maschi e guadagnano meno. Sono maggiormente esposte al rischio di perdita
dell’occupazione e la maternità continua a rappresentare un
elemento di forte penalizzazione professionale.
Ne sono prova i 1.500 casi di dimissioni, nel primo anno di vita
del bambino, registrate nella Provincia di Milano lo scorso
anno. Siamo a conoscenza di questo dato perché, essendo il
licenziamento vietato per legge in questo delicato periodo
della vita della donna lavoratrice, le dimissioni sono ratificate
presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro. Possiamo immaginare
che dietro a ciò si nascondano dei licenziamenti incentivati.
Anche i dati relativi alla formazione scolastica ci mostrano un
quadro incoraggiante e competitivo; le donne risultano più
istruite, ma a distanza di 5 anni dal conseguimento della laurea guadagnano in media oltre il 25% in meno di un coetaneo.
Se analizziamo lo sviluppo professionale notiamo che le dirigenti, che oggi si attestano intorno all’11%, hanno totalizzato
un incremento di sei punti nell’arco di 15 anni. Risulta del tutto
evidente che una crescita così lenta denuncia molti ostacoli e
la necessità di un’accelerazione si impone rapidamente.
Se osserviamo i dati del lavoro autonomo dobbiamo segnalare
che oltre la metà del totale di coloro che lavorano con Partita
Iva risiedono a Milano e la maggioranza sono donne impiegate nei settori della formazione, consulenza, organizzazione,
comunicazione. Si tratta di professioniste che si prefiggono un
progetto di lavoro indipendente e flessibile. Necessitano di
opportune politiche fiscali e del riconoscimento dei diritti per
quanto riguarda la maternità.
Il quadro descritto ci consegna una situazione in cui le donne
milanesi entrano con convinzione nel mercato del lavoro ma,
per effetto di discriminazioni dirette e indirette, non riescono a dispiegare appieno il proprio potenziale e vivono in una
condizione disagiata. Una ricaduta evidente di questa difficoltà è la drammatica contrazione della natalità: 1,2 figli per
donna e l’età del primo figlio compresa tra i 32 e i 34 anni.
Senza l’apporto delle immigrate che mantengono un tasso di
natalità ancora alto, il numero dei morti sopravanzerebbe di
molto il numero dei nati. La disponibilità di posti per l’asilo
nido, per la fascia di bambini da 0 a 3 anni, è ancora insufficiente rispetto alla richiesta e ogni anno si ripresenta il problema delle liste d’attesa inevase. Nei paesi del Nord Europa,
da tempo, sono stati effettuati investimenti per favorire la
condivisione dei ruoli e del lavoro di cura nella coppia, favorendo la conciliazione. Nel nostro paese questo ritardo provoca, oltre che sofferenza e disagio, anche minore sviluppo
socio/economico. Si riscontrano, da parte delle
Amministrazioni locali, scelte anacronistiche che privilegiano
la tradizionale famiglia mediterranea, mentre la realtà ci
mostra un quadro ben diverso. L’esclusione e la mancata partecipazione delle donne devono essere valutate in termini sia
di costi sociali che di mancata crescita economica; politiche
di welfare innovative rappresentano elementi qualitativi
dello sviluppo.
Tutti gli attori del convegno - ricercatrici, rappresentanti
delle imprese, docenti, sindacato - hanno concordato su tre
elementi negativi che vanno aggrediti e superati nel
breve/medio periodo:
● un modello conciliativo difficoltoso;
● la scarsa presenza delle donne nelle posizioni apicali delle
professionalità e delle responsabilità;
● l’esigua rappresentanza delle donne nelle istituzioni e
nella politica.
Tutti questi fattori, insieme alla modalità tutta italiana di
avanzamento per cooptazione, determinano un circolo vizioso che frena lo sviluppo delle potenzialità e dei talenti femminili. Serve una società più dinamica, dove ci si possa mettere in gioco perché merito e capacità sono valutati come elementi determinanti.
La proposta avanzata da Arianna Censi –Consigliera delegata
alle Politiche di Genere della Provincia- a tutti gli intervenuti è
stata quella di stringere un “Patto” per l’inclusione, la valorizzazione e la partecipazione delle donne a tutti i livelli.
