Il Processo: primo grado - La Cena in casa di Levi di Paolo Veronese

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Il Processo: primo grado - La Cena in casa di Levi di Paolo Veronese
ALLA GIURIA DEI LETTORI, COME PREMESSA
Sigle:
agop
= Archivio Generale dell’Ordine dei Predicatori, Roma
asvat
= Archivio Segreto Vaticano, Roma
asv
= Archivio di Stato di Venezia
bmc
= Biblioteca del Museo Correr, Venezia
pg
= Migne, Patrologiae Cursus Completus, Series Graeca
pl
= Migne, Patrologiae Cursus Completus, Series Latina
Le citazioni dal Vecchio e dal Nuovo Testamento sono tratte
dalla Bibbia di Gerusalemme cei, “editio princeps” 1971.
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La Cena in casa di Levi (Venezia, Gallerie dell’Accademia) fu dipinta da
Paolo Veronese per il refettorio del convento domenicano dei Santi Giovanni
e Paolo di Venezia, in sostituzione di un’Ultima cena di Tiziano accidentalmente perita nel fuoco. Era compiuta nell’aprile 1573; il 18 luglio dello stesso
anno il pittore subì – da parte del tribunale veneziano dell’Inquisizione – un
interrogatorio incentrato sui contenuti e sulle modalità di realizzazione della
tela. La scoperta dell’incartamento processuale avvenne nella seconda metà
dell’Ottocento; sino ad allora l’esistenza di un antico procedimento giudiziario a carico dell’artista rimase ignota.
La Cena è considerata da sempre una fra le espressioni più pregnanti della
maniera piana, larga, naturalmente grandiosa di Veronese. Ha goduto e gode
di un notevole successo di critica, per almeno tre motivi fondamentali. È un’opera di indubbio valore, enorme nelle dimensioni ma perfettamente orchestrata dal punto di vista compositivo: il classico pezzo di bravura, risolto con proprietà e ricchezza di mezzi tecnici. Fa parte di una serie di tele con sostanziale
identità tematica, eseguite in un lasso di tempo circoscritto e con medesima
destinazione (refettori di conventi e monasteri); trova dunque doppia ragion
d’essere: in sé e fuori di sé, nel gruppo. È stata, infine, oggetto delle “premure”
dell’Inquisizione: e in molti di coloro che fanno storia e leggono di storia, il nome di quest’istituzione tocca corde recondite, evoca il fascino del proibito, stimola prepotentemente la curiosità. La Cena deve gran parte della sua notorietà all’essersi impigliata nella logica della devianza e della ribellione alla regola, all’aver messo in moto le terribili (ma narrativamente irresistibili) dinamiche persecutorie del Sant’Uffizio.
La bibliografia relativa a questo dipinto famosissimo è ricca, costantemente
celebrativa, compresa in un arco cronologico di proporzioni sorprendenti. Chi
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la cena in casa di levi di paolo veronese
si aggiunge buon ultimo alla schiera degli estimatori deve chiedersi: ha senso
studiare un quadro così noto? Quali sono i margini di operatività rimasti? Cos’altro c’è da dire?
In verità, la Cena in casa di Levi paga lo scotto della propria fama: notorietà
non equivale infatti a conoscenza, e men che meno a intendimento. Molto,
dalla pubblicazione del verbale processuale in poi, si è scritto sulla sicurezza e
l’orgoglio con cui Veronese, in dibattimento, seppe difendere le ragioni sue e
dell’arte; ma quanto al dipinto, gli studi (in passato per motivate scelte estetiche e culturali, al presente per un malinteso senso di rispetto dell’auctoritas o
semplicemente per abitudine) indugiano preferibilmente sull’alta qualità inventiva ed esecutiva del prodotto, lasciando inevasi alcuni importanti interrogativi. Non sappiamo, infatti, chi commissionò il quadro; perché fu commissionato e perché in quella forma; e a tutt’oggi è mistero il motivo per cui finì all’attenzione del Sant’Uffizio. Quel che è peggio, difetta ancora di chiarezza il
tema rappresentato; ignoriamo cosa la Cena intenda dire e non sappiamo, in
verità, neppure leggerla: ci sfuggono il ruolo dei personaggi, il significato dei
gesti, gli ingranaggi e il funzionamento della macchina compositiva. Basti un
esempio. Crediamo, quando le siamo di fronte in Accademia, di poterla abbracciare in un colpo d’occhio: ecco la maestosa, triplice arcata e, sotto, l’affaccendamento alacre e il brulichio di protagonisti, comprimari e comparse.
Ma basta guardarla un po’ più a lungo, provare a tracciarne mentalmente le linee di fuga, sforzarsi di seguire l’azione scenica, e d’improvviso la Cena si sgretola e si perde in rivoli; un po’ come accade di fronte a Strada principale e strade secondarie di Paul Klee (Colonia, Wallraf-Richartz Museum), si avverte che
la tessitura è stretta: eppure la dispersione incombe.
Dobbiamo finalmente ammettere che il codice di decifrazione di questo
quadro si è perduto e va, una buona volta, cercato: pena il disorientamento e
l’incomprensione.
i.
