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Ch. V. Alkan: Piano Sonata, Sinfonia per pianoforte solo, Etude Op. 76 n. 3
Ai margini della storia troviamo personaggi che per i motivi più diversi non hanno
contribuito attivamente, nel momento in cui sono vissuti, al dipanarsi degli eventi o non
hanno impresso ad essi deviazioni decisive. Ma la grandezza e il genio non passano
inosservati per sempre e se non trovano nella contingenza le condizioni per affermarsi
possono sempre contare su di una gloria postuma; “il mio tempo verrà”, vaticinava un
Mahler fin troppo pessimista sul suo conto. E pare proprio che oggi – anche grazie ai
vantaggi delle comunicazioni multimediali, che riescono a soddisfare pienamente la
crescente curiosità di interpreti e musicofili verso repertori poco battuti – i tempi siano più
che propizi affinché un altro spirito magno venga collocato al posto che merita nel
Pantheon della storia della musica. Stiamo parlando di Charles Valentin Alkan, il cui
necrologio pare recitasse pressappoco così: “Alkan è morto. E’ stato necessario che
morisse, affinché potessimo essere certi della sua esistenza”. Non è difficile dunque intuire
di quanta notorietà godesse Alkan, anche in vita. E’ pur vero che egli non sentì mai la
spasmodica urgenza di cercare onori e gloria, ma certo le cose non erano sempre andate
così: il giovane Alkan era uno dei virtuosi più ammirati di Parigi, anche se la sua carriera
di interprete non conobbe un percorso radioso e di successo, a causa di uno stile esecutivo
che, seppur raffinatissimo e tecnicamente impeccabile (Liszt affermava che Alkan
possedesse la migliore tecnica che avesse mai visto, e diceva di sentirsi a disagio quando
questi assisteva ai suoi concerti), non faceva presa sul pubblico borghese di allora, per
domare il quale era necessario possedere notevole fascinazione e magnetismo, soprattutto
dopo la “rivoluzione lisztiana”... E pare che, stando alle recensioni dei suoi concerti, le
esibizioni del nostro fossero giudicate alquanto “fredde” e poco coinvolgenti. Ma Alkan
non era disposto ad accettare compromessi: così, quando si vide negata anche la possibilità
di ricoprire l’anelata cattedra di pianoforte al Conservatorio di Parigi, a causa di meschini
giochi di potere – aggiungendo a questa amara delusione chissà quanto altro disagio nel
vivere in un mondo che non corrispondeva il suo pensiero artistico e col quale non
riusciva a comunicare – si decise ad un ritiro quasi assoluto dalla vita pubblica. Da un
certo momento in poi chi bussava alla sua porta per chiedere di lui riceveva dal suo fedele
maggiordomo la medesima risposta: “Mi spiace, monsieur Alkan non è in casa.” Per
sostenersi continuava a dare poche lezioni private a giovani figlie di ricchi aristocratici, ma
a parte questo si nutriva serenamente e senza rimpianti della sua misantropia, ed erano
pochissime le persone di cui tollerava la compagnia: su tutte un amico intimo e suo vicino
di casa, Chopin. Lo ammirava e lo amava oltremisura, mentre non nutriva particolare
stima per la carriera di virtuoso del “rivale” Franz Liszt: per il suo carattere riservato
quella sfacciata esibizione di sé doveva sembrare un eccesso imperdonabile… In ogni caso
il ritiro di Alkan dalle scene e dalla vita pubblica a soli 25 anni (salvo poi sporadiche
apparizioni e invece un deciso quanto insospettabile ritorno ai concerti – non molto
fortunato, in realtà – quasi settantenne), non dovette essere qualcosa di irrimediabilmente
nefasto, se quella stessa solitudine in cui si dedicava per ore e ore allo studio e alla
traduzione del Talmud e della Bibbia gli permise anche di meditare e realizzare i suoi
grandi capolavori. Non dovendo contare sul favore del pubblico o confrontarsi con la
capacità degli interpreti, Alkan fu libero di profondere nelle sue opere tutte le
meravigliose intuizioni e innovazioni pianistiche di cui era capace, realizzando le sue idee
musicali senza dover limitare in alcun modo i mezzi tecnici ed espressivi in suo possesso.
Lo stile compositivo di Alkan (dedicato esclusivamente, si può dire, al pianoforte, alla
stessa maniera di Chopin) è infatti qualcosa di davvero unico, che se nasceva nell’alveo del
pianismo biedermeier, dove il pianoforte fa anche da orchestra, prese poi una strada
sorprendentemente innovativa – pur rimanendo egli un fedele “custode del classicismo”.
