Ch. V. Alkan: Sonatine, Le Festin d`Esope, Ouverture, 3 Morceaux
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Ch. V. Alkan: Sonatine, Le Festin d`Esope, Ouverture, 3 Morceaux
Ch. V. Alkan: Sonatine, Le Festin d’Esope, Ouverture, 3 Morceaux Op 15 “A history of life of Aesop” è un divertente volumetto di tale Sir Roger L’Estranger, un saggista inglese del XVII secolo, strenuo difensore della monarchia inglese ai tempi di Cromwell, per tutta la vita fautore di oscure manovre politiche per la difesa di tali ideali. In vecchiaia lo colse la passione per gli antichi filosofi e sapienti: tradusse Seneca e Cicerone, ma gli dobbiamo anche una traduzione (molto libera, in verità…) di alcune “Favole” di Esopo e della “Vita di Esopo”, appunto, una simpatica biografia del famoso favoliere greco che circolava dai tempi dell’antica Roma, probabilmente poco veritiera nei dettagli, ma molto fantasiosa e pungente. Ebbene, in questa biografia c’è un particolare episodio che può rivelarsi interessante per noi: come ci tramandano le fonti Esopo era uno schiavo particolarmente astuto ed abile nell’inventare “fabulae” moralizzatrici. Nel libello si susseguono vari episodi della vita di Esopo il quale, finito in Grecia al servizio del filosofo Xanthus, si dimostrerà infine più saggio e astuto del suo padrone. Una sera Xanthus invitò alcuni filosofi ad un banchetto, e diede ordine ad Esopo di preparare una cena degna di un re. Lo schiavo allora cominciò col servire una “lingua di bue”, continuando con varie portate sempre a base dello stesso ingrediente, cucinato in diversi modi… Una sorta di “Variazioni su un tema” insomma. Tutto ciò suscitò la disapprovazione di Xanthus alla quale Esopo ribatté che, per un convivio di filosofi, “cosa poteva essere meglio di una festa di lingue?”. Come dargli torto. E’ forse a questa “Festa di lingue” che si ispirò Alkan per il suo “Festin d’Esope” o si tratta solo di un omaggio colto che oltre il titolo non influenza più di tanto la composizione del brano? Una cosa è certa: se il titolo è suggestivo la musica lo è ancora di più. Al punto che la si potrebbe considerare (forse un po’ più superficialmente, forse no) anche come una sorta di “bestiario” delle antropoidi creature esopiche: sembra quasi di sentir ragliare un asino nella seconda variazione, di vedere una pulce saltare e zampettare nella dodicesima come saltellano le mani del pianista coprendo improbabili distanze, per non parlare dell’“abbajante” che compare nella ventunesima (disordinati latrati canini nel bel mezzo di una tema di caccia), dei ruggiti del re della foresta nella ventiduesima e chi vuole sbizzarrirsi nel cercare altre similitudini non resterà deluso. Fatto sta che in questo coloratissimo pezzo, che chiude la raccolta dei 12 Studi nelle tonalità minori Op. 39 con un sorriso sardonico e beffardo, la fantasia di Alkan nel “cucinare diverse versioni del tema” sembra non avere limiti. La base delle diverse portate, se vogliamo continuare con questo sinestetico paragone, è un accattivante e semplice tema in mi minore, la cui ispirazione si perde fra un ambiguo intreccio di sacro e profano - un tema che un po’ somiglia ad un antico canto tradizionale chassidico (ricordiamo qui il forte legame dell’Alkan ebreo con le sue tradizioni) e un po’ ricorda l’inquieto tema del Minuetto della Sinfonia in Sol minore di Mozart, brano che Alkan trascrisse per pianoforte solo. Tema ambiguo dunque, che suscita impressioni contrastanti. “Allegretto senza licenza quantunque”, annota Alkan sulla parte: a tutta prima sembrerebbe un tema spiritoso, ma sentiamo che non lo è abbastanza da predisporre l’animo ad una piena sensazione di positività e di gioia (Alkan non ci regala mai, in effetti, musica totalmente luminosa