IL PROCESSO: PRIMO GRADO
Nel 1852 il ventitreenne Armand Baschet – medico di formazione, collaboratore di testate giornalistiche provinciali, frequentatore del bel mondo parigino e autore di un Honoré de Balzac fresco di stampa – partì in missione nei territori tedeschi, austriaci e veneziani per conto del governo francese. L’esperienza avrebbe pesantemente condizionato la sua carriera futura. La folgorazione lo colse non a Damasco ma a Venezia, nel convento francescano di Santa
Maria Gloriosa dei Frari, sede dell’Archivio generale veneto da qualche decennio. Ferveva allora in quel luogo l’attività di riordino e inventariazione dei
fondi, e il mare magnum delle carte si apriva, inesplorato, agli stranieri a caccia
di notizie patrie impigliatesi nella rete delle relazioni diplomatiche e commerciali della Serenissima. Baschet divenne ai Frari l’erudito fecondo che fu poi
per il resto della vita, l’autore di pubblicazioni a cadenza annuale in cui riemersero dalla polvere la diplomazia francese e quella veneziana, re Luigi xiii e
il cardinale Richelieu, l’editore Manuzio, il letterato Aretino, Rubens a Mantova, i commedianti italiani alla corte di Francia e le donne bionde dei pittori veneti del rinascimento. L’Archivio veneto lo descrisse, per averlo ben conosciuto e setacciato, in due guide del 1857 e del 1870: la prima intitolata sentimentalmente Souvenirs d’une mission, l’altra – Les Archives de Venise – dedicata alla Cancelleria Secreta, che concentrava, assieme alla Ducale, i documenti dei
supremi organi dello Stato1.
Proprio a lui toccò in sorte tirar fuori dai fondi della Cancelleria Secreta il
verbale del processo intentato a Paolo Veronese dal tribunale veneziano del-
1
Sulla vita e le opere di Armand Baschet si veda la relativa voce compilata da Patrice D’Amat in Dictionnaire de biographie française, fasc. xxvii, a cura di Michel Prevost e Roman D’Amat, Paris, Librairie Letouzey et Ané, 1950, coll. 711-712.
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il processo: primo grado
l’Inquisizione il 18 luglio 1573: con vero stupore se lo trovò fra le mani mentre
visionava il fascicolo dei Processi del Sant’Uffizio relativo a quell’anno. Nessuna
biografia del pittore menzionava l’incidente; il fatto, una volta accaduto, si era
riassorbito senza lasciare tracce. Baschet capì d’essere accidentalmente pervenuto a una scoperta tanto rilevante quanto sorprendente. Come ebbe a dire nel
1867, pubblicando il documento nella «Gazette des Beaux-Arts» a beneficio
della comunità degli studiosi e degli amatori, mai avrebbe immaginato che un
onest’uomo come Veronese potesse fornire materia per un dossier inquisitoriale2. Nella mente dell’erudito francese era ben viva l’immagine del Veronese leale, elegante, urbano, avveduto e misurato uscita dalla penna di Carlo Ridolfi, il
primo a tracciarne, a sessant’anni dalla morte, il profilo umano e professionale.
L’uomo, sempre signorile, mai immodesto, aveva fatto famiglia, curato l’educazione morale e religiosa dei figli, economizzato e investito capitali per il futuro;
l’artista non aveva mai brigato per ottenere commissioni, non si era prestato a
lavori indegni del nome acquisito, aveva onorato gli impegni. Per questo – e per
l’immensa bravura – era stato amato e ossequiato dai potenti; per questo – perché incarnava il decoro e la nobiltà della professione – il sommo Tiziano una
volta l’aveva abbracciato, incontrandolo in piazza San Marco3.
Era quanto allora si sapeva di Paolo: un’origine modesta, un grande talento,
gli incontri giusti, il trasferimento a Venezia, le nozze con la figlia dell’antico
maestro, il successo, i figli, la bottega, i terreni accumulati nell’entroterra a sancire l’acquisita agiatezza, una morte in fondo precoce, adeguatamente celebrata
dalla Serenissima. Niente inquietudini, niente scandali. Trecento anni dopo scivolava via dagli archivi quest’ombra lunga, e lambiva il pittore gentiluomo.
Non lambiva in verità l’uomo ma, sorprendentemente, l’artista: perché davanti
al tribunale dell’Inquisizione, nel luglio 1573, Veronese dovette rispondere non
della genuinità del proprio credo religioso, ma di questioni di mestiere.
Nel 1573 Paolo Veronese aveva quarantacinque anni ed era al culmine della carriera. Dal momento in cui, all’inizio degli anni cinquanta, era approdato
in laguna con le credenziali giuste, la sua ascesa era stata inarrestabile. Aveva
lavorato a Palazzo Ducale e alla Libreria Marciana, sedi ufficiali del potere e
della cultura; aveva istoriato da cima a fondo la chiesa di San Sebastiano (luogo d’elezione veronesiano in più sensi, dell’arte e dell’anima – Paolo vi fu se-
polto); aveva decorato, con “sprezzatura” miracolosa, la villa suburbana dei
Barbaro a Maser; aveva ideato pale d’altare e tele da refettorio per le grandi
chiese e i grandi conventi della Dominante e dello Stato; aveva interpretato, in
forma e colore, gli ideali religiosi e laici delle famiglie veneziane – i Cuccina, i
Pisani4. Nell’aprile di quell’anno aveva consegnato al convento domenicano
dei Santi Giovanni e Paolo l’ultima delle sue famose scene di banchetto, la settima dopo le Nozze di Cana del Louvre, le quattro cene in casa di Simone (una
perduta, le altre a Torino, Milano, Versailles) e il Convito in casa di Gregorio
Magno di Vicenza5. Fu la Cena per i Santi Giovanni e Paolo a essergli fatale e a
procurargli, dopo anni di onorato e irreprensibile mestiere, la convocazione in
tribunale.