Le sue composizioni sono per lo più opere mastodontiche (anche se non mancano
deliziose miniature, come le Esquisses, gli Chants, i Preludes, piccoli pezzi di musica
ebraica ecc), dal pianismo massiccio e robusto e dalla sicura struttura formale. Nella forma
sonata abbondano i temi secondari, e sia questi che i temi principali hanno bisogno di
molto spazio per esprimersi compiutamente (si veda il colossale “Concerto per pianoforte
solo”): il tutto sempre sostenuto però da un incredibile controllo delle proporzioni. Certo,
la sua invenzione melodica non si può dire sempre felice (ma quando lo era, era
felicissima); però siamo sempre sicuri di trovare nelle sue pagine qualcosa che cattura e
che affascina – che sia il ritmo stringente e reiterato, che sia quella sottile e pungente dose
di sarcasmo, tipicamente ebraico, che lo contraddistingueva anche personalmente e che ha
colorato tante pagine della sua musica. Ammirato da compositori avanguardisti come
Busoni (suo primo e isolato interprete, che lo annoverava fra i più grandi compositori per
pianoforte post-beethoveniani) e Sorabji (che certo ha in comune con Alkan la propensione
alle grandi architetture sonore…), le sue partiture hanno da sempre scoraggiato la maggior
parte dei pianisti e in ciò si intravede una buona parte delle cause che hanno portato la sua
musica all’oblio. Si è dovuto aspettare il devoto Ronald Smith (autore della prima
completa biografia su Alkan e dell’incisione di quasi tutta la sua opera pianistica),
l’istrionico Reymond Lewenthal, e in tempi recenti Jack Gibbons o Marc-Andrè Hamelin,
affinché i giovani e meno giovani pianisti potessero rendersi conto della bellezza di certi
suoi capolavori. Capolavori che se anche rimangono incredibilmente difficili da realizzare
alla tastiera possono certamente giudicarsi molto più eseguibili oggi che non nelle passate
decadi.
Fra questi capolavori troviamo certamente la Grande Sonate Op. 33, che riveste
un’importanza storica notevole e ancora in larga parte misconosciuta. I grandi compositori
romantici che dopo Beethoven e prima di Liszt avevano affrontato la Sonata sono rimasti
per lo più nelle sicure e canoniche cinte murarie classiche, seppur popolandole di
contenuti nuovi e rispondenti all’estetica del tempo. Alkan fa invece qualcosa di diverso, e
per farlo ha il coraggio di titolare “Sonata” quella che uno Schubert avrebbe titolato
“Fantasia”: parliamo ovviamente della nota Wanderer-fantasie, opera che ha gettato un
ponte fra “vecchia” e “nuova” forma sonata, e alla quale Liszt sarà molto debitore nella
sua Sonata in si minore, con la quale supererà definitivamente ogni barriera e limite
espressivo rendendo questa forma un organismo unico, capace di contemplare al suo
interno un intero mondo sentimentale ed emozionale. La Grande Sonate di Alkan compare
nel ’47, sette anni prima di quella lisztiana: è ancora costruita in movimenti, ma è una
Sonata “a programma”, dal sottotolo: “Le quatre âges”. I suoi quattro movimenti infatti
descrivono, idealizzati, quattro “fasi” della vita dell’uomo. E qui le scelte formali sono
davvero imprevedibili: il primo movimento, “20 ans”, è addirittura in forma di “Scherzo”,
simile nel tempo e nella forma allo Scherzo Op. 20 di Chopin. Lo inaugura un’impetuosa
(sebbene misuratissima, come prevede sempre lo stile severo alkaniano) figurazione
melodica, in un fluttuante si minore, che ben esprime l’incontenibile baldanza che si
conosce solo a quell’età. Un secondo, bellissimo tema cantabile (il “trio” dello Scherzo) in
si maggiore è preceduto da palpitanti fa diesis che interrompono l’irruento movimento
della prima parte, quasi come battiti cardiaci che distolgono dall’incosciente iperattività
per attirare l’attenzione sulla perigliosa ed emozionante strada dell’amore… Questa breve
sognante parentesi lascia di nuovo il passo al goffo e tumultuoso incedere della gioventù,
che procede fieramente fino alla piena manifestazione di se stessa negli ultimi accordi.