Solo così la nostra area metropolitana potrà aspirare ad una
crescita quantitativa e qualitativa all’altezza delle sfide europee. Gli strumenti esistono; abbiamo ottime leggi inutilizzate,
come la legge 53/2000 pensata per la conciliazione dei tempi
individuali in correlazione con i tempi delle città. A Milano, per
mancanza di volontà della Giunta Comunale e della Regione
Lombardia, nulla è stato tentato, nulla è stato sperimentato,
nonostante le sollecitazioni venute dalle donne.
Il sindacato confederale a Milano ha sviluppato e consolidato,
con tenacia, una pratica di lavoro unitaria sulle politiche di
genere che gli ha consentito di stare in campo (sia rispetto
all’analisi della situazione locale che della proposta) e diventare un importante punto di riferimento per la città. L’idea
del “Patto per le donne” è stata proposta, da Cgil Cisl Uil,
anche al Ministro delle Pari Opportunità - Barbara Pollastrini
– già nel marzo scorso, durante un’iniziativa pubblica. La
risposta era stata positiva, ma aspettiamo che si concretizzi
con una Conferenza del Governo sul lavoro delle donne, da
tenersi nella nostra città.
Oltre a chiedere l’impegno di tutti - istituzioni, governo,
sistema delle imprese - è necessario che anche la nostra organizzazione, in modo capillare e diffuso, eserciti la propria
rappresentanza proprio a partire dai nodi presenti nel lavoro
femminile. Occorrono politiche contrattuali nuove, accordi
locali significativi, diffusione delle buone pratiche, ricordando che se saremo in grado di rappresentare i bisogni delle
donne, saremo in grado di rappresentare tutti al meglio.
Oggi il lavoro femminile non rappresenta più una parzialità,
bensì la complessità e la trasversalità su cui si giocano le sfide
per il futuro. Il lavoro maschile non possiede più queste caratteristiche perché è cambiata la società, la sua struttura e
composizione sociale, sono cambiati i bisogni e i desideri
delle persone.
Se vogliamo stare in campo noi, donne e uomini della Cgil,
dobbiamo raccogliere questa stimolante sfida.
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“LINATE
8 ottobre 2001:
la strage”
F I N E S T R E
di Giulio Cavalli
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Non è uno spettacolo per fare
giustizia, per quella ci sarebbero
già giudici e tribunali, né è uno
spettacolo per onorare le vittime, quelle sono gelosamente nei
cuori delle loro famiglie. E’
appoggiare una storia, seminare
delle domande, coltivare le virtù
del dubbio: raccontare di uno
stato in cui nessuno è responsabile della sicurezza dei propri
cittadini, in cui diventa un rebus
capire chi controlla cosa, in cui
si individuano sempre le cause e
pochissimo le responsabilità.
Linate l’8 Ottobre 2001 non è un incidente: gli incidenti sono
roba da cabala e giro di roulette degli dei; dove c’entrano le
colpe degli uomini, allora è un omicidio. Centodiciotto morti
sono una strage.
Quando Fabrizio Tummolillo (che poi mi ha accompagnato
nella scrittura del testo teatrale) ha appoggiato sulla mia scrivania la documentazione e le storie di quel giorno così buio
sono rimasto per una fetta di notte a guardarlo, quel cumulo
di fogli di “quello che si sarebbe dovuto fare”: sono le macerie di uno stato che premia chi accumula potere scansando
proporzionalmente le proprie responsabilità. Allora mi sono
interrogato a lungo, prima di iniziare la messinscena, su quale
poteva essere il mio ruolo di narratore teatrale e sul perché
dovesse nascere uno spettacolo su quel cumulo. Noi teatranti godiamo di un privilegio che molti ci invidiano: la fisicità e
il tempo del nostro pubblico; quindi sono partito da qui perché avevo il tempo di raccontarlo per filo e per segno tutto
quel cumulo.
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Spesso mi ritrovo a dire che più dell’ignoranza, oggi, mi spaventa questa
“convinzione di sapere” che è tutta
appoggiata sull’informazione confezionata a mo’ di spot pubblicitari per cui in
quindici minuti di tg in fase digestiva
paghiamo il nostro pegno di coscienza
con i fatti del mondo.
