LA RIMA
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LA RIMA
L LA AR MA A RIIM La versificazione può sfruttare la ripetizione di segmenti sonori. Quest'ultimo è un tratto comune a tutte le lingue, per il semplice fatto che i suoni di una lingua sono in numero finito. Un esempio da Shakespeare, Sonnets, 2: When forty winters shall besiege thy brow, And dig deep trenches in thy beauty's field, Thy youth's proud livery, so gazed on now, Will be a tattered weed of small worth held. Then being asked where all thy beauty lies, Where all the treasure of thy lusty days, To say within thine own deep-sunken eyes Were an all-eating shame anf thriftless praise. Quando quaranta inverni assedieranno la tua fronte e nel campo della tua bellezza scaveranno trincee profonde, la superba livrea della tua giovinezza, ora così ammirata, sarà un panno cencioso tenuto in poco conto. Se ti si chiedesse allora dove sia la tua bellezza, dove tutto il tesoro dei tuoi ardenti giorni, dire nei tuoi stessi occhi infossati sarebbe una vergogna divorante e una lode non proficua (trad. di Alessandro Serpieri) Si definisce rima l'identità di suono della parte finale di due parole a partire dalla vocale tonica compresa; nel caso più normale la rima mette in relazione due o più versi, mediante l'identità di suono della parte finale degli stessi, a partire dalla vocale dell'ultima sillaba tonica compresa; per es. [2] Nel mezzo del cammin di nostra vITA mi ritrovai per una selva oscURA, ché la diritta via era smarrITA. Ahi quanto a dir qual era è cosa dURA... (Inf., I, 1-4) L'identità può riguardare la fine di un verso e il primo emistichio di un altro (rima al mezzo); per es. in Rvf 366 il primo emistichio dell'ultimo verso di ogni stanza, sempre quinario (endecasillabi a minore) rima col settenario precedente: [3] soccorri a la mia guERRA, bench'io sia tERRA, et tu del ciel regina (12-3) ... volgi al mio dubio stATO, che sconsigliATO a te vèn per consiglio (25-6). Oppure l'identità può individuare essa stessa una divisione nel verso, diversa dalla divisione in emistichi (rima interna); per es. in Poscia ch'Amor di Dante (Rime, 30), nel terzo e nono verso (endecasillabo) di ogni stanza una rima interna individua un trisillabo, che rima con il quinario precedente: [4] non per mio grATO, ché stATO non avea tanto gioioso (2-3) ... contra 'l peccATO, ch'è nATO in noi, di chiamare a ritroso (8-9). Se l'identità non è assoluta, la rima si dice imperfetta; caso particolare l'assonanza, che comporta l'uguaglianza rigorosa delle sole vocali, a partire dalla vocale dell'ultima sillaba tonica compresa. Per es. [5] 1 E Fiorio gli risponde e dIcE: - O re Felice, ti favelli indArnO. Se Biancifior con meco non venIssE, io non anderei da lei così lontAnO (Il cantare di F. e B.). Una annotazione: nella tradizione italiana sono rime perfette anche quelle tra vocali chiuse e aperte: e chiusa e aperta e iè (véde, piède; vérde, pèrde) o chiusa e o aperta (amóre, cuòre; córto, pòrto). Ciò differenzia l'italiano da altre tradizioni poetiche che considerano tali rime imperfette. Per quanto riguarda le consonanti, non rimano le doppie con le scempie (canne non rima con cane, fato con fatto), né le sorde con le sonore (non rimano Europa con roba, lato con cado, baco con ago, schifo con vivo, ecc.). Fa eccezione s sorda e s sonora: cose rima con spose in Purg. XXIX, 58-60. Le due parole in rima possono presentare solo le consonanti uguali (assonanza consonantica), ess: orca: arco, enti: unto, tristo: Egisto, questo: molesto Funzioni della rima Funzione demarcativa: consiste nel fatto che la rima è associata regolarmente al limite dell'unità metrica e ne