Accordi che, tutt’altro che a caso, prefigurano già il disegno melodico del movimento
successivo, “30 ans”, il temibile “Quasi Faust”, sicuramente una delle cose più difficili mai
scritte per pianoforte. Qui la forma è molto più complessa, ma i temi sono così chiari e ben
condotti che non è difficile seguirne l’andamento. Impossibile non notare, fin dall’inizio,
una formula melodica e ritmica che a molti risulterà familiare: quella melodia puntata
all’acuto e poi quelle note ribattute al basso non hanno forse ispirato la descrizione di
violenti contrasti inferi anche nella Sonata in si minore di Liszt? In questo secondo
movimento vengono descritti i drammi della personalità di un uomo uscito
dall’inconsapevolezza giovanile ma non ancora dotato di quella saggezza e quel distacco
propri della vecchiaia. Questo è ancora il tempo delle ultime illusioni, come quella di poter
controllare la propria vita attraverso la conoscenza illimitata, possibile solo con l’aiuto del
Maligno, dell’“immancabile” Mefistofele, che da corpo a quella natura oscura che è in tutti
noi e che si lascia tentare dal disordine e dalla volontà di annientamento (lo vediamo
irrompere nella Sonata con un pomposo si maggiore, che interrompe le iniziali doglie
spirituali di Faust); questo, ancora, è il tempo dell’illusione (o della Verità?) dell’Amore (si
vedo lo stupendo “tema di Margherita”, che con il suo candore e la sua purezza dirada la
mefitica nube di zolfo del Tentatore, le cui ormai impotenti promesse finiscono
gorgogliando in un trillo basso). Qui, infine, c’è ancora qualcosa che salva l’uomo, non
tanto l’amore di una donna, per quanto necessario e meraviglioso, ma l’amore di Dio, che
rimane il termine eterno e fisso che inonda di luce le tenebre. Come non restare affascinati
infatti dal percorso spirituale di questo movimento: nel bel mezzo dell’ansia pressante, del
tormento, che vedono l’uomo diviso fra tentazioni infere e celesti, tutto si ferma, perché
giunti al culmine dell’insanabile disperazione. Appare allora, in pianissimo, un tema tenue
ma forte della sua bellezza, il tema di un fugato (le cui prime note oltre ad essere parte del
tema di Faust rimandano alla fuga in Mi maggiore dal Secondo volume de “Il
Clavicembalo ben temperato” di J. S. Bach e alle prime quattro note dell’ultimo
movimento della Sinfonia “Jupiter” di Mozart) che, nonostante l’intricata struttura
addirittura a 8 voci che arriva all’improbabile tonalità di mi diesis, in cui Alkan si serve
addirittura di un triplo diesis, conduce però alle porte di una nuova gioia perfetta, quella
assicurata dal luminoso e benevolo amore di Dio. Per il devoto ebreo Alkan questa è
sempre la certezza più importante. Dopo il secondo movimento, è giunta l’ora per l’uomo
di affrontare la sfida forse più difficile: la vita familiare. Ma pare che per Alkan questa non
sia una chimera, a giudicare dal titolo di questi “40 ans”: “Un heureux ménage”, sebbene
Alkan non si sia mai sposato (ebbe un figlio da una breve relazione, Miriam Delaborde –
mai pubblicamente riconosciuto – pianista valente che contribuì ad una prima importante
pubblicazione delle opere del padre) e fosse animato da una leggera misoginia, che
comunque stava al pari con il fastidio che gli suscitava il genere umano in generale. Il
bellissimo tema in sol maggiore di questo movimento (anch’esso in qualche modo legato
ai temi del Quasi Faust) in cui pare di vedere i due coniugi “immaginari” duettare nella
calma quiete domestica si interrompe quando sulla scena entrano “les enfants”, tre (a
giudicare dalle voci utilizzate…) paffuti e teneri bambini che, a differenza di quelli “veri”,
non fanno fracasso e non rompono vasi, ma animano dolcemente la vita amorosa della
coppia. La giornata si chiude con i dieci rintocchi dell’orologio (per Alkan stesso quella era
l’ora fatidica in cui si ritirava a riposare, troncando di netto qualsiasi attività), una serena
preghiera recitata dalla famiglia unita e un finale da “… e vissero felici e contenti”. Ma
dopo quella chiusura sommessa, succede qualcosa di inaspettato: un quarto movimento
(“50 ans”) nero come l’Erebo. Si tratta infatti del “Prometeo Incatenato”, questo il
sottotitolo, in cui Alkan immagina l’ultima età dell’uomo, quando questi si avvia ormai
sulla strada del tramonto. La morte vista da un giovane di trent’anni (l’Alkan
compositore) deve essere qualcosa di davvero inimmaginabile. Il corale iniziale lascia
spazio a due episodi cantabili, in cui Alkan usa un tema che noi sappiamo essere niente di
meno che il primo tema della Decima Sinfonia di Beethoven. Non sappiamo se Alkan
all’epoca fosse a conoscenza e in possesso degli schizzi di quest’ultima idea sinfonica
lasciata dal grande sordo. Fatto sta che l’incipit del tema è proprio lo stesso e, come se non
bastasse, troviamo nel movimento anche un frammento dal tema della “Marcia funebre”
dell’Eroica beethoveniana. La Sonata si chiude nel nero più nero e senza speranza del sol
diesis maggiore, lontana anni luce dal solare re maggiore dal quale proveniva (anche qui è
interessante notare lo strappo di Alkan alla consuetudine: la tonalità è qualcosa che
partecipa al dramma della vicenda, non qualcosa di fisso e prestabilito). Ascoltandola si
viene trasportati nell’impietoso scorrere del tempo e nella sua vertigine: la forza e l’impeto
diminuiscono da movimento a movimento (come testimoniano le quattro indicazioni
agogiche), finché tutto si spegne irrimediabilmente.