e “leggera”); nel suonarlo non bisogna prendersi “licenze” dunque, ma lasciarlo in uno stato di incurante fissità e fermezza. Ecco allora che sembra addirittura severo. In ogni caso, nonostante la sua semplicità è uno di quei temi che si ricordano, che si imprimono nella memoria come una filastrocca per bambini. Seguono subito le variazioni, una dopo l’altra, serratissime, in cui esplodono girandole di colori, caleidoscopi di immagini sempre diverse. Alkan è abilissimo genio della forma e del ritmo, e sa imprimere una forza ed una potenza efficacissime ad ogni sezione e ad ogni variazione. A guardarla bene sembra che questa serie di micro variazioni abbia in qualche modo una certa relazione con le 32 Variazioni in do minore di Beethoven. Alkan era continuamente assorbito dallo studio delle opere dei vecchi Maestri: all’epoca era uno dei pochi musicisti veramente colti in tal senso e nei suoi recital (prima del ritiro dalle scene a venticinque anni e poi nel suo ritorno a sessant’anni suonati con i “Petits Concerts”) includeva sempre lavori di Rameau, Couperin, Beethoven, Mozart, fino agli amati Mendelssohn e Chopin. Forse anche per questo divenne così impopolare, se pensiamo che la musica “del momento” erano le piroette lisztiane. Ebbene, anche le 32 di Beethoven sono costruite su di un tema molto “caratteristico” di sole otto battute, anche quest’opera è organizzata in modo che le variazioni si possano unire in gruppi di due o di tre, per non parlare poi della struttura: dopo una prima serie relativamente breve di variazioni nella tonalità d’impianto segue subito la parte “in maggiore” che comincia in entrambi i casi con un pacato corale modellato sulla melodia del tema. Le variazioni in minore riprendono, fino a giungere, in Beethoven come in Alkan, ad un “Finale” in cui si lavora il tema più liberamente fino alla chiusura del pezzo. Non è e non sarà l’unico omaggio che Alkan tributerà all’opera del grande maestro di Bonn: ne vedremo altri nella breve disamina degli altri pezzi di questo disco. In generale possiamo tranquillamente sostenere che l’opera di Alkan è imbevuta fortemente dell’amore che egli provava per i grandi maestri del periodo classico e barocco, e si sentiva particolarmente vicino all’estetica beethoveniana, così traboccante di ardore e di passione ma così solidamente scolpita in una forma compatta e ordinata che dava a quei sentimenti così umani una più grande efficacia e forza. I sentimenti a briglia sciolta non creano che ansia, caos, e una passione disordinata; se invece sublimati dalla forma possono educare lo spirito a varcare confini sempre più alti e indirizzare i cuori delle genti verso la Bellezza e quindi la Bontà. Questo per Beethoven era l’assunto principale. Forse già Alkan ci credeva meno – non nella forza dell’ordine e della forma, ma nella speranza che la musica, la buona musica, fosse capace di indirizzare i cuori nella giusta direzione. E’ noto infatti quanto egli divenne sempre più misantropo e pessimista nel corso degli anni, e quanto questo avvenne anche perché vedeva i valori che avevano animato la grande tradizione musicale mitteleuropea (che per lui era il punto di riferimento imprescindibile) e in generale quel tipo di pensiero e di filosofia corrotti da un’arte che invece non cercava altro che il favore delle folle, e che per far questo doveva diventare banale e tutta esteriorità (Alkan era, come Chopin, un animo “aristocratico” che cercava l’approvazione di pochi intimi più che i bagni di folla…). Certo, l’“enfant prodige” Alkan pure era un concertista che indulgeva nella composizione di opere leggere fatte per stupire il pubblico con cascate di note scintillanti, ma fu una parentesi questa molto breve, nella vita di un artista che finì