Ma che cos`è l`ascolto

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Ma che cos`è l`ascolto
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Ma che cos'è l'ascolto nelle relazioni d'aiuto?
Paolo Giovanni Monformoso
Molteplici sono gli strumenti che un operatore sociale ha a disposizione per
attivare una efficace e terapeutica relazione di aiuto, e terapeutica, ma tra i
tanti possibili principe è forse l’ascolto della persona aiutata. Ma che cos’è
l’ascolto? Riflettiamo su alcune tra le caratteristiche che lo rendono strumento
terapeutico per la vita del sofferente: terapeutico per la biografia dell’uomo che
soffre, e non solo per la sua biologia ammalata. L’ascolto, lo sappiamo, è prima
di tutto ascolto di sé stessi, cioè l’ascolto degli altri passa necessariamente
attraverso l’ascolto di noi stessi. L’ascolto che ciò che gli altri ci dicono
riverbera in noi. Da questa premessa derivano alcune considerazioni:
Se vogliamo ascoltare qualcuno, la prima cosa da fare è conoscersi e sapere
che cosa possiamo sopportare di ciò che ascolteremo, perché non è
assolutamente detto che tutto ciò che ci viene detto sia sopportabile dalle
nostre spalle. Dunque, se ci conosciamo, sappiamo quando è sensato mettersi
in ascolto, e quando è meglio chiamare altri ascoltatori più capaci o più
specializzati di noi. Magari solo in questo momento…
Ma quando anche fossimo ben consapevoli di come siamo fatti e di quali sono i
nostri limiti professionali o umani, dovremo ancora riconoscere che durante
l’ascolto c’è sempre un processo di selezione di ciò che viene detto dal nostro
partner nella relazione. E dunque dovremo sempre ricordare che stiamo
ascoltando la versione nostra personale di ciò che è stato detto. Da questo non
possiamo prescindere. Non possiamo essere obiettivi nelle relazioni; nemmeno
in quelle di aiuto possiamo essere onestamente soggettivi. Interessante
nell’ascolto è invece il fatto che quello che si da all’altro arriva trasformato e
trasformante. Si spera che venga trasformato bene, si spera che venga
trasformato onestamente per il suo bene, e si spera che sia abbastanza
aderente alla realtà di partenza da non far sentire l’altro confuso e non
compreso.
Accettare questi due punti di partenza sull’ascolto ci consente di fare un ultimo
importante passaggio: imparare a capire qual è il nostro modo peculiare,
particolare, personale, di trasformare la realtà che ascoltiamo. Perché, alla
fine, ognuno di noi sappia quali saranno le distorsioni, quali saranno gli effetti
nel dialogo prodotti dal nostro bisogno di conservare coerenza per la nostra
persona, quali saranno i pericoli di distorsioni eccessive; e ciascuno di noi
ascoltatori sappia ipotizzare quali saranno i risultati accettabili. Se vogliamo
diventare dei buoni ascoltatori degli altri dobbiamo mettere in conto il “fattore
distorsione” e conoscerlo, perché è un fattore prodotto, forse inevitabilmente,
dalla nostra mente.
All’interno del fattore distorsione c’è un tema importante: il tema della
motivazione. Noi solitamente diamo per scontato che ascoltare sia una buona
idea, ma non è assolutamente così per ognuno di noi, e dunque ogni volta che
ascoltiamo qualcuno dobbiamo domandarci perché lo stiamo facendo. Deve
esserci molto chiaro il meccanismo di base.
Perché sto ascoltando? Qual è la mia motivazione all’ascolto? So che devo
conoscermi, so che devo ascoltare me per comprendere lui, so che in questo
passaggio opero delle distorsioni. Allora, a cosa serve il mettermi in ascolto
dell’altro? Avere le motivazioni appannate, generiche, avere una spinta
viscerale a farlo senza avere significato, senza avere chiamato per nome
questa spinta, può significare entrare in un sistema di manipolazione reciproca
inconsapevole molto pericolosa.
Il problema è avere deciso perché stiamo ascoltando. Le ragioni possono
essere parecchio diverse. Ma chiarire perché stiamo ascoltando, chiarirlo a noi
stessi è determinante per poter riconoscere e correggere le distorsioni di cui
parlavamo sopra.
