italiano - Nuove Scuole

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italiano - Nuove Scuole
Contenuti di italiano - Classe V
MODULI
1_ l’Età del Realismo
MODULI
2_ Il Decadentismo
italiano
MODULI
3_ Le Avanguardie
UNITÀ DIDATTICHE
U.D.
U.D.
U.D.
U.D.
U.D.
U.D.
1
2
3
4
5
6
UNITÀ DIDATTICHE
U.D. 1 Il simbolismo francese (quadro generale)
U.D. 2 Il Decadentismo (quadro di riferimento; il romanzo
decadente)
U.D. 3 Giovanni Pascoli (vita, opere, poetica)
U.D. 4 Gabriele D’Annunzio (vita, poetica, opere)
U.D. 5 Italo Svevo (vita, poetica, opere)
U.D. 6 Luigi Pirandello (vita, opere, poetica)
UNITÀ DIDATTICHE
U.D. 1 Il Crepuscolarismo: quadro generale e autori
principali (Sergio Corazzino, Guido Gozzano, Marino Moretti)
U.D. 2 Il Futurismo: quadro generale e autori principali
(Corrado Covoni, Aldo Palazzeschi, Filippo Tommaso
Marinetti)
U.D. 3 Le Avanguardie e le Riviste (quadro generale)
Giuseppe Antonio Borghese (vita, poetica, opere)
MODULI
4_ Gli scrittori tra le
due guerre
Il Positivismo (quadro generale)
Il Naturalismo (quadro generale)
Il Verismo italiano (quadro generale)
Giovanni Verga (vita, opere e poetica)
Luigi Capuana (vita, opere e poetica)
Federico De Roberto (vita, opere e poetica)
UNITÀ DIDATTICHE
U.D.
U.D.
U.D.
U.D.
U.D.
4
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7
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Ermetismo
Giuseppe Ungaretti (vita, opere e poetica)
Umberto Saba (vita, opere e poetica)
Eugenio Montale (vita, opere, poetica)
Salvatore Quasimodo (vita, opere, poetica)
MODULI
UNITÀ DIDATTICHE
5_ Dal dopoguerra ai
nostri giorni
U.D. 1 Società e cultura del II dopoguerra (quadro generale)
U.D. 2 Elio Vittorini (vita, opere, poetica)
U.D. 3 Cesare Pavese (vita, opere, poetica)
U.D. 4 Alberto Moravia (vita, opere, poetica)
U.D. 5 Vitaliano Brancati (vita, opere, poetica)
U.D. 6 Primo Levi (vita, opere e poetica)
U.D. 7 Giuseppe Tomasi di Lampedusa (vita, opera, poetica)
U.D. 8 Leonardo Sciascia (vita, opere, poetica)
U.D. 9 Le narratrici: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna
Banti, Lalla Romano, Anna Maria Ortese.
U.D. 10 Italo Calvino (vita, opere, poetica)
Modulo 1_ L’età del Realismo
U.D. 2_ Naturalismo
Il quadro storico:
Grazie ad uno straordinario sviluppo della scienza e all'evoluzione della
tecnica, dalla metà del secolo XIX in poi, macchine a vapore, ferrovie,
industrie, elettricità cambiarono la vita dell'uomo. Le condizioni generali di vita
migliorarono; un po' ovunque si diffuse una visione ottimistica dell'avvenire e
nelle classi borghesi crebbe il senso di fiducia nelle possibilità creatrici
dell'uomo. In questo periodo la scienza diviene l'unica guida accettata della
vita; Charles Darwin propone la teoria della selezione naturale, dando un
taglio alla concezione teologica dell'universo e ponendo le basi per una teoria
laica e scientifica dell'origine dell'uomo. Tuttavia non tutto va come
sembrerebbe. In lontananza si intravedono già nubi che si faranno
minacciose. Il problema sociale delle masse operaie è aspro in tutta l'Europa
e dà origine ad una serie di problemi difficili da risolvere: nascono così
scontento, tumulti, disordini; sorgono organizzazioni e partiti operai e
contadini; spuntano nuove dottrine economiche e sociali (anarchismo e
marxismo) che condizionano la mentalità e il comportamento di tutte le classi
sociali e che influenzano la cultura e la letteratura. Movimento letterario nato
in Francia nella seconda metà del XIX secolo, il naturalismo assegnava
all'opera narrativa il compito di attenersi a una descrizione oggettiva e
impersonale della materia rappresentata. In altre parole: mentre lo scrittore
realista intendeva rispecchiare nella sua opera un'immagine fedele della
natura, lo scrittore naturalista sceglie un "caso", una «tranche de vie», e lo
analizza come fa uno scienziato quando lavora in laboratorio. Il termine fu
usato per la prima volta nel 1858 da H. A. Taine in un saggio su Balzac. Il
naturalismo, più che un movimento, è una corrente di opinione, nata in
Francia durante la grande rivoluzione industriale, per l'influenza del pensiero
scientifico e filosofico (positivismo) e delle nuove ideologie politiche e sociali.
I massimi esiti della narrativa naturalista si ebbero, ovviamente, essendo il
paese dove esso cominciò, in Francia. In Germania il naturalismo giunse più
tardi, nel 1885, con la rivista Die Gesellschaft fondata a Monaco da Michael
Georg Conrad, ma già da qualche anno i fratelli Heinrich e J. Hart, a Berlino,
si erano schierati a favore del naturalismo. La formulazione teorica del
naturalismo tedesco venne data più tardi da Arno Holz, che insieme al poeta
J. Schlaf, scrisse la raccolta di novelle Papa Hamlet (1889). In Italia il
naturalismo giunse alla fine degli anni settanta e si diffuse rapidamente con il
nome di Verismo.
In definitiva il Naturalismo fu in tutti i Paesi d'Europa, come fenomeno diffuso
oppure con dei casi isolati, come Gissing e Bennett in Inghilterra, PalacioValdes e la Pardo-Bazan in Spagna, E!a de Queiros in Portogallo. Negli Stati
Uniti il Naturalismo fu introdotto da E. Watson Howe e accompagnò lo
svilupparsi della giovane letteratura americana.
Le caratteristiche del naturalismo:
- Concepisce l'arte come studio scientifico e impersonale della natura.
- E' volto allo studio e alla rappresentazione della realtà umana nei suoi
aspetti più concreti e a volte brutali (bassifondi delle grandi città,
l'esistenza miserabile delle classi operaie).
- Gli autori si sforzano di essere aperti alle realtà, in particolare alla realtà
dell'improvviso sviluppo della borghesia industriale che apre le porte al
problema sociale delle masse operaie.
- La natura è assunta non solo come oggetto della riflessione filosofica
ma anche e soprattutto come punto di riferimento determinante e
assoluto per quanto riguarda la vita e gli interessi dell'uomo.
- Ripudio della metafisica ma anche del realismo perché si limita a
riprodurre un'immagine fedele della natura, affondando in una visione
pessimistica e materialistica del mondo.
- Il linguaggio deve essere realistico quando non addirittura mimetico.
- Fiducia nella scienza e nel progresso.
- I fenomeni psicologici e sociali sono considerati prodotti dall'attività
biologica fisiologica e psicologica dell'individuo e dei rapporti tra gli
individui.
Scriveva Hippolyte Taine che l'individuo è la risultante del concorso di
tre fattori determinanti:
l'ambiente (mileu), il momento storico (moment historique), la razza
d'appartenenza (race).
- Una visione fortemente negativa della realtà sociale attuale (nuova
società industrializzata) è
associata ad un ottimismo fondato sul progresso della scienza.
Le regole:
• Il naturalismo applica alla letteratura il metodo sperimentale che è alla
base del movimento filosofico del positivismo: l'opera narrativa diventa
così un laboratorio per l'osservazione fredda e distaccata della realtà, di
cui lo scrittore, al pari di uno scienziato, deve registrare impassibilmente
i fenomeni: il narratore non interviene nè si manifesta nel racconto
(scompare il suo punto di vista). Si deve limitare ad osservare e a
riportare il punto di vista dei suoi personaggi.
• Questo movimento letterario respinge ogni eccesso della fantasia e del
sentimento; l'obiettivo finale è quello di avere un'opera d'arte oggettiva,
in cui l'autore si limita ad una narrazione impassibile delle varie vicende
della vita quotidiana. Il fattore dominante è quindi rappresentato dal
canone dell'impersonalità dell'opera d'arte.
• Vi è inoltre una riduzione dell'opera d'arte a documento scientifico: il
naturalismo va verso l'identificazione dell'arte con la scienza (la
psicologia umana è trattata in letteratura con la stessa imparzialità e lo
stesso rigore con cui le scienze si applicano alla classificazione dei
fenomeni). Applicando all'arte i metodi e i risultati della scienza, si può
riprodurre la realtà con una perfetta obiettività.
• L'opera dello scrittore deve sottolineare la dipendenza dell'uomo dalle
condizioni ambientali: l'attenzione è puntata non tanto sulla natura
quanto sulla società, intesa come meccanismo di sopraffazione e di
abbrutimento dei singoli. Fondamentale è la tesi che il male e la
malattia siano causa del deterioramento delle strutture sociali.
• Il romanziere naturalista deve «affondare il suo bisturi» nella società
umana indagandone le passioni e i comportamenti e risalendo alla
cause che li determinano (la descrizione di una condizione è quindi
condotta con il rigore dell'analisi clinica).
• Il Naturalismo privilegia il romanzo in quanto solo nel romanzo possono
essere distesamente affrontate le condizioni umane. Il romanzo
sperimentale mette in luce le manifestazioni passionali e intellettuali
dell'individuo e rappresenta l'uomo nell'ambiente sociale che lui stesso
ha creato trasformandolo incessantemente e lasciandosi a sua volta
trasformare.
Il Naturalismo è volto principalmente allo studio e alla rappresentazione della
realtà umana colta nei suoi aspetti più concreti (tutti fenomeni correlati
all'industrializzazione: le metropoli industriali, le plebi cittadine, la condizione
miserabile di alcune classi sociali, ecc.). I protagonisti dei romanzi
appartengono in prevalenza alle classi subalterne, alla piccola borghesia e al
proletariato, per convenzione sempre trascurati dal dominio della letteratura.
Descrivere l'ambiente è per gli scrittori naturalisti una necessità, perchè i
comportamenti dei personaggi sono "determinati" dall'ambiente stesso,
dall'ereditarietà e dalla razza: milieu, moment e race, secondo la
teorizzazione di H. Taine. Le vicende della vita sociale e collettiva, che
costituiscono il tema dominante della narrativa naturalista, sono osservate e
narrate secondo i più rigidi canoni dell'oggettività: lo scrittore rimane
distaccato e impassibile dinanzi alla storia che racconta.
Il naturalismo ebbe i suoi interpreti più autentici e dotati in Balzac,
Maupassant, Flaubert, nei fratelli de Goncourt, in Daudet e in Huysmans; il
suo rappresentante più coerente è certamente Zola. A tali narratori va poi
accostata l'interessante figura del teorico letterario francese Taine.
Positivismo
Gli scrittori veristi italiani, nell’elaborare le loro teorie letterarie e nello scrivere
le loro opere, presero le mosse, con sensibili divergenze, dal Naturalismo,
movimento culturale che si afferma in Francia negli anni settanta. Per capire il
fenomeno italiano occorre dunque esaminare quello francese, il cui retroterra
culturale e filosofico è il Positivismo.
Il Positivismo è quel movimento di pensiero che si diffonde a partire dalla
metà dell’Ottocento, ed è l’espressione ideologica della nuova organizzazione
industriale della società borghese del conseguente sviluppo della ricerca
scientifica e delle applicazioni tecnologiche, che porta al rifiuto di ogni visione
di tipo religioso, metafisico, idealistico e alla convinzione che tutto il reale sia
un gioco di forze materiali, fisiche, chimiche, biologiche, regolate da ferree
leggi meccaniche, spiegabili scientificamente.
Il Positivismo influenzò gran parte del pensiero filosofico, scientifico, storico e
letterario. Esso fonda la conoscenza sui fatti reali e deriva la certezza
esclusivamente dall'osservazione, che propria delle scienze sperimentali.
Le origini del positivismo sono da ricercarsi nell'Illuminismo inglese e
francese: dal primo esso dedurrà le matrici empiristica e utilitaristica, dal
secondo il principio che il progresso di tutta la conoscenza dipende dal
progresso della scienza positiva. Il pensiero positivista trovò un ambiente
favorevole al suo sviluppo a partire dal 1830: progresso delle scienze
naturali, prime applicazioni tecniche delle scoperte scientifiche e loro
riflessioni in campi sociali ed economici.
Il maggiore rappresentante del positivismo fu il francese Auguste Comte,
ma il positivismo si diffuse anche in Inghilterra, soprattutto per merito di John
Stuart Mill, impegnato a sottrarre la scienza morale alle sue consuete
incertezze per stabilire invece per essa un fermo complesso di regole. Il
maggiore esponente in Inghilterra fu Charles Darwin, ma una certa
importanza ebbe anche Herbert Spencer.
In Germania il positivismo si colloca in una posizione più propriamente
definita «materialismo»: deriva dal positivismo franco-inglese e dal forte
progresso compiuto dalle scienze naturali e dalla biologia.
In Italia seguaci del positivismo furono Carlo Cattaneo e Roberto Ardigò, il
quale concepì la filosofia come disciplina dell'organizzazione dei dati
scientifici e operò un'originale riforma delle dottrine evoluzionistiche dello
Spencer.
Le caratteristiche del Positivismo sono:
- Reazione e opposizione agli esiti irrazionalistici del romanticismo e la
ripresa di alcune istanze della riflessione illuministica.
- Fiducia nella ragione, nella scienza e concezione deterministica
dell'agire umano.
- Estensione del metodo sperimentale a campi in passato di pertinenza
della morale o della metafisica.
- Fondazione di nuove discipline, come la sociologia o il rinnovamento
metodologico di varie discipline aventi per oggetto l'uomo, quali
medicina, fisiologia, biologia e psicologia.
- Nozioni quali evoluzione, lotta per la sopravvivenza ed ereditarietà o
presupposti culturali quali il determinismo, il metodo sperimentale e la
dipendenza dei comportamenti umani dalle condizioni ambientali.
- Assunzione della razionalità scientifica a unico paradigma, criterio e
modello del sapere.
- Il sapere scientifico, dicono i positivisti, si basa sui fatti e non su
intuizioni irrazionali e arbitrarie o su idee vaghe e confuse metafisiche.
La nuova scienza non vuole scoprire il "perché" dell'esistenza di un
comportamento, ma più concretamente il "come" e quali ne siano le
leggi di funzionamento.
- Il positivismo considera l'uomo e lo spirito come fenomeni da studiare
con lo stesso distacco e obiettività con cui sono osservati i fenomeni
fisici e chimici. Il tema principale del positivismo è il progresso: la
convinzione cioè che lo sviluppo dell'umanità proceda secondo uno
schema implicante il raggiungimento di gradi di conoscenza scientifica
e di benessere socioeconomico via via più elevati. Di conseguenza, le
estetiche e le poetiche direttamente connesse con esso privilegiarono
gli aspetti sociali del fenomeno artistico e individuarono come
essenziale al poeta e all'artista l'impegno sociale (con inevitabile
riduzione del diritto all'espressione individuale).
- L'uso del termine "positivo" rivela un'ideologia o un programma d'azione
economica, sociale, politica che vede nella scienza e nella tecnica il
fondamento dei suoi ideali e lo strumento per realizzarli (ogni
conoscenza riguardante questioni di fatto è basata, quindi, sui dati
"positivi" dell'esperienza). La sua fede assoluta e quasi mistica nella
scienza lo fa diventare, in certi casi, come la metafisica (infatti
considera la scienza come unica conoscenza valida e efficace).
IL POSITIVISMO SOCIALE DI A. COMTE
- La scienza, cioè la ricerca delle leggi che regolano il mondo fenomenico, è
l'unica forma di conoscenza possibile, e l'unico metodo valido per
l'indagine è quello oggettivo, sperimentale; la metafisica è priva di ogni
fondamento;
- I fenomeni sono in relazione fra loro, legati da un rapporto costante di
causa ed effetto;
- Tra scienza e progresso vi è un rapporto inscindibile, la scienza deve porsi
a fondamento di tutto l'ordine sociale (è di questo periodo la nascita della
sociologia).
- Sul piano ideologico la borghesia trovava in questi principi la conferma
della sua ottimistica aspirazione ad un progresso continuo della società,
da attuarsi pacificamente, senza traumi o scontri di classi. Fu questo
l'aspetto che più incise e più ampiamente fu recepito.
LA DOTTRINA EVOLUZIONISTA DI C. DARWIN:
- Nelle sue opere Darwin sostiene che la specie si evolve positivamente
e indefinitamente nel tempo, a prezzo però di una lotta feroce che gli
individui e i gruppi combattono per la sopravvivenza e che elimina i più
deboli.
- Sul piano ideologico, l'evoluzionismo di Darwin da una parte sembrò
offrire la giustificazione della prevaricazione dei potenti a danno degli
inermi, sia in politica interna sia in politica internazionale (colonialismo e
imperialismo); dall'altra parve confermare le ipotesi socialiste di lotta di
classe.
- Sul piano letterario, molti naturalisti e veristi costruirono sulla base di
questi fattori esterni la psicologia dei loro personaggi, molti traendo dal
darwinismo conclusioni pessimistiche: le leggi della selezione naturale
condizionano spietatamente gli uomini.
Il DETERMINISMO:
- Secondo alcuni esponenti del positivismo la concezione deterministica
vale non solo per i fenomeni naturali e per la vita singola e associata,
ma anche per i fatti stessi della coscienza umana, che perciò vanno
visti in rapporto con fattori biologici, ereditari e ambientali (determinismo
psicologico).
CHE COS’È SCIENZA PER IL POSITIVISMO?
Sono scientifiche le affermazioni che rispettano i criteri seguenti:
1) Osservazione sperimentale dei fatti e raccolta dei dati relativi a un certo
fenomeno.
2) Formulazioni di leggi di spiegazione del fenomeno.
3) Verifica sperimentale di queste leggi.
4) Rifiuto delle ipotesi non verificate.
Tutte le altre affermazioni, per esempio quelle dell'arte, della religione, della
filosofia non positiva, sono legittime, ma non scientifiche, cioè non
appartengono alla vera conoscenza; lo stesso vale per tutti i tentativi di
rispondere a domande "ultime" attraverso ipotesi evidentemente non
verificabili.
Da questa pretesa del positivismo di fornire un criterio per distinguere ciò che
fa parte del sapere da ciò che ne è escluso deriva un'importante
conseguenza: se vi è una conoscenza vera, vi sarà anche un modo giusto,
cioè scientifico, per condurre le azioni dell'uomo. La scienza diventa così la
guida più sicura nella vita pratica, il che spiega lo straordinario successo che
questa dottrina incontrò nella società del suo tempo.
La tesi fondamentale del positivismo sostiene che il metodo scientifico è
unitario e in linea di principio non dipende dall'oggetto che si studia: sarà
quindi possibile costruire delle scienze umani e sociali, rivolte all'analisi dei
comportamenti individuali e collettivi del tutto simili a quelle naturali e dotate
di eguale valore scientifico. In prospettiva, ciò consentirà di spiegare e
prevedere il comportamento dell'uomo e della società così come si fa per un
pianeta o per una cellula.
Anche lo studio dell'uomo, secondo i positivisti, va sottratto all'influenza della
religione e della metafisica, così come era già accaduto per i fenomeni
naturali: in questo modo si potranno realizzare grandi progressi, controllando
e regolando la vita sociale in modo scientifico e razionale.
U.D. 3_ Verismo
IL QUADRO STORICO
L'Italia era appena costituita in unità e i problemi esistenti diventavano più
acuti e pressanti perché il nuovo stato era prima diviso in tanti staterelli
diversissimi tra loro per condizioni politiche, economiche e culturali.
In Italia la questione sociale dei rapporti fra patronato e masse lavoratrici era
complicata:
a. dalle differenze sociali ed economiche fra Nord e Sud (la "questione
meridionale");
b. dalla scarsa partecipazione della plebe rurale al Risorgimento che
aveva sentito come un fatto borghese, estraneo ai suoi interessi;
c. dalla riluttanza delle masse contadine alla nuova struttura politico–
sociale (il "brigantaggio" dell'Italia meridionale);
d. dalle difficoltà di bilancio;
e. dalla tendenza delle classi egemoni e dei gruppi industriali a costituire,
a spese delle masse meridionali e contadine, l'accumulazione del
capitale per fondare l'industria italiana.
Il Verismo è un movimento letterario e artistico italiano che ispirandosi al
Naturalismo francese e al Positivismo teorizza una rigorosa fedeltà alla realtà
effettiva (al «vero») delle situazioni, dei fatti, degli ambienti, dei personaggi e
una corrispondenza con il sentire e il parlare dei soggetti che vengono
rappresentati. Richiamandosi al naturalismo francese delle opere di Emile
Zola, ma anche ad Alessandro Manzoni e alla scapigliatura, il movimento
tende a descrivere la vita della gente umile, dei reietti dalla società che si
affannano nella lotta per la sopravvivenza, contro la fatalità del destino.
Il verismo si sviluppa negli anni successivi all'Unità e prosegue fino al primo
decennio del Novecento, raggiungendo la piena maturità nell'ultimo
trentennio dell'Ottocento. Fu elaborato nell'ambito del vivace ambiente
milanese dove erano assai forti gli influssi della cultura europea, ma si allargò
a tutta l'Italia diffondendosi in alcune regioni più che in altre:
Sicilia (De Roberto; Capuana; Verga)
Campania (Serao; Di Giacomo);
Sardegna (Deledda)
Calabria (Misasi)
Toscana (Fucini; Pratesi; Lorenzini)
Piemonte (Cagna; Giacosa; De Marchi; De Amicis)
Friuli e Veneto (Dall'Ongaro, Caterina Percoto)
La diversa diffusione del verismo dipende dalla posizione delle regioni in
Italia, in quanto la scoperta della realtà dei veristi riguarda le due situazioni
socio-geografiche estreme presenti sul piano nazionale: da un lato Firenze,
capitale provvisoria fino al 1871 e centro politico italiano, dall'altro la Sicilia
arretrata, semifeudale e a un livello ancora rurale. Successivamente a
Firenze, dove sono nate le prime pagine dei tanti romanzi veristi, si affianca
Milano, che è la città più importante dell'economia imprenditoriale nazionale.
E' assai caratteristico che i maggiori veristi siano siciliani (Verga e Capuana)
e, nel contempo, la loro formazione avvenga in ambiente settentrionale,
soprattutto a Milano: nel centro culturale più attivo della penisola vengono a
contatto con le proposte del naturalismo francese e prendono coscienza della
loro autentica vocazione di scrittori.
I caratteri del Verismo:
Accettazione delle leggi scientifiche che regolano la vita associata e i
comportamenti: lo scrittore cerca di scoprire le leggi che regolano la società
umana, muovendo dalle forme sociali più basse verso quelle più alte, come
fa lo scienziato in laboratorio quando cerca di scoprire le leggi fisiche che
stanno dietro ad un fenomeno;
attenzione alla realtà nella dimensione del quotidiano: lo scrittore predilige
una narrazione realistica e scientifica degli ambienti e dei soggetti della
narrazione;
piuttosto che raccontare emozioni, lo scrittore presenta la situazione
quotidiana come una indagine scientifica, ricercando le cause del suo
evolversi, che sono sempre naturali e determinate (determinismo o
darwinismo sociale); anche la vita interiore dell'uomo, spiegabile in termini
psico–fisiologici, può essere oggetto di uno studio scientifico o sociale: ...
l'oggetto sono i "documenti umani", cioè fatti veri, storici; e l'analisi di tali
documenti dev'essere condotta con "scrupolo scientifico" ... (G. Verga)
l'artista deve ispirarsi unicamente al vero cioè desumere la materia della
propria opera da avvenimenti realmente accaduti e preferibilmente
contemporanei,
limitandosi
a
ricostruirli
obiettivamente
ovvero
rispecchiando la realtà in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli sociali;
necessità di una riproduzione obiettiva ed integrale della realtà, secondo
quel canone dell'impersonalità che è l'applicazione in letteratura del
principio scientifico della non interferenza dell'osservatore sugli oggetti
osservati (deriva dal Positivismo);
a causa delle diversità regionali rappresentate dagli scrittori anche il modo
di scrivere cambia nel verismo dando spazio ai dialetti, eliminando tutte le
forme di raffinatezza retorica e accademica e introducendo la mimesi
linguistica.