molto presto col detestare la mondanità e il compromesso con il pubblico. In un capolavoro come l’“Ouverture” le nostre tesi sulla vicinanza di Alkan ai modelli classici trovano un’ulteriore conferma. Nell’ordine degli Studi Op. 39 questo è l’undicesimo, in si minore, immediatamente precedente a “Le Festin d’Esope” e con esso completamente contrastante. L’Op. 39 è veramente un lavoro particolare: ben otto dei suoi dodici Studi sono definiti in forme che vanno espressamente “al di là” del pianoforte. Già in molti, all’epoca, trascrivevano intere Sinfonie e anche interi Concerti per pianoforte e Orchestra. Ma solo Alkan poteva inventarsi (apoteosi della misantropia e dell’egotismo?) una Sinfonia PER pianoforte, un Concerto per pianoforte e orchestra PER pianoforte solo (anche se in questo Bach lo aveva preceduto, con il suo Concerto Italiano…) e una magnifica Ouverture orchestrale pensata e scritta, però, per pianoforte. Quest’Ouverture, dal colore scuro e dalla struttura grandiosa e complessa, potrebbe essere una degna “apertura” per un’Opera immaginaria nello stile della “Grand Opera” francese, anche se in essa potremmo vedere un pezzo completamente autonomo ispirato comunque (o almeno questa è l’impressione) a qualche opera letteraria o all’avventurosa vita di qualche “eroe” o valoroso condottiero. E sembra ci sia anche qui una straordinaria vicinanza all’opera di Beethoven: mi viene in mente l’Egmont ad esempio, sia per le tinte fosche che animano il pezzo sia per la sua struttura – a grandi linee, perché la forma del lavoro di Alkan è in verità molto più complessa: un’introduzione, un allegro di Sonata, un finale glorioso e scintillante. Ascoltando questo pezzo dobbiamo davvero dimenticare il pianoforte e se ci riusciamo possiamo cogliere lo straordinario Alkan “orchestratore pianistico”, come già abbiamo avuto modo di fare con la Sinfonia per pianoforte solo. Un Alkan che realizza, al pianoforte, quello che Berlioz realizzò con l’orchestra: trascendere i limiti fisici degli strumenti per esprimere qualcosa di grandioso. A ben vedere in questo brano ci sono ben pochi “spunti” o stilemi pianistici: sembra davvero che sia una trascrizione di un pezzo concepito interamente per orchestra, eppure la resa sonora al pianoforte è perfetta (lo è ancora di più su di un Erard del XIX secolo…), e non fa rimpiangere altri tipi di organico. A chi si stia chiedendo quale sia la novità rispetto alla scrittura lisztiana rispondo che Liszt partiva dal pianoforte e dalle sue possibilità e lo faceva suonare come un orchestra. Alkan invece parte da un idea musicale astratta e la trascrive intelligentemente al pianoforte, dandoci l’impressione che non gli interessi nulla della fatica necessaria all’interprete per realizzarla (questo ci ricorda il celebre scatto d’ira di Beethoven nei confronti del violinista Schuppanzigh che lamentava un’eccessiva difficoltà nell’eseguire alcuni passaggi di un suo Quartetto: “Credete che mi interessi qualcosa del vostro dannato violino, quando è lo spirito che mi parla e mi detta ciò che scrivo?”). Eppure non si può asserire che Alkan scrivesse “a tavolino” la sua musica, perché seppur al limite dell’ineseguibile essa si rivela – in verità dopo avervi lavorato con pazienza ed essere entrati nella sua logica di scrittura – in tutta la sua efficacia e potenza espressiva, come una scrittura sapiente e di altissimo livello. Il brano si apre con una introduzione degli archi (“Maestoso”) inframmezzata da un severo tema puntato in vero stile di “ouverture francese”. Poco dopo siamo sorpresi da una sezione assolutamente in contrasto con ogni altra nel pezzo, un Lentament che è l’unica oasi di pace e delicatezza del pezzo – quasi una sorta di “rimembranza” di una felicità ormai