Se ascoltate la gente “comune” sull’incidente di Linate, vi parleranno di nebbia, di un radar che non c’era e vi vomiteranno un po’ di sana e gratuita indignazione. Oggi si è acquisito il diritto di
indignarsi a priori anche senza sapere.
La risposta al mio dovere mi è caduta
così: il teatro oggi è una buona occasione per informare senza fretta, senza
doversi inserire in una linea editoriale di
“accattivante confezionamento”, senza
fare leva sul qualunquismo facile, senza
dover opzionare pubblico per forza con
i morti nei titoli di testa.
Per Linate le colpe sono tutte agli atti:
un radar da installare che aspettava la
giusta congiunzione (forse economica?) per essere attivato (è lo stesso
giudice Moccia a parlare di legami professionali tra la Marconi, società che
opera nei radar in concorrenza alla
FIAR, e l’amministratore delegato
dell’Enav), una leggerezza di fondo
nel gestire un ambiente complesso
come un aeroporto, una segnaletica
peggiore dell’adiacente viale Forlanini, una scellerata progettazione nel
posizionare il deposito bagagli a fondo
pista e, fondamentalmente, scelte di
gestione al risparmio.
Oltre a tutto questo, fin dall’inizio mi
sono imbattuto nel dramma, quella lista
lunga di nomi, e confesso che nei
momenti più ostici della preparazione li
scorrevo, appoggiati sulla scrivania, in
disparte da tutti quei fogli di simboli e
numeri; e me li sono portati in teatro,
con quel loro scorrere leggero e con la
convinzione che, anche senza aggiungerci niente, siano un graffio alla nostra
coscienza.
Raccontare la favola triste dell’8 ottobre è roba da teatro dell’assurdo, abitare in una Bengodi senza doveri, in un
luna-park leggero e mortale. I giullari
cinquecenteschi rovesciavano il reale
per raccontarlo con dietro un digrignare
di denti. Linate quel giorno è un posto
già storto di suo.
Chi darebbe credito a quel paese nella
prima mezz’ora di spettacolo fatto di
vigili, postini e Culidigomma che martellano “avioporti” come se fossero orti
squinternati? Quanti in tournée hanno
sorriso di quel collaudo giù a Bengodi
tutto svolazzante di professori, timbri e
carte bollate senza senso?
A stare sul palco c’è un momento che
tutte le volte mi accende un brivido:
sentire quel sorriso che si spegne lì dove
diventa un alone, un dubbio, che non
possa essere Linate così tanto Bengodi,
che non possa Bengodi assomigliare a
Linate man mano che ci si avvicina. E il
sorriso diventa strozzato, la sala diventa silenzio. Su quel bordo dello spettacolo si srotola tutto il nostro lavoro.
“Linate 8 Ottobre 2001: la strage” non è
uno spettacolo per fare giustizia, per
quella ci sarebbero già giudici e tribunali, né è uno spettacolo per onorare le
vittime, quelle sono gelosamente nei
cuori delle loro famiglie.
“Linate 8 Ottobre 2001: la strage” è
appoggiare una storia, seminare delle
domande, coltivare le virtù del dubbio:
raccontare di uno stato in cui nessuno è
responsabile della sicurezza dei propri
cittadini, in cui diventa un rebus capire
chi controlla cosa, in cui si individuano
sempre le cause e pochissimo le responsabilità. “Dove non ci sono colpevoli,
allora i colpevoli sono i morti?” si chiedono giù a Bengodi.
Non so cosa potrà riservarci la cassazione, non so quanto alla fine pesi questo
nostro caracollare per teatri e non so
nemmeno se forse io avrei potuto fare
diversamente o semplicemente meglio.
Ho lavorato con tutti quelli che mi
hanno voluto portare una pezza della
storia, mi sono messo in tasca chi ha
contestato tesi senza offrirmi un contraddittorio, mi sono segnato tutti i
numeri che hanno squillato a vuoto e mi
sono promesso di essere sempre a disposizione anche giù dal palco.