Le regole della poetica del verismo:
L'artista deve ispirarsi unicamente al vero, cioè deve desumere la materia
della propria opera da avvenimenti realmente accaduti e preferibilmente
contemporanei, limitandosi a ricostruirli obiettivamente rispecchiando la
realtà in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli sociali; è la teoria verghiana
dell'impersonalità: il narratore entra pienamente nei suoi personaggi per
raccontare documenti umani;
Il narratore è colui che raccoglie il fremito delle passioni, delle sofferenze e
lo rivela, impassibile, senza biasimi o esaltazioni, mettendosi in parte per
lasciar parlare l'evidenza dei fatti, la logica delle cose: teoria verghiana
dell'impersonalità;
L'autore deve mettersi nella pelle dei suoi personaggi, vedere le cose con i
loro occhi ed esprimerle con le loro parole. In tal modo la sua mano
«rimarrà
assolutamente
invisibile»
nell'opera.
Il
lettore
avrà
così
l'impressione non di sentire un racconto di fatti, ma di assistere a fatti che
si svolgono sotto i suoi occhi;
Il narratore, nel far parlare i suoi personaggi, usa il loro linguaggio: uno stile
stringato, una sintassi semplice e disadorna, una lingua paesana e viva,
continuamente intercalata da espressioni popolaresche e proverbiali che
mettono
in
luce
l'oggettività
della
narrazione
(senza
intrusioni
autobiografiche);
La lingua e lo stile devono essere aderenti ai personaggi, agli ambienti,
attingendo possibilmente alle risorse dei dialetti regionali. Il linguaggio è
liberato da ogni raffinatezza teorica e accademica.
Al riguardo si parla di mimesi linguistica dell'autore (mimetizzazione =
nascondersi nell'ambiente circostante in modo da risultare non–visibile).
Capuana respinge la subordinazione della letteratura a scopi estrinsechi
quale la dimostrazione "sperimentale" di tesi scientifiche e l'impegno
politico e sociale. La "scientificità" non deve consistere nel trasformare la
narrazione in esperimento per dimostrare le tesi scientifiche, ma nella
tecnica con cui lo scrittore rappresenta, che è simile al metodo
dell'osservazione scientifica. La scientificità insomma si manifesta solo
nella forma artistica, nella maniera con cui l'artista crea le sue figure e
organizza i suoi materiali espressivi.
Secondo Verga, la rappresentazione artistica deve possedere "l'efficacia
dell'esser stato", deve conferire al racconto l'impronta di cosa realmente
avvenuta; per far questo deve riportare "documenti umani". Neppure basta
che ciò che viene raccontato sia reale e documentato, deve anche essere
raccontato in modo da porre il lettore faccia a faccia col fatto nudo e
schietto, in modo che non abbia l'impressione di vederlo attraverso la "lente
dello scrittore". Per questo lo scrittore deve "eclissarsi", cioè non deve
comparire nel narrato con le sue reazioni soggettive e con le sue riflessioni.
Lo scrittore verista:
si occupa di situazioni quotidiane reali, vissute cioè nella scottante realtà
nazionale: le plebi meridionali, il lavoro minorile, l'emigrazione;
cerca il vero attraverso l'analisi delle classi subalterne, però la verità non
porta al progresso ma svela una condanna a morte;
predilige gli ambienti delle plebi rurali perché non ancora contaminate dai
pregiudizi della convenzione sociale;
predilige gli ambienti regionali e gli strati sociali piccolo–borghesi;
gli ambienti sociali sono in maggioranza cittadine di provincia, di
campagna, miniere o ambienti di piccola e media borghesia e di
aristocratici decaduti.
Il verismo italiano ebbe una forte caratterizzazione regionale e, poiché le
realtà regionali italiane erano profondamente diversificate, diversi furono
pure i temi e gli ambienti rappresentati dai veristi.
Al nord, la maggiore articolazione della compagine sociale, con
l'affermarsi, accanto ai ceti elitari, di una media e piccola borghesia
costituita da professionisti e da ceti impiegatizi legati all'apparato
industriale, porta all'ampliamento della "base sociale" della letteratura, cioè
al numero degli autori e dei lettori, parallelamente a nuove a varietà
letterarie, dal romanzo di consumo al romanzo di appendice. La nuova
cultura positivista, i nuovi usi e modelli di comportamento legati alla
rivoluzione tecnologica, spostano l'attenzione su nuovi tipi umani e su
nuovi problemi: protagonista dei romanzi e del teatro, accanto al contadino
e al pescatore, è l'impiegato (De Marchi). Nuovi eroi, come è stato
osservato, sono l'industriale, lo scienziato, il medico e il maestro (De
Amicis). I nuovi temi sono quelli della famiglia, fondamentale cellula della
società e quelli dell'adulterio e della prostituzione.
Al sud, il verismo, non essendovi un proletariato urbano o i bassifondi di
una capitale tentacolare da "studiare", si interessò all'umile vita dei
contadini e dei pastori con le loro passioni elementari. Ad un mondo
«pressoché vergine e ignoto, il mondo del meridione e delle isole, delle
plebi contadine e artigiane, chiuse nella loro opaca renitenza alle forme e
agli statuti della civiltà moderna, affioranti per così dire dal buio di una
civiltà arcaica, stranamente sopravvissuta dietro le barriere di una secolare
solitudine». Questa fu infine la vocazione del verismo italiano, e nel ritrarre
la vita dei contadini e delle plebi il verismo ottenne i suoi migliori risultati.
Non a caso gli scrittori più rappresentativi della corrente, da Verga a
Capuana, da De Roberto alla Deledda, furono meridionali o isolani.
U.D. 4_ Scrittori veristi siciliani
(Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto)
Nasce a Catania il 2 settembre del 1840 in una famiglia di agiate condizioni
economiche e di origine nobiliare. La prima educazione è, sul piano politico,
patriottica risorgimentale e, sul piano letterario, sostanzialmente romantica.
Si iscrive alla facoltà di legge ma non termina gli studi, tutto preso dalle
vicende storico-politiche (dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia). Di questa
educazione testimoniano le prime prove narrative: l'inedito Amore e patria,
ispirato alla rivoluzione americana e scritto a 17 anni, I carbonari della
montagna pubblicato nel 1861 a spese dell'autore, il quale vi impegnò la
somma destinata al proseguimento degli studi di giurisprudenza, che infatti
interruppe. Nello stesso anno si arruola nella guardia nazionale di Catania e
svolse un’intensa attività di giornalista (fu tra i fondatori e i redattori di tre
giornali, il primo dal titolo assai significativo, «Roma degli Italiani», che
ebbero tutti una breve durata). Nel 1863 il periodico fiorentino "Nuova
Europa" pubblica a puntate il romanzo Sulle lagune, Una peccatrice (1866) e
Storia di una capinera (1871).
Dopo la morte del padre, nel 1865 si stabilisce a Firenze dove frequenta
l'ambiente letterario della città, conosce diverse figure intellettuali e con i
romanzi Una peccatrice (1866) e Storia di una capinera (1871)diventa un
autore di successo. Fondamentale, negli anni fiorentini, è l'incontro con LUIGI
CAPUANA con il quale inizia un rapporto d'amicizia e un sodalizio letterario.
Così scriveva ai familiari: «Firenze è davvero il centro della vita politica e
intellettuale d’Italia; qui si vive in un'altra atmosfera.»
Nel 1872 si trasferisce a Milano, città in cui sono vivacissimi gli scambi
letterari: nasce in quegli anni la Scapigliatura; sono attivi, negli stessi anni,
Giuseppe Giacosa e FEDERICO DE ROBERTO.
Tra il 1873 e il 1876 escono i romanzi Eva, Tigre reale, Eros, la raccolta di
novelle Primavera e altri racconti, e, nel 1874, il bozzetto di ambiente siciliano
Nedda in cui, per la prima volta, la tematica mondana viene abbandonata.
Nella seconda metà degli anni Settanta la sua scrittura diventa una scrittura
narrativa come "ricerca di verità".
Nel 1877 Capuana inizia una battaglia letteraria per il Verismo e comincia a
scrivere il romanzo Giacinta che appunto a quella poetica si ispira.
Nel 1878 in una lettera all'amico Salvatore Paola, Verga esprime quella che
sarà la tematica dei Malavoglia: "un lavoro" che sia "una specie di
fantasmagoria della lotta per la vita che si estende dal cenciaiolo al ministro e
all'artista..."
Nel 1881, preceduto dalle novelle di Fantasticheria (1880) e di Vita dei campi
(1878), appare il romanzo I Malavoglia. All’inizio però sarà un insuccesso, in
quanto il pubblico è ancora legato ad altri schemi e generi letterari.
Pur scoraggiato, Verga continua a pubblicare: I ricordi del capitano D'Arce
(1881), Il marito di Elena (1882), le raccolte di novelle: Novelle rusticane
(1883), Per le vie (1883, ispirate all'esistenza squallida della plebe cittadina e
della gente della metropoli lombarda), Drammi intimi (1884).
Intanto inizia la nuova attività di autore per il teatro con alterne vicende di
successi e di fiaschi: Cavalleria rusticana (interpretata da Eleonora Duse)
trionfa a Torino, mentre con l’opera In portineria conquista un insuccesso a
Milano.
Nel 1887 scrive Vagabondaggio (raccolta di novelle che riprende il tema delle
novelle «Per le vie») e l'anno dopo esce a puntate su "Nuova Antologia"
Mastro-don Gesualdo.
Nel 1893 si ritira nella sua Catania dopo aver vinto una causa (contro il
musicista Pietro Mascagni) per i diritti d'autore di Cavalleria rusticana: la cifra,
cospicua, gli permette di ripianare i debiti. Vive in una sorta di isolamento
scontroso, geloso dell'esagerata ammirazione che i suoi concittadini avevano
per il poeta Mario Rapisardi (1884–1912). La sua naturale avversione agli
intrighi che vedeva trionfare nel mondo letterario, e poi alcuni dispiaceri e lutti
familiari, lo allontanarono sempre più dall'esercizio dell'arte.
Nel 1894 si stabilisce definitivamente a Catania, con brevi soggiorni a Milano
e a Roma dove, nel 1895 si incontra, insieme a Capuana, con Zola, maestro
del Naturalismo francese.
Prosegue la produzione per il teatro: La Lupa è rappresentata a Torino nel
1896.
Con l'andare degli anni si fa sempre più vivo in lui l'interesse per le vicende
politiche: fedele alle sue idealità patriottiche e unitarie, si oppone al
movimento separatista dei "Fasci siciliani" e nel 1896 si fa sostenitore della
necessità, per l'Italia, di una rivincita africana e di una più incisiva politica
coloniale. Nel 1911 accoglie con entusiasmo la decisione della campagna
libica e nel 1912 aderisce al partito nazionalista.
Nel 1911 riprende a lavorare alla Duchessa di Leyra, il terzo romanzo del
"CICLO DEI VINTI" ma scrive un solo capitolo, che sarà pubblicato postumo.
Negli anni che precedono la prima guerra mondiale, in un clima letterario che
continua a preferire autori del post–verismo, le opere di Verga perdono
interesse, ma dopo la guerra, in seguito al saggio "Giovanni Verga" di Luigi
Russo (1919), il riconoscimento dei suoi meriti si fa sempre più largo e
unanime e l'arte verghiana comincia ad essere apprezzata in quello che ha di
più originale e di più vivo.
Nel 1920 è solennemente festeggiato a Roma e a Catania in occasione del
suo ottantesimo compleanno: le onoranze hanno il loro coronamento nella
nomina a senatore il 3 ottobre.
Muore a Catania il 27 gennaio 1922, colto da una paralisi cerebrale.
L'attività letteraria di Verga può essere divisa in tre fasi:
_1 la narrativa storico-patriottica degli esordi;
_2 i romanzi mondani;
_3 la produzione verista.
In Sicilia ebbe una formazione letteraria provinciale, come si nota leggendo i
suoi tre romanzi giovanili. In particolare, I carbonari della montagna (1861) è
un romanzo storico (un genere che stava ormai passando di moda) che
Verga dedicò ai suoi modelli di allora, Francesco Domenico Guerrazzi e
Alexandre Dumas.
Fondamentale nel suo cambiamento di interessi fu l'abbandono dell'isola nel
1869, quando Verga partì per Firenze. Introdotto dal poeta Francesco
Dall'Ongaro nella buona società cittadina, si dedicò allo studio della vita
borghese che aveva davanti agli occhi, con un particolare interesse per le
figure femminili e le vicende sentimentali, come si può capire dai titoli dei
romanzi che scrisse in questo secondo periodo "mondano": Una peccatrice
(1866), Eva (1873), Eros (1875). Grande successo riscosse in particolare
Storia di una capinera (1871), il racconto della monacazione forzata della
protagonista che, innamorata del marito della sorella, muore in preda alla
disperazione.
Se il romanzo Il marito di Elena (1882) continuò lungo questa linea di ricerca
espressiva, la produzione successiva a quella fiorentina prese un'altra strada.
Nel 1872, quando si trasferì a Milano, capitale dell'editoria, frequentò gli
scapigliati Arrigo Boigo e Giuseppe Giacosa, grazie anche all'appoggio di
Salvatore Farina, uno scrittore allora molto celebre. Qui fu raggiunto
dall'amico Luigi Capuana, scrittore e critico letterario teorico del verismo.
La svolta letteraria si può datare al 1874, l'anno in cui fu pubblicata una
novella intitolata Nedda,
definita
dall'autore
un "bozzetto siciliano".
L'ambiente non è più urbano ma rurale; la storia non è più ambientata al Nord
ma in Sicilia; i protagonisti sono umili contadini. Anche qui protagonista della
vicenda è una donna, ma la sua situazione è tragica e concreta, non astratta
e sentimentale.
Da quel momento in poi la Sicilia contadina con la sua antica cultura fu al
centro del lavoro dello scrittore catanese, sia nelle novelle, sia nei romanzi.
I due volumi di racconti Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883)
contengono alcuni dei capolavori verghiani, testi divenuti celebri come La
lupa, La roba (storia di Mazzarò, un contadino diventato proprietario terriero,
ma rimasto vecchio e solo, ridotto alle soglie della pazzia), Rosso Malpelo (un
ragazzo destinato a lavorare e a morire in miniera, ricalcando il tragico
destino del padre), Cavalleria rusticana (racconto di un duello mortale
scatenato dalla gelosia).
I romanzi della maturità:
I Malavoglia (1881) racconta la storia di una famiglia di pescatori che vive
e lavora ad Acitrezza, un piccolo paese vicino a Catania. Protagonista del
romanzo è tutto il paese, fatto di personaggi uniti da una stessa cultura ma
divisi da antiche rivalità. Grazie a una scrittura sapiente che riproduce alcune
caratteristiche del dialetto e che riesce ad adattarsi ai diversi punti di vista dei
vari personaggi, il romanzo crea l'illusione che a parlare sia il mondo
raccontato, rinunciando così alla presenza in "prima linea" dell'autore.
Mastro-don Gesualdo (1889), invece, mette in risalto la storia del
protagonista che dà il titolo al romanzo. Di origini modeste, Gesualdo riesce a
vincere il suo destino di miseria e diventa ricco. Il matrimonio con la nobile
Bianca Trao non cancella la sua modesta estrazione sociale: persino la figlia
Isabella si vergogna del padre. Rimasto solo, Gesualdo muore nel palazzo
ducale di Palermo, abbandonato dai suoi e ignorato dalla servitù che si
prende gioco di lui. Anche qui l'ambiente è siciliano (il romanzo è ambientato
a Vizzini) e la lingua rispecchia in modo tecnicamente molto raffinato la realtà
che fa da sfondo al romanzo. Fu un insuccesso inatteso e Verga,
amareggiato, si ritirò a Catania abbandonando la scrittura. Il progettato "CICLO
DEI VINTI",
cioè coloro che nella lotta per l'esistenza sono destinati ad essere
sconfitti, che prevedeva altri tre romanzi ambientati a un livello sociale
progressivamente superiore (La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni e
L'uomo di lusso), restò così incompiuto.
Il successo arrivò a Verga per altre vie.
- Cavalleria rusticana, di cui lo stesso Verga elaborò una versione teatrale
(rappresentata nel 1884 con discreto consenso di pubblico), fu musicata da
Pietro
Mascagni
(1890)
e
fu
un
successo
che
continua
tutt'ora.
- I Malavoglia offrirono lo spunto per il film La terra trema (1948) di Luchino
Visconti, momento importante del cinema neorealista.
- Oggi tutti gli studiosi di letteratura sono unanimi nel riconoscere allo scrittore
siciliano grandissima statura narrativa.
Lo stile di Verga:
Per riprodurre la società nel modo più "vero", Verga la osserva
scrupolosamente, studiando l'ambiente fisico ed il dialetto, documentandosi
sui mestieri e sulle tradizioni; inoltre usa uno stile impersonale in modo che il
lettore si trovi - come dice lui stesso - «faccia a faccia col fatto nudo e
schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro attraverso la lente dello
scrittore». Così sembra che i personaggi e le vicende si presentino da sé e
chi legge ha l'impressione di essere messo a diretto confronto con la realtà di
cui si parla.
Per ottenere l'impersonalità Verga adotta il punto di vista della gente, di chi fa
parte dell'ambiente che sta descrivendo, evita cioè di esprimere il suo
personale giudizio e i suoi sentimenti. E per rendere ancora più vera e
impersonale la rappresentazione, lo scrittore costruisce una lingua nuova: è
la lingua nazionale (non usa il dialetto siciliano perchè vuole che le sue opere
siano lette in tutta l'Italia) arricchita di termini di origine dialettale, di modi di
dire e proverbi, di una sintassi modellata sul ritmo della lingua parlata dal
popolo.
I MALAVOGLIA
E' il primo romanzo del "CICLO DEI VINTI" rimasto incompiuto, in cui lo scrittore
manifesta la sua visione amara della vita. Il romanzo narra le disavventure di
una famiglia umile di pescatori di Acitrezza (Catania) che cerca di migliorare
le sue condizioni economiche. «I Malavoglia» raccontano la storia amara di
una sconfitta nella quale si esprime il pessimismo radicale di Verga. Non c’è
speranza di cambiamento per gli oppressi, soggetti ad una legge di natura,
quella della vittoria del più forte e della selezione naturale, che essi non
possono controllare. E questa condizione degli umili diventa emblematica di
quella dell’intera umanità. L’unico valore positivo che si afferma nel mondo
verghiano è quello della dignità umile ed eroica con cui l’uomo sopporta il
proprio destino, rinunciando a inutili ribellioni.
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente
devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini
pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola,
vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell'ignoto,
l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il centro di tutto è una barca da pesca: la tartana dei Malavoglia chiamata
"Provvidenza". La "Provvidenza" è la barca più vecchia del villaggio, ma
aveva il nome di buon augurio. Era anche essa una persona nella famiglia
esemplare dei Malavoglia, la più onesta e compatta del paese. Intorno al gran
tronco, il nonno Padron 'Ntoni, testa della casa, si stringono altre sette
persone appartenenti a tre generazioni. Padron 'Ntoni e la Provvidenza sono i
due poli di quel mondo domestico. Quando il maggiore dei nipoti, 'Ntoni, è
tolto al lavoro per la leva di mare, il nonno tenta un affare, compra a credito
una grossa partita di lupini, li carica sulla barca e li affida al figlio Bastianazzo
perché li vada a vendere a Riposto. La barca di notte naufraga, Bastianazzo
annega, i lupini sono perduti. La "Provvidenza" è gettata inutile sulla spiaggia.
A Padron 'Ntoni rimane il debito dei lupini.
Dopo quella triplice sciagura, tutto sembra accanirsi contro i ToscanoMalavoglia: Luca, il secondo dei nipoti, muore nella battaglia di Lissa;
Maruzza, la nuora, muore nel colera del '67. Il debito dei lupini si mangia la
casa, la cara «casa del nespolo» che era l'orgoglio, la ragione di vita del
vecchio; e già il debito aveva impedito le nozze della nipote, la Mena,
creatura di silenzio e sacrificio. Non è finita: un nuovo naufragio della
"Provvidenza" rattoppata lascia Padron 'Ntoni inabile al lavoro. Il primogenito
'Ntoni, che da quando ha fatto servizio militare in continente non si rassegna
alla miseria dei pescatori, si dà al contrabbando e finisce in galera dopo aver
ferito un doganiere. Lia, la sorella minore, abbandona il paese e non torna
più. Mena dovrà rinunciare a sposarsi con compare Alfio e rimarrà in casa ad
accudire i figli di Alessi, il minore dei fratelli, che continuando a fare il
pescatore, ricostruirà la famiglia e potrà ricomprare la «casa del nespolo» che
era stata venduta. Quando 'Ntoni, uscito di prigione, torna al paese, si rende
conto di non poter restare perché si sente indegno del focolare domestico di
cui ha profanato le leggi e la sacralità.
Gli Elementi e i Temi:
- La presenza di un folla di personaggi tra i quali non emerge un protagonista
singolo, a sottolineare un tipo di organizzazione sociale semplice ancora
basato sulla famiglia patriarcale;
- Il desiderio di star meglio che spinge padron 'Ntoni a tentare l’affare dei
lupini e il giovane 'Ntoni a cercare fortuna lontano: tentativi entrambi falliti di
uscire dalla condizione assegnata dal destino;
- La brutalità della lotta per la sopravvivenza, dominata da un’ineluttabile
legge economica;
- La religione della famiglia, l’attaccamento al focolare e agli affetti, unica
difesa possibile contro l’avidità del mondo, a patto che si accontenti di quello
che si ha;
- L’impossibilità di staccarsi dal proprio ambiente e dalla propria condizione,
pena la rovina.
MASTRO-DON GESUALDO
E’ il secondo romanzo del "Ciclo dei Vinti", che doveva comporsi di cinque
romanzi; in realtà l’autore si limitò ai primi due pensando di aver già
dimostrato in essi la tesi che si era proposto: l’uomo, qualunque sia la sua
posizione nella vita, è un vinto della vita stessa e deve sottomettersi al
destino.
Ne è un esempio Mastro-don Gesualdo, un manovale che è diventato ricco e
rispettato a forza di duro lavoro e di sacrifici. Si innalza anche socialmente,
sposando la nobile Bianca Trao che lo sposa per riparare ad uno sbaglio, ma
non lo ama. Nasce Isabella che non è figlia di Gesualdo, ma egli considera la
bimba come sua e la fa educare nei collegi più aristocratici.
Morta Bianca, che a poco a poco si era affezionata al marito, Isabella si
mostra ostile al padre sebbene egli sia disposto a soddisfare tutti i suoi
capricci, anche quello di sposare un duca squattrinato che dissipa il
patrimonio di Gesualdo, accumulato in tutta la vita. Quando Gesualdo si
ammala, Isabella lo relega in una stanzetta del suo palazzo dove muore solo,
sognando la sua casa e i suoi poderi, e rimpiangendo quella roba destinata a
persone che non lo amano, come suo genero, il duca Leyra.
Le Novelle Rusticane: è una raccolta di novelle che descrivono con
precisione la gente e gli ambienti siciliani.
Vita dei Campi (1880): è una raccolta di novelle, in cui, con stile asciutto e
colorito, Verga ritrae la vita rude della sua gente di Sicilia. Nei nove racconti,
tra cui La lupa, Cavalleria rusticana, Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso
Malpelo, L’amante di Gramigna, il principio dell’impersonalità trova la sua
prima espressione compiuta attraverso la rappresentazione obiettiva, anche
se umanamente partecipe, dei meccanismi che regolano la vita, delle lotte
feroci che essa impone.