perduta, rievocata nel mezzo di un presente tumultuoso e doloroso. Comincia l’Allegro, perentorio, drammatico, a piena orchestra. Tutto si basa su quattro accordi ribattuti, lo stesso nucleo ritmico (ora in semiminime invece che in semicrome) con cui Alkan ha aperto l’opera. Al brioso secondo tema in re maggiore in ottave, ricavato da un disegno melodico del primo, segue un terzo tema fortemente suggestivo e drammatico, uno scuro canto che quasi potrebbe evocare la figura della crudele lady Macbeth o di un Otello che si consuma nel dubbio; in effetti questa Ouverture assume davvero i toni di una cupa tragedia shakespeariana, se vogliamo. L’Allegro prosegue con un breve sviluppo in cui i tre temi si intrecciano fra loro e si alterano senza posa in una dimensione sempre più tragica, finché non ha luogo la riesposizione, in cui i temi compaiono però in altro ordine: il secondo, il terzo che prepara il ritorno del primo, il primo, infine il terzo che prepara la Coda. Ed il Finale è davvero emozionante e luminoso – una fanfara intonata dagli ottoni (che riprendono una serie di accordi già comparsi, poco prima della sezione cantabile nell’Introduzione: nessun elemento è casuale!) con tutta l’orchestra lanciata poi in una folle corsa entusiastica verso le battute finali, in cui ritroviamo per l’ultima volta i perentori quattro accordi su cui si basa l’opera e che la chiudono con una decisione ed una fermezza tutte beethoveniane. A questo proposito, come non lasciarsi suggestionare, sempre in questo finale, da quel ritmo puntato e marciante in 6/8 in cui ci pare quasi di ascoltare una reminiscenza dell’orgiastico primo tempo della Settima Sinfonia di Beethoven? Forse un altro segno che Alkan aveva bisogno di citare continuamente quei modelli, tanto si sentiva legato a loro e forse con loro anche in debito; quasi avesse bisogno di far confluire nelle sue creazioni qualcosa che fosse in qualche modo legato ai suoi “Maestri” e alle loro opere. Un “rito” questo secondo me rivelatore anche di una grande solitudine, per colmare la quale Alkan – che sentiva di vivere in un mondo a lui completamente estraneo – aveva bisogno di tenere sempre vivo il legame con un passato che sentiva vicinissimo al suo modo di sentire. Dunque come non occuparsi ora, a questo riguardo, di quella piccola gemma che è la Sonatine Op. 61? Parliamo pur sempre della “forma Sonata”, che Alkan assimilò a meraviglia e che in opere come la Sonatine, la Sinfonia, il Concerto trova un’applicazione formale molto fedele e quasi letterale. Per i romantici la “forma Sonata” ha certamente rappresentato un problema, problema che Alkan aveva già certamente risolto con la sua Grande Sonata, opera in cui non ha più molto senso parlare di “forma Sonata” in senso stretto e forse neanche in senso lato. Liszt, successivamente, consolidò questa consapevolezza, e in questa direzione si mossero i compositori di lì in avanti. La Sonata, nella sua forma canonica già andata in crisi con Beethoven, cominciò a essere sentito da alcuni come qualcosa di superato e anacronistico che non soddisfaceva più i bisogni espressivi del tempo (nonostante i principi su cui si basi – ossia il contrasto tematico – siano sempre rimasti validi in qualche modo, rappresentando di fatto un bisogno istintivo dell’arte musicale che proprio di contrasti si alimenta…). Ma Alkan non era uomo del suo tempo e così, dopo essersi cimentato nella scrittura di una Sonata ed averne rivoluzionato la forma, si dedicò alla composizione di una Sonatina che pur essendo una sorta di sorella “minore” della prima in termini di durata (la Sonata dura circa 40 minuti, la Sonatine praticamente la metà) non lo è certo per contenuti e sapienza compositiva... Entrambe contano quattro movimenti; ma