Chi apra oggi la celeberrima busta 33 del fondo Sant’Uffizio dell’Archivio
di Stato di Venezia troverà, passato nel frattempo per mille mani diverse, il
verbale dell’interrogatorio a Veronese, identico a come lo lesse e lo trascrisse,
dialogizzandolo per renderlo più comprensibile, Armand Baschet. Consta di
cinque cartelle; è datato a sabato 18 luglio 1573 ed è redatto in volgare, tranne
che nelle poche righe di registrazione dei dati dell’imputato e nella sentenza finale. Riporta le domande e le risposte nella formula interrogatus... respondit,
senza specificare l’identità, o le identità, di chi interrogò Veronese. Scarno, ritmicamente serrato, questo documento somiglia a un copione per una drammatizzazione a due voci, l’Artista e l’Inquisitore: e la critica ne ha fatto, con
poche eccezioni, un uso eminentemente letterario.
Sabato 18 luglio 1573 Paolo Veronese, pittore, residente nella parrocchia di
San Samuele, si presenta dinanzi al tribunale inquisitoriale. Gli si fanno declinare le generalità e specificare il mestiere, poi gli si chiede se conosca, o possa
immaginare, la causa della convocazione. Paolo la immagina con precisione:
tempo prima il priore del convento dei Santi Giovanni e Paolo, di cui egli
2
Armand Baschet, Paul Véronèse appelé au Tribunal du Saint Office a Venise (1573), in «Gazette des
Beaux-Arts», xxiii, 1867, pp. 378-382.
3
Carlo Ridolfi, Le maraviglie dell’arte, o vero le Vite degli Illustri Pittori Veneti e dello Stato (1648), edizione a cura di Detlev Freiherrn von Hadeln, Berlin, G. Grote, 1914-1924.
4
Su Veronese interprete dei desiderata della famiglia Pisani vedi Claudia Terribile, Del piacere della
virtù. Paolo Veronese, Alessandro Magno e il patriziato veneziano, Venezia, Marsilio, 2009.
5
Le scene di banchetto dipinte da Veronese sono, in ordine cronologico di esecuzione, la Cena in casa
di Simone per i Santi Nazaro e Celso di Verona (1556), oggi a Torino, Pinacoteca Sabauda; le Nozze di Cana
per San Giorgio Maggiore di Venezia (1562-1563), oggi a Parigi, Musée du Louvre; la Cena in casa di Simone per San Sebastiano di Venezia (ante 1570), oggi a Milano, Pinacoteca di Brera; la Cena in casa di Simone
per Santa Maria dei Servi di Venezia (ante 1572), oggi a Versailles, Musée National du Château; il Convito
in casa di Gregorio Magno (1572), tuttora collocato nella sede originaria, il santuario servita di Monte Berico a Vicenza; la Cena in casa di Simone per il monastero delle Maddalene di Padova (1570-1573), perduta.
Su quest’ultima: Hans H. Aurenhammer, «Et ne ho fatto una in Padoa ai Padri della Maddalena»: una Cena
perduta (e quasi dimenticata) del Veronese, in «Venezia Cinquecento», xi, 2001, n. 21, pp. 121-140.
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la cena in casa di levi di paolo veronese
il processo: primo grado
ignora il nome, ha ricevuto dallo stesso tribunale l’ordine di far modificare un
suo dipinto, sostituendo la figura di un cane con quella di Maria Maddalena; al
priore, che gli ha riferito puntualmente l’ordine, il pittore ha risposto che ben
volentieri avrebbe rimesso mano all’opera, ma non avrebbe inserito Maddalena, per una serie di ragioni che ora, in aula, si augura di poter elencare. Lo si
invita a chiarire quale sia, che supporto e quali dimensioni abbia, dove si trovi
il quadro di cui parla; Paolo risponde che si tratta di una tela raffigurante
un’Ultima cena di Cristo e degli apostoli in casa di Simone, alta circa 17 piedi e
larga circa 39, collocata nel refettorio dei Santi Giovanni e Paolo. Gli si domanda se in questa cena di Cristo abbia dipinto dei «ministri» (degli addetti a
un servizio) e, alla risposta affermativa del pittore, lo si sollecita a specificarne
il numero e a descriverne l’atteggiamento. Paolo menziona Simone, il padrone
di casa, e uno scalco, ovvero un maggiordomo, venuto a controllare come procede il banchetto. Soggiunge quindi che le figure sono molte e non le ricorda,
perché il quadro è collocato in situ ormai da tempo. Gli si chiede se, oltre
quella, abbia dipinto altre cene, quante e per quale destinazione. Paolo cita la
cena per il refettorio del convento dei Santi Nazaro e Celso a Verona e quella
per il convento di San Giorgio Maggiore a Venezia (le Nozze di Cana oggi al
Louvre): al che lo si interrompe e gli si fa notare che il dipinto appena menzionato non è una cena, che egli è tenuto a dar conto delle cene di Cristo. Paolo
ne cita altre tre, due per i refettori dei conventi veneziani di Santa Maria dei
Servi e San Sebastiano, una per il convento padovano della Maddalena, e aggiunge di non ricordarne altre. Gli si domanda cosa significhi, nella cena dei
Santi Giovanni e Paolo, la figura dell’uomo che perde sangue dal naso; risponde che si tratta di un servo a cui, per un accidente qualsiasi, sta uscendo il sangue dal naso. Lo si interpella sul senso dei due armigeri abbigliati alla tedesca
con un’alabarda per uno in mano: Paolo chiede allora la parola e, quando gli
viene accordata, dichiara che i pittori sono soliti prendersi la stessa licenza – la
stessa libertà – che si prendono i poeti e i matti; che ha raffigurato i due alabardieri vicino a una scala senza sbocchi (uno impegnato a mangiare, l’altro a bere, entrambi pronti ad assumere qualche compito) perché sapeva che il padrone di casa è un gran signore, e gli è parso conveniente dotarlo di servitori simili. Gli si domanda per quale motivo abbia dipinto un buffone con un pappagallo stretto in pugno e lui afferma che l’ha fatto, come di solito si fa, per ornamento. Lo si invita a specificare quale azione stiano compiendo, nel dipinto,
san Pietro e i personaggi che gli sono accanto: san Pietro, dice, squarta l’agnello per passarlo dall’altra parte della tavola; dei vicini, uno è pronto a ricevere il
cibo che gli darà san Pietro e l’altro si pulisce i denti con una forchetta. A que-
sto punto la corte vuole sapere chi, secondo il pittore, sia realmente (storicamente) intervenuto all’Ultima cena: Cristo e i suoi apostoli, risponde Paolo,
precisando però che se la tela è grande e lo spazio avanza lui d’abitudine inserisce figure d’invenzione. Gli si domanda se la richiesta di dipingere nel quadro tedeschi, buffoni et alia sia arrivata esplicitamente da qualcuno e Paolo risponde che no, la commissione era di ornare il quadro a suo piacimento; e il
quadro era grande, in grado di contenere molte figure. Quando lo si esorta a
considerare se come artista sia solito abbellire le pitture tenendo conto della
materia trattata o affidandosi esclusivamente alla fantasia, Paolo dichiara che,
nella composizione delle immagini, si conforma a ciò che ritiene conveniente;
al che gli si domanda se davvero ritenga conveniente far presenziare l’Ultima
cena di Cristo a buffoni ubriachi, tedeschi, nani et similia e lui ammette: no.