Tuttavia emerge ancora dalla raccolta la sacralità di certi principi elementari
del mondo contadino della sua terra che Verga vede inviolati: principi che si
manifestano in modo ancora mitico, attraverso una sorta di arcaica liturgia. La
Lupa, nella novella omonima, sa che il genero, col quale ha stretto un legame
incestuoso, la ucciderà, ma quando vede lontano la falce dell’uomo brillare al
sole, va consapevole incontro alla morte, che accetta come necessaria
conseguenza della sua aberrante passione. Anche in Cavalleria rusticana la
legge dell’onore si mescola a quella del sangue, secondo un rituale
antichissimo, residuo di una civiltà primitiva, agli albori della storia.
Talvolta la lotta per l’esistenza si configura come conflitto tra l’individuo,
originalmente buono, e la società corrotta e corruttrice, perché intessuta di un
gioco di egoismi che tendono a soverchiarsi. Ma il "primitivo" verghiano, pur
ribellandosi ai comportamenti di questa società, è un vinto in partenza: Jeli il
pastore si ribella al "signorino", che gli ha rubato la moglie e l’onore, e lo
uccide, ma andrà in galera; Rosso Malpelo riesce in apparenza ad adeguarsi
alle leggi della giungla (e si chiede perché la madre di Ranocchio morendo si
disperi "come se il figlio fosse di quelli che guadagnano dieci lire la
settimana"), ma alla fine si rassegna alla sconfitta, e sparisce nella cava
durante un’esplorazione.
LUIGI CAPUANA
Nato a Mineo in provincia di Catania nel 1839, da una famiglia di proprietari
terrieri, trascorse buona parte della giovinezza impegnandosi nell'attività
politica in favore di Garibaldi e dell'unità d'Italia prima e come ispettore
scolastico dopo il 1871.
Tra il 1864 e il 1868 visse a Firenze svolgendo attività di critico teatrale per il
giornale fiorentino "La Nazione". Lavorò come giornalista anche a Milano
(1877-1882) presso il "Corriere della Sera" e a Roma (1882-1884) dove
diresse "Il Fanfulla della domenica". Sulla sua formazione letteraria influì sia il
soggiorno fiorentino, dove entrò in contatto con letterati famosi (Prati, Aleardi,
Fusinato, Capponi) e conobbe Verga, sia il soggiorno milanese durante il
quale, insieme a Verga, frequentò l'ambiente degli scapigliati. A Roma
conobbe un altro grande conterraneo, Luigi Pirandello, il quale, dopo aver
iniziata l'attività letteraria come poeta, scoprì la sua autentica vena di
narratore proprio per i suggerimenti di Capuana.
Rimase a Roma come professore di letteratura italiana all'Istituto Superiore di
Magistero sino al 1884, quindi passò ad insegnare estetica e stilistica
all'Università di Catania, città nella quale si stabilì definitivamente. Rientrato a
Mineo si dedicò agli studi teorici sulla letteratura, oltre che alle opere
filosofiche di Hegel e ai testi del Positivismo. Morì a Catania nel 1915.
Capuana fu il teorico e il divulgatore del verismo; a lui si deve il primo
romanzo verista Giacinta (1879). Scritto dopo la lettura di Madame Bovary di
Flaubert ispirandosi a un caso di vita vera, il racconto, che è dominato dal
canone verista dell'impersonalità, presenta l'analisi minuziosa e quasi clinica
della vita dei singoli personaggi. Ma il suo capolavoro è Il Marchese di
Roccaverdina (1901). Pregevoli sono anche dei racconti per l'infanzia e molto
importanti gli studi critici che fanno di Capuana il miglior critico letterario
dell'Italia del suo tempo.
Fondatore del verismo insieme a Giovanni Verga, Capuana fu superiore a
Verga come teorico ma inferiore come scrittore. Infatti, mentre Verga è
riuscito a dare una rappresentazione storicamente precisa ma soprattutto
intimamente umana degli umili, visti come portatori di una civiltà degnissima
di rispetto, Capuana è rimasto legato per certi versi agli aspetti scientifici del
naturalismo francese. Ne deriva un gusto (evidente in Giacinta) per il caso
patologico e per la precisa ricostruzione storica e ambientale. Anche nel
Marchese di Roccaverdina l'aspetto patologico (la pazzia) e la minuta
descrizione dell'ambiente sono strettamente collegati all'analisi psicologica
del personaggio principale.
La sua prima opera letteraria fu essenzialmente poetica: un dramma in versi,
Garibaldi (1861), e Vanitas vanitatum (1863). Alla poesia ritornò vent'anni
dopo con Parodie (1884), parodie dei pometti di Mario Rapisardi, e con
Semiritmi (1888), il cui titolo evidenzia una ricerca metrica originale di verso
libero.
Con Profili di donne, in cui ancora è evidente la matrice romanticosentimentale, con il romanzo Giacinta e con le novelle Le appassionate
scopre le possibilità espressive del verismo e scrive numerosi saggi per
mezzo dei quali si fa promontore della nuova corrente letteraria, sostenendo il
"metodo sperimentale", la necessità cioè di una rappresentazione obiettiva e
distaccata del mondo e dell'uomo.
Dei romanzi, oltre ai più noti Giacinta (1879) e Il Marchese di Roccaverdina
(1901), sono apprezzati La sfinge (1897), Profumo (1891), Rassegnazione
(1906).
Delicate sono alcune novelle della raccolta Le paesane e assai piacevoli le
fiabe per i bambini di C'era una volta... Fiabe (1882), Il regno delle fate
(1883), Raccontafiabe, seguito al C'era una volta (1894), Chi vuol fiabe, chi
vuol? (1908).
Tra gli scritti teorici: Studi sulla letteratura contemporanea (1880,1882), Per
l'arte (1885), Gli "ismi" contemporanei (1898), Cronache letterarie (1899). Si
interessò al teatro non solo come critico sulle pagine dei giornali e come
autore de Il teatro italiano contemporaneo (1872), ma anche come autore di
adattamenti teatrali e di commedie in dialetto.
LA PRODUZIONE NARRATIVA:
GIACINTA (1879). Giacinta, figlia di un padre inetto e di una madre intrigante,
avida di denaro e di godimento, è violentata, ancora bambina, da un
giovanetto, servo di casa. Solo più tardi, da fanciulla, attraverso le
chiacchiere delle domestiche, ella conosce la sciagura, della quale aveva
perduto perfino la memoria.
La rivelazione provoca in lei una disperata aberrazione: ella non vorrà mai
sposare l'uomo che ama, Andrea, e sarà invece la sua devota e
appassionata amante fin dal giorno delle sue nozze con un vecchio conte
Giulio, il quale accetta di vivere fraternamente con la moglie, senza
inquietarsi della continua presenza, in casa, di Andrea. Giacinta ostenta quasi
la sua passione per Andrea, che dopo la nascita di una bambina le sembra
consacrata per sempre.
Quando la madre di lei, preoccupata della sua condotta, riesce, per salvare le
apparenze, a far traslocare Andrea, Giacinta obbliga l'amante a dare le
dimissioni dall'impiego e ad accettare, per vivere, il danaro che ella gli offre.
Da quel momento Andrea, in cui l'amore cominciava ad affievolirsi, sente
nella nuova situazione falsa ed avvilente aumentare l'insofferenza del suo
legame con Giacinta senza però trovare la forza di rompere. La bambina
intanto si ammala di difterite e muore; l'indifferenza di Andrea di fronte alla
sventura, fa comprendere a Giacinta come sia irreparabilmente finito
quell'amore a cui si era abbandonata con una foga testarda; e poiché la vita
ormai, per lei, non ha più senso, si uccide.
Alcuni critici hanno sostenuto che manca a questo romanzo la dignità di stile
e la forza rappresentativa necessarie a salvare la narrazione dalle strette del
caso patologico e dello scandalo. Preoccupato soltanto di serbar fede al
canone naturalista, l'autore non si sarebbe accorto che fra tanti particolari di
vita reale, minuzie quasi cliniche, i suoi personaggi rimanevano anonimi,
vaghi, privi della necessaria vita fantastica.
IL MARCHESE DI ROCCAVERDINA (1901). Il marchese di Roccaverdina
vive nelle sue terre di Sicilia, con la prepotenza, la cocciutaggine, gli arbitri
dei suoi bisavoli che furono soprannominati i Maluomini. Nel palazzotto dove
abita solo con la vecchia balia, mamma Grazia, egli è cresciuto per dieci anni
con Agrippina Solmo, una contadina che gli dedicò gioventù, bellezza,
purezza, con animo di innamorata e di schiava. Per non correre il rischio di
disonorare il nobile casato sposandola, il marchese la dà in moglie a un suo
devoto fattore, Rocco Criscione, esigendo però che entrambi giurino davanti
al crocifisso di vivere come fratello e sorella.
Quando però, qualche tempo dopo le nozze, gli nasce il dubbio che Rocco e
Agrippina abbiano violato il giuramento, il marchese si apposta di notte dietro
una siepe e mentre Rocco Criscione passa sulla mula lo uccide con una
fucilata; del delitto viene accusato Neli Casaccio, che già aveva minacciato
Rocco perchè apparentemente gli insidiava la moglie.
Il romanzo inizia a questo punto, essendo la storia della lotta segreta e feroce
fra il marchese e il suo rimorso. L'antefatto è vivo e presente il tutta la
vicenda, riflesso come in uno specchio stregato nella coscienza del marchese
che cerca di liberarsene prima nella confessione, e, quando l'assoluzione gli
è rifiutata, con lo strappare da sè ogni fede religiosa.
Dopo il delitto, l'amore per Agrippina, che gli è rimasto nel sangue, ha
qualche volta sapore di odio, è un tormento in più: per vincerlo, il marchese
decide di sposare Zosima Mugnos che ha amato nell'adolescenza e che ora,
a trentadue anni, vive con la madre e la sorella nella miseria in cui le ha
ridotte la prodigalità del padre. Poi, mentre Agrippina Solmo passa a seconde
nozze con un pastore dei monti, il marchese si dà a una vita piena di attività
in contrasto con l'isolamento caro alla sua indole. Ma il ricordo del suo delitto
ritorna a lui di continuo, nell'immagine di un Crocifisso abbandonato in casa,
nei racconti dei contadini che vedono riapparire Rocco sul luogo
dell'assassinio.
Lo scenario di questa lotta è un paese arso e immiserito da sedici mesi di
siccità che screpola la terra, decima uomini e bestie. L'angoscia si fa da una
pagina all'altra più spietata e incalzante, si confonde all'attesa della pioggia
che i fedeli invocano in processione, flagellandosi. Finalmente le nubi salgono
sul cielo di Ràbbato e la pioggia scroscia, la terra verdeggia e fiorisce,
Zosima diviene marchesa di Roccaverdina, l'innocente Neli Casaccio muore
in carcere, muore anche don Silvio La Ciura, il santo prete che in
confessionale ha conosciuto il delitto del marchese.
Solo il marchese, sebbene libero da ogni timore e da ogni testimone, non può
sottrarsi al suo giudice segreto che lo assedia e lo spinge alla pazzia.
Zosima, che dalla follia del marito apprende il suo delitto, lo abbandona. A
soccorrerlo, pietosa della sua miseria umana, accorre vicino a lui, tutta amore
e dolore, Agrippina Solmo, che gli sta al fianco finché alla pazzia furiosa
succede il presentimento della morte.
Federico De Roberto
Nacque a Napoli nel 1861 e vi rimase fino ai nove anni quando la famiglia si
trasferì a Catania, dove visse per il resto della sua vita, pur soggiornando per
alcuni periodi a Firenze, a Milano e a Roma. A vent'anni abbandonò gli studi
universitari di matematica e fisica per dedicarsi esclusivamente all'attività
letteraria e giornalistica. Collaborò attivamente a molti quotidiani con
recensioni e articoli. Vicino al verismo, considerò come maestri Verga e
Capuana, con il quale strinse un fitto scambio epistolare.
Nel 1887 esordì con le poesie di Encelado, ma i racconti di La sorte e i
successivi tre volumi di novelle (Documenti umani, 1888; Processi verbali e
L'albero della scienza, 1890) attestano come la ricerca di De Roberto si fosse
indirizzata subito verso la narrativa: di lì a poco, infatti, nel 1889, pubblicò il
suo primo romanzo, Ermanno Reali.
Trasferitosi a Milano, fu introdotto da Verga negli ambienti letterari: conobbe
scrittori scapigliati (Arrigo Boito), giornalisti, musicisti e uomini di teatro, tra i
quali Giovanni Camerana, Giuseppe Giacosa, Gerolamo Rovetta, Luigi
Albertini. Il romanzo L'illusione apparve a Milano nel 1891. Il suo capolavoro,
I vicerè, considerato uno dei maggiori romanzi dell'Ottocento italiano, è del
1894, mentre il successivo Imperio rimase incompiuto.
In quel periodo, con Spasimo, pubblicato in volume nel 1897, iniziarono a
comparire alcuni suoi romanzi d'appendice sul Corriere della Sera. Nel 1911
vennero raccolti e stampati i racconti di La messa di nozze, mentre alle
collaborazioni al Corriere si sostituirono quelle al Giornale d'Italia. Si recò di
frequente a Roma, anche per studiare la vita parlamentare in vista di una
ripresa e rielaborazione dell'Imperio, mentre l'ultima e appartata fase della
sua vita si svolse a Catania. Fra le altre opere meritano di essere ricordate il
testo teatrale Il rosario (1913), la monografia critica Leopardi (1898), il volume
di estetica L'arte (1901). De Roberto morì nel 1927.
Il suo capolavoro sta nel grande progetto di un ciclo narrativo dedicato alla
famiglia nobile degli Uzeda, grande affresco della Sicilia alla fine del dominio
borbonico e nei primi decenni dell'unità, costruito secondo il modello zoliano
della saga familiare.
I VICERÉ : considerato il suo capolavoro, è una vasta narrazione storica di
tre generazioni della famiglia siciliana Uzeda di Francalanza, dai primi moti
rivoluzionari siciliani agli ultimi decenni del secolo. Le vicende si svolgono a
Catania dove la famiglia Uzeda si è trapiantata da alcuni secoli.
Alla morte della principessa Teresa, più temuta che amata anche dai figli, il
principe Gaspare, divenuto padrone della cospicua sostanza, egoista e
chiuso a ogni impulso generoso, mette in giro la voce che i beni lasciati dalla
madre sono gravati da forti debiti per cui occorrono sacrifici da parte di tutti.
Da qui lotte, liti, miserie, che si intrecciano alla quotidiana vicenda dei vari
rami dei Francalanza.
Di fronte al principe Gaspare che sposa prima Isabella Grazzeri per volontà
della madre, e poi la cugina Graziella, e viene educando i due figliuoli
Consalco e Teresa senza affetto e senza idealità, sta il fratello Raimondo
che, anch'egli infedele alla prima moglie, sposa un'avvenente palermitana.
Ma la nuova unione, pur saldata dalla nascita di altri figli, non fa cambiare
tenore di vita a Raimondo il quale, instabile nei suoi sentimenti, non
abbandona la sua vita di libertino.
I fratelli Uzeda vivono nella cornice che a essi fanno gli zii, primo fra tutti don
Blasco, pettegolo, sensuale e corrotto, fiero avversario delle idee liberali, ma
pronto a sfruttarle dopo la rivoluzione del 1860, acquistando terre e feudi
degli ordini religiosi. Vicina spiritualmente a lui, e pur tanto odiata, è donna
Ferdinanda, avara, ignorante, tutta chiusa nel suo feroce odio per le idee
nuove.
Ma il più abile e più autorevole degli zii è il duca Raimondo il quale, per avere
timidamente amoreggiato coi liberali, dopo la rivoluzione siciliana, riesce ad
acquistare sempre più vasta popolarità e finalmente a farsi eleggere primo
deputato di Catania al Parlamento di Torino. Alla sua scuola si viene
educando l'ultimo rampollo degli Uzeda, Consalvo, il quale, dopo avere rotto
col padre, sempre più violento contro il figlio per la sua vita disordinata, va a
vivere lontano dal resto della famiglia, tutto preso dal sogno ambizioso di
ereditare il posto del vecchio zio Raimondo. Accanto a lui sta la mite sorella
Teresa che cerca invano di conciliare il padre e il fratello e finisce col fare un
matrimonio senza amore.
La vita familiare degli Uzeda si chiude in un destino di sciagure e di lutti.
Consalvo, rotto a ogni arte di dominio, riuscito con raggiri e corruzioni a
essere eletto deputato, non è soddisfatto né della vittoria né della nuova
posizione. Egli stesso definisce il suo destino, che è quello degli Uzeda: di
comandare, prima col denaro, la violenza e l'ignoranza, ora col tradimento e
la finzione. Nulla è innovato nella secolare famiglia.
n.b. per ogni autore c’è una piccola scelta antologica (vedi allegati al
modulo_1 U.D. 4 seguente)
Allegati al Modulo 1_ L’età del Realismo
U.D. 4_ Scrittori veristi siciliani
(3 novelle di Giovanni Verga: L’amante di Gramigna con prefazione a
Salvatore Farina; La Lupa; La Roba)
(1 novella di Capuana: Delfina tratto da Profili di Donna)
(1 novella di Federico De Roberto: I Vecchi tratta da Processi Verbali)
L’amante di Gramigna
A Salvatore Farina.
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso
almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico — un documento
umano, come dicono oggi — interessante forse per te, e per tutti coloro che
studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei
viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche
della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia
col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso
la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà
sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle
sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le
passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino
sotteraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà
per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico
che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di
seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il
punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, — e un giorno forse
basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi,
con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri
l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei
fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma
non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di
cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte
dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni,
che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La
scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà
talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che
nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così
completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo
svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta,
la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di
essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente
invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà
essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto
naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna
macchia del peccato d’origine.
Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante,
certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il
quale da un capo all’altro della provincia s’era lasciato dietro il terrore della
sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi,
senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per
dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava
il tempo della messe, tutta la raccolta dell’annata in man di Dio, ché i
proprietarii non s’arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché
le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della
questura, dei carabinieri, dei compagni d’armi, e subito in moto pattuglie,
squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo
cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di
notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o
rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po’ troppo sulle calcagna.
Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei
luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia
accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi
morti; i compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le
pattuglie dormivano all’impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non
dormiva mai, combatteva sempre, s’arrampicava sui precipizi, strisciava fra le
messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel
letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all’intorno, correva la leggenda
delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui
solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa,
arsa, sotto il sole di giugno.
Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo
compare Finu «candela di sego» che aveva terre al sole e una mula baia in
stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo
stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni.
La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla
figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della
sposa, «tutto di roba bianca a quattro» come quella di una regina, e orecchini
che le arrivavano alle spalle, e anelli d’oro per le dieci dita delle mani: dell’oro
ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi
giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno.
«Candela di sego» nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula
all’uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se
Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe
bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill’anni di
condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno
gli disse:
— La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi —.
Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, «Candela di sego» era
rimasto a bocca aperta.
Che è, che non è, Peppa s’era scaldata la testa per Gramigna, senza
conoscerlo neppure. Quello sì, ch’era un uomo! — Che ne sai? — Dove l’hai
visto? — Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia
dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi
al vento, e pareva una strega. — Ah! quel demonio è venuto sin qui a
stregarmi la mia figliuola! —
Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula
baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza
piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna
veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto
nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle
anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a
toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne
aveva preso possesso.
Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel
cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla
mattina si levava colle labbra arse, assetata anch’essa, come lui.
Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di
Gramigna, e tappò tutte le fessure dell’uscio con immagini di santi.
Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini
benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto
l’inferno nella faccia.
Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di
Palagonia.
— Ha fatto due ore di fuoco! — dicevano; — c’è un carabiniere morto, e più di
tre compagni d’armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate
che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato —.
Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì
dalla finestra.
Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia — non avevano potuto
scovarlo in quel forteto da conigli — lacero, insanguinato, pallido per due
giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata.
Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore
dell’alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.
— Che vuoi? — le chiese. — Che vieni a far qui?
Ella non rispose, guardandolo fisso.
— Vattene! — diss’egli, — vattene, finché t’aiuta Cristo!
— Adesso non posso più tornare a casa, — rispose lei; — la strada è tutta
piena di soldati.
— Cosa m’importa? Vattene! —
E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna,
sbalordito, le andò coi pugni addosso:
— Dunque? ... Sei pazza? ... O sei qualche spia?
— No, — diss’ella, — no!
— Bene, va a prendermi un fiasco d’acqua, laggiù nel torrente, quand’è così
—.
Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a
sghignazzare, e disse fra sé:
— Queste erano per me —.
Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e
insanguinata. Egli le si buttò addosso, assetato, e poich’ebbe bevuto da
mancargli il fiato, le disse infine:
— Vuoi venire con me?
— Sì, — accennò ella col capo avidamente, — sì —.
E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli
un fiasco d’acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani
vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la
batteva.
Una notte c’era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura.
Gramigna balzò in piedi a un tratto, e le disse:
— Tu resta qui, o t’ammazzo com’è vero Dio! —
Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i
fichidindia. Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.
— Ferma! ferma! —
E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide
tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la
carabina.
— È finita! — disse lui. — Ora mi prendono —; e aveva la schiuma alla
bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo.
Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d’armi gli
furono addosso tutti in una volta.
Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto
lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua
amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell’oro
quanto Santa Margherita!
La povera madre di Peppa dovette vendere «tutta la roba bianca» del corredo,
e gli orecchini d’oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di
sua figlia , e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col
figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava
rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché
la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.
Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli,
senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto
ch’era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro,
guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle
calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.
Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l’avevano condotto via, di
là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase
dov’era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri,
come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso.
Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei
fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione
bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e
lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano «lo strofinacciolo della caserma».
Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva
caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.
La Lupa (da Vita dei Campi)
Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure
non era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria,
e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi
mangiavano.
Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla.
Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una
cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si
spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue labbra
rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi
da satanasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina. Per fortuna la
Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar
messa, né per confessarsi. - Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero
servo di Dio, aveva persa l'anima per lei.
Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché
era figlia della Lupa, e nessuno l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse
la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra
ragazza del villaggio.
Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato,
e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice
innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e
provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in
fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui
manipoli, e le diceva: - O che avete, gnà Pina? - Nei campi immensi, dove
scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la
Lupa, affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi
mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al
fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e
le domandava di quando in quando: - Che volete, gnà Pina? –
Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell'aia,
stanchi dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna
nera:
- Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!
- Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella - rispose Nanni ridendo.
La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola,
e se ne andò; né più comparve nell'aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo
che cavavano l'olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo
scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte.
- Prendi il sacco delle olive, - disse alla figliuola, - e vieni -.
Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava - Ohi! –
alla mula perché non si arrestasse. - La vuoi mia figlia Maricchia? - gli
domandò la gnà Pina. - Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? - rispose
Nanni. - Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le do la mia casa; a me mi
basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po' di
pagliericcio. - Se è così se ne può parlare a Natale - disse Nanni. Nanni era
tutto unto e sudicio dell'olio e delle olive messe a fermentare, e Maricchia non
lo voleva a nessun patto; ma sua madre l'afferrò pe' capelli, davanti al
focolare, e le disse co' denti stretti: - Se non lo pigli, ti ammazzo! –
La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando
invecchia si fa eremita. Non andava più di qua e di là; non si metteva più
sull'uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli
piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l'abitino
della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e
sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo,
a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato
greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli
lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso
del muro a tramontana. In quell'ora fra vespero e nona, in cui non ne va in
volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse
errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse
dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan lontano, verso l'Etna
nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte.
- Svegliati! - disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe
polverosa, col capo fra le braccia. - Svegliati, ché ti ho portato il vino per
rinfrescarti la gola –
Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela
dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e
stese brancolando le mani.
- No! non ne va in volta femmina buona nell'ora fra vespero e nona! singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l'erba secca del fossato, in
fondo in fondo, colle unghie nei capelli. - Andatevene! andatevene! non ci
venite più nell'aia! –
Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando
fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il
carbone.