mentre una è un tragico viaggio nella vita dell’uomo dalla nascita alla morte, l’altra un delizioso saggio di musica pura assolutamente sciolta da ogni contesto. Il numero d’Opera è il 61, l’anno di pubblicazione il 1861, per una strana combinazione cabalistica. C’è chi ha suggerito una certa liaison fra il caratteristico primo tema del Primo Movimento con quello della Sonata di Mozart in la minore, e secondo me non sbaglia: i motivi per giudicare verosimile un’ipotesi del genere li conosciamo già, ormai… Anche lo sviluppo del primo movimento si può definire molto “mozartiano”; il gioco contrappuntistico è sempre serratissimo ed efficace, e in tutto il primo tempo non c’è un attimo di respiro, tutto scorre con inesorabile ritmo e freschezza. Il secondo movimento, “Allegramente”, è un delizioso intermezzo quartettistico di sapore haydniano, in cui non c’è neanche l’ombra di sussulti o di scosse emotive. Solo, nella coda, sentiamo qualcosa che “non va”: un improvviso intricarsi e sovrapporsi di voci che espongono il tema, come se queste, lasciate per un attimo libere, si incastrassero disordinatamente, prima che la saggia mano del compositore le reindirizzi sulla retta via… Un piccolo inceppo insomma in un meccanismo dagli ingranaggi perfetti. Altro aspetto che di Alkan andrebbe sottolineato, infatti: il fascino (e insieme la dipendenza) per il meccanismo, per lo scorrere del tempo inesorabile, impietoso e regolarissimo. Come regolarissimi erano i ritmi della sua vita e delle sue giornate, sempre uguali e sempre orologio alla mano. In questo ci sembra molto vicino a Ravel, la cui musica, pur sembrandoci la sensualità e la souplesse par excellance trova nel ritmo la sua vera forza e la sua solida base, scandita com’è dal ticchettio incessante dei mille orologi dell’officina del suo Torquemada. Il terzo movimento è invece uno Scherzo-minuetto veramente diabolico, in cui le velocissime scale della destra (quasi degli scintillanti “feu follets”) sono sostenute da un tema alla sinistra che si basa sul secondo tema del primo tempo, la cui melodia diventa qui armonia. Non voglio entrare troppo nel dettaglio, ma tutta la Sonatine si basa su due soli elementi (un intervallo di quinta ascendente – o quarta discendente, e una scala minore di sei suoni), che vengono riutilizzati e reinventati nei quattro movimenti con un procedimento di abilità quasi fiamminga che ha costituito la base della “scienza compositiva” tedesca per secoli. Un piccolo elemento (un intervallo, un frammento di una scala, una brevissima linea melodica di tre o quattro note) usato come base per tutto il resto. E in questo meccanismo Alkan poteva giocare veramente con la libertà concessa a pochi, dando alla luce un’opera concisa e ben costruita che suona con grande freschezza e naturalezza. In questo Terzo Movimento il corale che costituisce il Trio prende invece le mosse dai tre perentori accordi che chiudono la prima parte, quasi una sorta di pacata risposta meditativa alla violenza scatenata dal turbinio sempre più vorticoso che si era scatenato in precedenza. Il Finale della Sonatine, invece, è uno dei pezzi più travolgenti di Alkan. Il ritmo qui è serratissimo, la violenza scatenata è enorme. Tutto nasce da un metallico squillo di ottoni che intona una fanfara marciante, cui seguono diversi episodi che svilupperanno sempre lo stesso elemento, elemento che nella “Coda” finale si deformerà leggermente per assumere le sembianze del tema principale (quando appare rovesciato, in minore) della Ouverture “Leonore” n.3. Davvero non si sarebbe potuto trovare un Finale più efficace e d’effetto per un’opera così serrata e piena di energia. Abbiamo scorso i brani di questo disco in ordine cronologico sparso, cominciando da quelli della