Ma una sicurezza me la tengo con una
punta di orgoglio: nel campo minato di
così tanto dolore mi sento pulito. Io.
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Jonathan Safran Foer
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Molto forte, incredibilmente vicino, Guanda, 2005
Ogni cosa è illuminata, Guanda, 2002
L’11 settembre
ed altri buchi neri
della storia,
dal punto di vista
di quelli
che ne sono travolti
di Osvaldo Cisternino
Jonathan Safran Foer è nato a
Washington nel 1977 e vive a New York.
Il suo romanzo di esordio, Ogni cosa è
illuminata, è stato pubblicato nel 2002
ed è divenuto subito un bestseller a
livello mondiale; ne è stato tratto un
bel film, molto apprezzato dalla critica
e dal pubblico. Il suo secondo romanzo,
Molto forte, incredibilmente vicino, è
uscito nel 2005 e non ha deluso le attese dei suoi molti lettori.
Inizio l’articolo dedicato a questo sorprendente scrittore da alcune informazioni biografiche – non solo per mettere
in evidenza la straordinaria precocità
del suo talento – ma anche in quanto la
sua giovane età aggiunge particolare
pregio al tentativo, che accomuna i suoi
due romanzi, di scavare nel presente
per cercarvi le tracce di quei veri e propri buchi neri della storia novecento,
anzitutto dell’olocausto: non si può,
infatti, comprendere il presente ed
ancor meno sperare nel futuro, se si
dimentica il male che ha segnato le vite
dei nonni e dei padri.
L’ultimo romanzo di Foer, Molto forte,
incredibilmente vicino, ha per tema il
crollo delle torri gemelle di New York ed
il vuoto che n’è derivato, non solo nel
centro di Manhattan, ma nelle vite di
coloro che hanno perso i loro cari, come
Oskar, il protagonista, un bambino di
nove anni che ha perso il padre.
Oskar era legato a suo padre da un rapporto di complicità giocosa: l’ultimo dei
giochi inventati insieme – la ricerca di
qualcosa di nascosto nel Central Park –
era rimasto senza soluzione, perché suo
padre si era trovato in cima alle torri
gemelle proprio la mattina dell’attentato. Rientrato anticipatamente a casa da
scuola, Oskar ascolta alcuni messaggi
del padre nella segreteria telefonica.
Durante l’ultima telefonata si trova già
a casa, ma non ha il coraggio di rispondere.
Oskar è un bambino di intelligenza e
sensibilità fuori dal comune. Per reagire
all’angoscia che lo divora, passa le notti
a fare invenzioni: dopo la morte del
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padre, non riuscendo a dormire, inventa oggetti per il suo mondo immaginario, come, per esempio, “uno scarico
speciale da mettere sotto tutti i cuscini
di New York, collegato al laghetto del
Central Park. Ogni volta che qualcuno si
addormentava piangendo, tutte le
lacrime sarebbero finite nello stesso
posto e poi al mattino al bollettino
meteo avrebbero detto se il livello
delle acque del Laghetto delle Lacrime
era salito o sceso... E quando succedeva
qualcosa di veramente terribile...
avrebbero suonato una sirena fortissima per dire a tutti di andare nel
Central Park e mettere dei sacchi di
sabbia attorno al laghetto” (pag. 51).
Oskar trova fra le cose di suo padre una
busta con dentro una chiave e al di fuori
la scritta Black: decide di indagare sul
mistero che sembra celarsi in quella
chiave; spera in tal modo di rendere più
vivo il ricordo di suo padre, scoprendone un segreto. Si mette a girare in cerca
di tutti gli abitanti di New York con il
cognome Black, accompagnato in molte
delle sue visite da un suo vicino decrepito che, anche se da molti anni non
usciva di casa, accetta di aiutarlo. La
strana coppia gira la città in lungo e in
largo, incontrando persone e conoscendone le storie. Anche se la ricerca non
darà i frutti sperati, consentirà ad Oskar
di imparare molte cose sul passato e
sulle persone che popolano il mondo in
cui vive. La parte del romanzo dedicata
a questa ricerca è narrata con la voce
del protagonista, e dunque vista dagli
occhi di un bambino: il suo dolore si
intreccia alla sua curiosità per il mondo
e al suo irrinunciabile bisogno di cercare un senso al dramma che ha travolto
la sua vita.