rinforza la percezione con il suo ritorno; nelle rime al mezzo e interne la rima demarca un segmento più piccolo all'interno del verso, per esempio un trisillabo nel terzo verso di ogni strofe della canzone; tale funzione demarcativa è importante perché il trisillabo non è parte componente dell'endecasillabo, che, come è noto, è diviso dalle cesure in quinari e settenari. Cfr. Dante, Rime, 30: [6] Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato, non per mio grato, ché stato non avea tanto gioioso... Funzione strutturante: consiste nel fatto che la disposizione delle rime è uno degli elementi di maggiore rilievo nella costruzione di strutture strofiche. Le forme metriche si definiscono non solo per la misura dei versi e il modo in cui le varie misure si alternano, ma anche per lo schema delle rime. Tali schemi sono: 1. rima baciata AA BB CC... [7] Nella Torre il silenzio era già alto. Sussurravano i pioppi del Rio Salto (Pascoli) 2. rima alternata ABAB CDCD...; nella forma più semplice si trova nella quartina del sonetto: un esempio moderno: [8] I cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar, quasi in corsa giganti giovinetti mi balzarono incontro e mi guardar (Carducci) La rima alternata continuata per otto versi ABABABAB dà luogo a quella che si chiama ottava siciliana, diversa dall'ottava toscana (o semplicemente ottava) che combina sei versi a rima alterna con un distico a rima baciata: ABABABCC: [9] Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto, che furo al tempo che passaro i Mori d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto, seguendo l'ire e i giovenil furori d'Agramante lor re, che si diè vanto di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano (Orlando furioso, I, 1) 3. rima incatenata è lo schema di rime della terzina dantesca: ABA BCB CDC... 2 Rime tecniche Si possono dire genericamente tecniche le rime nelle quali l'identità dei suoni a partire dall'ultima vocale tonica del verso è arricchita da un'estensione all'indietro del segmento identico (rima ricca), oppure complicata o da forme aggiuntive di relazione tra le parole che rimano (rima derivativa, grammaticale, equivoca) o da alterazioni artificiose della posizione dell'accento e della divisione delle parole (rima composta ed equivoca contraffatta). Una forma generica di tecnicismo in rima è la ricerca di rime difficili perché rare, nel contesto di una generale complicazione dello stile (rima cara o rara). Rima ricca: comporta l'identità non solo della parte finale di due parole o di due versi a partire dall'ultima vocale tonica compresa, ma anche di uno o più suoni precedenti tale vocale. Per es. senTERO: alTERO (Rvf 13, 13-14) seCONDO: gioCONDO (Rvf 94, 5-8). Rima derivativa: quando di due parole che rimano una deriva dall'altra, per es. degna: disdegna. Il rapporto può essere anche apparente, per es. queste membra: ti rimembra (Rvf, 15). Rima facile: di scarso impegno stilistico, la rima di parole di uguale desinenza (rima desinenziale, per es. mentire: dire) o di uguale suffisso (rima suffissale, per es. avverbi in -mente). Asticcio: una parola all'interno del verso è omonima della parola alla fine del stesso verso, es. da Giacomo da Lentini: [10] Lo viso e son diviso da lo viso e per aviso credo ben visare; però diviso viso da lo viso ch'altr'è lo viso che lo divisare. Bisticcio: una o più voci in rima differiscono poco l'una dall'altra per il suono, sono però diverse per significato (simile alla rima equivoca). Rima equivoca: consiste nell'identità fonica delle parole in rima; il caso tipico ed estremo è la rima identica, cioè il caso in cui una parola rima con se stessa. Uso