Un altro tema fondamentale nella relazione d’ascolto è quello delle emozioni,
positive e negative, che proviamo mentre ascoltiamo un’altra persona. Cosa ne
facciamo di queste emozioni? Le manifestiamo o no? E, se sì, tutte o solo
alcune? In altre parole, quando ascoltiamo una persona – di quell’ascolto ricco,
bello, ben motivato, che stiamo cercando di definire – che cosa è meglio fare?
Far vedere le nostre emozioni o non farle vedere? Di quello che provo mentre
ascolto, che cosa ne faccio? Glielo restituisco immediatamente, cioè lascio
uscire le emozioni, o trattengo?
Prendiamo il caso che l’altra persona mi dica delle cose che sono per me
disgustose ed io voglia continuare ad ascoltarla.
Sarebbe forse opportuno che io non faccia vedere troppo questo disgusto,
altrimenti creo imbarazzo. E dunque, che si fa? Per esempio potrei dire: “Basta
che io sospenda il giudizio e non decida prima se questa è una cosa negativa
oppure no, perché nelle cose negative di ognuno ci può essere un contenuto di
sofferenza, e mi sembra giusto prima lasciare parlare e poi eventualmente
discuterne”. Questo è indubbiamente un obiettivo lodevole, ma il problema è
che così noi mandiamo all’altro un doppio segnale nello stesso momento,
perché corriamo il rischio che i messaggi divergenti ci scappino di mano senza
nemmeno sapere che cosa stiamo facendo. Lo ascoltiamo e insieme ne siamo
infastiditi.
Invece di partire con un ragionamento costruiamoci prima un buon
atteggiamento e che sarà il taglio di ascolto che daremo a quella relazione. Il
taglio potrebbe essere: “relazione non giudicante”, invece di “relazione che
prescinde dal mio giudizio”, perché questo non è possibile: ogni evento è
costantemente sottoposto al mio giudizio e ad un ragionamento critico
sull’evento.
Il riscontro emotivo è più rapido del ragionamento critico: prima stiamo male e
poi ci accorgiamo del perché stiamo male. Allora l’idea potrebbe essere questa:
quando mi predispongo all’ascolto non giudicante, cerco con estrema
attenzione tutti i giudizi emotivi che formulo immediatamente; cioè sto attento
a come la mia “pancia” ha già deciso, quindi cerco di accorgermi dell’emozione
che provo, e mi dico: “Ho già giudicato, ho già provato un’emozione, mi ha già
dato un po’ fastidio, solo che di questo fastidio potrei fare cose diverse; una di
queste, per esempio, è metterlo in attesa. Non posso ancora avere tutti gli
elementi di giudizio su questa persona: mi ha dato fastidio quello che ha detto
e gli ho già mandato un po’ di questo segnale. Cioè il mio viso non era già più
sorridente allo stesso modo, c’era già qualche piccola ombra. La riconosco e la
correggo sulla base del mio schema: vorrei non essere giudicante, ho provato
questa emozione, aspetto a usarla. ne proverò un’altra, aspetto a usarla”.
Questo deve venire a poco a poco quasi automatico, altrimenti mi imbroglio da
me perché mi dichiaro non giudicante, mi credo non giudicante e invece faccio
partire messaggi divergenti che confondono la comunicazione.
A volte divento proprio goffo e dico: “Parla pure, tanto io non ti giudico”,
mentre ciò è impossibile. Io posso sospendere il giudizio, non annullarlo, e per
sospenderlo bene devo prima riconoscere quello che sento nella pancia e poi
arriva al cervello; e lì decido cosa voglio farne.
Tuttavia ci sono meccanismi dai quali non possiamo prescindere, quali ad
esempio l’accettabilità del contenuto che ci viene proposto: ci sono contenuti
che noi non sopportiamo di non giudicare, nel senso che non accettiamo più
noi stessi mentre siamo apparentemente “non giudicanti” su di essi. Dunque
dobbiamo vedere come ci sentiamo quando operiamo la sospensione del
giudizio su certi contenuti.