Ma nell'aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando
tardava a venire anzi, nell'ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla
in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte - e
dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: - Andatevene!
andatevene! Non ci tornate più nell'aia! –
Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli
occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch'essa,
allorché la vedeva tornare da' campi pallida e muta ogni volta. –
Scellerata! - le diceva.
- Mamma scellerata!
- Taci!
- Ladra! ladra!
- Taci!
- Andrò dal brigadiere, andrò!
- Vacci!
E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare
una lagrima, come una pazza, perché adesso l'amava anche lei quel marito
che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare.
Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca.
Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non
tentò di scolparsi. - È la tentazione! - diceva; - è la tentazione dell'inferno! - Si
buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
- Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi
ammazzare, mandatemi in prigione! non me la lasciate veder più, mai! mai!
- No! - rispose invece la Lupa al brigadiere - Io mi son riserbato un cantuccio
della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è
mia; non voglio andarmene.
Poco dopo, Nanni s'ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire; ma il
parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa
se ne andò, e suo genero allora si potè preparare ad andarsene anche lui da
buon cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di
contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del
moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno,
prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell'anima e nel corpo
quando fu guarito. - Lasciatemi stare! - diceva alla Lupa - Per carità,
lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non
fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per
voi e per me... –
Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che
quando gli si ficcavano ne' suoi gli facevano perdere l'anima ed il corpo. Non
sapeva più che fare per svincolarsi dall'incantesimo. Pagò delle messe alle
anime del Purgatorio, e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A
Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a
strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza - e poi,
come la Lupa tornava a tentarlo:
- Sentite! - le disse, - non ci venite più nell'aia, perché se tornate a cercarmi,
com'è vero Iddio, vi ammazzo!
- Ammazzami, - rispose la Lupa, - ché non me ne importa; ma senza di te
non voglio starci -.
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a' seminati verdi, lasciò di zappare
la vigna, e andò a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido
e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol
passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di
manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. - Ah! malanno
all'anima vostra! - balbettò Nanni.
LA ROBA da "Novelle rusticane " (1883)
Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di
mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre
verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di
Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della
lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell'ora in cui i
campanelli della lettiga suonano tristamente nell'immensa campagna, e i muli
lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone
malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande
quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi
accoccolate all'ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli
occhi per vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò -. E cammina e
cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva
all'improvviso l'abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva
più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso
la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone,
levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di
Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l'erba non
spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E
verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si
velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che
tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado
lentamente, col muso nell'acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della
Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre
di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il
campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella
valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole
che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a
rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell'assiolo nel bosco.
Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la
terra, e che gli si camminasse sulla pancia. - Invece egli era un omiciattolo,
diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di
grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a
riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch'era ricco
come un maiale; ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo. Infatti,
colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima
veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll'acqua,
col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si
rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano
dell'eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era
montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi
debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore;
ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua
sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro,
perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove
arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a
sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila
bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che
mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava
meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio,
ingozzato in fretta e in furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande
come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva,
mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il
vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa
dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino,
non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi
orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si
vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di
donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era
costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. Era
che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando
andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva
provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a
star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia
a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato
passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della
roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che
arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le
sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo,
per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono
contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia
accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare,
nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori
di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella
gente, col biscotto alla mattina e il pane e l'arancia amara a colazione, e la
merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le
lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso,
quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano,
non ne perdeva d'occhio uno solo, e badava a ripetere: - Curviamoci, ragazzi!
- Egli era tutto l'anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il
re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di
grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta
che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro,
tutto di 12 tarì d'argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua
roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare
il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e
ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il
santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l'era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non
dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria,
coll'affaticarsi dall'alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia,
col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava, pensando
alla sua roba, ch'era tutto quello ch'ei avesse al mondo; perché non aveva né
figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è
fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la
roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che
prima era stato il padrone di Mazzarò, e l'aveva raccolto per carità nudo e
crudo ne' suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei
boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle
sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche
l'alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l'ora e il momento
in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. Costui vuol essere rubato per forza! - diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa
quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle
mani, borbottando: - Chi è minchione se ne stia a casa, - la roba non è di chi
l'ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non
mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e
quando, e come; ma capitava all'improvviso, a piedi o a cavallo alla mula,
senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi
covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del
barone; e costui uscì prima dall'uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e
poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che
non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava
croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch'era prima sul
portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a
Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era vero;
Mazzarò non sapeva che farsene, e non l'avrebbe pagato due baiocchi. Il
barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro.
- Questa è una bella cosa, d'avere la fortuna che ha Mazzarò! - diceva la
gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna:
quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in
galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e
notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di
una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo
Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e
farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare,
per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini,
e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si
lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il
fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l'acchiappava - per un pezzo di
pane. - E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! - I mezzadri che
venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione
le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non
metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l'asinello, che non avevano
da mangiare.
- Lo vedete quel che mangio io? - rispondeva lui, - pane e cipolla! e sì che
ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli
domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare
che l'abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e
raccoglierle? - E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l'aveva.
E non l'aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne
volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come
un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro;
diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma,
comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra
quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né
dire ch'è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra
doveva lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di
essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla,
che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul
corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano
sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli
oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo
seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli
lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi
ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! –
Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per
pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava
ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: Roba mia, vientene con me! -
DELFINA
Ceci n'est pas un conte
DIDEROT
Senza dubbio l'avevo veduta un'altra volta. Ma dove? Ma quando? Per tutta
la giornata non ci fu verso di ricordarmene. E volevo rivederla, interrogarla,
riannodare con lei una di quelle amicizie che cominciano da un nonnulla e
diventano infine, massime trattandosi di donne, qualcosa di più intimo
dell'amicizia, un amore, che so io? Anche un matrimonio; ma dove cercarla?
Come farmi intendere dalle persone che avrei dovuto interrogare?
Intanto l'immaginazione lavorava senza posa, e il cuore si accalorava e
batteva più forte. E più mi accanivo a trovare nella memoria un ricordo di lei,
più i miei dubbi si accrescevano e le incertezze diventavan maggiori.
Il suo aspetto non mi sembrava punto cambiato. Erano scorsi degli
anni, ma ella aveva conservato intatta la sua freschezza giovanile. Quel che
di lievemente roseo e di diafano della sua pelle; quella delicata bianchezza
delle sue mani; quella gentile e, direi quasi, carezzevole flessibilità della sua
personcina: quell'incanto dell'andare, del muoversi di tutto il suo corpo bello
di proporzioni e di struttura; tutto era rimasto tal quale, senza il menomo
cambiamento. La voce dapprima, la voce soltanto, mi parve sonasse un po'
diversa da quella di una volta. Il suo tono vivo, argentino si era alquanto
abbassato, e aveva preso un che indefinibile di piú melodioso e di mesto che
un giorno, mi sembrava, non ci era affatto. Ma riflettendo meglio, credetti di
scorgere un'uguale mestizia nei suoi occhi, anzi un po' piú apertamente
manifesta che non fosse nella voce. Che cosa le era accaduto? E, innanzi
tutto, come si trovava ella in Catania? Le cento interrogazioni che mi
rivolgevo affollatamente rimasero per quel giorno tutte senza risposta.
La mia memoria ha di rado un vivo ricordo dei luoghi e delle fisonomie;
è un difetto che non son riuscito a correggere per quanto me ne fossi
impegnato. Il giorno appresso però i luoghi mi vennero in mente con notevole
precisione. Ricordavo benissimo di aver veduto quella donna in Firenze
quattro o cinque volte, non piú, sui Lungarni, alle Cascine, a San Miniato al
Monte, in casa di una persona a me carissima, la quale amareggiò da indi a
poco la mia vita con un'indegna azione. Ricordavo di averle anche indirizzato
una o due volte la parola; a che proposito e in quali circostanze mi era
completamente sfuggito.
Non sapevo però capacitarmi per quale ragione l'impressione ora
ricevuta fosse cosí potente da commuovermi, ed agitarmi come se io avessi
riveduto in lei qualcosa di piú che una semplice conoscenza. Le sensazioni di
cinque anni fa si erano rinnovate, rese piú appariscenti. Avevo tutto l'agio di
osservarle, di studiarle; e piú le fissavo piú si facevano intense e fresche,
tanto da produrmi l'illusione di una realtà lí presente. Gli atteggiamenti, i
vestiti, la voce, il sorriso mi ritornavano alla memoria netti, precisi, benché
avessi la certezza che allora ci avevo badato assai poco; e questo fenomeno
cosí strano o molto fuor del comune contribuiva in gran parte ad accrescere
la mia curiosità.
Ritornai due giorni di seguito alla Villa Bellini, gironzolai per le principali
vie della città senza lasciar passare inosservato un sol viso di donna; ma
nulla di nulla. Corsi al Grande Albergo. Chiesi ad un cameriere se vi fosse
alloggiata una signora piccola, delicata, bionda; una lombarda dall'abito color
perla, con un cappellino di velluto nero a fiori turchini, un manicotto di vera
martora e un mantello color marrone a frange della stessa stoffa (indicazioni
troppo vaghe e confuse, ma non potevo darne delle altre). Il cameriere
rispose di no. Gli sembrava però di aver veduto, giorni fa, entrare nell'albergo
una persona che quasi corrispondeva a quelle indicazioni; ma, dopo aver
mangiato alla tavola rotonda, era ita via.
- Sola? - chiesi ansiosamente
- Sola, mi pare -.
Quel «mi pare» intorbidò un pochino il piacere che avevo provato alla
prima parola.
Corsi allo stesso modo per altri due o tre dei principali alberghi della
città e con ugual resultato Cominciavo ad arrabbiarmi. E piú che colla cattiva
sorte, me la prendevo con me stesso. Perché non me gli ero avvicinato
quando la incontrai sullo spianato della Villa? Ella mi aveva guardato a lungo,
aveva quasi fatto le viste di riconoscermi; perché avevo esitato?
Passò una settimana. Quella donna mi aveva intanto messo il cuore
sossopra. Già da due notti non chiudevo occhio. Ero, al mio solito, caduto in
preda di una di quelle subitanee, irragionevoli passioni che mi han reso cosí
infelice, e dal principio venivo condotto a non presagire nulla di bono per la
mia salute e la mia pace. Avessi almeno potuto rivederla!
Il decimo giorno, un giovedí, mi recai alla Villetta della Marina, e stavo
da un'ora appoggiato ad uno dei piloni del ponte della ferrovia, senza sentir
nulla della musica e senza intender verbo di un lungo discorso del mio amico
Michele che mi parlava di positivismo e di filosofia, un discorso opportuno!
Divoravo cogli occhi tutte le signore che mi passavano davanti, provando
spesso un sussulto, un fremito a un color di veste, ad un agitarsi di cappellino
che scambiavo per la veste e pel cappellino di lei; e soffrivo una vera tortura
in quel vano attendere, in quel frequente ingannarmi, in quel persistente
sperare. Finalmente, quando la folla era piú densa, quando il passeggio era
piú lieto e piú svariato, mentre la banda militare suonava il magnifico valzer
del Fausto di Gounod, ecco affacciarsi al cancello della Villetta chi? Lei,
proprio lei! E sola! Fui sul punto di venir meno, tanto il sangue mi rifluí
violentissimo al cuore.
Passò davanti a me, a pochi passi di distanza; ma non potè vedermi,
impacciata come pareva del rivolgersi degli occhi di tutti curiosamente su lei:
sincero e tacito elogio della sua grazia, della sua bellezza e della sua
eleganza. Un giovane uffiziale la salutò. Ella rispose con un piccolo cenno del
capo ed un sorriso. Io ne avevo un gran dispetto. Un vivo sentimento di
gelosia si era già destato a poco a poco dal fondo del cuore, e potevo a
stento frenarmi di non impertinenzare tutti coloro che osavano metterle gli
occhi addosso e far chiose e comenti.
Non volli avvicinarmele nemmen questa volta. Ero troppo commosso.
Mi sarei imbrogliato. Tant'occhi si sarebbero fissati sopra di noi due! Ella girò
pei viali, fermossi un istante sul ponticello di legno che cavalca il piccolo
canale dove nuotano i cigni e uscí fuori della Villa. Lasciai Michele con un
pretesto, deciso di seguirla con cuore tremante fino all'uscio di casa.
Le andai dietro un gran pezzo lungo la via Etnea, tenendomi sempre a
distanza, ma non tanto che l'occhio potesse facilmente smarrirla.
Evidentemente essa ritornava al solito posto della Villa Bellini. Avrei amato
meglio che fosse andata a casa. Chi sa? Nella Villa Bellini mi sarebbe forse
di bel nuovo mancato il coraggio di farmele innanzi.
Il mio turbamento infatti era straordinario davvero; ne stupivo io
medesimo. Perché quella donna mi trascinava dietro a sé come legato da
una catena invisibile, ma possente? Che sarebbe accaduto tra me e quella
donna dopo che mi sarei fatto riconoscere? Speravo e temevo. La testa era
confusa, il cuore palpitava rapidissimo. Riflettevo però come tutte le volte che
mi era accaduto di amare avessi sempre amato a quel modo, con improvvisa
violenza. In due, tre giorni l'amore era celeramente montato per tutti i gradini
della passione, saltandone forse qualcuno; e prima che avessi avuto tempo di
riflettere era giunto alla cima; forza era stato subirlo in santa pace,
rassegnarsi a godere e a soffrire. Quello che in questo caso mi dava piú
pensiero era un intuito confuso, inesprimibile di un passato che la memoria
non riusciva ad afferrare; un sentimento egualmente confuso ed inesprimibile
di gioie amare, di dolori profondi che l'avvicinamento di quella donna mi
avrebbe fatto patire. Eppure la seguivo, e con acre voluttà avevo a poco a
poco fatto sparire la distanza; talché, passato appena il cancello della Villa
Bellini, mi ero trovato a pari passo con lei.
Si volse, ci guardammo un momento, io aspettando che fosse lei la
prima a farmi un accenno, ella quasi tacitamente richiedendo ch'io fossi il
primo a rompere quel diaccio importuno. Ci risolvemmo tutti e due nello
stesso punto, tutti e due pronunziammo con vera soddisfazione un unisono
«Oh! Lei!» e ci stringemmo la mano.
Cominciò una conversazione disordinata, arruffata. Eravamo impacciati
allo stesso modo. Si taceva, ci facevamo delle domande, si tornava a tacere.
Io godevo ch'ella potesse notare la mia confusione. - La donna - pensavo - è
cosí acuta! Ne indovinerà subito il motivo. Qual donna non ha avuto la
certezza di essere amata almeno due mesi avanti di sentirselo dire? Ci
fermammo innanzi alla gabbia delle tortorelle e dei fagiani. Io dissi una delle
solite trivialità sull'amore pacifico delle tortorelle. Ella notò invece il fagiano
dal mantello bianco brizzolato, dalla cresta rossa, vellutata, che passeggiava
altiero attorno alla modesta sua femina e di tanto in tanto la beccava.
- Creda - ella disse - non son le tortorelle l'ideale del la donna. Ecco una
grulleria data ad intendere dai poeti! Se tutte le donne avesser agio di vedere
questa scena dei fagiani, le direbbero di una voce che voglion essere amate
a quella guisa. Il ragionare si metteva su di una buona via. Ma io tacqui,
assorto com'ero in ciò che udivo; beato di vedere le sue labbra piccole,
rosee, sottili muoversi e dare il varco ad una voce flautina, la quale pareva
uscire proprio dal profondo del petto.
Sedemmo sur uno dei sedili dello spianato, a mano destra della cattiva
statua di Androne. Non c'era anima viva. La giornata non pareva di gennaio.
Il cielo limpidissimo. Il sole caldo come nel maggio. Le campagne attorno
coperte di verde come nel meglio della primavera. L'aria tiepida, profumata,
voluttuosissima.
- E non l'ha piú riveduta? - fece ella, riattaccando improvvisamente il
discorso (Accennava alla persona un dí a me cara che aveva poi, come dissi
sul principio, avvelenata la mia vita con una indegna azione.)
Risposi col capo di no. Guardavo ora il suo irrequieto piedino
imprigionato in un elegantissimo stivaletto, ora le sue manine rivestite di
guanti color perla, pari all'abito (lo stesso abito di quando l'avevo incontrata
l'altra volta), ed ero come trasognato.
- Sono stata troppo importuna - soggiunse subito quasi mortificata richiamandole alla niente dei dolorosi ricordi. Gliene chiedo perdono. La
piaga non ha forse ancora fatto il margine, ed io…
- Ella s'inganna - mi affrettai a rispondere - non vi è nemmen cicatrice.
Quella persona, quei fatti son già per me divenuti assai meno che un ricordo,
quasi meno che un sogno. Sa? Io ho un'abitudine poco comune (forse dovrei
dire: un singolare organismo); dei casi della vita ricordo i lieti soltanto. Mi pare
che i dolori si succedano cosí frequenti nei pochi giorni della nostra esistenza
da non dover poi tenerli, come si suol fare, in gran conto. Chi ne avrà mai
difetto? Ma le gioie! Ecco: io ho segnato con delle gioie, piccole o grandi
importa poco, i piú notevoli punti della mia vita… Dio volesse potessi
aggiungervene presto un'altra che oso appena sperare!
- Ah! - esclamò ella con un tono tra la sorpresa e il disinganno. Ed
abbassò il capo e chiuse gli occhi come per raccogliersi meglio e pensare.
A me pareva di aver detto, colle ultime parole, una gran cosa. Se ella
fosse stata curiosa di domandarmi qual'era quella gioia che osavo appena
sperare, la risposta era pronta sulle mie labbra; non l'avrei fatta mica
attendere. Ma quell'«ah!» pronunziato a quel modo! Restammo silenziosi un
buon pezzo.
Io avrei voluto rimaner lí, al suo fianco, per tutta l'eternità. Ero, oso dire,
inebriato dal dolce profumo della sua persona, e godevo in vedere il fascino
che mi aveva soggiogato, accrescersi a dismisura, invadermi e penetrarmi
tutto con sensazione ineffabile.
Quei popoli che chiamano il fiore e la donna collo stesso nome, hanno
indovinato un mistero. Vi son dei momenti però nella vita della donna nei
quali il suo profumo si spande piú soave e piú ricco intorno a lei. Che un
uomo capace di gustarlo e di apprezzarlo le passi allora di accanto,
foss'anche alla sfuggita; sarà vinto, ammaliato, non potrà non amarla. Or io in
quel punto non respiravo altro che questi divini profumi. Ad ogni boccata
d'aria me gli sentivo confondere col sangue, immedesimar proprio colla pura
essenza dell'organismo.
Già i minuti, segnati dal battito accelerato del mio cuore, contavano piú
assai degli anni nella vita di quell'affetto nato da poco oltre una settimana. Piú
stavo lí, al fianco di lei, e piú un'intima, rapida trasformazione mi faceva
perdere il senso della realtà e delle convenienze sociali Mi pareva naturale
ch'ella dovesse aver coscienza di ciò che il suo potere aveva operato dentro
l'anima mia; mi pareva ancora piú naturale ch'ella sentisse nel suo cuore quel
profondo rimescolarsi della vita che io provavo nel mio. Sicché il tagliar corto
a tutti i preamboli, il fare a meno delle delicate transizioni, il lasciar da banda
le riguardose reticenze mi sembrava una cosa non solo opportuna, ma
urgente. Come la vita interiore, che batteva il suo ritmo sublime in noi due,
non aveva niente di comune coll'andare ordinario del mondo, cosí non era
sciocchezza l'assoggettarla nella sua rivelazione alle stupide leggi del
mondo?
Io pensavo questo e ben altro durante quei momenti di silenzio, mentre
gli occhi si deliziavano nella contemplazione di quella bellezza gentile. Ed ella
intanto a che mai pensava? Sembrava assai trista. I suoi occhi stavano, è
vero, fissati sull'Etna che si elevava orrido e maestoso lí rimpetto, ma pareva
guardassero senza vedere. Da certi quasi impercettibili movimenti della
pupilla, da certo sorriso leggiero e sfumatamente ironico che appariva ad
intervalli sulle sue labbra, io capivo benissimo che quell'anima era anch'essa
agitata; che un mondo forse di ricordi, forse di sogni e di speranze si
muoveva confuso innanzi alla sua mente e la rapiva e teneva assorta. Ma,
entrava il mio povero fantasma in un breve cantuccio di quel mondo? O era
ella tanto lontana da me col cuore quanto io le ero vicino?
Scosse e levò in alto, sospirando, la bionda testina, come per cacciar
via i tristi pensieri che le si affollavano innanzi, e si volse a me cogli occhi e
colle labbra sfavillanti di una luce e di un sorriso inattesi. Io, che non avevo
perduto il piú piccolo dei suoi movimenti, le avevo letto nell'anima. Mi era
parso di vederla fortemente lottare, esitare a lungo, poi decidersi a un tratto
con risoluzione improvvisa. Aspettavo quindi ansioso che da quelle sue
labbra cosí fresche e cosí belle uscisser parole da spiegarmi il mistero.
Giacché io non avevo siffattamente perduto il senso della realtà da non
piú comprendere che quanto accadeva tra me e quella donna non fosse una
cosa ordinaria; ma, circostanza ben strana, non ne provavo meraviglia. Vi
sono certe situazioni dello spirito cosí complicate e sorprendenti, che un
breve minuto può talvolta formare il tormento e la consolazione di tutta la vita.
In quel punto (lo sentivo senza intenderlo) mi trovavo in una di esse.
- Chi l'avrebbe mai creduto - diss'ella cavandosi un guanto - che un
giorno ci saremmo riveduti qui, in faccia al suo Etna e con questo magnifico
sole che quasi sembra ci festeggi? Eppure, ora che ci siamo, mi par la cosa
piú naturale del mondo
- Le cose piú naturali - risposi - non sono punto quelle che piú
facilmente comprendiamo. Potrà ella, per esempio, spiegarmi perché non
ebbi il coraggio di avvicinarmele la prima volta? Perché la memoria non mi
diè subito i ricordi che la mia curiosità le chiedeva? Perché questi ricordi mi si
destarono in mente a poco a poco, provocando nel cuore un lavorio, un
turbamento, una smania che non si sono ancora acchetati? Intanto, che cosa
di piú naturale?
- Davvero? E questa parola fu da lei pronunziata con un accento cosí dolce e cosí
nuovo che voleva significare mille sentimenti ad una volta, cioè una sorpresa
ingenua, una gioia pudica, una soddisfazione, un rimpianto, qualcosa di
appassionato e di triste, d'infantile e di materno che mi colmarono di stupore
e mi fecero perdere il cervello.
Senza che io me ne accorgessi, senza alcuna sua resistenza presi tra
le mie mani una delle sue manine e accarezzandogliela (non osavo ancora
stringerla) tutto di un fiato le dissi:
- Sí, Delfina, nulla di piú naturale, quantunque nulla di piú arcano. A
certi istanti, lo confesso schietto, ho avuto fin paura, osservando lo
sconvolgimento di tutto l'esser mio che la sua persona ha operato. Ero lieto,
tranquillo, spensieratissimo. La vita mi correva come un limpido ruscello tra le
aiuole di un giardino. Provavo anzi un immenso piacere nel ricordare il
passato cosí buio, cosí tristo e confrontarlo col presente. Non temevo, non
speravo nulla dall'avvenire. Vivevo come un fanciullo… Mi riposavo della
vita… Ed ecco, Delfina, veggo lei… e tutta questa pace incantevole, tutta
questa felicità semplice, ma benefica, sparisce ad un tratto! Non mi sento
però infelice. L'arcano è qui! È un nuovo mondo che sta per aprirsi all'anima
mia. Lo sento… ne son certo; e la chiave è tra le sue mani. Sarà, mi pare,
una felicità diversa ma non meno bella; agitata, ma non meno benefica…
Fosse anche un dolore! Non monta nulla! Ho un presentimento vago,
indeterminato, che cotesto dolore mi dovrà esser caro piú di molte e molte
gioie… Ben venga dunque! Oh! Creda! Io, io pel primo, son cosí sorpreso di
quanto le sto dicendo e di quel che le dovrò dire! Ma c'è dentro di me una
forza superiore alla mia volontà che mi costringe mio malgrado. Una voce
insistente mi susurra all'orecchio: «o ora, o non mai!» ed io parlo e parlo
senza nulla curarmi di ciò ch'ella può pensare! La mi perdoni, Delfina!…
Vorrei meglio dire: perdonami, Delfina!… Tornerebbe lo stesso… E oramai!…
Mi son messo fuor della legge, e mi piace di starci. Che avverrà di me? Non
mi curo di saperlo. Quello che io so di certo è che non ho mai provato nulla di
simile, e che tutto è mistero. Quello che io so di piú certo è che vi sono al
mondo due sole parole per rivelare le mille sensazioni che in questo
momento mi opprimono, e sono: t'amo!