Alla richiesta di chiarire perché dunque li abbia dipinti, risponde che l’ha fatto
perché presupponeva che tutti costoro fossero fuori dallo spazio dove si svolge
il banchetto. Lo si invita a riflettere che nei luoghi infetti da eresia, in Germania e altrove, si è soliti vituperare e dileggiare la Chiesa cattolica con immagini
strane e piene di invenzioni scurrili, per inculcare dottrine devianti nelle menti
ignoranti. Paolo riconosce che ciò è male, ma sostiene di essere obbligato a seguire le orme e l’esempio degli artisti più importanti. Sollecitato a fornire chiarimenti, afferma che nella Cappella Sistina, con poca riverenza, Michelangelo
ha dipinto nuda tutta la corte celeste. Gli si chiede se ignori che in un Giudizio
universale non occorre dipingere vesti e gli si fa notare che nell’opera di Michelangelo non vi sono buffonate di sorta; gli si domanda se portando l’esempio di Michelangelo, o esempi siffatti, intenda difendere le sue scelte compositive e la bontà del quadro. Paolo nega di volerlo fare, tuttavia protesta la propria buonafede: ammette che nel comporre l’immagine non ha considerato
tutto quel che doveva, ma pensava di non far danno alcuno, avendo collocato
le figure incriminate fuori dal luogo che ospita Cristo. Con una breve sentenza, si decreta che il pittore corregga ed emendi l’opera entro tre mesi, secondo
le indicazioni fornitegli dal tribunale6.
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Se affiancato alle fonti documentarie contenenti dati relativi alla vita e all’opera dell’artista, tutte di carattere ordinario (contratti e pagamenti per lavori
propri, perizie su lavori altrui, atti di battesimo dei figli, di acquisto di terreni,
6
Si veda la trascrizione dell’originale nell’appendice documentaria, dalla quale, d’ora in poi, saranno
tratte le citazioni.
la cena in casa di levi di paolo veronese
il processo: primo grado
lettere)7, il verbale rinvenuto da Baschet grandeggia per mole e densità espressiva, emerge come voce viva e turbatrice sul fruscio smorzato delle carte. Nell’ambito degli studi veronesiani è divenuto una citazione classica, in pratica
obbligata, ma la sua natura di fonte storica è stata costantemente distorta e
contraffatta.
A lungo lo si è trattato, indebitamente, come uno scritto di poetica: già i
primi a raccoglierlo dopo la pubblicazione sulla «Gazette des Beaux-Arts»,
negli anni settanta dell’Ottocento, lo consideravano un’esposizione di teorie
estetiche personali, peraltro formulate in modo naif (per l’associazione, nella
licenza, dell’artista al matto)8; e nel 1888, quando Pietro Caliari pubblica la
monografia Paolo Veronese, sua vita e sue opere per il centenario della morte
dell’avo pittore, l’interrogatorio diventa – oltre che il luogo dibattimentale per
esprimere una poetica secondo cui l’effetto estetico prevale sul senso dell’immagine dipinta – l’occasione buona in cui viene fuori il gran carattere dell’artista. Dice Caliari che Paolo si presentò in tribunale «senza mostrare alcuna peritanza» e che rispose alle domande «imperturbato», con la sua «abituale ed
avveduta franchezza»9. Inteso in questi termini (come una difesa spavalda e
appassionata del proprio mestiere), il verbale dell’interrogatorio ha contribuito, specialmente nell’ambito italiano degli studi, a formare una certa vulgata
novecentesca di Paolo, sventuratamente sostanziata dagli aspetti formali della
sua pittura sontuosa10: in primis come decoratore disinteressato al soggetto,
campione dell’autonomia della sfera estetica rispetto alle questioni di significato, al punto da diventare blasfemo; in secundis come incarnazione, per senso
della dignità personale e per indipendenza di pensiero espressi in tribunale,
dell’ideale umano rinascimentale, laico, terreno e finanche neopagano11.