Dieci anni separano questo capolavoro da un’altra notevole opera, questa volta della
maturità: la raccolta dei “Douze études dans toutes les tons mineurs”, la cui pubblicazione
segue di altrettanti dieci anni quella della serie precedente, dedicata alle tonalità maggiori,
ma rispetto a quest’ultima frutto di un’accresciuta maturità, creatività e padronanza di
mezzi espressivi. Suonati integralmente questi dodici studi sopravanzerebbero le due ore
di durata, ammesso che l’esecutore riesca ad arrivare sano e salvo a “Le festin d’Esope”, il
“Tema con variazioni” (forse il pezzo di Alkan più conosciuto) che chiude la raccolta. La
“Sinfonia per pianoforte solo”(composta dagli studi n. 4, 5, 6 e 7) è un pezzo dal colore
scuro e dallo stile severo che, nonostante la seduzione del titolo, mal si adatterebbe ad una
vera e propria trascrizione orchestrale, perché gli stilemi che Alkan utilizza sono
prettamente pianistici e solo su questo strumento trovano piena giustificazione. Il primo
tempo in do minore è un “Allegro” solidamente costruito in forma-sonata. La “Marche
funèbre” che segue, un dimesso Andantino, non ha certo i connotati della “Marcia
funebre” cui ci hanno abituato certi compositori... Secca, seriosa, lascia intuire come
nell’etica alkaniana anche i sentimenti più tragici vadano sempre filtrati col setaccio
dell’autocontrollo: “con dolore contenuto”, appunta il compositore all’inizio del Trio. Il
violento Minuetto che segue esprime invece un altro tratto comune alla produzione di
Alkan, capace di creare momenti di inarrestabile e travolgente potenza. Anche il Finale
sortisce l’effetto di un avanzare incessante, ma qui il reticolo contrappuntistico è più vario
e la forma più articolata.
La creatività di Alkan non smette di sorprendere: i “Trois Grandes Etudes” sono
pubblicati come Op. 78, ma in realtà sono una composizione giovanile, scritta nel 1838. In
essi Alkan dimostra in modo ardito e originale per quel tempo come le due mani possano,
attraverso una sapiente scrittura, anche separatamente esprimere ciò che solitamente
fanno in coppia: il primo studio è dedicato alla sola mano sinistra, il secondo alla sola
mano destra, mentre il terzo – qui proposto – è un moto perpetuo per le due mani unite.
Impossibile non notare una certa liaison con l’ultimo movimento della Seconda Sonata di
Chopin, scritta un anno dopo. Comunque il carattere dei due brani è molto diverso e
risponde, chiaramente, a diverse esigenze: se in Chopin pare quasi di ascoltare l’ultimo
breve rantolo del morente, in Alkan le due mani unite danno vita ad un brano di più
ampio respiro, in cui sbalordisce l’intelligenza della scrittura (con la quale crea nonostante
la scarsità di mezzi, sonorità incredibilmente evocative e suggestive) e la profonda
conoscenza che egli aveva delle più complesse combinazioni digitali e della loro efficace
realizzazione nella velocità. Il tema principale in minore viene interrotto da un
meraviglioso e disteso cantabile nella tonalità maggiore, che tornerà a “lottare” col tema
minore frapponendosi ad esso nella riesposizione. Tutto giunge ad una finale
affermazione in maggiore di entrambi i temi, con le due mani che restano rigorosamente in
sincronia fino al glissando e agli ultimi accordi.
Vincenzo Maltempo©