Qui, come se queste due sillabe pronunciate basso e all'infretta mi
avessero scottato le labbra, baciai commosso la sua mano quasi per attutire il
bruciore con qualcosa di fresco, e mi alzai atterrito del mio insolito ardire. Se
qualcuno ci avesse già visti! Girai gli sguardi da ogni lato. Fortunatamente nei
viali piú lontani non appariva persona. Mi voltai allora trepidante verso di lei.
Che avrebbe ella risposto?
Ella mi guardava sorridente, quasi tranquilla, cogli occhi che nuotavano
nelle lagrime a stento rattenute. Il suo petto si alzava e si abbassava con una
respirazione accelerata. Nulla però che accennasse o la sorpresa o lo
sdegno. Pareva piuttosto quasi trasfigurata e come raggiante. Il suo volto
acceso d'una fiamma leggiera aveva rapidamente acquistato un che di piú
diafano meraviglioso. Gli sguardi, il sorriso le spandevano attorno alla fronte
ombreggiata dal cappellino un'aureola a dirittura. Non sembrava piú dessa.
Io non mi sarei punto imaginato ch'ella potesse mai divenir bella a quel
grado, e il piacere e la meraviglia che ne provavo guardandola mi fecero
dimenticare per poco ciò che accadeva fra noi due. Infatti quando corsi a
sedermi nuovamente al suo fianco, ero cosí fuor di me da non capire piú né
quel che facevo, né dove mi trovavo.
Ella prese, alla sua volta, la mia mano, e stringendola forte:
- Grazie, Eugenio - esclamò; - grazie! Né potè piú proseguire. Era troppo commossa Tratteneva a stento i
singhiozzi.
- Oh sí - continuò dopo essersi alquanto rimessa in calma; - noi siamo
avviluppati dal mistero. Non viviamo forse in questo momento fuori del
mondo? Non siamo come sopraffatti da una magica potenza che par trasmuti
ogni cosa attorno e dentro di noi?… Eugenio! - indi soggiunse dopo un
istante di esitazione - pensi di me quel che lei vuole; mi creda pure una
matta, mi creda, che piú? una sciagurata, la quale abbia perduto ogni
pudore… ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io presto
cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di
mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti… Ma sia! E cominci
pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà
piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo
momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a
lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal
giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente, quasi sfinito di
forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non
sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad
imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia!
E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo
dell'amore, veduto davvero!
- Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo
sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile?
Dio mio! Possibile?
- È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia
dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse
fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel
salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva
parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco
Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro
amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí
ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto
pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua
parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi
sa com'egli l'ama?… E intanto!
E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista
ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una
letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei
presa.
«Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!»
«È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco»
«Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe
inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!» pensavo io per vincere la mia
stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava!
Suonò il campanello Era lei.
Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria
potei sentir tutto e vedere… Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata
a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce
che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia… Ci furono alcuni
momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto
impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera
lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma dignitosa e sublime!
Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce
commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile
alterezza in tutto il suo contegno!
L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se
la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva
omai dire inevitabile… Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento
preparato con arte… Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva
avvilita.
Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti.
Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel
petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia
vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un
pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia
era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva
rabbiosamente la punta del suo collare di merletto… Ella invece stava in
piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le
mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia
scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con
accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me!
Non potrò mai dimenticarla.
Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte,
fece un moto colle spalle e poi disse:
«Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!»
Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella,
indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa.
Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non
cadere a terra… Mi sentivo mancare «Poverino! - esclamavo; - poverino!»
E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto.
Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi
dal dirle:
«Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto
proprio male!»
Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi
subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le
orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno
appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in
quando: «Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se
potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!»
E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato
dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo
a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: «Passerà!»
Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne
maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche
senza esser vista da lei… e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai
sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume,
cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di
morire, tanta fu la stretta del cuore.
Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che
settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima
mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio
patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi
pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni
speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento
dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai patito
abbastanza!
Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore!
Né doveva amare piú mai!
Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della
salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che
osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto.
Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta
senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei
conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile,
piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto: non mi
avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto.
Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il
quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre.
Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio
corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non
voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di
amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia
mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, sempre lo
stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente
lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua
immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita!
Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle
strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di
ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei
infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove
saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina!
Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che
tormento! «Non mi ha riconosciuta!» dissi all'amica che avevo allato.
Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente!
Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in
Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso
affannoso!… Come sono ora felice!
Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un
momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo
sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo!
Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere
- Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo
aggiunger altro
- Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di
preghiera
- Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito
- Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi?
Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono
stanca. Lasciami, andiamo per pietà!
Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte.
La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue
guance e scolorito fin le sue labbra
- Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima
- T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino
Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente
dietro.
- Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di
accordarmela?
- Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe
richiesto.
- Non seguirmi!
- Oh!
- Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci!
Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle
ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al
repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni
momenti di gioia? Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io
traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi
affrettata. Giungemmo al cancello.
- T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano.
- T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí
innanzi.
Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E
quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi
parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!
I vecchi
Erano seduti sulla panchetta a strisce gialle e rosse, sotto i platani nudi, e il
viale del giardino si allungava dinanzi, allagato dal sole, tra due file di statue
sulle basi delle quali l'edera s'abbarbicava. In fondo, la montagna tutta
candida di neve, come una campana di zucchero.
Uno era piccolo, giallognolo, con un collare di barba bianchissima: teneva
una fascia di lana sulle spalle e le mani appoggiate al pomo d'avorio antico di
un grosso bastone. L'altro era robusto, rosso nel viso tutto sbarbato e liscio
malgrado l'età: il colletto della camicia si abbatteva sul bavero della giacca di
panno grossolano, mostrando a nudo il collo bronzino. In mezzo a loro, due
soldati che parlavano in dialetto.
Il grande vecchio gettava di tanto in tanto delle occhiate timidamente
curiose sui militari, esaminando le ghette di tela che ricoprivano gli scarponi, i
pantaloni filettati di rosso, le stelline del bavero, la sciabola-baionetta. D'altro
lato, il piccolo vecchio si passava a momenti una mano sulla bocca, tossiva,
si guardava intorno, come preparandosi a dire qualche cosa e non sapendosi
ancora decidere.
Rannicchiatosi meglio nel suo angolo, chiese finalmente:
- Lor signori sono continentali?
I soldati continuavano a parlare, come non fosse.
Dopo un poco, egli tossi di nuovo, più forte e riprese:
- Di che paese sono lor signori?
- Mi sun mudnes - rispose il soldato che gli stava vicino, e riattaccò il
discorso col suo compagno.
Il vecchio parve meditare un poco quella risposta; cavò di tasca un
fazzoletto a scacchi rossi e neri; si soffiò il naso scuotendo il capo, rimise in
tasca il fazzoletto dopo averlo piegato accuratamente, e ripigliò:
- Quanto hanno ancora da stare sotto l'armi?
Il soldato chiese, bruscamente:
- Cuss l'ha ditt?
- Dico, se tornano a casa presto?
- Minga adess! - e si mise a ridere.
L'altro vecchio stava a sentire, guardando discretamente. Pel viale, a
quando a quando, una carrozza sfilava, al passo; dei ragazzi si rincorrevano,
sotto gli occhi delle governanti.
Come i soldati si alzarono, una balia venne a prendere il posto vuoto. Il
bambino girava intorno gli occhi senza sguardo, col braccio disteso,
annaspando.
Il piccolo vecchio riprese ad armeggiare, cercando di attaccar discorso.
Sorrise al piccolino e gli mise sotto il naso il manico d'avorio del suo bastone.
- Bellino!... Bellino!... Come si chiama?
Quello fece una smorfia e scoppiò in pianto.
- La ninna, Ninì; bello Ninì... - ripeteva la balia, sballottandolo. - La ninna di
mamma tua...
Ma come il vecchietto gli mostrava ancora il pomo d'avorio, il bambino
ripigliava a piangere. Della gente si fermava; due seminaristi che si tenevano
per mano ridevano.
Esaurito ogni tentativo, la balia andò via. I pretini sedettero al posto
lasciato vuoto. Si cavarono entrambi i tricorni, posandoli sulle ginocchia, e
avvicinate le teste tonsurate, cominciarono a parlottare.
Il vecchietto esclamò:
- Bel tempo!... - Poi, rivolgendosi ai seminaristi: - Avete la passeggiata tutt'i
giorni?
- Tre volte la settimana - e non gli dettero più retta.
Allora egli si mise a scavare la terra con la punta del bastone, masticando
a vuoto; e come i pretini se ne andarono via anch'essi, tenendosi sempre per
mano, egli si trascinò, lentamente, senza alzarsi, verso il grande vecchio, in
modo che nessuno potesse sedersi più in mezzo. Arrestandosi a fianco del
vicino, guardò per aria e disse:
- Bella giornata!
L'altro rispose subito, con un tono di deferenza:
- Bellissima giornata, sissignore!
- La neve è a Nicolosi - e additava la montagna. - Nicolosi è qua; lì c'è
Trecastagni... Dall'altra parte, se uno scavalca il Mongibello, trova Bronte. Ci
siete stato, a Bronte?
- Io, nossignore.
- Io ci sono stato molto tempo, dopo il sessanta, un affare di ventisei anni
addietro... misuratore del catasto, che non era una cosa liscia... Bisogna
sapere, già, prima di tutto, che coi Brontesi non si scherza... a segno, che
successero i fatti del sessantuno...
Fece una piccola pausa, aspettando di essere interrogato; come l'altro lo
guardava rispettosamente, pendendo dalle sue labbra, riprese:
- Io glie l'avevo detto, in Casino, ai signori, proprietari, civili, che il popolo
non mi andava, e guadagnava la mano ogni giorno di più. A chi dicevo, a
questo bastone?... Avevano il capo alla politica, che doveva arrivar Garibaldi,
e i borbonici se ne stavano rintanati nelle loro campagne. «Ma badate che la
mala gente va attorno!... che tiene consiglio nella taverna di Piede-dibanco!... che un giorno o l'altro non potremo più scender nelle vie!...».
- Giustamente!... - approvava l'altro, chinando il capo.
Il vecchietto si grogiolava dentro il soprabito, si adattava meglio la fascia al
collo, si tirava le maniche sulle punte delle dita e riprendeva:
- A chi dicevo, a questo bastone? Niente!... Invece, davano loro fucili,
polvere e palle, col pretesto della rivoluzione; come se non fossero bastati i
temperini, certi temperini lunghi così, che ognuno di quegli amici portava alla
cintura!... Ma tanto va la secchia al pozzo, finché si rompe! E lascia fare oggi,
e lascia far domani, finì col sacco e fuoco...
- Madonna del Carmine!
- Il pretesto erano le tasse, che l'annata era stata cattiva e l'esattore
succhiava il sangue della povera gente. Ma la vera tassa era la vendetta, e il
denaro del prossimo. Voi mi avevate fatto un torto? Io venivo a casa vostra, a
farmi giustizia con le mie mani, sfondando, bruciando, ammazzando...
- Ma i civili, niente?... - chiese l'altro, passandosi una mano sul mento.
- I civili?... Volevano scendere in piazza; non mandarono a chiamare anche
me? Fossi stato pazzo! Quando lo dicevo io, che si poteva mettere un riparo
senza ammazzare una mosca, nossignore: «Questa è polvere! Questi son
quattrini!... Abbasso Francesco II!...». Ora che il popolo si scatenava contro i
cappelli, bisognava andare incontro a morte sicura; che prima di scendere in
istrada dovevate confessarvi e comunicarvi!... Com'erano curiosi! Pelle una
ne abbiamo, e pelle per pelle, sapete come si dice, meglio la tua che la mia!...
- Eccellente!... dice bene vossignoria!...
- Se dico bene! Dio ci liberi a furore populi!... - Allora, il vecchietto si mise a
sentenziare, con un'aria di beatitudine, alzando un dito per aria: - Il popolo è
come una bestia di cavallo, generoso, che si fa caricare come un asino, ma
guai a toccargli la coda. Così sentite i giornali pigliarsela col governo, perché
intasca le tasse. Io vorrei dir loro: O bestie, se pagate le tasse non avete il
gas, le ferrovie e le scuole gratis?
- Sissignore! Tal'e quale!
Il grande vecchio approvava sempre, deferentemente, tutti gli argomenti
dell'altro che citava la gazzetta e vantava la propria esperienza.
- Io ne ho visto di tutti i colori, e mi fanno ridere, quando dicono!... Questi
che adesso vedete consiglieri e commendatori, prima erano borbonici più di
Satriano. E non parliamo di chi mise fuori una bandiera al 48 o al 60! Invece,
chi ha fatto il suo dovere!...
Com'egli si fermò un momento, piegando il capo a destra e a sinistra, l'altro
che si grattava un orecchio volendo parlare anche lui e non osando
interromperlo, disse:
- Anch'io ho vista la rivoluzione.
- Sì? O quando?
- A Leonforte, nel quarantotto... Ecco qua: io ero a Caltanissetta, col mio
padrone, l'intendente Ramondino, il prefetto di quei tempi. Un giorno, arriva
un galantuomo da Leonforte, in carrozza, con una bandiera a tre colori; ma
non diceva niente. La popolazione, come le mosche. Che si fa, che non si fa,
l'intendente lo manda in fondo a un carcere... Tutt'in una volta, arrivano quelli
di Palermo: «Se gli torcete un capello, qui non resta pietra su pietra; ci sono
ventimila Palermitani pronti a marciare!». Voci, grida: «Viva Palermo!» e il
galantuomo è liberato, che mentre si parlava di morte, festa e quarantore!
L'intendente, visto come si mettono le cose, mi chiama e dice: «Calogero, io
son padre di famiglia, dice, e me ne vado a Napoli: tu fai quel che ti piace: ma
se vuoi venirtene a Napoli, ti raccomando di portarmi la roba...». Allora, c'era
la bella gioventù, e la gioventù non conosce pericoli. Nientedimeno, me ne
andai dal mio padrigno che era una bestia, sant'anima, più di me. Dico: «Il
padrone vuole che gli porti la roba a Napoli; che cosa debbo fare?».
«Portala» dice, «il padrone è un brav'uomo, tu sei giovane»; poi, dice:
«carcere, malattia, necessità, si conosce l'amistà». Sia fatta la volontà di Dio;
metto la roba in tredici carri, e la carrozza con la serva che fanno quattordici,
e me ne vado per Castro-Giovanni. Arrivo a Leonforte. La piazza, piena come
un uovo, e appena mi vedono: «Questa è roba dell'intendente; diamola al
fuoco!». Viene uno e m'afferra pel colletto: «Tu ora vai fucilato!».
Il narratore s'era alzato, facendo il segno, con le braccia un po' tremanti, di
sparare un fucile; l'altro, ammutolito, spingeva gli occhietti curiosi sul
compagno ancora imponente malgrado la curvatura dell'età.
- Immaginate un po' che spavento!
- Cose viste con quest'occhi; non racconto favole! Dunque, Beppe Franco,
non so se vossignoria l'ha sentito nominare, un pezzo di giovanotto alto così,
punta il fucile e dice: «Carogna, sei morto!...». Frattanto, diciamo che il
padrone, prima di partire, mi aveva consigliato: «Fatti una coccarda coi tre
colori; se mai, ti potrà servire». Io avevo fatto la coccarda, e la tenevo sotto il
ferraiolo, che non si vedeva. Allora, come Beppe Franco fa per sparare, io
apro il ferraiolo e mostro i tre colori... Se no, ero spacciato! Ma andiamo che
la popolazione gridava sempre: «A morte!... fucilato!...» e i carrettieri che
tremavano come foglie! Viene quello, e dice: «Consegniamolo al comitato!».
Mi tirano al comitato, che appena entriamo il portone si chiude dietro. Chi
parla di qua, chi parla di là, e non si sapeva di che morte dovessi morire. Al
comitato, c'era il cavaliere; il cavaliere San Vincenzo; e come mi vede, che
ero stato anche al suo servizio, 'viene a dirmi: «Chi diavolo ti porta qui?». Io
gli racconto tutta la storia, che venivo con la roba di Ramondino, e non
sapevo niente. Frattanto il presidente mi domanda: «Di che paese siete?». Io
dico: «Eccellenza, sono di Girgenti». Voleste vedere? Il cavaliere mi butta le
braccia al collo: «È di Girgenti! Il primo paese che si è ribellato! Viva Girgenti!
Viva la libertà!...». E così il mio paese porco mi salva la vita...
- Oh! Oh! Oh! - Il vecchietto si dimenava sulla panchetta, dal piacere, dalla
meraviglia. Un piccolo cerinaro si era fermato lì innanzi e stava anch'egli a
sentire.
- Allora, il comitato dice: «Facciamolo accompagnare a due miglia di via e
se ne vada dove gli piace». Prima, vogliono le chiavi delle casse per vedere
se c'era niente. Io dico: «Le chiavi non ve le posso dare, per la ragione, dico,
che le ha il padrone». Un altro casa del diavolo! Basta, come Dio vuole,
cinque nobili, gran signori, cacciatori, mi mettono in mezzo, per
accompagnarmi a due miglia fuori il paese; una folla, gran quantità di torcie,
fucili e pistole, le donne alle finestre: l'inferno! Il cavaliere mi tira pel soprabito
e ci perdiamo in mezzo alla gente. Cammina, cammina, entriamo in una
farmacia; il cavaliere mi raccomanda allo speziale e se ne va. Resto tre giorni
chiuso; al terzo giorno, so che la roba è partita per Troina. Scappo, di notte;
raggiungo la roba e la carrozza con la serva, e arrivo a Troina. Appena arrivo,
viene uno, armato come un porcospino, e domanda: «Che roba è questa?».
Quella bestia della donna non risponde: «È la roba dell'intendente?». Come
se fossero tempi! Ma quello, vedendomi tramutato in faccia, dice: «Denari ve
ne trovate?...».
- Meglio! - e il vecchietto strizzava un occhio, con aria d'intelligenza.
Adesso anche il giardiniere si era avvicinato, e tutti restavano in ascolto come
dinanzi ai cantastorie della Marina.
- Meglio difatti! Mi restavano, di denari, trent'onze, delle cinquanta che mi
aveva consegnato il padrone; ne do dieci: «Bastano dieci onze?». Dice:
«Vedremo quel che si può fare». E mi nasconde in un magazzino. Torna un
giorno dopo: «Bisogna aspettare, dice; denari che ne avete ancora?...». A
farla corta, tutte le trent'onze se ne vanno, a poco a poco. Allora faccio una
pensata, di scrivere al padrone... Che padrone e padrone! Il povero signore
era scappato, di nascosto, fino a Trapani; si era chiuso, lui, sua moglie e i
bambini, dentro la stiva di un bastimento francese, ed era partito per
Marsiglia...
- Oh che storia! che storia! - esclamò l'altro, ricavando di tasca il suo
fazzoletto e portandoselo al naso.
- Aspetti, ancora non è niente! Arrivo, con la grazia di Dio, a Messina.
Senza danari come si fa? Vendo la carrozza, che era costata trecent'onze bisognava vederla! - la vendo per quarant'onze, a Litteri, dirimpetto
l'ospedale. Vendo un asino, di tredici onze, per quaranta tarì...
Il vecchietto era rimasto col naso fra le dita e il fazzoletto pendente,
immobile nella stupefazione.
- E m'imbarco con tutta la roba. Da Messina, il bastimento fa cinque miglia
e torna indietro. Una tempesta dell'inferno, che le budella uscivano di bocca.
Stiamo due giorni a Messina, e mettiamo una settimana per arrivare a Napoli.
A Napoli arrivo il 14 maggio, giusto in punto per vedere il quindici.
Vossignoria sa che cosa fu il 15 maggio?
- Sicuro, sicuro! - ma il misuratore del catasto non levava gli occhi dal
vicino, aspettando curiosamente.
- Il 15 maggio era tutta Napoli in fuoco, con la rivoluzione che pigliava
piede, e la truppa sotto l'armi: reggimenti della guardia, reggimenti svizzeri,
battaglioni cacciatori: che il giovane del caffè Benvenuti si metteva ogni
giorno alla finestra, col fucile spianato, per sparare addosso a Ferdinando, se
si affacciava. Io ero dai parenti del padrone, che stavano chiusi in casa, dalla
paura; ma, quanto a me, potevo andare dove mi piaceva, che i Siciliani erano
trattati come signori. Quaranta mila Siciliani c'erano in Napoli, e quelli che
non trovavano alloggio se li prendevano nelle case, a tre e a quattro per
volta, come fratelli, viva la libertà! «Ma se i realisti vincono» mi dicevano i
parenti del padrone, «tu vai fucilato!». Ora, la notte del quattordici, vennero a
picchiare all'uscio, cercando legname, per barricate; vossignoria conosce, la
strada murata...
- So bene, so bene; per sparare al sicuro...
- Giust'appunto. Allora, fatte le barricate, la mattina alle undici e un quarto
prima di mezzogiorno cominciò il fuoco. Sa com'era il fuoco? Ha sentito i
mortaretti, per Sant'Agata? Più forte, e fino alle cinque di sera, senza cessare
un momento. Il comandante di Sant'Elmo - che la famiglia reale, se perdeva,
doveva calarsi nei trabocchetti - aveva l'ordine di tirare cannonate sopra
Napoli, che è tutta di sotto, come la palma d'una mano; ma bisogna esserci
stato, per averne un'idea... Il comandante, invece, tirò tre sole cannonate, a
polvere. Ma fino alle cinque, i realisti perdevano. Alle cinque vengono fuori il
primo e il quarto reggimento svizzero; e, Madonna del Carmine! succede una
carneficina: case sfondate, bruciate; uomini, donne e bambini: un macello,
che nella notte Ferdinando fece nascondere tutti i morti, per non farli
contare...
- Lo credo bene!
- Ma se non erano il primo e il quarto reggimento svizzero, gliene
toccavano di quelle da dirle al medico. Il secondo e il terzo reggimento erano
pronti a venir fuori, ma non ce ne fu bisogno... Andiamo intanto che in casa
non c'era né pane né acqua, e la signorina era ammalata! Viene sua madre e
si butta alle mie ginocchia: «Calogero, bisogna che tu vada a comprar la
medicina!...». Vado fuori, a Dio la sorte, e trovo uno speziale, alla Carità; ma
mentre faccio per picchiare, una pattuglia esce da San Liborio, e spiana i
fucili... Madonna del Carmine, questa volta non c'è scampo!... Il sergente
dice: «Inginocchiati!...». Come se le gambe mi reggessero! Io m'inginocchio,
più morto che vivo. Dice: «Grida: Viva lo Re». Io non avevo fiato in gola; dico:
«Viva lo Re!». E così sono salvo...
A un tratto il misuratore del catasto si alzò, incappucciandosi meglio nella
sua fascia di lana: il sole era declinato e un brivido di freddo passava per
l'aria.
- Tanti guai per la roba del padrone! - esclamò, sul punto di andarsene. Se ero voi, dico la verità, la roba l'avrei spedita, ma io me la sarei battuta!
Modulo 2_ Decadentismo
U.D. 1_ Simbolismo
IL SIMBOLISMO
Il simbolismo è un movimento letterario e artistico sorto in Francia per
iniziativa di Jean Mor"as, che ne pubblicò il manifesto su "Le Figaro" del 18
settembre del 1886, lo stesso anno della pubblicazione della rivista "Le
Decadent". I simbolisti pubblicarono numerose riviste, tra le quali spiccano le
diverse riviste da cui il verbo simbolista si diffuse: Le Symboliste, La Plume,
Le Mercure de France, la Revue blanche.