In molti casi non ci sentiamo affatto bene e, se continuassimo, staremmo
barando con noi stessi. Dunque io ascolto, percepisco un malessere, lo
riconosco, gli do un nome e dico a me stesso: “Preferisco saperne di più,
aspetta”. Se fa parte dei giudizi sospendibili, se fa parte di ciò che io posso
mettere in attesa, mi riesce e continuo a sorridere nel modo giusto alla
persona che mi sta davanti. Se non fa parte di quei contenuti sospendibili io
sto già mandando un messaggio difforme, divergente, complicato, pasticciato:
non ci stiamo più ascoltando.
Questo per quanto riguarda le emozioni negative. Per quanto riguarda le
emozioni positive il rischio, nel far capire all’altro che ci piace ciò che sta
dicendo, è quello di dare la direzione alla comunicazione. Stiamo rinforzando
un contenuto e se l’altro aveva bisogno di avere conferme, rischiamo di avere
qualcuno che ci conferma per sentirsi confermato; cioè, avendo capito dove
può parlare tranquillamente, anche se di cose un po’ strane che magari non
pensava ci piacessero, andrà avanti molto più facilmente su quei contenuti per
garantirsi un ascoltatore disponibile: cioè gli fate dire le cose a cui sorridete di
più. Ancora: mandare segnali positivi può significare un pregiudizio; un pregiudizio positivo ma pur sempre tale. Può significare: “Questa persona mi sta
diventando amica, da questo momento in poi cercherò di comportarmi con lui
come un amico”. E incomincio ad avere gli obblighi dell’amicizia, ma in
relazioni professionali questo diventa un problema: se il terapeuta a un suo
paziente dice troppo spesso che è d’accordo con lui, il paziente incomincia a
sentirsi più un suo amico che un suo paziente. Ciò non è una brutto, ma rende
meno efficace la relazione terapeutica perché il paziente non potrà più usare il
terapeuta come consulente in una relazione di aiuto.
C’è sempre un fattore molto importante, fondamentale, che possiamo provare
a vivere ed è il manifestare alle persone il nostro piacere di ascoltarle. Se non
c’è questo piacere non c’è ascolto, ma se io ho nel mio sistema di valori, nel
mio sistema di convinzioni, nel mio modo di stare con gli altri il piacere di
ascoltarli, sto segnalando qualcosa che va molto al di là delle emozioni
provate.
È l’interesse verso la persona. Tutte le volte che una persona mi dà qualcosa
da ascoltare mi sta dando un bene prezioso, perché è un po’ di lei, un po’ di sé
stessa. Se io sono disposto in quel momento a ricevere questo bene, che
contiene cose belle, che contiene cose belle e cose brutte – e sulle cose brutte
avrò emozioni negative e su quelle belle avrò emozioni positive –, e se io sarò
contento di sentirmi ascoltatore gli manderò questa emozione di fondo
positiva, e l’altro continuerà a stare bene con me perché si sentirà ascoltato
come persona. Allora le emozioni provate diventeranno secondarie rispetto
all’atteggiamento di fondo, che è: “comunque mi interessi perché sei persona,
e mi interessa ascoltarti perché hai qualcosa di tuo che stai proponendo”.
Qualche volta questo qualcosa mi piace di più. Qualche volta mi piace di meno.
Quando mi piace di meno sospendo il giudizio, perché conosco ancora troppo
poco dell’altro per permettermi di giudicare. E se un giudizio mi scappa è
perché è di “pancia”; non è un giudizio voluto.
“Sono qua con il piacere di ascoltarti”, e questo spinge a una serie di piccoli
atteggiamenti importanti che sono: “tutto il tempo in cui sto con te è un tempo
solo per te, è un tempo dedicato a te”.
Naturalmente non possiamo essere disponibili ad ascoltare tutti sempre, ci
sono dei momenti, o delle situazioni, in cui ci sentiamo invasi dalle cose degli
altri e ci chiudiamo all’ascolto, ed è bene che sia così. Ma come si fa a far
capire all’altro che lo stiamo ascoltando? Ascoltandolo. L’altro capisce
perfettamente se noi lo stiamo ascoltando, perché ci sono, in nostro soccorso,
tutti i segnali non verbali che gli mandiamo al di là delle tecniche. Il vero
ascolto, credo, non è l’ascolto di chi vuol conoscere per trasformare l’altro, ma
è l’ascolto di chi vuol conoscere per restituire l’altro a se stesso con maggiore
chiarezza.