Ma la storia di Oskar si intreccia nel racconto a quella dei suoi nonni paterni,
giunti in America in fuga da Dresda,
distrutta dai bombardamenti tedeschi
durante la seconda guerra mondiale.
Quest’altra storia è narrata alternando
le voci dei due protagonisti: il nonno,
scultore, divenuto incapace di parlare,
dopo che in quei bombardamenti ha
perso la ragazza che amava e stava per
dargli un figlio; la nonna, che di quella
ragazza era la sorella. Si incontrano a
New York, lui si esprime solo scrivendo
le sue parole su di un quaderno. Lei gli
chiede di sposarla, ma il dolore del passato pesa come un macigno sul loro
incontro. Così, quando lei resta incinta
del padre di Oskar, lui non se la sente di
affrontare la nuova realtà familiare e va
via. Per tutta la vita scrive lettere al
figlio che non ha conosciuto, senza spedirgliele. Così, quando viene a sapere
che è morto nel crollo delle torri gemelle, torna a casa di lei con le sue lettere,
che una notte, insieme ad Oskar, andrà
a seppellire nella bara vuota del figlio.
Ma la nuova amicizia con il nipote non
basterà a porre rimedio alla sua incapacità di vivere.
A queste due storie principali se ne
intrecciano infinite altre, tutte permeate da quella sorta di compassione per
l’uomo, per tutti gli uomini nella loro
fragilità di fronte alle tragedie della
storia, che riempie le pagine di Foer di
originale e commovente poesia.
Anche nel suo primo romanzo, Ogni
cosa è illuminata, si intrecciano due
storie, ambientate in epoche diverse,
con frequente cambiamento dell’io
narrante: la storia di un viaggio al presente, fatto dal giovane scrittore
Jonatan in Ucraina, alla ricerca del vil-
laggio ebraico di suo nonno, e la storia
di quel villaggio, Trachimbrod, dalla
fine del ‘700 fino alla sua atroce
distruzione ad opera dei nazisti.
Indimenticabili e ricchi di imprevedibili invenzioni narrative sono i racconti,
al limite della fiaba, dedicati agli avi
di Jonatan, che fanno pensare, per
leggerezza e poesia, ai dipinti di
Chagall, dedicati a simili villaggi ebraici dell’est europeo. E, come nella vita,
le pagine esilaranti si alternano a quelle straziate, all’ostinata ricerca di un
senso fra le tragedie del ‘900 che,
anche quando ci sforziamo di rimuoverle, ci portiamo comunque addosso.
All’intreccio di storie Foer aggiunge,
nell’ultimo suo romanzo, l’uso del linguaggio visivo, attraverso splendide
foto in bianco e nero che si intrecciano
al racconto, con la bellissima sequenza
finale costituita delle foto di un uomo
che cade da una delle torri, ma impaginate all’incontrario, così che, sfogliandole rapidamente, anziché cadere sembra che stia risalendo. Ed è Oskar che,
nelle ultime pagine del libro, scorre
all’incontrario quelle immagini e sogna
che sia possibile, nella realtà come in
un film, ritornare indietro.
Foer costruisce macchine narrative di
ingegno sorprendente per dar conto di
come le atrocità del novecento restino
all’interno della coscienza di ciascuno
di noi, come dei veri buchi neri incomprensibili e irrisolti.
Non dà giudizi politici. Non ha soluzioni
rassicuranti. Eppure ho avvertito nei
suoi romanzi un messaggio di speranza.
Forse sta nella compassione verso gli
uomini, verso ogni uomo, e implicitamente è su questa compassione che ci
propone di costruire il futuro.
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Finestre
L’altra New York: la propria
Un’iperattiva massa
umana diversificata,
in continua evoluzione
Ombelico del mondo, la Grande mela (the Big Apple),
Gotham City, La città che non dorme mai (The city that
never sleeps) sono tra i più svariati modi di chiamare
questa città, ma nessuno è adeguato ad una metropoli
con al suo interno decine di altre città diverse tra loro,
con in comune solo la posizione geografica.