Altrettanto a lungo, e ancor più indebitamente, la lettura del processo ha
mediato la lettura del dipinto; ci si è applicati all’interpretazione del testo pittorico dopo aver analizzato il testo scritto, cercando nella tela conferme o
smentite di quanto espresso dalla carta processuale, focalizzando l’attenzione
sui pochi personaggi menzionati nel verbale e accettando per buona l’indicazione, poco chiara, che il documento dà del soggetto. La tela è ancora oggi
conosciuta come Cena in casa di Levi, per via dell’inequivoca iscrizione fecit
d[omino] co[n]vi[vium] magnu[m] levi - lucae cap[itulum] v (Levi preparò
un grande banchetto al Signore - capitolo v di Luca), vergata al sommo delle
scale laterali, sui pilastrini terminali delle balaustre12. Nessuno, fino al rinvenimento degli atti del processo, si era posto il problema di quale fosse il soggetto rappresentato; a tutti bastava l’interpretazione di Carlo Ridolfi, secondo il quale il dipinto raffigurava il banchetto «narrato da San Luca nella casa
di Levi Usuraio», ed era stato pagato di tasca di tal fra Andrea de’ Buoni, domenicano del convento dei Santi Giovanni e Paolo, che Veronese avrebbe ritratto, in cambio della sovvenzione, «in un canto con la salvietta sopra la spalla»13. L’identificazione con la cena in casa dell’esattore e futuro apostolo Matteo (Levi, appunto), ben accetta fino all’Ottocento, è caduta in oblio dopo la
7
Si vedano le sezioni Regesto e Documenti in Terisio Pignatti, Filippo Pedrocco, Veronese, Milano,
Electa, 1995, vol. ii, pp. 551-563.
8
Classico è l’esempio di Charles Yriarte, La vie d’un patricien de Venise au seizième siècle, Paris, E. Plon
et C.ie, 1874, pp. 161-165.
9
Pietro Caliari, Paolo Veronese, sua vita e sue opere: studi storico-estetici, Roma, Forzani, 1888, p. 101.
10
Così splendidamente scriveva, formulando con penna lieve un giudizio senza appello, Roberto Longhi:
«Agli occhi di Veronese [...] il mondo sciamava così, come in un arazzo sontuoso e lieve che per un alito di
vento, sollevandosi dalla parete, cangi affatto colore. Ed era difficile con tali occhi veder passare, svariando, altro che trionfi e apoteosi» (in Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Firenze, Sansoni, 1946, p. 32).
11
Nella storiografia artistica italiana del Novecento, a lungo e fortemente indebitata con l’estetica crociana e con i suoi concetti di autonomia dell’arte e di arte come intuizione, Paolo diviene, in virtù delle sue
risposte al tribunale, il primitivo divinamente ispirato, l’«usignolo inebriato» (Giuseppe Fiocco, Paolo Veronese 1528-1588, Bologna, Casa Editrice Apollo, 1928) che conosce solo le ragioni intrinseche della pittura e quelle, argutamente, difende. Per questa vulgata di Paolo, in precipua relazione alla Cena in casa di Levi e al processo inquisitoriale, si vedano Adolfo Venturi, Paolo Veronese (per il IV centenario dalla nascita),
Milano, Ulrico Hoepli, 1928; Giuseppe Fiocco, Paolo Veronese 1528-1588, cit., pp. 87-88; Giorgio Nicode-
mi, Centenarii di grandi artisti. Paolo Veronese, in «Emporium», lxviii, 1928, n. 408, pp. 327-344, in partic.
341-342; Anna Maria Brizio, Note per una definizione critica dello stile di Paolo Veronese (I), in «L’Arte»,
xxix, 1926, pp. 213-242 e Id., Note... (II), in «L’Arte», xxxi, 1928, pp. 1-10; Lodovico Foscari, Autoritratti
di Maestri della Scuola Veneziana, in «Rivista di Venezia», xii, 1933, pp. 247-262, in partic. 260-261; Giuseppe Fiocco, Paolo Veronese, Roma, Valori Plastici, 1934, pp. 59-65; Luigi Coletti, Paolo Veronese e la pittura a Verona nel suo tempo, Pisa, Gruppo Univ. Fasc. Curtatone e Montanara, 1940, pp. 240-243; Rodolfo
Pallucchini, Veronese, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1940, pp. 28-29, 40; [Carlo Ludovico Ragghianti], Il processo a Paolo Veronese, in «Sele Arte», i, 1953, n. 5, pp. 13-20; Giuseppe Delogu, Paolo Veronese. La cena in casa di Levi, Milano, Edizioni d’arte A. Pizzi, 1951; Eva Tea, Paolo Veronese, Brescia, La
Scuola Editrice, 1954, pp. 84-89 e 90-99; Terisio Pignatti, Pittura Veneziana del Cinquecento, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1957, pp. 78, 80-82; Giuseppe Delogu, Pittura veneziana dal XIV al XVIII secolo, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1958, pp. 131-132; Luisa Vertova, Veronese, Milano, Electa,
1959, pp. non numerate; Remigio Marini, L’opera completa del Veronese, Milano, Rizzoli, 1968, pp. 84-85,
pp. 114-115, n. 164; Neri Pozza, Processo per eresia (1573), in «Comunità», xxii, 1968, n. 152, pp. 41-52;
Terisio Pignatti, Veronese, Venezia, Alfieri, 1976, vol. i, pp. 81-83; Rodolfo Pallucchini, Veronese, Milano,
Mondadori, 1984, pp. 100-110; Terisio Pignatti, Paolo Veronese. Convito in casa di Levi, Venezia, Arsenale,
1986. Si mantengono sostanzialmente nell’alveo di questa tradizione i più recenti Pignatti, Pedrocco, Veronese, cit., vol. i, pp. 169-171, 288-289; Peter Humfrey, Venezia 1540-1600, in La pittura nel Veneto. Il Cinquecento, vol. ii, Milano, Electa, 1998, pp. 455-554, in partic. pp. 523 e 527; Filippo Pedrocco, Veronese, Firenze, Giunti, 1999; Terisio Pignatti, Filippo Pedrocco, Paolo Veronese. Vita e arte. Itinerari veneziani, Venezia, Canal & Stamperia Editrice, 2000, pp. 28-33, 107-109; Vittorio Sgarbi, Paolo Veronese: imbucati alla
Cena in casa di Levi, in Le tenebre e la rosa: un’antologia, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 64-79.