tipico la parola Cristo nella Commedia, che rima solo con se stesso. La rima identica è prevista nella sestina lirica dove le parole in rima compaiono ognuna 7 volte; qui però le parole fonicamente identiche devono differire tra loro perché di senso diverso, perché appartengono a categorie grammaticali diverse, o sono di diverso genere, numero, modo verbale. Un sonetto interamente di rime equivoche è Rvf 18: [11] Quand'io sono tutto vòlto in quella parte [sostantivo] ove 'l bel viso di madonna luce, [verbo: lucere] et m'è rimasa nel pensier la luce [sost.] che m'arde et strugge dentro a parte a parte, [avverbio] i' che temo del cor che mi si parte, [verbo, “mi si spezza”] et veggio presso il fin de la mia luce, [sost.= vita] vommene in guisa d'orbo, senza luce, [sost.= vista] che non sa ove si vada et pur si parte. [si incammina] Così davanti ai colpi de la morte [sost.] fuggo: ma non sì ratto che 'l desio [sost.] meco non venga come venir sòle. [verbo=solere] Tacito vo, ché le parole morte [agg. femm. plur.] farian piangere la gente; et i' desio [verbo] che le lagrime mie si spargan sole [agg. femm. plur.] Rima composta: si ha quando una parola in rima è ottenuta artificiosamente sommando due o più parole distinte, e ponendo questo cumulo sotto l'accento che cade sulla sillaba che caratterizza la misura del verso. Per es. Purg. XXIV, 133: [12] Che andate pensando sì voi sol tre? sol tre forma un'unica parola il cui accento sóltre cade sulla decima sillaba del verso e rima con oltre e poltre. 3 Rima per l'occhio: un caso particolare della rima composta; è una rima nella quale l'identità della parte finale di due versi è grafica, ma non fonetica. Per l'occhio è la rima in cui si richiede lo spostamento dell'accento di parola, per es. [13] lo qual io dissi e mando a lei che mel comandò Tmesi: è un caso opposto rispetto alla rima composta; la tmesi si ottiene dividendo una parola in fine di verso. Il caso più frequente riguarda la divisione degli avverbi in -mente; es. Par. XXIV 1618: [14] così quelle carole differentemente danzando, de la sua ricchezza mi facieno stimar, veloci e lente. E pezze di Levante, che continua mente... (Cassaria, Prologo) Rara nella poesia umanistica e rinascimentale, compare però nell'Ariosto: [15] Né men ti raccomando la mia Fiordi Ma dir non potè ligi, e qui finio. (O.F., XLII, 16) Più raro il caso di spezzatura di parola vera e propria; es. estremo quello di un rimatore del Duecento, Monte Andrea: [16] Coralment'ò me stesso 'n ira, ca pporgo, a tal, mio dire, ca ppoco mi saria morte, s'i' ne cappo! Ché svariato è tutto ciò c'apporta, e ancor tuto ciò c'a'ppodere: vera sentenza non v'accappo! Mi detesto profondamente, giacché rivolgo le mie parole ad un essere siffatto che non esiterei ad affrontare, in cambio, la morte, pur di scamparne. È infatti abnorme così tutto ciò che adduce come la fonte di cui dispone: non riesco a cogliervi niente di sensato. COMPUTO DELLE SILLABE Le sillabe nei versi italiane si contano spesso diversamente dall'uso normale: parola è sempre di 3 sillabe, verso di 2, e fino a qui non ci sono problemi. Questi incominciano quando una parola contiene due vocali consecutive: viaggio ad esempio può essere di 2 o 3 sillabe. dieresi e sineresi Quando un nesso di due vocali viene scandito bisillabico (vi-ag-gio) si ha dieresi; quando questo nesso viene scandito monosillabico (viag-gio) si ha sineresi. A partire dal tardo Settecento è diventato uso sempre più frequente nei poeti segnalare la dieresi con due punti sopra la vocale (‹, ‰, ”, ecc.). Sembra che esitano delle regole precise che permettono la dieresi: essa consiste nel contare due sillabe un nesso