F I N E S T R E
di Ettore Lo Iacono
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E’ la città celebrata in molti modi, attraverso film, canzoni,
libri, immagini, giornali, pubblicità. Tutti, o quasi, si sono fatti
un’idea dell’immaginario o del reale urbano newyorkese. Non
è quindi facile parlarne senza cadere in luoghi comuni o fare
una descrizione retorica.
NY è una città “rapida”: i ritmi sono parecchio elevati e più si
entra nello spirito locale più ci si conforma ad un generale
comportamento time/space concentrated; ci si chiede all’inizio perchè la gente beva il caffè sulla subway, poi si comprende che è principalmente per una questione di tempo.
La subway stessa è, a qualsiasi ora della giornata, un rollio
luminoso e frenetico di persone e treni che si spostano velocemente; allo stesso modo, in superficie, una sterminata flotta di
auto gialle gareggia sulle strade e nei tunnel. I cosiddetti
Yellow Cabs sono largamente utilizzati e i newyorkesi si distinguono anche per le bizzarre modalità di richiamare l’attenzione dei tassisti. La più efficace? Dirigersi nel centro della avenue in senso contrario a quello di marcia con un braccio alzato, magari emettendo urla o fischi.
A New York la gente lavora molto, ma esce anche molto; il
quartiere di Manhattan, in particolare, è una sequenza ininterrotta di ristoranti, diners, bar e club.
È senza dubbio una città commerciale, legata saldamente al
denaro, costosa, pratica, matematica. Ma anche un agglomerato urbano che accomuna molte persone per solidarietà e impegno sociale.
A NY è facile essere eccitati, stimolati, entusiasti e depressi in
breve tempo. Tutto ed il contrario di tutto, in ambiti spaziotempo molto ridotti. E’ la metropoli dalle contraddizioni marcate, caratteristica che la rende odiosamente affascinante.
La gente di NY non è prettamente riflessiva, non considera il
relax un valore primario, è concentrata sul proprio obiettivo,
spesso segue il proprio sogno, talvolta è costretta e forzata dai
ritmi lavorativi, ma sorretta da un ottimismo ed uno slancio
necessario, volta ad una pressoché certa realizzazione professionale. Talvolta, forse, è esclusivamente attratta da idee di guadagni rapidi. Talvolta, anche, non curante delle conseguenze.
La città di New York, oggi percepita come una delle capitali del
mondo, reagisce alla tragedia delle Torri Gemelle e all’attuale
crisi economica, ridiventando fucina di nuove idee e programmi: dai progetti per Ground Zero alla rinascita di Harlem, dalla
candidatura per le Olimpiadi del 2012 ai musei e ai teatri, che
rimarcano un’attenzione alla cultura che da sempre la metropoli coltiva con orgoglio.
Ma è anche, per contrappasso, la capitale del disorientamento.
In piena estate torrida, seduti in un parco grande circa un
migliaio di acri, si scorge sul quotidiano la notizia che New York
ospita l’evento mondiale sul “Climate-Change”, mentre sullo
sfondo, oltre l’oasi verde, le persone all’interno dei grattacieli
sono tenute ultra refrigerate da milioni di condizionatori, fino al
successivo, repentino ed inevitabile blackout energetico.
Diversi fattori fanno sì che ognuno crei la propria, personale, New
York, che ognuno le assegni il proprio personale “state of mind”.
Questa condizione mentale è la propria visione e relazione con
la città, è la maniera in cui la città influenza ogni personale e
differente situazione.
E’ spesso una forma di energia che si insegue, che si può trovare o che si inventa. La si avverte nell’esperienza architettonica cittadina; nel suo storico slegarsi da cliché sulle professioni
artistiche o nelle strade, camminando negli immensi quartieri
come Little Italy e China Town (città nella città, dove gli abitanti stentano un inglese forzato e dove girare l’angolo è un
viaggio oltreoceano), tra un venditore di hot dog e una massa
di persone vestite nei modi più disparati che passano indifferenti lungo il marciapiedi dirigendosi verso la metropolitana;
nel contatto con persone di diversa provenienza e cultura che,
per una ragione o l’altra, vivono una parte della loro vita in
questa città; nel sentirsi per momenti esiliati e istanti successivi al centro del mondo; infine, nel mettere in discussione,
rafforzare o distruggere alcune convinzioni, personali o generiche, essenziali.