12
Da Luca 5, 29. Il testo della Vulgata recita propriamente: «Et fecit ei convivium magnum Levi in domo sua».
13
Ridolfi, Le maraviglie dell’arte, cit., pp. 314-315. Prima di Ridolfi, con Veronese ancora in vita, Raffaello Borghini ne parlava come di «un gran quadro contenente un convito fatto da uno Apostolo»: Raffaello Borghini, Il Riposo, In Fiorenza, appresso Giorgio Marescotti, 1584, p. 562.
20
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2a-b
la cena in casa di levi di paolo veronese
il processo: primo grado
scoperta di Baschet: poiché nel verbale Veronese si riferisce al dipinto come a
una sorprendente e inedita “Ultima cena in casa di Simone”, si è preferito leggere nella tela – dopo alcune iniziali perplessità14– ora una Cena in casa di Simone (quella in cui Maddalena si getta inopinatamente ai piedi di Cristo)15, ora
un’Ultima cena (quella che Cristo condivide con i dodici apostoli prima della
passione). Gli studi di Gino Fogolari su «Archivio Veneto» (1935) e di Philipp
Fehl sulla «Gazette des Beaux-Arts» (1961), condotti controcorrente nel mare
dell’arte per l’arte, con occhio vigile e ben aperto sull’immagine, hanno energicamente contribuito ad accreditare quest’ultima ipotesi identificativa16.
Eppure, appena si chiami a confronto il cenacolo-paradigma steso da Leonardo da Vinci sul muro del refettorio di Santa Maria delle Grazie a Milano, si
deve ammettere che nella Cena veronesiana c’è molto di troppo. Lo stesso Fehl,
che identificava giusto in mezzo alla tela il nucleo fondante di un’Ultima cena
(Cristo fra Giovanni e Pietro, e Giuda che torce il capo), asseriva pure che il
pittore aveva fornito una versione anomala dell’evento17; chi ne ha condiviso la
lettura ha dovuto a forza concordare sull’atipicità del testo figurativo. Come già
accadeva ai giudici del tribunale inquisitoriale, non v’è infatti chi non abbia visto (meglio: non v’è chi non abbia appreso dal verbale processuale) che questa,
come Ultima cena, è alquanto inconsueta, poiché arricchita oltre il dovuto di
presenze spurie. Si è dunque sostenuto, alternativamente, che Veronese la concepì in tal forma per puro gusto della decorazione, o perché voleva intendere
qualcosa d’altro (ma cosa? e a vantaggio di chi, se c’era il rischio di finire in tribunale?)18; si è sostenuto, anche, che il pittore non abbia saputo governare
compositivamente una tela di dimensioni tanto vaste e che il pennello gli sia scivolato via, impazzando19. La “profanità” di Paolo, quell’inclinazione che la critica gli ha pervicacemente attribuito per il mondo e il secolo, ha peraltro sopito
ogni dubbio; per decenni e in buona coscienza si è parlato di un’Ultima cena
“profana”, perciò finita davanti al tribunale dell’Inquisizione: quasi fosse possibile, seppure a un artista di genio, scherzare con i fanti e con i santi. Come Ultima cena, del resto, l’immagine viene attualmente presentata nella scheda cartacea a disposizione dei visitatori delle Gallerie dell’Accademia: che è, fuori dal
mondo chiuso degli specialisti, il suo vero biglietto da visita.
14
Del gap iconografico fra il soggetto indicato dall’iscrizione del quadro e il soggetto dichiarato dal pittore dinanzi al tribunale si accorse per primo, considerandolo una svista, Edward Cheney, Documents relating to Venetian Painters and their Pictures in the 16th Century, London 1873, consultato in John Ruskin,
Venezia, traduzione e note a cura di Maria Pezzè Pascolato, Firenze, Barbèra, 1901, pp. 264-271. Con grande disappunto John Ruskin, Guida alle principali pitture dell’Accademia di Belle Arti, in Id., Venezia, cit.,
pp. 264-271, considerava quel gap una manifestazione della deplorevole confusione operata da Veronese
fra i diversi banchetti evangelici, grave al punto da rendere l’immagine inintellegibile.
15
È una lettura minoritaria; se ne fa interprete principale Richard Cocke in Veronese’s Drawings: a catalogue raisonné, London, Sotheby Publications, 1984, p. 166, n. 69 (dove riferisce alla Cena in casa di Levi il
disegno n. 1122 delle Staatliche Kunstsammlungen di Kassel, confondendo però un ambasciatore che rende omaggio al doge con una Maddalena ai piedi di Cristo: cfr. William R. Rearick in Paolo Veronese. Disegni
e dipinti, a cura di Alessandro Bettagno, Vicenza, Neri Pozza, 1988, pp. 61-62, n. 17) e in Venice, Decorum
and Veronese, in Nuovi studi su Paolo Veronese, a cura di Massimo Gemin, Venezia, Arsenale, 1990, pp.
241-255, in partic. pp. 251-252, dove lo studioso parla in verità di una Cena in casa di Simone sui generis,
modificata su richiesta della committenza al punto da non rappresentare più nessun evento evangelico e finita proprio per questa genericità all’attenzione dell’Inquisizione.