Il simbolismo prende lo spunto da una della più celebri poesie di Baudelaire,
«Correspondences» (corrispondenze), in cui il poeta francese scrive che tutte
le cose hanno tra di loro un legame misterioso, per cui spesso una ne
richiama l'altra, come un profumo o un colore o una musica richiamano ricordi
e tempi lontani.
LE CARATTERISTICHE
Per l'artista simbolista la realtà è mistero e la natura si presenta come
una foresta di simboli che al poeta spetta di interpretare e svelare con
un atto di intuizione–espressione.
Il poeta simbolista rifiuta la tradizionale logicità e referenzialità del
linguaggio e ricorre a tecniche come il simbolo, l’allegoria, l’analogia, la
metafora ricercata, la sinestesia1, gli accostamenti imprevisti e
misteriosi, le accumulazioni apparentemente insignificanti, l’uso
sapiente e simbolico degli spazi bianchi, degli artifici tipografici e iconici.
La poesia deve comunicare in forme non razionali, che trovano il loro
grande modello nel linguaggio della musica.
La parola poetica deve ricreare magicamente la realtà.
1
sinestesia: la sinestesia è una particolare forma di metafora con cui vengono accostati termini che appartengono a sfere sensoriali
diverse (olfattiva, visiva, auditiva e tattile).
«Il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i
minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può
abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità;
può rappresentare il sovraumano, il soprannaturale; può inebriare come un
vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro
intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto».
(Gabriele D’Annunzio)
Il poeta deve farsi veggente e al lettore è richiesto di essere persona
dotata di cultura, intuizione e sensibilità non comuni, di lasciarsi
coinvolgere in un’esperienza di lettura che va al di là di ogni normale
atto di comunicazione, di tendere i suoi sensi e la sua sensibilità per
cogliere i segni e gli indizi dell’esperienza sovranazionale compiuta dal
poeta.
Ogni cosa sacra – e che voglia restare sacra – si avvolge nel mistero. Le
religioni si trincerano in arcani misteri che si svelano solo a chi è
predestinato. Anche l'arte ha i suoi arcani... Io mi son chiesto spesso perché
questa caratteristica indispensabile è stata negata ad una sola arte, alla più
grande, cioè alla poesia... (Stéphan Mallarmé)
Per i simbolisti la realtà non è quella della scienza, della ragione o
dell'esperienza, è qualcosa di più profondo e misterioso che può essere
inteso soltanto dalla poesia. Poesia è perciò la rivelazione dell'essenza
misteriosa del reale: essa cerca le affinità segrete nelle apparenze
sensibili, per cogliere idee primordiali; essa intende il linguaggio della
realtà profonda, il messaggio segreto della natura, l'essenza.
L'arte è l'unico valore e la vita per potersi realizzare deve risolversi in
arte. L'arte è atto vitale, è la realizzazione dell'essenza stessa della vita,
è creazione e va al rovescio rispetto ai valori della società borghese.
Il poeta rinuncia alla funzione morale e sociale caratteristica dei
romantici; aspira a risalire alle sorgenti stesse dell'essere, vuol farsi
veggente, rivelare, cioè, l'ignoto, percepibile per illuminazioni, e
dell'inconscio, secondo le misteriose leggi delle universali
corrispondenze e delle analogie.
La natura è rappresentata come una foresta di simboli (da un verso di
Baudelaire) tra loro corrispondenti che racchiudono le chiavi del
significato dell'universo. Il mondo è un insieme di simboli che ci parlano
in un misterioso linguaggio: nè la scienza nè la ragione possono
penetrarlo, ma solo l'arte. Il poeta per intuizioni misteriose ed
improvvise coglie il senso riposto nella realtà, scoprendo collegamenti
apparentemente illogici fra oggetti diversi, associando colori, profumi,
suoni di cui riesce a percepire la misteriosa affinità, scegliendo le parole
non per il loro significato concreto ed oggettivo, ma per le suggestioni
che possono evocare con il loro suono ed il loro ritmo.
I POETI SIMBOLISTI
Gli esponenti del simbolismo furono Charles Baudelair, Arthur Rimbaud,
Paul Verlaine e Stéphan Mallarmè; essi influirono in misura determinante sui
successivi svolgimenti della poesia europea, specie in Inghilterra, in
Germania, in Russia. In Italia il simbolismo ebbe un'eco indiretta nella poesia
di Pascoli ed un riflesso su D'Annunzio. Ma fu soprattutto nei primi anni del
nuovo secolo che esso fu veramente conosciuto nella pienezza delle sue
affermazioni teoriche e delle sue proposte di novità espressiva, influendo così
in misura determinante sui futuristi e sui poeti ermetici.
U.D. 2_ Decadentismo
IL DECADENTISMO
Il Decadentismo nasce a Parigi negli anni ’80. Questa corrente letteraria
prende il nome da un componimento poetico, un sonetto di Paul Verlaine
“Langueur” (Languore) pubblicato in un periodico parigino “Le Chat Noir” (Il
gatto nero) il 26 maggio 1883. Questa composizione diventa il manifesto
della cultura decadente, in quanto esprime l’atteggiamento psicologico tipico
degli intellettuali parigini (senso di sfinitezza e atonia spirituale : Bohèmien).
Lo stato d’animo diffuso nella cultura del tempo era il senso di stanchezza e
di disfacimento di tutta una civiltà, l’idea di un prossimo crollo. Queste idee
erano proprie di alcuni circoli di avanguardia, che si contrapponevano alla
mentalità benpensante e ostentavano atteggiamenti bohèmien e idee
liberamente provocatorie, ispirandosi al modello maledetto di Baudelair.
La critica ufficiale usò il termine “decadentismo” con accezione negativa e
dispregiativa per designare un atteggiamento di gruppi intellettuali che
esprimevano lo smarrimento delle coscienze e la crisi di valori del tempo,
avvertendo, al di là dell'ottimismo ufficiale e spesso ipocrita della società, il
fallimento del sogno positivistico. Ma quegli scrittori fecero della definizione
una polemica insegna di lotta, in cui si gettavano, di fatto, i fondamenti d'una
nuova visione del mondo e d'una nuova realtà. Essi ebbero insomma la
coscienza di vivere un'età di trasformazioni e di trapasso, si sentirono
insomma gli scrittori della crisi, e avvertirono che il loro compito non era
quello di proporre nuove certezze, ma di approfondire i termini esistenziali di
questa crisi sul piano conoscitivo.
Nel 1886 il portavoce del movimento fu un periodico “Le Decadent”.
La situazione storica presentava una grave crisi dovuta alla politica
protezionistica e monopolistica, che portava grandi ripercussioni sia in politica
estera (con la ricerca di nuovi mercati, l’avvio al colonialismo e
conseguentemente diversi scontri e attriti internazionali) e in politica interna
(conflitto nel mercato del lavoro, formazione dei primi partiti politici operai e
nascita dei sindacati, con una difficoltà dei ceti medi e condizioni sociali e
psicologiche frustranti).
Il Decadentismo è un fenomeno complesso e le espressioni artistiche
che ad esso si collegano sono varie e diverse. Qui non è presente una sola
poetica che faccia da punto di riferimento comune al variare delle singole
esperienze, come nel Verismo ad esempio. Vi sono piuttosto varie direzioni di
ricerca, una proliferazione di poetiche, che possono in parte legarsi a due
movimenti culturali della letteratura europea: il SIMBOLISMO e L'ESTETISMO.
Anche in Italia non è possibile ritrovare una corrente letteraria unificante, ma
piuttosto poetiche individuali che si rifanno ai miti italiani: quella del
«superuomo» in D'Annunzio, del «fanciullino» in Pascoli, del «santo» in
Fogazzaro. Una reazione a questi miti, all'affermazione eroica dell'io, è
rappresentata dalla poesia dei CREPUSCOLARI ITALIANI che si rifanno ai temi del
decadentismo francese.
Queste esperienze sono accomunate dalla ricerca di nuovi strumenti
espressivi, il rigetto della cultura positivista e il rifiuto spesso aristocratico
della società contemporanea in ciò che essa ha di abitudinario, di etica
comune, di valori diffusi a livello di massa.
Riconducibile al decadentismo è anche il nascere delle avanguardie, cioè di
movimenti che pur con grande diversità di poetiche, mirano alla
sperimentazione di nuove tecniche espressive che, muovendo tutte da
premesse irrazionalistiche, segnino una radicale frattura col passato e siano
voce e testimonianza della consapevolezza della crisi. E' un'esplosione che
dura suppergiù fino agli anni '30 e comprende le cosiddette "avanguardie
storiche": FUTURISMO, CREPUSCOLARISMO, espressionismo, dadaismo,
surrealismo.
E' difficile stabilire i limiti cronologici del decadentismo letterario. Il
decadentismo nacque in Francia contemporaneamente al realismopositivismo, costituendo di fatto l'altra faccia della cultura degli anni 1850-60,
una cultura di minore importanza all'epoca, ma già grandiosa nelle sue
realizzazioni. Raggiunse il suo culmine attorno agli anni 1885-90, ma non è
facile stabilire un momento di chiusura poiché il malessere sociale che ne
costituiva l'humus verrà riscontrato anche nel novecento, fino ai nostri giorni.
CARATTERISTICHE:
Per attribuire all'arte i fini conoscitivi tipici decadentisti, era innanzitutto
necessario ridare autonomia creativa all'artista (che si fa ora «superuomo»
ora «fanciullino» o «veggente») affinché non fosse ridotto a impersonale e
freddo registratore della realtà, come avveniva nel Naturalismo; erano altresì
necessarie nuove tecniche espressive per definire l'inesprimibile (non più
l'obbligo dell'uso logico della parola, della sintassi, della punteggiatura).
LA POETICA DECADENTE
uso della SINESTESIA
! associazione inedita e analogica di due parole
appartenenti a due campi sensoriali diversi: è utilizzata per cogliere la
realtà non più solo attraverso i canali percettivi pubblici (vista e udito)
ma anche attraverso quelli privati (olfatto, tatto, gusto), in un reciproco
gioco di corrispondenze;
Baudelaire: profumi verdi come praterie e freschi come carne di bimbo;
Pascoli: silenzio candido nell'attesa di una nascita
la PAROLA perde la sua funzione logica, strettamente denotativa ed è
impiegata più per le sue valenze connotative; essa è liberata delle sue
energie, nelle sue capacità di sprigionare sensi multipli, perché solo se
lasciata vibrare nei suoi contenuti affettivi la parola potrà penetrare
nelle zone oscure e misteriose dell'inconscio, fino a cogliere le
sfumature della realtà e delle emozioni;
Pascoli: la parola come espressione dei tumulti dell'anima
la SINTASSI è liberata di tutte le intelaiature che condizionano la parola;
in tal modo essa può sprigionare tutte le sue energie;
Baudelaire: da L'Albatro: Per dilettarsi, sovente, le ciurme catturano
degli albatri, marini grandi
uccelli, che seguono, indolenti compagni di viaggio, il bastimento che
scivolando va su amari
abissi.
L'AGGETTIVO deve tendere a cogliere l'emozione: deve essere scelto per
suggerire il mistero che avvolge gli oggetti e la vita;
LA POESIA deve tendere alla fusione tra tutte le arti, accogliendo di
ognuna le suggestioni più produttive;
Baudelaire: le arti aspirano, se non a sostituirsi l'un l'altra, per lo meno a
prestarsi
reciprocamente energie nuove
la poesia deve ricorrere al SIMBOLO affinché possa andare oltre i dati
dell'esperienza quotidiana e ritrovare l'unità di fondo dell'esistenza. Gli
oggetti, le parole stesse, le immagini divengono simboli evocatori di
sentimenti, di stati d'animo, di idee, attraverso un misterioso legame di
analogie.
Per Pascoli, ad esempio, un libro sull'altana e sfogliato dal vento
evocherà simbolicamente il
mistero della vita tanto affannosamente e inutilmente indagato.
LA VISIONE DEL MONDO SECONDO I DECADENTI
rifiuto del positivismo;
ricerca e indagine del mistero che si cela nella realtà;
una fusione dell’io del poeta con il mondo naturale ! Panismo;
stato abnorme della coscienza come strumento del conoscere;
I TEMI DEL DECADENTISMO
ammirazione per le epoche in disfacimento e in decadenza (ultimo
periodo dell’impero romano);
perversione e crudeltà (masochismo e sadismo);
la nevrosi;
la malattia;
la morte;
Vitalismo ! superomismo dannunziano;
Rifiuto aristocratico della realtà.
LA POETICA DEL DECADENTISMO:
Il poeta è un veggente;
Il Bello è un piacere da ricercare sempre ! estetismo;
Rivoluzione del linguaggio, al fine di creare una poesia pura, non
contaminata da influenze precedenti;
La parola assume un valore magico e suggestivo;
Disprezzo per la cultura di massa e borghese;
Musicalità dell’espressione, attraverso l’uso di abbondante di simboli e
figure retoriche.
GLI EROI DECADENTI:
Il maledetto;
L’esteta;
L’inetto a vivere;
La donna fatale;
Il fanciullo pascoliano;
Il superuomo dannunziano;
La donna vampiro e fatale.
SUPEROMISMO:
L’analisi esasperata del proprio io, il desiderio di dominare, il
conflitto con la società portano alla concezione del superuomo: specie di eroe
asociale, irreale, eroe perfetto.
SENSO DEL MISTERO: I decadentisti non hanno l’orgogliosa fiducia dei positivisti
nella possibilità di conoscere la natura e di penetrarne i segreti. Essi la
vedono piena di forze ignote, piena di mistero e perciò impenetrabile.
Sentono che c’è un abisso tra sé e l’universo e sentono la necessità di
congiungersi ad esso. Ed è un abisso che la ragione non riesce a colmare;
soltanto l’intuizione del subcosciente li congiunge al mondo esterno col
linguaggio della poesia.
ASOCIALITÀ:
Il poeta, l’individuo, vive nel suo soggettivismo, si isola
volutamente dalla società e si compiace del suo isolamento spirituale.
LIBERTÀ:
Il poeta decadentista rivendica la massima libertà nell’esprimere il
proprio io e non accetta nessun freno o costrizione, neppure di carattere
morale.
SOGGETTIVISMO:
L’uomo si chiude in se stesso, si analizza e si scruta, e ci dà
una poesia dei suoi stati d’animo e della sua personale analisi psicologica. Il
centro della poesia non sono gli altri, non è la società, bensì il poeta stesso.
Egli analizza i suoi istinti, di qualsiasi natura.
LA VISIONE DELL'ARTE
L'arte è l'organo di conoscenza per eccellenza, per non dire l'unico;
ammessa l'impossibilità di conoscere la realtà più profonda mediante
l'esperienza, la ragione, la scienza, il decadente pensa che soltanto la
poesia, per il suo carattere di immediata intuizione, possa attingere al mistero
della vita, esprimere le rivelazioni dell'ignoto. Per questo essa è considerata
come pura illuminazione, messaggio che giunge da una zona remota,
opposta all'esperienza usuale, come espressione simbolica.
La poesia deve inoltre tendere alla fusione di tutte le arti perché di
ognuna deve accoglierne le suggestioni più produttive.
U.D. 3_ Giovanni Pascoli
Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Da
ragazzo, dal 1861 al 1871, fu nel collegio dei Padri Scolopi ad Urbino, quindi
nei licei di Rimini e di Firenze. Nel 1867, il padre, mentre tornava a casa su
un calessino trainato da una cavalla storna, rievocata nella poesia(X Agosto),
fu ucciso. Non si seppe mai chi fosse l’assassino ed il delitto rimase perciò
impunito. Poco dopo la morte del padre il Pascoli perse anche la madre e le
due sorelle e la famiglia, composta prevalentemente di ragazzi, cadde nella
miseria e nel dolore. Il poeta poté giungere alla laurea, grazie ad una borsa di
studio che gli permise di frequentare l’università di Bologna. Su questo fatto
importante egli ha lasciato una commossa rievocazione nel racconto Ricordi
di un vecchio scolaro.
Certamente le vicende tristissime della sua famiglia, a cui egli assistette da
fanciullo, e poi le difficoltà economiche e gli ostacoli da superare, sempre
solo, lasciarono un solco profondo nel suo animo ed influirono sul suo
carattere e conseguentemente sulla sua poesia.
Da professore, nel 1884, insegnò a Matera e quindi a Massa ed a Livorno,
ma, avendo assunto atteggiamenti anarchici, fu trasferito a Messina. Ma non
fu un ribelle, anzi, alla maniera decadente si chiuse nel suo dolore, si isolò in
se stesso, solo con le sue memorie e con i suoi morti. La sua ribellione fu un
senso di ripulsa e di avversione per una società in cui era possibile uccidere
impunemente e nella quale si permetteva che una famiglia di ragazzi vivesse
nella sofferenza e nella miseria.
Non c’è ribellione nella sua poesia, ma rassegnazione al male, una certa
passività di fronte ad esso: vi domina una malinconia diffusa nella quale il
poeta immerge tutto: uomini e cose. Egli accetta la realtà triste come è, e si
sottomette al mistero che non riesce a spiegare. La sua poesia non ha una
trama narrativa e non è neppure descrittiva: esprime soltanto degli stati
d’animo, delle meditazioni. E' l’ascolto della sua anima e delle voci misteriose
che gli giungono da lontano: dalla natura o dai morti. Nel 1892 da alle stampe
la prima edizione di Myricae, raccolta di poesie. Nel 1904 pubblica i Poemi
conviviali e l’edizione definitiva dei Primi poemetti. Nel 1905 succede a
Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna. Nel 1906 Pubblica
Odi ed Inni, nel 1909 Pubblica i Nuovi poemetti e le Canzoni di Re Enzio. Nel
1912 muore di cancro.
IL PENSIERO DI PASCOLI
Pascoli ebbe una concezione dolorosa della vita, sulla quale influirono due
fatti principali: la tragedia familiare e la crisi di fine ottocento.
La tragedia familiare colpì il poeta quando il 10 agosto del 1867 gli fu ucciso il
padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre, della sorella
maggiore, Margherita, e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi lutti lasciarono nel
suo animo un'impressione profonda e gli ispirarono il mito del "nido"
familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e idealmente i morti, legati
ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In una società sconvolta dalla
violenza e in una condizione umana di dolore e di angoscia esistenziale, la
casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si placano.
L'altro elemento che influenzò il pensiero di Pascoli, fu la crisi che si verificò
verso la fine dell'Ottocento e travolse i suoi miti più celebrati, a cominciare
dalla scienza liberatrice e dal mito del progresso. Pascoli, nonostante fosse
un seguace delle dottrine positivistiche, non solo riconobbe l'impotenza della
scienza nella risoluzione dei problemi umani e sociali, ma l'accusò anche di
aver reso più infelice l'uomo, distruggendogli la fede in Dio e nell'immortalità
dell'anima, che erano stati per secoli il suo conforto:
...tu sei fallita, o scienza: ed è bene: ma sii maledetta che hai rischiato di far
fallire l'altra. La felicità tu non l'hai data e non la potevi dare: ebbene, se non
hai distrutta, hai attenuata oscurata amareggiata quella che ci dava la fede...
Pertanto, perduta la fede nella forza liberatrice della scienza, Pascoli fa
oggetto della sua mediazione proprio ciò che il positivismo aveva rifiutato di
indagare, il mondo che sta al di là della realtà fenomenica, il mondo
dell'ignoto e dell'infinito, il problema dell'angoscia dell'uomo, del significato e
del fine della vita.
Egli però conclude che tutto il mistero nell'universo è che gli uomini sono
creature fragili ed effimere, soggette al dolore e alla morte, vittime di un
destino oscuro ed imperscrutabile. Pertanto esorta gli uomini a bandire, nei
loro rapporti, l'egoismo, la violenza, la guerra, ad unirsi e ad amarsi come
fratelli nell'ambito della famiglia, della nazione e dell'umanità. Soltanto con la
solidarietà e la comprensione reciproca gli uomini possono vincere il male e il
destino di dolore che incombe su di essi.
La condizione umana è rappresentata simbolicamente dal Pascoli nella
poesia I due fanciulli, in cui si parla di due fratellini, che, dopo essersi
picchiati, messi a letto dalla madre, nel buio che li avvolge, simbolo del
mistero, dimenticano l'odio che li aveva divisi e aizzati l'uno contro l'altro, e si
abbracciano trovando l'uno nell'altro un senso di conforto e di protezione,
sicchè la madre, quando torna nella stanza, li vede dormire l'uno accanto
all'altro e rincalza il letto con un sorriso.
OPERE PIÙ SIGNIFICATIVE
Pascoli usa ancora forme classiche come il sonetto, gli endecasillabi o le
terzine, ma la sua poesia costituì la prima reale rottura con la tradizione. Al di
là della sua apparente semplicità, è dalla poesia di Pascoli che genera buona
parte della poesia del Novecento. Le numerose pause che generano
spezzature all'interno del verso, oppure le frequenti rime sdrucciole che
producono accelerazione; l'uso insistito delle onomatopee, la presenza di
parole ricavate dalla lingua dei contadini così come da quella dei colti,
l'introduzione di temi fino ad allora rifiutati dai poeti importanti, tutto concorre
a produrre una poesia che è rivoluzionaria nella sostanza e nelle intenzioni
più che nella forma esteriore.
Il poeta è, per Pascoli, colui che è capace di ascoltare e dar voce alla
sensibilità infantile che ognuno continua a portare dentro di sé pur diventando
adulto. La poesia scopre nelle cose rapporti che non sono quelli logici della
razionalità e attribuisce ad ogni cosa il suo nome. Essa, senza proporsi
direttamente scopi umanitari e morali, porta ad abolire l'odio, a sentirsi tutti
fratelli e a contentarsi di poco, come avviene nei fanciulli.
... io vorrei trasfondere in voi, nel modo rapido che si conviene alla poesia,
qualche sentimento e pensiero mio non cattivo. [...] Vorrei che pensaste con
me che il mistero, nella vita, è grande, e che il meglio che ci sia da fare, è
quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo mistero
affanna e spaura. E vorrei invitarvi ala campagna. (dalla Prefazione ai Primi
poemetti, 1897)
Myricæ(1891): è una raccolta di liriche di argomento semplice e modesto,
come dice lo stesso Pascoli, ispiratosi per lo più a temi familiari e campestri. Il
titolo è dato dal nome latino delle tamerici ("non omnes arbusta iuvant
humilesque Myricæ": non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici), umili
pianticelle che sono prese a simbolo di una poesia senza pretese, legata alle
piccole cose quotidiane e agli affetti più intimi.
Il titolo è allusivo ad una poesia dimessa, diversa da quella del Carducci e
anche da quella ardua e aristocratica di D’Annunzio. La prima edizione è del
1891. Insieme con i Canti di Castelvecchio sono opere che la critica ha
definito "del Pascoli migliore", poeta dell’impressionismo e del frammento:
«Son frulli di uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane»,
scrisse il poeta nella Prefazione del 1894.
E' dunque una poesia fatta di piccole cose, inerenti per lo più alla vita della
campagna, di quadretti rapidissimi, conclusi nel giro di pochi versi
"impressionistici", dove le "cose" sono definite con esattezza, col loro nome
proprio (per esempio prunalbo per biancospino). Vi compaiono anche poesie
(Novembre, Arano) in cui le "cose" si caricano di una responsabilità simbolica
e già si affaccia il tema dei morti (X Agosto), sottolineando una visione della
vita che tende a corrodere i confini del reale – avvertito come paura e
mistero- per una evasione nella fiaba e nel simbolo (Carrettiere, Orfano,
L'assiuolo).
Nella raccolta, cresciuta nel tempo dalle 22 poesie della prima edizione alle
155 dell'ultima, tolti pochi componimenti rimasti a sé, le poesie si ordinano
per temi, corrispondenti ai cicli annuali della vita in campagna. La raccolta si
apre con Il giorno dei morti, il giorno in cui il poeta si reca al camposanto che
«oggi ti vedo / tutto sempiterni / e crisantemi. A ogni croce roggia / pende
come abbracciata una ghirlanda /donde gocciano lagrime di pioggia.» In
questa giornata «Sazio ogni morto, di memorie, riposa.» Non tutti però. «Non
i miei morti.»