L’idea dell’ascolto potrebbe essere questa: “Io ti restituisco a te stesso, passi
attraverso me che ti faccio da organizzatore, da trasformatore di prospettive.
Cioè: lo stesso oggetto che mi hai dato giralo in un altro modo, ecco un altro
modo di vederlo. ma a te per te stesso”.
Questo è il senso della relazione di ascolto, anche di quella terapeutica: io
posso ascoltarti e funzionare da perturbatore, cioè mentre tu parli ti rendi
conto che le cose dette, mentre le stai dicendo, sono già un po’ diverse da
come te le rappresentavi in forma tacita e sintetica.
C’è ancora un tema del dialogo che è importante. Fino ad ora abbiamo detto
più volte che bisogna essere disposti all’ascolto per poter mandare i segnali
giusti alle persone che vogliono parlare con noi. Ma come si fa ad avere questa
disposizione? Abbiamo parlato di idee chiare, di conoscenza di noi stessi, di
buone motivazioni, di una buona idea di fondo, ma tutto questo ancora non
basta. C’è un altro fattore: in una relazione di ascolto è necessario che,
relativamente all’argomento di cui si sta parlando, chi sta ascoltando stia
meglio di chi si fa ascoltare. Su quell’argomento, non nella vita, altrimenti
nessuno ascolterebbe nessuno… Non possiamo esporci se non ci sentiamo
sicuri nel ricevere quel contenuto.
Io che ascolto devo stare meglio della persona che ascolto. meglio non vuol
dire che sono più bravo di lui o che sono più intelligente; vuol dire che, su
quell’argomento, in qualche modo, ho già una mia posizione abbastanza
stabile.
Poniamoci adesso quest’ultima domanda: “Che cosa è necessario possedere,
per ascoltare davvero e per rendere un servizio agli altri?”, per permetterci di
esporci all’ascolto, di lasciare che l’altro venga verso di noi con i suoi
contenuti?
C’è un’idea che formulata così sembra semplice: mantenere la stima di sé nel
corso della relazione. Cosa significa questo? Attuare al massimo la disponibilità
all’ascolto, e cercare di non sentirsi mai squalificati o svalutati dall’altro, anche
se qualche volta, proprio perché sto male, potrebbe apparirci offensivo il modo
con cui ci parla. Stiamo attenti! La FORMA può essere o apparire offensiva, ma
il CONTENUTO è sempre (spesso, comunque) una richiesta di aiuto che va
soddisfatta.
Allora ce la sentiamo di entrare in una relazione di aiuto senza voler già dire
che guariremo? Ce la sentite di pensare che l’aiuto è stare nella relazione
disponibili all’ascolto, e che questo lo possiamo fare se su quel tema voi stiamo
ragionevolmente bene? Il concetto di accoglienza è proprio questo: chi accoglie
non risolve i problemi della gente, accoglie. Poi se possiamo dare una mano lo
facciamo volentieri, ma questo viene dopo, come conseguenza dell’accoglienza.
L’accoglienza è il gesto più difficile, perché dobbiamo superare tante fatiche
nostre per non dover fondare la stima di noi stessi solo sulla base dei risultati
acquisiti. Pensiamo ai malati terminali: chi si salva? Nessuno, muoiono tutti. E
come pensiamo di poterli aiutare?
Stando con loro, lasciando venire la loro sofferenza verso di voi e
restituendogliela forse solo arricchita e interpretata; cioè resa più accettabile e
significativa dalla nostra presenza affettuosa che annulla la loro umana paura
di essere soli, rifiutati, abbandonati. In questo ascolto, forse, trova spazio il
prepararsi il cuore… A cosa?
A ciò che la vita vorrà per noi; noi che mai saremo contenti del tutto per ciò e
di ciò che verrà, ma che staremo meglio se saremo preparati a ciò che
comunque non potrà non venire. Non contenti. Forse solo sereni dentro.
Il che è già parecchio...
Da: www.vertici.it
Prima pubblicazione 30/08/2005