16
Gino Fogolari, Il processo dell’Inquisizione a Paolo Veronese, in «Archivio Veneto», quinta serie, xvii,
1935, pp. 352-386; Philipp Fehl, Veronese and the Inquisition. A study of the subject matter of the so-called
«Feast in the house of Levi», in «Gazette des Beaux-Arts», lviii, 1961, pp. 325-354. Sono in linea con le conclusioni di questi studi: David Rosand, Theater and structure in the art of Paolo Veronese, in «The Art Bulletin», 55, 1973, n. 2, pp. 217-239; Creighton Gilbert, Last Suppers and their Refectories, in The Pursuit of
Holiness in Late Medieval and Renaissance Religion, a cura di Charles Trinkaus e Heiko A. Oberman, Leiden, Brill, 1974, pp. 371-402, in partic. 397-400; Philipp Fehl, Marilyn Perry, Painting and the Inquisition at
Venice: three forgotten files, in Interpretazioni veneziane. Studi di storia dell’arte in onore di Michelangelo
Muraro, a cura di David Rosand, Venezia, Arsenale, 1984, pp. 371-383; Massimo Gemin, Riflessioni iconografiche sulla Cena in casa di Levi, in Nuovi studi su Paolo Veronese, cit., pp. 367-370; Paul H.D. Kaplan, Veronese and the Inquisition: the geopolitical context, in Suspended License. Censorship and the visual arts, a
cura di Elizabeth C. Childs, Seattle, University of Washington Press, 1997, pp. 85-124.
17
Fehl, Veronese and the Inquisition, cit., individuava la strategia compositiva di Paolo nell’utilizzo di
due centri di significato in una sola immagine, il che comporterebbe, per l’occhio del riguardante, una sorta
di fruizione dilazionata dal soggetto apparente (outer picture) a quello reale (inner picture). Nel caso della Cena in casa di Levi l’outer picture è la festa, il sontuoso banchetto; l’inner picture è l’annuncio del tradimento
da parte di Giuda. La scena sotto l’arco centrale mantiene infatti sostanzialmente inalterate le caratteristiche
iconografiche dell’Ultima cena così come concepita da Leonardo nel Cenacolo di Santa Maria delle Grazie:
anche qui Cristo è seduto fra Pietro e Giovanni e alle sue parole profetiche e accusatrici Giuda storna il capo.
18
Il primo a supporre in Paolo intenzioni eterodosse è Percy H. Osmond, Paolo Veronese. His Career
and Work, London, The Sheldon Press, 1927, pp. 68-70, secondo cui il pittore non dovette rimanere completamente estraneo alla cultura riformata se conobbe e ritrasse, fra 1573 e 1574, il giovane aristocratico inglese Sir Philip Sidney, di conclamata fede protestante. Recupera la suggestione di Osmond Michelangelo
Muraro, Un celebre ritratto. Sir Philip Sidney a Venezia nel 1574 sceglie Veronese per farsi ritrarre, in Nuovi
studi su Paolo Veronese, cit., pp. 391-396 e Id., La Cène de Véronèse: les figures, l’interrogatoire, l’histoire, in
Symboles de la Renaissance, iii. Arts et Language, Paris, Presses de l’École Normale Supérieure, 1990, pp.
185-222, versione francese a cura di Daniel Arasse di Id., La Cena di Paolo Veronese, nuove interpretazioni,
Lezioni di Storia dell’arte, Università di Padova, Facoltà di Magistero, a. a. 1980-1981, Venezia, Biblioteca
Marciana, Misc. a 4831. In relazione al soggetto del dipinto Muraro nota che il momento raffigurato da Veronese non appartiene alla sequenza evangelica degli avvenimenti dell’Ultima cena – non è l’annuncio del
tradimento, né l’istituzione dell’Eucaristia; è l’attimo di quiete prima della tempesta, della quale solo Giovanni e Giuda, per opposto sentimento, sembrano presentire l’arrivo. In tempi più recenti Andrea Gottdang, Paolo Veroneses “Gastmahl im Haus des Levi”: die Revision eines Falles, in «Das Münster. Zeitschrift
für Christliche Kunst und Kunstwissenschaft», 53, 2000, n. 3, pp. 202-217, ha interpretato la commissione
del singolare dipinto come attestazione, da parte dei domenicani dei Santi Giovanni e Paolo, di una religiosità riformista, debitrice dell’interpretazione scritturale di Antonio Brucioli. L’immagine raffigurerebbe il
lungo discorso di addio che Cristo tiene ai suoi nel coenaculum magnum (Giovanni 13, 33-35 e capp. 1417); non sarebbe la rappresentazione del momento in cui Cristo prende parola, ma la trascrizione visiva del
discorso stesso, incentrato sul comandamento nuovo dell’amore reciproco.
19
André Chastel, Dibattiti con l’Inquisizione (1573), in Id., Cronaca della pittura italiana 1280-1580, Roma, Palombi, 1985, pp. 208-226; Cecil Gould, Veronese’s Greatest Feast: the Inter-Action of Iconographic
and Aesthetic Factors, in «Arte Veneta», 43, 1989-90, pp. 85-88. Entrambi gli studiosi attribuiscono a Veronese l’intenzione di dipingere un’Ultima cena e concordano sul fatto che l’anomalo risultato iconografico
vada imputato alle dimensioni della tela, troppo vasta per Cristo e i dodici e riempita a forza, per non lasciar vuoti, con figure ornamentali estranee al racconto evangelico.
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la cena in casa di levi di paolo veronese
il processo: primo grado
Le poche presenze certe (talvolta solo in apparenza), rintracciate fra decine di personaggi sconsolatamente anonimi, sono bastate alla maggioranza
degli studiosi per l’agnizione del cenacolo eucaristico: Gesù, tra Giovanni e
Pietro; Giuda. E poi, come da verbale processuale – ma si badi: non come da
dettato evangelico e solo in parte come da tradizione iconografica – l’oste che
viene a controllare la tavola, lo scalco che dirige il banchetto, il servo che perde sangue, i soldati che bevono. Per chi ancora pensa a una Cena in casa di Simone, Simone è il personaggio seduto di fianco a Giuda e anticamente creduto Levi20.