Canti di Castelvecchio (1903): nella raccolta sono compresi e
approfonditi i temi di Myricæ, ma ha particolare incidenza il tema del nido
familiare e delle memorie autobiografiche e compaiono parecchi
componimenti di impianto narrativo; finito il vagabondaggio per la campagna
di Myricæ se ne inizia uno nuovo: ma ora è un viaggio attorno al suo giardino,
entro i cancelli e entro il suo orto.
Il senso del mistero, connesso al dolore della vita e all’angoscia della morte,
si traduce ora in una sorta di allucinazioni, nel ricordo dei morti (La tessitrice),
ora nell’auscultazione di richiami impercettibili (Le rane), ora nello
sconfinamento dei ricordi -suggeriti ad esempio dal suono delle campane- ai
limiti del preconscio (La mia sera). Sono trasalimenti dell’animo e simboli che
però lievitano frequentemente da notazioni realistiche, espresse attraverso un
discorso addirittura narrativo: «E s’aprono i fiori notturni, nell’ora che penso ai
miei cari / Sono apparse in mezzo ai viburni / le farfalle crepuscolari» (Il
gelsomino notturno). Si può dire che nei Canti sta il punto del massimo
compenetrarsi tra i due aspetti della poesia pascoliana: il simbolo e la realtà.
Poemetti (pubblicati nel 1897 e poi sdoppiati in Primi poemetti, 1904 e
Nuovi poemetti, 1909): costituiscono una vera e propria epica rurale sul
modello delle Georgiche virgiliane: cantano, in terzine dantesche, l’amore di
Rosa per il cacciatore Rigo, la vita contadina, il lavoro dei campi (La sementa,
La piada, L’accestire).
Italy affronta il tema dell’emigrazione (anch’esso riflesso di quello del nido)
dove il contrasto campagna-città, infanzia-maturità, spogliato delle sue
connotazioni autobiografiche, si oggettiva nel contrasto tra la vita patriarcale
che si svolge nella campagna nativa e quella febbrile della metropoli
americana, tutta tesa ai «bisini» ("business" gli affari) e al successo. Il
contrasto si risolve sul piano linguistico in un audace sperimentalismo.
A queste composizioni si intrecciano altre percorse da un simbolismo
insistito, e talvolta esplicito (Il libro); si accampa quella che è stata definita
«una poesia astrale», aperta a «voragini misteriose di spazio, di buio e di
fuoco» (La vertigine).
Poemi conviviali (1904): il loro titolo è tratto dalla rivista "Convivio" di
Alfredo De Bosis, ma allude anche ai canti degli aedi ai conviti (Triste il
convito senza canto). In endecasillabi sciolti, richiamano miti e figure del
mondo classico, greco e romano (il mito dell’Ellade percorre come un filo
rosso tutto l’Ottocento, da Foscolo a Leopardi, a Carducci, a D’Annunzio): ma
la sensibilità decadente di Pascoli stravolge questi miti, fino a farne simboli
della infelicità e del mistero, annullando -secondo un procedimento tipico che
sottintende la fuga dalla realtà– i confini della storia, per assorbirla in una
visione esistenziale: così Alessandro Magno, arrivato ai confini della terra,
piange, perché non può più "guardare oltre, sognare" (Piange dall’occhio
nero come morte / piange dall’occhio azzurro come il cielo, Alèxandros); così
l’etera non è più la creatura splendente di bellezza e di vita della tradizione
classica, ma è la donna affannata che, nell’Erebo, è circondata dalle larve dei
figli non nati; e "l’odissea" di Ulisse conduce l’eroe non verso le fascinose
plaghe del mito (Polifemo e le sirene sono illusorie costruzioni della fantasia),
ma verso l’orrenda morte.
Odi e Inni: contengono componimenti scritti a partire dal 1903. Pascoli
qui assume il ruolo di poeta–vate e celebra gli eroi nazionali, le realizzazioni
del lavoro e della tecnica, le grandi esplorazioni.
Carmina: è la raccolta delle poesie latine di Pascoli pubblicate dalla
sorella Maria;
Il fanciullino: testo in prosa in cui è espressa la poetica pascoliana.
La grande proletaria.
La poetica di Pascoli è espressa nella celebre prosa, Il fanciullino. Questi ne
sono i punti essenziali:
1. Vi è in tutti noi un fanciullo musico (il "sentimento poetico") che fa
sentire il suo tinnulo campanello d’argento nell’età infantile, quando egli
confonde la sua voce con la nostra – non nell’età adulta quando la lotta
per la vita ci impedisce di ascoltarlo (l’età veramente poetica è dunque
quella dell’infanzia).
2. Infatti, è tipico del fanciullo vedere tutto con meraviglia, tutto come per
la prima volta; scoprire la poesia nelle cose, nelle più grandi come nelle
più umili, nei particolari che svelano la loro essenza, il loro sorriso e le
loro lacrime (la poesia la si scopre dunque, non la si inventa).
3. Il fanciullino è quello che alla luce sogna o sembra di sognare
ricordando cose non vedute mai; è colui che parla alle bestie, agli
alberi, ai sassi alle nuvole, alle stelle, che scopre nelle cose le
somiglianze e relazioni più ingegnose, che piange e ride senza perché,
di cose che sfuggono ai nostri sensi e alle nostra ragione (la poesia
dunque ha carattere non razionale, ma intuitivo e alogico).
4. Il sentimento poetico, che è di tutti, fa sentire gli uomini fratelli, pronti a
deporre gli odi e le guerre, a corrersi incontro e ad abbracciarsi, per
questo la poesia ha in sé, proprio in quanto poesia una suprema utilità
morale e sociale. Non deve proporselo però, in quanto la poesia deve
essere "pura", non "applicata" a fini prefissati; il poeta è poeta, non
oratore o predicatore, non filosofo, non storico, non maestro.... La
poesia ha una funzione consolatoria: fa pago il pastore della sua
capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobiliato. E per
questo il poeta è per natura socialista, o come si avrebbe a dire umano.
ELEMENTI DELLO STILE PASCOLIANO
Il linguaggio: Pascoli usa un linguaggio poetico lirico, con echi e risonanze
melodiche ottenute talvolta con ripetizioni di parole e di espressioni
cantilenanti, arricchite di rapide note impressionistiche e di frasi spesso
ridotte all’essenziale. In questo egli prelude ai poeti del novecento.
Il lessico: è nuovo, con mescolanze di parole dotte e comuni ma sempre
preciso e scrupolosamente scientifico quando nomina uccelli (cince,
pettirossi, fringuelli, assiuoli...) o piante (viburni o biancospini, timo, gelsomini,
tamerici...).
Realtà e simbolismo: egli ricerca " nelle cose il loro sorriso", la loro anima, il
loro significato nascosto e simbolico. Ecco perché la sua poesia è sempre
ricca di allusioni e di analogie simboliche.
La sintassi: preferisce periodi semplici, composti di una sola frase, o
strutture paratattiche con frasi accostate mediante virgole o congiunzioni.
Aspetto metrico e fonico: partendo dalla metrica classica e tradizionale vi
innesta forme e metri nuovi, adatti ad esprimere timbri e toni nascosti,
assonanze e allusioni. Cura in particolare la magia dei suoni, la trama sonora,
gli effetti musicali di onomatopee espressive e di pause improvvise.
Accorgimenti stilistici: molto curate le scelte espressive. Per rendere le
immagini più vive e sintetiche, Pascoli ama talvolta eliminare congiunzioni e
verbi (ellissi) o fare accostamenti nuovi trasformando aggettivi e verbi in
sostantivi (un nero di nubi... il cullare del mare...). Ne risulta uno stile
impressionistico e nuovo.
U.D. 4_Gabriele D’Annunzio
Gabriele D'Annunzio divenne un personaggio di primo piano nella nostra
storia nazionale per la sua azione favorevole all’intervento italiano nella prima
guerra mondiale: Il celebre discorso La sagra dei mille, pronunciato sullo
scoglio di Quarto il 5 maggio 1915, fu come una scintilla che percorse tutta
l’Italia ed infiammò i giovani alla lotta. Quando l’Italia entrò in guerra,
D’annunzio aveva 52 anni, ma partecipò alla lotta prima fra i Lancieri di
Novara, poi in marina e quindi in aviazione. Compì molte imprese eccezionali,
dalla beffa di Buccari al volo su Vienna. Alla fine della guerra non fu
soddisfatto della cessione di Fiume alla Jugoslavia e perciò occupò la città
dalmata costituendovi un governo. D’Annunzio fu fautore di un progetto
aristocratico sia per la vita che per l’arte, egli disprezzò le masse e coprì di
parole di spregio e di derisione la borghesia bottegaia. Nondimeno era da
quest’ultima adorato.
Nato a Pescara il 12 marzo 1863, nel 1874 viene iscritto al collegio Cicognini
di Prato, dove resta sino al completamento degli studi liceali nel 1881; nel
1879 pubblica una raccolta di versi, Primo vere, che esce in seconda
edizione l'anno seguente. È possibile, al fine didattico, individuare nella vita
di D’annunzio sei periodi:
dal 1881 al 1891, durante il quale, a seguito del suo
trasferimento a Roma nel 1881, a conclusione degli studi liceali, pubblicò dei
racconti di cornice verista, Le novelle della Pescara, ambientate in un
Abruzzo primitivo e prorompente di umori sensuali, denso di interessi
mondani e culturali. Tutto proteso alla conquista della notorietà e della gloria,
frequentò i salotti più raffinati ed ebbe amori tanto travolgenti quanto effimeri;
tentò l’avventura politica, ottenendo l’elezione al Parlamento e scrisse
moltissimo sia in prosa che in poesia. Pubblica le raccolte poetiche Canto
novo (1882) e Intermezzo (1883). Lo "scandalo" della sua relazione con la
duchessina Maria Hardouin di Gallese si conclude con il matrimonio. Nel
1889 pubblica Il Piacere, la testimonianza più cospicua dell’estetismo italiano.
IL PERIODO ROMANO
IL PERIODO NAPOLETANO dal 1891 al 1894, si trasferisce a Napoli, in
seguito al naufragio del matrimonio con Barbara Leoni, lì collabora al
"Corriere di Napoli" e inizia una relazione con Maria Anguissola, principessa
Gravina, da cui ha due figli, che finisce nel 1897, quando inizia la
frequentazione con Eleonora Duse. In questo periodo pubblica:
"
"
"
"
il romanzo L'innocente (1892)
la raccolta di liriche Elegie romane (1892)
le liriche del Poema paradisiaco (1893)
il romanzo Trionfo della morte (1894).
Nell'estate del 1895 compie un viaggio in Grecia e nel 1897 partecipa alle
elezioni riuscendo eletto deputato, con un programma «al di là della destra e
della sinistra», che sostanzialmente è di chiara impostazione nazionalistica.
IL PERIODO DE "LA CAPPONCINA" dal 1898 al 1910, durante il quale
D’Annunzio si stabilì a Settignano in Toscana, nella villa della Capponcina,
dove condusse una vita talmente dispendiosa che, caricatosi di debiti
nonostante i cospicui guadagni ottenuti con le sue opere, nel 1909 fu
costretto a fuggire in Francia, in "volontario esilio", come egli disse con
sconfinata impudenza. "La Capponcina", che ha lussuosamente arredato, è
poco lontana dalla villa della Duse, la quale nel 1899 è interpreta l'opera
teatrale La Gioconda che ottiene notevole successo. Nel 1900 il suo romanzo
Il fuoco fa scandalo per le rivelazioni sugli amori con la Duse. Produce varie
opere teatrali: La figlia di Jorio, La fiaccola sotto il moggio, La nave e coltiva
anche altre relazioni amorose.
dal 1910 al 1915, durante il quale visse
lussuosamente, a Parigi, circondato da ammiratori e da amanti. Dalla Francia
seguiva attentamente le vicende italiane. Allo scoppio della guerra di Libia
scrisse le Canzoni delle gesta d’oltremare che inneggiavano alle mire
espansionistiche italiane. Scrisse, in francese: Le martyre de Saint Sébastien,
e la Pisanelle.
IL PERIODO FRANCESE
GLI ANNI DELLA GUERRA dal 1915 al 1920, durante il quale, nel 1915
ritorna in Italia e partecipa attivamente alla propaganda interventista col
discorso a Quarto per la Sagra dei Mille. Durante la guerra, alla quale
partecipò come volontario, ottenne varie medaglie d’oro e d’argento per le
sue imprese spericolate. In seguito a un incidente occorsogli durante un
atterraggio di fortuna, perse un occhio. Costretto all’immobilità per un certo
periodo, scrisse il Notturno, una serie di prose ritenute tra le cose di
D’Annunzio più sincere e più intense. Nel settembre, a capo di volontari e di
forze regolari, occupa militarmente Fiume in opposizione al governo italiano:
la abbandonerà di fronte all'intervento dell'esercito italiano nel dicembre del
1920 (impresa di Fiume).
GLI ULTIMI ANNI DAL 1921 AL 1938, durante il quale si stabilisce sul Lago
di Garda, a Gardone Riviera, in una magnifica villa prospiciente il lago di
Garda. Di qui salutò con grande favore l’avvento del fascismo, ma Mussolini,
mentre da una parte lo ricolmò di favori e di onori, dall’altra lo tenne alla larga
dalla politica. D’Annunzio trascorse gli ultimi anni in un isolamento tanto
splendido quanto intimamente vuoto. Nel 1937 viene nominato presidente
dell'Accademia d'Italia; muore il 1° marzo 1938 per emorragia celebrale. A
quest’ultimo periodo risale il Libro segreto, che insieme al Notturno oggi gode
di molta attenzione da parte dei critici.
LE OPERE:
Canto novo, raccolta di liriche pubblicata nel 1882. La natura è
rappresentata nel suo tripudio di luci, colori, odori e con essa il giovane poeta
stabilisce un "rapporto di tipo solare" proteso al godimento e alla fusione con
essa.
Il piacere, il più noto dei romanzi di D'annunzio. Il protagonista è
Andrea Sperelli. Raffinato e gelido; cultore solo di un bello aristocratico;
spregiatore del grigio diluvio democratico odierno che tante belle cose e rare
sommerge miseramente, Andrea Sperelli è l'ultimo rampollo di un'antica
famiglia nobile e ne continua anche la tradizione: è un raffinato, predilige gli
studi insoliti, è un esteta. Tutta la sua vita è improntata su questi criteri come
pure la vita amorosa. Il romanzo si apre nel giorno di S.Silvestro. Andrea
Sperelli, il protagonista, attende, nel suo appartamento la visita di Elena Muti,
la donna che è stata sua amante, ma che non vede da quasi un anno.
L’arrivo di Elena è preceduto da una rievocazione dell’ultimo incontro fra i due
e, come in un gioco di scatole cinesi, dal ricordo della loro storia d’amore che
in quel giorno lontano Andrea aveva rievocato. L’incontro porta però ad una
nuova separazione ed Elena, che ora è sposata, se ne va piangente,
lasciando l’amante nella prostrazione più profonda. I capitoli che seguono
ripropongono in modo più dettagliato ed impersonale il primo incontro tra i
due e la loro storia d’amore, terminata quando la donna (già vedova del duca
di Scerni) aveva preferito sposare il ricchissimo Lord Heathfield, e la
tumultuosa serie di avventure erotico-sentimentali alle quali Sperelli si era
abbandonato dopo il loro addio. Il primo libro termina con la descrizione di un
duello in cui Andrea è coinvolto a causa di un'altra donna e che termina con il
suo ferimento. Durante la convalescenza, in una sorta di purificazione e di
rinascita spirituale, Andrea Sperelli scopre la profonda perfezione dell’arte e
medita di "trovare una forma di Poema moderno", "una lirica veramente
moderna nel contenuto ma vestita di tutte le antiche eleganze". E’ in questo
momento di elevazione intellettuale e di distacco dalle passioni tumultuose
che egli incontra Maria Ferres, moglie di un ministro guatemalteco, ed inizia
fra i due un amore platonico, poi rievocato, attimo per attimo, nel diario di
Maria che occupa un’ampia sezione del secondo libro e che termina con
l’esplicito riconoscimento, da parte della donna, del suo amore per Andrea. A
questo punto si chiude la lunga parentesi retrospettiva e la narrazione
riprende dal quel giorno di San Silvestro in cui Elena ed Andrea si
rincontrano. Tutta la parte finale è costituita da una sorte di tormentato
contrappunto tra l’amore sensuale per la Muti, che illude e tradisce Andrea
tenendolo però avvinto a sé, e l’amore più puro e spirituale del protagonista
per Maria. Sarà però la passione dei sensi a prevalere e, proprio quando
Andrea sembra aver conquistato definitivamente il cuore della Ferres che gli
si concede, egli pronuncerà, fra le braccia della sua nuova amante il nome di
Elena.
Poema paradisiaco, raccolta di liriche composte dal 1891 e pubblicate nel
1893. Il titolo, derivato dal latino, equivale letteralmente a "poema dei
giardini". Si rileva qui la tematica decadente, ma segnata di rievocazione
nostalgica, con aspirazioni epidermiche a una sorta di purezza e di
spiritualizzazione delle passioni, che si traducono in un linguaggio e in una
versificazione sapientissimi, accordati su toni dimessi, come di colloquio e di
confessione.
L'Innocente, romanzo pubblicato nel 1892, che non tiene nascosti gli influssi
della lettura del russo Dostoevskij. È una narrazione in prima persona ed è
incentrato sulle vicende di Tullio Hermil e della moglie Giuliana. A lei, malata,
Tullio si dedica in modo particolare con una sorta di volontaristica pratica di
"bontà", malgrado sia attratto e legato all'amante Teresa Raffo. Ma proprio
quando si libera da questo legame, crede di scoprire gli indizi di una relazione
della moglie con lo scrittore Filippo Arborio poi confermati dalla notizia che
Giuliana è incinta. Nei due coniugi spunta un progetto delittuoso: sopprimere
il nascituro, testimonianza di una fugace colpa, ostacolo alla realizzazione del
loro "sublime" amore. È Tullio che, esponendo al freddo invernale il bambino,
l'"innocente", compie il delitto.
Trionfo della morte, romanzo del 1894, terzo del "Ciclo della rosa". L'opera,
articolata in sei "libri", ha una struttura narrativa debole. È incentrata sul
rapporto contraddittorio e ambiguo di Giorgio Aurispa con l'amante Ippolita
Sanzio e su questo tema di fondo si innestano o si sovrappongono altri motivi
e argomenti. Giorgio, in una confusa contaminazione tra superomismo e
velleità mistiche, aspira a realizzare una vita nuova, una perfezione di vita
spirituale che si fondi sull'autodominio e sull'autosufficienza, e vive il rapporto
con l'amante come limitazione, come ostacolo.
Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: l'opera poetica più
notevole e famosa. Doveva essere di cinque libri, quante sono le Pleiadi,
invece è solo di quattro.
1. Il primo libro, Maia, è composto nel 1903 e il sottotitolo (Laus vitae) ne
chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione dell'energia
vitale, un naturalismo pagano impreziosito o sopraffatto dai riferimenti
classici e mitologici.
2. Il secondo libro, Elettra, composto tra il 1899 e il 1902 celebra gli eroi
della patria e dell'arte; nella terza parte sono cantate 25 "città del
silenzio" e nella quarta parte è il famoso Canto augurale per la Nazione
eletta che infiammò di entusiasmo i nazionalisti italiani.
3. Il terzo libro, Alcyone, pubblicato con il primo, contiene il meglio di
D'Annunzio come poeta.
4. Il quarto libro, Merope, raccoglie canti celebrativi della conquista della
Libia.
Notturno, raccolta di meditazioni e ricordi, in forma di prosa lirica, redatta nel
1916 durante il periodo di immobilità e di cecità. L’opera è caratterizzata da
un momento di intimità e di ripiegamento su sé stesso.
Nella prima parte del libro predomina il ricordo dell’amico e compagno di armi
Giuseppe Miraglia, morto ancora giovane nel dicembre del 1915, cui farà
seguito il sentimento denso di commozione affettuosa per la madre inferma e
stanca, che morì di lì a poco, nel gennaio del 1917. Tra pagine di esaltazione
eroica, in cui il poeta lamenta l’inganno che la morte gli ha teso, lasciandolo
in vita al posto dei suoi più giovani compagni, tra quelle di dolente rimpianto
per gli amici scomparsi, troviamo appuntate le sensazioni del poeta, le sue
osservazioni sulla vita e sull’arte e preziosissime riflessioni.
IL CICLO DEI ROMANZI
Sull'esempio dei romanzi ciclici dell'ottocento di Honorè de Balzac (La
commedia umana), di Zola (i Rougon-Macquart), di Verga (I vinti),
D'Annunzio si propose di scrivere un ciclo di romanzi, suddiviso in tre trilogie,
ciascuna denominata da un fiore (la rosa, il giglio, il melograno), simbolo delle
tappe evolutive del suo spirito dalla schiavitù delle passioni alla vittoria su di
esse, giacché i protagonisti dei romanzi non sono che la proiezione sul piano
narrativo dello stesso D'Annunzio.
I romanzi della rosa, fiore simbolo della voluttà, della passione invincibile:
Il Piacere (1889)
L'innocente (1892)
Il trionfo della morte (1894)
I romanzi del giglio, fiore simbolo del superuomo, della passione che si
purifica. La seconda trilogia doveva ispirarsi al superuomo di Nietzsche. Il
superuomo non è più schiavo delle passioni ma si serve di esse per
realizzare pienamente la propria volontà di potenza. In verità Nietzsche non
auspicava l'avvento di un uomo superiore agli altri, al quale, in grazia delle
qualità eccezionali, fosse tutto permesso, ma l'avvento di un'umanità
rinnovata la quale, per poter sviluppare tutte le sue potenzialità, doveva
liberarsi da ogni soggezione alla trascendenza e alla morale tradizionale,
fatta di ipocrisie e finzioni. D'Annunzio ignorò o finse di ignorare il significato
profondo del niccianesino e lo adottò al suo temperamento sensuale, facendo
del superuomo l'individuo d'eccezione, destinato a dominare sugli altri. Nel
superuomo nicciano, così come lo immaginò D'Annunzio, s'intravede
piuttosto il profilo dei grandi dittatori sanguinari e deliranti del nostro secolo,
col loro macabro seguito di tragedie e di guerre. Della seconda trilogia,
D'Annunzio scrisse solo il primo, Le vergini delle rocce (1896). Claudio
Cantelmo, aristocratico e imperialista, seguace delle dottrine del superuomo,
concepisce il disegno di unirsi in matrimonio con una delle principesse
(Massimilla, Anatolia, Violante) di un'antica famiglia borbonica del regno delle
due Sicilie, i Capece-Montaga, ridottasi a vivere nell'ultimo dei suoi feudi,
Trigento, "paese di rocce". Scopo del matrimonio è procreare il futuro
sovrano, al quale un giorno il popolo, disgustato della demagogia e dalla
corruzione della vita politica, offrirà la corona regale.
I romanzi del melograno, pomo dai molti granelli, simbolo dei frutti che
possono derivare dal dominio delle passioni. Dei tre romanzi previsti,
D'Annunzio scrisse solo il primo, Il fuoco (1900).
Il fuoco (così intitolato perché inteso come simbolo della creatività
dell'artefice), narra, sullo sfondo di Venezia, la storia dell'amore di Stelio
Éffrena per la Foscarina. E' un romanzo scopertamente autobiografico,
perché vi è adombrata la storia dell'amore del poeta per l'attrice Eleonora
Duse. Stelio è un poeta che sogna una nuova forma di arte drammatica, che
risulti dall'intima fusione della parola, del colore, del suono, dell'azione. E' la
stessa poetica di Wagner, che del romanzo è un personaggio. La Foscarina
dovrebbe essere l'interprete di questo nuovo dramma; ma Stelio s'innamora
della giovinetta Donatella Arvale. La Foscarina se ne accorge e ne è gelosa,
ma dopo, rassegnata, cede il posto alla rivale e si accomiata da Stelio.