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News
a cura di Ivan Panzica
Luglio 2007
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Sottoscritta congiunta dichiarazione di intenti, tra OO.SS. e ENAC, in merito al regolamento sulla certificazione dei prestatori di servizi aeroportuali di assistenza a terra, dopo mesi di trattative, iniziative di mobilitazione e interventi ministeriali.
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Sospeso sciopero di 24 ore delle Attività Ferroviarie, proclamato dalle Segreterie Nazionali di Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Fast Ferrovie, Ugl
A.F. e Orsa ferrovie, per i giorni 21, 22, 23 luglio, a seguito di incontro con il Governo. Impegni presi dal Governo in merito a provvedimenti legislativi in favore del settore e da parte dell’Amministratore Delegato di FS sull’apertura di un tavolo su: aree produttive critiche, criticità occupazionali e piano di impresa.
Sottoscritti accordi presso l’Anita di Roma con il Gruppo Autamarocchi (trasporto merci e logistica) sulle relazioni sindacali, sugli impegni occupazionali nelle Aziende Autamarocchi SpA e Grusovin Srl, e sull’ipotesi di accordo integrativo aziendale.
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Sottoscritto Protocollo su Previdenza, lavoro e competitività tra OO.SS. e Governo.
24
Siglato verbale di accordo riguardante la procedura di fusione per incorporazione della Euromarchesi Srl nella Arcese Mercurio SrL, società del
trasporto merci e logistica.
26
Siglato Protocollo d’Intesa per il rinnovo del CCNL 2006-2009 per i dipendenti dell’Anas.
E
31
Sottoscritto l’accordo di confluenza tra i lavoratori della Logistica (contratto aziendale FS Cargo) nel CCNL delle Attività Ferroviarie. È stato sottoscritto contestualmente l’accordo sulla istituzione della previdenza complementare per gli stessi lavoratori.
31
Siglato il primo accordo per tutto il Personale Navigante (trasporto aereo ) di AirOne CityLiner tra la Filt-Cgil, Fit-Cisl e UP per il Personale
Navigante e l’azienda AirOne CityLiner.
18
Firmato l’accordo per il piano industriale e il premio di risultato tra Autostrade per l’Italia e le organizzazioni sindacali nazionali.
W
19
N
S
Sottoscritto il verbale di rinnovo biennio economico del Ccnl Logistica, Autotrasporto e Spedizioni. L’aumento a regime è di 95 euro.
Agosto 2007
Settembre 2007
Ottobre 2007
8-10
Consultazione tra lavoratori, pensionati e precari per l’approvazione del Protocollo firmato il 23 luglio su previdenza, lavoro e competitività.
Stiamo lavorando ad un nuovo restyling grafico del sito Filt – Cgil di Milano e Lombardia per utilizzare al meglio la potenzialità che questo strumento offre per l’informazione e la comunicazione. Contiamo di completarlo per fine anno. Potete
comunque collegarvi (http://www.cgil.milano.it/categorie/filt) per leggere le news aggiornate, per trovare i riferimenti delle
sedi FILT più vicine, per sfogliare o scaricare le ultime uscite e i numeri arretrati di NOSTOP, Millebinari, Flyfilt, Atiemmefilt
e Magazinefilt. A breve sarà disponibile un form per le richieste di informazioni sui contratti del settore trasporti.
Il nuovo sito è stato ideato da Ettore Lo Iacono, che ne curerà sviluppo e aggiornamento.
NOSTOP
RESPONSABILE DI REDAZIONE Vittoria SCORDO
GRUPPO DI REDAZIONE Americo PAGLIARA Ivano PANZICA
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Supplemento al n° 9/2007 de “Il lavoro nei trasporti” Mensile della FILT-CGIL nazionale Direzione/Amministrazione EDITRICE EDITRASPORTI
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