Davvero, per dirla con Baschet, un onest’uomo come Paolo Veronese non
meritava di lasciare il proprio nome avvolto nel sospetto di simpatie religiose
eterodosse fra le carte di un dossier inquisitoriale; davvero un artista del suo
calibro non meritava le accuse postume di superficialità e incapacità compositiva piovutegli copiosamente addosso. Davvero – ed è quel che più conta – un
così abile orchestratore di spazi illusivi non meritava che si spulciasse fin nell’interlinea un documento di cinque cartelle manoscritte e si rimanesse ciechi
(e di conseguenza muti) davanti a una tela di tredici metri per cinque, affollata
di ben cinquantatré presenze sceniche.
La teoria artistica che si è preteso di ricavare dalle risposte di Veronese davanti al tribunale, a proposito della Cena in casa di Levi, ha pesantemente influenzato l’interpretazione della produzione pittorica di Paolo; nel lungo corso della storia dell’arte veronesiana il processo inquisitoriale è diventato il
punto focale della vicenda umana e professionale del pittore, l’evento clou che
– da solo e d’un colpo – illumina una personalità di radente luce rivelatrice, ridisegnando senso e scopo del mestiere di una vita. Ma è il momento di ridimensionarne il ruolo e la portata, in virtù di due circostanze non irrilevanti per
la ricostruzione (e l’interpretazione) storica.
La prima: il dipinto incriminato non subì affronto di sorta. Non fu distrutto, non fu stravolto nell’impostazione, non fu praticamente toccato da pennello; la critica è concorde nel sostenere che la correzione disposta dal tribunale si limitò all’apposizione della scritta fecit d[omino] co[n]vi[vium] ma-
gnu[m] levi - lucae cap[itulum] v e le indagini sul tessuto pittorico confermano la supposizione21.
La seconda: il peso del processo nella vita dell’artista fu nullo. Dell’accaduto, Veronese non subì conseguenza alcuna; non solo non finì annegato di notte
in laguna, come a Venezia accadeva di prassi agli eretici, ma neppure cadde in
disgrazia. Continuò a lavorare indisturbato per la Serenissima, da pittore ufficiale in luoghi ufficiali, nella sala del Collegio e nella sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, a gloria e trionfo del buon governo della Repubblica e
delle virtù che ne guidavano l’azione illuminata22.
Il processo della busta 33 del fondo Sant’Uffizio all’Archivio di Stato di Venezia va doverosamente ricelebrato. È necessario riaprire l’indagine, applicarsi alla disamina di materiale inedito, portare prove nuove: se per scagionare o
accusare in via definitiva l’artista, lo si vedrà.
20
Ridolfi, Le maraviglie dell’arte, cit., pp. 314-315; Marco Boschini, La Carta del Navegar Pitoresco
(1660), edizione a cura di Anna Pallucchini, Venezia, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1966, pp.
382-385; Antonio Maria Zanetti, Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia, Venezia,
presso P. Bassaglia, 1733, pp. 250-251; Francesco Zanotto, Pinacoteca della Imp. Reg. Accademia Veneta delle Belle Arti, Venezia, Antonelli, 1834, vol. ii, n. 76.
21
I risultati delle analisi stratigrafiche, radiografiche e riflettografiche eseguite sul dipinto in occasione
del restauro del 1979-1983 dimostrano come correzioni e pentimenti (alterazione di alcuni particolari architettonici, lievi rotazioni di profili) non siano sostanziali, ma appartengano al processo creativo dell’opera
quale work in progress, e come l’unica variatio di notevole entità (peraltro già rilevata da Antonio Maria Zanetti, Della Pittura Veneziana e delle opere pubbliche de’ Veneziani Maestri, In Venezia, nella stamperia di
Giambatista Albrizzi a S. Benedetto, 1771, pp. 173-175) consista nella rimozione di un paggetto dal fornice
centrale: Il restauro del Convito in casa di Levi di Paolo Veronese, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, redazione Giovanna Nepi Scirè, Quaderni della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Venezia, 11,
Venezia 1984. Le analisi fanno giustizia della tesi di Brian T. D’Argaville, Inquisition and Metamorphosis:
Paolo Veronese and the “Ultima Cena” of 1573, in «Racar. Revue d’art canadienne», 16, 1989, pp. 43-48, il
quale ritiene che, a seguito della condanna comminatagli dal tribunale del Sant’Uffizio, Veronese avesse
trasformato l’Ultima cena in una Cena in casa di Levi aggiungendo al dipinto, oltre alla solita iscrizione, anche le figure di Levi e di uno scriba (le due figure maschili sotto il fornice centrale al di qua della tavola, ovvero quella vestita di rosso e l’altra generalmente identificata con Giuda). Fanno altresì giustizia della convinzione di Emerich Schaffran, Der Inquisitionprozeß gegen Paolo Veronese, in «Archiv für Kulturgeschichte», 42, 1960, pp. 178-193, in partic. p. 190, che sotto il cane in primo piano fosse ancora visibile il pentimento di una Maddalena inginocchiata. Il primo a supporre che la correzione consistesse unicamente nell’apposizione dell’iscrizione tratta dal Vangelo di Luca è Ruskin, Guida alle principali pitture dell’Accademia
di Belle Arti, cit., p. 271.
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La decorazione della sala del Collegio data al 1575-1577; del 1579-1582 è il Trionfo di Venezia (o della Pax Veneta) del soffitto della sala del Maggior Consiglio.
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