di vocali che valeva due sillabe già in latino e che nella pronuncia normale si è ridotto a una. In base a questo principio etimologico nei casi in cui ie, uo italiani derivano da e, o del latino (esempi: piede < pedem, buono < bonum), ie e uo contano solo una sillaba perché sono dittongazioni di una sola vocale latina. La sineresi dunque pronunzia e conta una sola sillaba due o più vocali consecutive che si trovino nella stessa parola e che altrove è possibile contare separatamente: pau-ro-so invece di pa-u-roso, ub-bi-dien-te invece di ub-bi-di-en-te. la sineresi di norma non si attua fra a, e, o e la vocale seguente, quando questa porta accento (es: Ga-le-ot-to fu 'l libro e chi lo scrisse, Dante) e in fine di verso; mentre è di regola la sineresi se le due vocali sono in fine di parola, ma in posizione non tonica (es: di questo im-pe-rio giustissimo e pi-o, Dante). 4 dialefe e sinalefe Negli incontri di vocali tra fine di parola e inizio della parola seguente la soluzione più normale nella poesia italiana è la sinalefe; le due vocali in questione valgono per una sola sillaba; per esempio (indichiamo la sinalefe col segno ^): Ahi quanto^a dir qual era^è cosa dura (Inf. I, 14) qua' sono stati gli^anni^e^i giorni^et l'ore (RVF. 12,11) Et si'^ò^alcun dolce,^è dopo tanti amari (RVF. 57,12) Attenzione alla differenza tra sinalefe ed elisione, nel senso che in assenza di indicazioni contrarie le vocali che si incontrano si intendono tutte da pronunciare, però nel tempo convenzionale di una sillaba; invece l'elisione consiste nella caduta vera e propria di una vocale finale della prima parola (l'uomo è elisione di lo uomo): levan di terra^al ciel nostr'intellecto (RVF. 10,9) nostr'intellecto è elisione per nostro intellecto. Fenomeno per così dire contrario all'elisione è l'aferesi, quando cioè cade la vocale iniziale della parola: d'amorosi pensieri^il cor ne 'ngombra dove 'ngombra è aferetico per ingombra (e comunque l'apostrofo come nell'elisione segnala il fenomeno). Se la vocale finale di parola e l'iniziale della parola successiva valgono per due sillabe distinte, il fenomeno si dice dialefe; per esempio indicando la dialefe col segno /): tant'era pien di sonno>a quel punto (Inf. I,10). Le regole per l'applicazione della dialefe sono molto complicate: comunque i principali casi di dialefe avvengono: 1. dopo una vocale tonica (che porta accento) 2. dopo certi monosillabi (che, ma, se, o), 3. tra vocale atona (senza accento) e tonica. Esempi del primo tipo: è/or commesso il nostro capo Roma (RVF. 53,20) però/al mio parer non li fu^honore (RVF. 3,12) che sì/alto miraron gli^occhi miei (RVF. 13,6) però che dì/et notte indi m'invita (RVF. 47,7), ecc. I VERSI ITALIANI Endecasillabo E' senza paragone il verso più importante della poesia italiana: è endecasillabo qualsiasi verso che abbia come ultima sillaba tonica la 10¦. Nella stragrande maggioranza dei casi gli endecasillabi italiani corrispondono al tipo canonico, nel quale è tonica la 4¦ sillaba (chiamato e. a minore), o in alternativa la 6¦ (chiamato a maiore): 4¦ e 6¦ possono essere entrambe toniche MA NON entrambe atone; almeno una delle due sillabe deve portare accento. Alcuni esempi di e. a minore: in sul mio primo giovenile errore (RVF. 1,3) che cr‹ò questo et quell'altro hemispero (RVF. 12,1) Se la mia vita da l'aspro tormento (RVF. 12,14) alcun soccorso di tardi sospiri (RVF. 12,14) Et se pur s'arma talor a dolersi (RVF. 29,8) Alcuni esempi di e. a maiore: Questa anima gentil che si diparte (3¦-6¦-10¦) anzi tempo chiamata a l'altra vita (3¦-6¦-10¦) (RVF. 31,1-2) [da P. G. BELTRAMI, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1991] 5