maturità, e quindi non avremo problemi a terminare queste note con un’opera giovanile di Alkan, i “Trois Morceux dans le genre Pathetique” Op. 15, pubblicati nel 1838 quando il compositore aveva 25 anni e, possiamo dire, primo importante saggio di un’acquisita maturità e padronanza della sostanza musicale. Che questo lavoro sia davvero particolare ce ne accorgiamo anche gettando un veloce sguardo sulla partitura: non vi compare assolutamente nessun segno. Non un’indicazione agogica o dinamica, non una legatura, una diteggiatura: solo note, nient’altro. Eppure sappiamo che Alkan è stato da sempre molto pignolo e preciso nell’annotare le sue parti e questa non può essere stata una svista o una dimenticanza sua o dell’editore… La chiave per questo piccolo mistero ci viene forse dalla dedicatario dell’opera: Franz Liszt. Evidentemente una messa alla prova, o una dimostrazione del fatto che un artista di genio non ha bisogno di segni per penetrare il significato della musica: le note dicono già tutto. E non potendo oggi fare affidamento che su di una sola registrazione di quest’opera prima di questa (incisa da Marc-Andrè Hamelin) possiamo veramente contare sul fatto che ogni volta da quelle note si sprigioni una certa luce di novità, che scovi di volta in volta nuovi particolari rimasti ancora nell’ombra, che dia un diverso carattere ad un passaggio, un nuovo fraseggio ad una linea melodica – un piano improvviso, uno sforzando che marchi un punto di particolare tensione… Scrivere musica senza altri ghirigori era già normale usanza in altri tempi, quando però una solida prassi esecutiva indirizzava facilmente gli esecutori. La scrittura musicale si è fatta via via più complessa, e ha avuto bisogno di molti segni per essere correttamente compresa così come il compositore l’ha concepita. Ma io sono fra quelli che crede che, una volta assimilato e compreso uno stile musicale (in questo caso quello romantico), non si dovrebbe far meno fatica a interpretare una Sonata in si minore senza alcun intervento in partitura che una Toccata o una Partita di Bach nella loro Urtext. Ma, tralasciando ora la questione, veniamo alla sostanza di quest’opera così importante e particolare che se a quanto pare Liszt non eseguì mai (come mai eseguì nulla di Alkan, per quanto ne sappiamo) ebbe comunque modo di recensire, con toni entusiastici. Schumann invece ne fu profondamente disgustato, come era disgustato da tutta la musica di quel periodo che considerava “degenerata”, poco “tedesca” o scritta soltanto per ottenere un facile consenso di pubblico. In questo caso più che l’ultima motivazione (quest’opera di 30 minuti, per quanto poetica, è abbastanza pesante da digerire in concerto) Schumann si appellò forse più alla prima, se consideriamo la definizione che egli diede all’ultimo brano, Morte: “un’accozzaglia di tutte le cose peggiori che si possano concepire”… A mio avviso ciò che è più importante sottolineare qui è che i tre pezzi in questione costituiscono un ciclo unico e dotato di una precisa direzione, una direzione che è rivelatrice della visione del mondo di Alkan. Il tema è quello dell’Amore e della Morte (che poi troverà una magnifica rielaborazione nello studio Op. 35 n. 10, “Chant d’amour – Chant de mort”), il che vuol dire anche “Vita e Morte”, lo stesso tema trattato nella Sonata. E in entrambi i casi il percorso non porta a redenzione o a sublimazioni… Non c’è via di scampo, la Morte è qualcosa di veramente inesorabile oltre la quale non c’è che il buio e il silenzio. Nella Sonata è emozionante assistere al graduale venir meno di tutte le cose – le energie della giovinezza che pian piano si spengono, in un percorso che non può non coinvolgerci emotivamente e spiritualmente. Qui accade lo stesso: il primo brano, Aime-moi, “Amami”, dovrebbe essere una tenera dichiarazione (o richiesta…) d’amore, ma assume subito i toni di un pessimistico lamento, quasi una rimembranza di cose dolorose. La tonalità è uno scuro la bemolle minore, che non lascia molto spazio alla speranza, se non quando – dopo due sezioni intermedie – ritorna per chiudere il brano trasformandosi in un morbido e delicato la bemolle maggiore, con lo stesso tema che ora sembra quasi trasfigurato in un qualcosa di più vicino ad una raggiunta felicità, ma che – se lo è – ne è solo e ancora un ricordo opaco e molto malinconico. Sentiamo che forse una felicità è in fondo possibile, ma che non va poi raccontata con strepito e con esaltazione, ma quasi a fior di labbra, come un’esperienza intima e talmente piena che è quasi impossibile da comunicare. Eppure c’è sempre il rischio che quella breve felicità che riusciamo a raccogliere venga spazzata via dai venti dell’esistenza, così il secondo brano “Le Vent” ci regala proprio questa spaventosa sensazione. Ma qui non c’è spazio per una descrizione letterale di una “giornata ventosa”, c’è qualcosa di più profondo. Un corale sommesso e triste recita il suo lamento fra i violenti fischi del vento, fino a che tutto si placa per un momento e allora il canto diventa più accorato, in una sezione centrale che è veramente una delle pagine più belle e commoventi di Alkan; ma il vento riprende, più tumultuoso, il canto si perde fra di esso fino a scomparire, fino a che non ne rimane traccia: resta solo la Natura, fredda, cieca, che non conosce pietà per i destini umani. Ed è a questo punto che ha inizio il meraviglioso terzo e ultimo brano della raccolta, dall’esplicativo titolo “Morte”. Rintocchi funebri di sorde campane sembrano quasi trasfigurati, tonfi sordi ascoltati quasi da sottoterra. Ed è lì che sembra che ci troviamo, chiusi vivi in una bara mentre fuori uno sparuto gruppo di monaci intona il Dies Irae. Tutta la prima parte di questo pezzo vive (o meglio, muore…) di queste atmosfere cupe; i rintocchi di campane su quel si bemolle che ad un certo punto sopraggiungono dovettero aver impressionato molto Ravel, che le fece risuonare settant’anni dopo nel suo “Le Gibet”. Ma dopo qualche minuto le cose cambiano, e si scatena l’unico episodio veramente passionale e tumultuoso della raccolta, in cui la disperazione e il dolore trovano pieno sfogo, senza più freni: le acque si agitano, la disperazione è al culmine quando l’ultimo sforzo di liberarsi dal dolore e dai tormenti sfocia in una lunga pausa. Cosa possiamo aspettarci a questo punto, se non la ripresa del tema del Dies Irae, che spegne inesorabilmente ogni speranza? E, come se non bastasse, quando il tema si interrompe lasciando vibrare l’ultimo rintocco di campana… ricompare un tema a noi già noto e già caro, quello del primo brano. Ritorna il ricordo dell’amore perduto, ma la prima frase si interrompe continuamente, in frammenti sempre più interrogativi e strazianti inghiottiti dal silenzio. A questo punto, la seconda reminescenza: il vento, che ora non è davvero altro che un sinistro e profondo gorgoglio basso quasi irriconoscibile, sul quale la mano destra intona il suo ultimo canto, un sigillo di marmo che oscura ogni cosa. Una delle pagine più belle e commoventi che un musicista possa trovare, come lo sono tutti i viaggi che l’arte ci permette di intraprendere all’interno degli archetipi umani, della nostra storia che è storia di vita, amore e morte. E, come avviene con la Grande Sonata, Alkan non ci illude: non c’è un “trionfo” dopo il “lamento” di Tasso di listiana memoria, ma solo disgregazione, il venir meno delle forze, la vecchiaia e la morte, senza che in questo ci sia nulla di eroico o di poetico… Vincenzo Maltempo