IL MITO DI D'ANNUNZIO
D'Annunzio rappresentò nella vita italiana, con i suoi atteggiamenti,
innanzitutto un fatto di costume, incarnò i desideri di evasione dalla
monotonia quotidiana di ceti intellettuali e borghesi insoddisfatti della realtà
della vita nazionale nei decenni post-risorgimentali. Per questo gran parte
della sua vastissima opera, creata per esaltare e sostenere il mito che di sé
aveva costruito, appare oggi superata e priva di attualità. Ebbe tuttavia
almeno due meriti: sul piano culturale, si avvicinò di volta in volta ad autori ed
atteggiamenti del decadentismo europeo contribuendo a diffonderne la
conoscenza in Italia ed a sprovincializzare la nostra cultura. Sul piano più
intimamente poetico, accanto all'esteriorità di molti atteggiamenti
esibizionistici seppe almeno cogliere ed esprimere la comunione dei sensi e
dell'anima con la molteplicità della vita naturale, creando quella dimensione
"panica", di immedesimazione quasi fisica e sensuale basata sulle immediate
sensazioni, che in particolare nella raccolta Alcyone segna il nascere di un
atteggiamento nuovo per la nostra poesia. Per esprimere questo
atteggiamento raffinato e sensuale D'Annunzio si servì di un linguaggio
ostentatamente insolito ed artistico, basato sul recupero di preziose voci
arcaiche e sull'invenzione di neologismi capaci di stupire e meravigliare; creò
così un "culto della parola" ricercata soprattutto per clamorose risonanze
musicali (anch'egli si affidò molto alle onomatopee) che spesso è solo
espediente retorico, ma che sa anche diventare talora esperienza linguistica
originale e contribuisce, anche se in misura minore del Pascoli, ad avviare il
nuovo linguaggio poetico del '900 verso le svolte successive.
U.D. 5_ Italo Svevo
Italo Svevo nasce a Trieste nel 1861 da una famiglia della borghesia
commerciale di origine ebraica: suo nonno visse in Renania (Germania). Il
suo vero nome è Ettore Schmitz: scelse di chiamarsi "Italo" per dichiararsi
"italiano"; "Svevo" per mostrare la sua origine tedesca. I primi studi li fece in
Germania: fatto, questo, che lo metterà a disagio quando poi scriverà in
italiano i suoi romanzi. Svevo non fu solo un romanziere, ma anche un critico
letterario, drammatico e musicale, ma ebbe, come critico, poca fortuna,
anche se prese come modello il De Sanctis; fu anche uno scrittore di opere
teatrali (quasi sempre incomplete e rimaste inedite durante la sua vita) e un
novelliere, ma senza successo.
A Trieste s'indirizzò verso studi di economia, frequentando un Istituto
superiore commerciale. Il fallimento dell'azienda paterna lo costrinse a
diventare nel 1880 un impiegato di banca, pur sentendo forte la vocazione
letteraria. In banca lavorerà per 18 anni. Nel frattempo legge alcuni classici
tedeschi, italiani e francesi. Notevole è il suo interesse per il filosofo
irrazionalista Schopenhauer e per i grandi narratori realisti (Zola, Balzac,
Flaubert...). Legge anche Machiavelli, Guicciardini, Boccaccio e De Sanctis.
Preferisce gli autori che s'impongono per la concretezza dei loro contenuti più
che per la loro proprietà formale e stilistica.
Il suo primo romanzo, Una vita, fu pubblicato a sue spese nel 1892, ma
passa inosservato. Narra di un giovane, Alfonso Nitti, venuto dalla provincia a
Trieste per impiegarsi in una banca. Egli vive una doppia vita: una da
impiegato, di cui non è contento; l'altra da studioso che coltiva sogni letterari.
All'inizio le prospettive sembrano buone: Annetta, figlia del proprietario della
banca, s'innamora di lui e con lui intraprende la stesura di un romanzo.
Quando però Alfonso s'accorge che per Annetta questo impegno era solo un
gioco, va in crisi e non sa più come comportarsi. Approfitta di una grave
malattia della madre per allontanarsi dal lavoro. Si rende ogni giorno più
conto d'essere totalmente incapace di reagire alle situazioni. In seguito alla
morte della madre e al fidanzamento di Annetta con un giovane del suo ceto,
Alfonso, dopo una spietata autoanalisi, si uccide.
Il protagonista è dunque un inetto, un incapace a vivere la vita: non tanto
perché non vuole inserirsi nella società borghese (vuota, superficiale), quanto
perché contrappone a questa società un mondo velleitario di sogni
irrealizzabili. E' un uomo in cui la paralisi della volontà, il suo stato di ansia e
di incertezza hanno il sopravvento sulle critiche che la sua ragione muove
alla società. Il romanzo inizia in modo realistico e naturalistico, ma si
conclude in maniera psicologica (emotiva).
Nel 1898 pubblica Senilità, ma anche questo non ebbe successo. Il
protagonista è Emilio Brentani, un impiegato triestino. Anche lui è un
intellettuale con velleità letterarie. S'innamora di Angiolina, una donna dai
facili costumi, che lui però crede ingenua e pura. Quando s'accorge
dell'errore, spera di recuperarla alla vita onesta, ma non ci riesce. Così cerca
una giustificazione (attenuanti) all'atteggiamento della moglie, facendone una
vittima della società. Emilio non si suicida ma si toglie la facoltà di desiderare,
perché non vede più davanti a sé una realtà da costruire.
Il silenzio che accolse quest'opera lo demoralizzò al punto che per 25 anni
non scrisse più niente. D'altra parte Svevo non frequentava i circoli letterari
del suo tempo, né partecipava ai movimenti di idee che caratterizzavano
l'inizio del secolo. La stessa Trieste era una città con una cultura autonoma,
che se di quella italiana sapeva assorbire gli aspetti più realistici, si mostrava
anche sensibile agli apporti culturali delle correnti slave e germaniche. Senza
questo influsso, non sarebbe potuto nascere il "romanzo analitico" di Svevo:
il romanzo cioè che alla rappresentazione oggettiva dei fatti (Verismo)
sostituisce quella di una complicata e profonda angoscia esistenziale,
sostenuta dalla tecnica del monologo interiore, che è una tecnica di
narrazione indiretta e automatica, per cui gli avvenimenti sono presenti solo
attraverso il riflesso ch'essi hanno avuto nella coscienza del protagonista.
Per rifarsi dagli insuccessi letterari, impara a suonare il violino e si mette a
studiare l'inglese. L'insegnante era James Joyce (conosciuto nel 1905), che
più tardi sarebbe diventato il più grande scrittore irlandese e uno dei più
grandi del Novecento. A lui lesse Una vita e Senilità, che non dispiacquero a
Joyce.
Nel '99 entra come socio nella ditta commerciale del suocero (vernici
sottomarine). Dopo la I guerra mondiale (in cui parteggiò idealmente per gli
italiani), scrisse l'ultimo suo romanzo, La coscienza di Zeno, che uscì nel
1923 (il libro risente molto delle polemiche intorno alle idee di Freud).
Anch'esso in un primo momento venne ignorato. Senonché nel 1925, anche
per sollecitazione di Joyce, due critici francesi esaltarono Svevo e l'ultimo suo
romanzo, facendolo conoscere a tutta Europa. Due mesi prima, in Italia,
anche Montale aveva manifestato la sua ammirazione per La coscienza di
Zeno, imponendolo all'attenzione della critica italiana. Gli ultimi anni di Svevo
furono quindi abbastanza felici. Morì nel 1928 per un incidente
automobilistico.
IDEOLOGIA E POETICA
A Svevo non è mai interessato rientrare in quelle esperienze culturali italiane
volte a superare la crisi post-risorgimentale nella valorizzazione della realtà e
dei problemi regionali (ad es. il Verismo). Né gli premeva di ricercare nuovi
miti e modelli di comportamento per una borghesia velleitaria o delusa (ad es.
Decadentismo, Futurismo, ecc.). Il suo orientamento va piuttosto in direzione
di una tematica esistenziale, verso la rappresentazione della solitudine e
dell'aridità degli individui che avvertono con disperazione la loro incapacità di
aderire alla vita. La sua poetica, in un certo senso, rientra nel vasto
movimento decadentistico. Della vita dell'uomo gli interessano non i rapporti
sociali, ma gli impulsi più segreti e oscuri, che paralizzano, ovvero gli aspetti
dissociati e contraddittori del pensiero e dell'agire. Nei suoi romanzi appare
evidente che la solitudine e l'alienazione dei protagonisti sono manifestazioni
di una "malattia mortale" che corrode non solo i singoli individui, ma l'intera
società borghese, per cui non c'è alcuna speranza che la situazione possa
migliorare. C'è insomma un abisso incolmabile fra la consapevolezza con cui
si avverte questa tragedia e la possibilità di un'azione costruttiva: anzi,
quanto più è forte la consapevolezza, tanto più è forte l'incapacità di reagire.
Svevo e Pirandello, in questo senso, si somigliano molto. Svevo si inserisce
perfettamente in questa scoperta dell'inconscio (fatta da Freud), che è la
strada anche di Proust e di Joyce, ed è questa la vera novità del suo
romanzo. Svevo s'interessò molto di psicanalisi freudiana, che era stata
divulgata negli anni successivi alla I guerra mondiale, ma il suo interesse è
caratterizzato da uno spirito polemico e sottilmente ironico nei confronti
di questa nuova disciplina. La psicanalisi viene vista come una terapia cui
il protagonista dell'ultimo romanzo si sottopone scetticamente, per giungere,
quasi contro questa stessa terapia, a ricostruire da solo le motivazioni
profonde del suo comportamento.
LA COSCIENZA DI ZENO (1923)
Il protagonista, più che cinquantenne, è Zeno Cosini, un uomo che non
essendo riuscito a smettere di fumare, arriva a farsi rinchiudere in una casa di
cura (ove si verificano situazioni comiche: ad es. tentativo di seduzione di una
matura infermiera per avere sigarette, sospetti sulla fedeltà coniugale della
moglie, sino all'evasione notturna). Il dottore, vista l'inutilità dei primi metodi,
lo aveva consigliato di scrivere la propria autobiografia, psicanalizzando se
stesso, nella speranza di vederlo guarire. In realtà Zeno, quando inizia a
scrivere il romanzo, lo fa in polemica con la terapia del dottore. Il romanzo, in
un certo senso, è come un diario a episodi (i "ricordi") intercalato dal racconto
vero e proprio (il "monologo interiore"). Gli episodi principali sono il
matrimonio con la seconda delle tre sorelle Malfenti, che non amava, dopo
essere stato rifiutato dalle altre due, che amava. Le tappe che lo portano al
matrimonio (così come a una relazione adulterina) sono casuali. Pur non
avendo tatto, sa tradire la moglie senza destare il minimo sospetto. Ha
fortuna negli affari, nonostante la scarsa stima di cui gode presso i parenti.
Anzi, salva la posizione finanziaria del brillante cognato Guido, che sembrava
destinato al successo. La morte del padre, la cui rievocazione gli suscita più
che il dolore un profondo rancore: Zeno ricerca vanamente dentro di sé la
commozione che gli appare doverosa nella circostanza, poi si rifugia in una
inconsapevole ma comoda ipocrisia, al fine di sentirsi "buono". Maggiormente
analizzata è la malattia di Zeno, con tutti i suoi inutili quanto puntuali
proponimenti di smettere di fumare. Zeno si considera "malato", ma la sua
malattia è da un lato "immaginaria", dall'altro "reale". Immaginaria perché di
comodo, reale perché gli condiziona di fatto tutta la vita. La vera malattia non
è il tabagismo (che comunque nel romanzo resta irrisolta), ma l'alienazione,
la netta divisione fra la ragione con cui egli analizza criticamente le
contraddizioni della realtà e la volontà (i sentimenti) con cui cerca di
affrontarle, che resta sempre impotente, conformistica, vuota. Lo scompenso
fra la teoria e la prassi si rivela nei gesti con cui egli esprime proprio quello
che non vorrebbe. Così, mentre agisce per conseguire un risultato, ne ottiene
un altro; quando non s'interessa alle cose o alle persone è la volta che tutto
gli riesce. Zeno stesso non sa giudicare se vale di più la furbizia o la fatalità.
In questa condizione la psicanalisi non serve come terapia ma solo come
metodo d'indagine dei sintomi della malattia: essa può solo offrire la
coscienza dell'alienazione, non l'esperienza del suo superamento. Svevo, in
pratica, si serve della psicanalisi per condannare l'ipocrisia della società
borghese, ma non offre valide alternative. Le uniche due sono le seguenti: 1)
prendere coscienza di questa tragedia umana e limitare le proprie ambizioni o
pretese, vivendo più a contatto con le esigenze della natura (ma non nel
senso della moglie di Zeno, la quale, nel romanzo, soffre meno di lui, perché
vive di più il presente, adeguandosi alla realtà. Secondo Zeno invece la
mancata consapevolezza dell'alienazione rende Augusta ancora più malata
di lui). 2) L'altra alternativa è offerta dall'ironia, che permette all'uomo di
sopravvivere, anche se non in maniera convincente, nelle assurde
contraddizioni della società borghese. Svevo si serve anche dello strumento
del tempo, nel senso che il fluire del tempo confonde la coscienza, finché ne
giustifica le azioni, anche quelle negative. Ecco perché lo psicanalista viene
considerato da Zeno come un "uomo ridicolo", che s'illude di poter guarire il
suo paziente.
U.D. 6_ Luigi Pirandello
Nasce ad Agrigento nel 1867, da una famiglia dell'agiata borghesia,
proprietaria di una miniera di zolfo. Sia la madre che il padre parteciparono
attivamente alla campagna garibaldina in Sicilia. Dopo aver frequentato il liceo
classico a Palermo, Pirandello si iscrive alla facoltà di Lettere dell'Università di
Roma, dedicandosi soprattutto alla filologia romanza. In seguito a un violento litigio
con un docente, si trasferisce a Bonn nel 1889, dove nel '91 si laurea con una tesi
sul dialetto di Agrigento. A Bonn resta come lettore d'italiano per un anno.
Nel '93 torna in Italia. L'anno dopo si sposa con la figlia di un socio di suo
padre. Il matrimonio era stato quasi "combinato". Si stabilisce con la famiglia a Roma
ed entra nella vita culturale e letteraria del suo tempo, collaborando a numerosi
periodici: stringe amicizia con Luigi Capuana, mentre resta ostile al D'Annunzio. Nel
'97 assume, come incaricato, l'insegnamento di Letteratura italiana (stilistica) presso
l'Istituto superiore di Magistero a Roma; nel 1908 ne diventa professore ordinario
insegnando sino al 1922.
Nel 1903 una frana con allagamento distrugge la miniera di zolfo nella quale
erano stati investiti sia i capitali di suo padre che la dote di sua moglie, la quale, già
sofferente di nervi (sospettava continuamente che il marito la tradisse), si ammalò
gravemente, cominciando a manifestare i primi segni di uno squilibrio psichico che la
condurrà poi in manicomio. Pirandello reagì a questa situazione conducendo a
Roma vita ritirata (per non offrire pretesti alla follia della moglie, ma inutilmente) e
lavorando intensamente, anche per far fronte alle difficoltà economiche (insegnava,
scriveva e dava lezioni private).
Tuttavia, le sue novelle, raccolte poi col titolo Novelle per un anno, e i suoi
romanzi (L'esclusa, Il turno, Il fu Mattia Pascal e altri), nonché i suoi saggi (in
particolare L'umorismo) passarono quasi inosservati. La celebrità gli giunse soltanto
in età matura, quando -a partire dal 1916- si rivolse quasi interamente al teatro. Le
sue commedie, talvolta accolte con dissensi clamorosi, si imposero al pubblico
soprattutto dopo la fine della I guerra mondiale. Ottennero vasta risonanza Liolà,
Pensaci Giacomino!, Così è (se vi pare), Sei personaggi in cerca d'autore, L'uomo
dal fiore in bocca, Enrico IV e molte altre commedie.
Nel 1921 inizia ad ottenere grande successo anche all'estero (Praga, Vienna,
Budapest, Usa, Sudamerica...), oscurando la fama del D'Annunzio. Nel '24 si iscrive
al partito fascista, pochi mesi dopo l'assassinio di Matteotti e forte sarà la sua
polemica con Amendola. Tuttavia, Pirandello, che si era iscritto solo per aiutare il
fascismo a rinnovare la cultura, restandone presto deluso, non si è mai interessato
di politica. Nel '29 il governo Mussolini lo include nel primo gruppo dell'Accademia
d'Italia appena fondata (insieme a Marinetti, Panzini, Di Giacomo...): questo era
allora il massimo riconoscimento ufficiale per un artista italiano, ma Pirandello non
se ne dimostrò affatto entusiasta. Nel '25 assunse la direzione di una compagnia
teatrale di Roma, che resterà in vita sino al '28.
Nel '34 gli viene conferito il premio Nobel per la letteratura. Mussolini,
attraverso il Ministero degli Esteri, cercò subito di sfruttarne la fama internazionale
sperando di usarlo come portavoce estero delle ragioni del fascismo impegnato
nella conquista dell'Etiopia. Nel luglio del '35 infatti il drammaturgo doveva partire
per Broadway, per rappresentare alcuni suoi capolavori e sicuramente sarebbe
stato intervistato dai giornalisti. Ma Pirandello non si prestò a tale servilismo.
Durante le riprese cinematografiche de Il fu Mattia Pascal, effettuate a Roma,
si ammala di polmonite e muore nel '36, lasciando incompiuto I giganti della
montagna. A dispetto del regime fascista, che avrebbe voluto esequie di Stato,
vengono rispettare le clausole del suo testamento: "Carro d'infima classe, quello dei
poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il callo, il
cocchiere e basta". E così fu fatto.
ideologia e poetica
Essendo siciliano, anche Pirandello muove da moduli veristi con novelle paesane,
ma da subito il suo verismo è caricaturale e grottesco, inteso a scardinare
polemicamente i nessi logici della realtà, soprattutto laddove questi nessi non sono
altro che pregiudizi borghesi. I suoi temi di fondo sono già tutti presenti nel suo
primo romanzo, L'esclusa (1901) che narra la storia di una donna cacciata di casa
dal marito perché ritenuta, ingiustamente, adultera, poi riammessa proprio quando
l'adulterio l'ha realmente compiuto.
I temi di fondo sono:
- il contrasto tra apparenza (o illusione) e realtà (o tra forma e vita), nel senso
che l'uomo ha degli ideali che la realtà impedisce di vivere, poiché la realtà si
ferma all'apparenza e non permette all'uomo di essere se stesso;
- l'assurdità della condizione dell'uomo, fissata in schemi precostituiti (adultero,
innocente, ladro, iettatore, ecc.): a ciò Pirandello cercherà di opporre il
sentimento della casualità o imprevedibilità delle vicende umane; molte sue
commedie rappresentano situazioni inverosimili o paradossali, proprio per
mettere meglio in luce l'assurdità dei pregiudizi borghesi;
- le molteplici sfaccettature della verità (tante verità quanti sono coloro che
presumono di possederla) espresse col "sentimento del contrario" (che è alla
base del suo umorismo e che viene utilizzato per vanificare ogni possibile
illusione).
Pirandello ha una concezione relativistica dell'uomo, che ne esclude una
conoscenza scientifica. L'uomo è troppo assurdo per essere capito (mentre la
natura è più semplice, inconsapevole, felice, anche se resta un paradiso perduto e
rimpianto). Il borghese si dibatte fra ciò che sente dentro (sempre mutevole) e il
rispetto che deve alle convenzioni sociali (sempre fisse e stereotipate). La "forma" o
"apparenza" è l'involucro esteriore che noi ci siamo dati o in cui gli altri ci
identificano; la "vita" invece è un flusso di continue sensazioni che spezza ogni
forma. Noi crediamo di essere "forme stabili" (personalità definite): in realtà tutto ciò
è solo una maschera dietro cui sta la nostra vera vita, fondata sull'inconscio, cioè
sull'istinto e sugli impulsi contraddittori. Parafrasando un titolo di un suo romanzo, si
potrebbe dire che noi siamo "uno" (perché pretendiamo di avere una forma),
"nessuno" (perché non abbiamo una personalità definita) e "centomila" (perché a
seconda di chi ci guarda abbiamo un aspetto diverso).
L'uomo, in definitiva, è soggetto al caso, che lo rende una marionetta, che gli
impedisce di darsi una personalità. Ogni personaggio teatrale è immerso in una
tragica solitudine che non consente alcuna vera comunicativa: sia perché il dialogo
non ha lo scopo di far capire le cose o di risolvere i problemi, ma solo di confermare
l'assurdità della vita; sia perché ogni tentativo di comprendersi reciprocamente è
fondato sull'astrazione delle parole (sofistica), che non riflettono più valori comuni,
ma solo la comune alienazione (i dialoghi sono cervellotici e filosofici). D'altra parte,
questa è una delle novità del teatro pirandelliano, che lo avvicina molto a quello di
Brecht, Ionesco, Beckett..., dandogli una rilevanza mondiale.
Il "sentimento del contrario", tuttavia, potrebbe portare al suicidio o alla follia, se
assolutizzato. Pirandello evita questa soluzione affermando che in un'epoca
decadente, dove tutto è relativo, solo un'arte umoristica è possibile, un'arte cioè che
sappia cogliere i sotterfugi e le piccole meschinità delle persone, senza però che
tutto questo divenga oggetto di riso. L'uomo non può far di meglio: ecco perché
merita compassione. L'umorista non solo denuncia il vuoto della società borghese,
le costruzioni artificiose con cui cerchiamo di ingannare gli altri e noi stessi, ma ha
pure pietà dell'uomo che si comporta così, condizionato com'è dal più generale
mentire sociale.
Pirandello non ha mai cercato le cause dell'alienazione che caratterizza tutti i suoi
personaggi, presi dalla piccola borghesia (impiegati, insegnanti, ecc.). Egli ne
attribuisce, in modo generico, alla storia e al caso la responsabilità. Solo nel
romanzo I vecchi e i giovani scorge nel fallimento degli ideali risorgimentali e
borghesi di libertà e giustizia, la causa storica e sociale della moderna crisi
d'identità.
U.D. 3_ Le Riviste e Antonio Borghese
Il primo quindicennio del Novecento è un periodo di vivi fermenti non solo in
ambito letterario, ma anche in ambito politico: il processo di
industrializzazione e il conseguente accentuarsi dei conflitti di classe, il
progressivo formarsi di un'opinione pubblica nazionale, la maggiore
conoscenza delle esperienze culturali straniere sollecitata dal decadentismo
sono alla base di questa particolare "vivacità" del periodo, vivacità che trova
nelle riviste canali e strumenti di espressione particolarmente efficaci. Le più
importanti riviste dell’epoca sono:
«La Critica» fondata da Croce nel 1903, è quella che è durata più a lungo
(sino al 1944), probabilmente perché legata non ad un gruppo ma ad un
uomo. In quanto agli obiettivi culturali, attraverso la discussione di «libri
italiani e stranieri, di filosofia, storia e letteratura» Croce dichiarava di
indirizzare « le sue censure e le sue polemiche per una parte contro i
dilettanti e i lavoratori antimetodici, e per l'altra contro gli accademici
adagiati in pregiudizi e ozianti nella esteriorità dell'arte e della scienza».
Ciò significa che per un verso l'obiettivo polemico saranno i giovani
intellettuali
inquieti
e
"geniali",
vogliosi
di
novità,
spesso
irrazionalisticamente velleitari e troppo disponibili alle avventure intellettuali
(i Papini, i futuristi, i "rivoluzionari"), per l'altro sarà la cultura positivistica
attardata su posizioni ottocentesche. Nei primi due decenni Croce procede
all'esame critico della letteratura di tardo Ottocento (in saggi che
confluiranno nei volumi de La letteratura della nuova Italia) e Gentile si
interessa soprattutto di filosofia. Quando, con l'avvento del fascismo,
l'operosa amicizia tra i due si spezzerà, «La Critica» - che aveva preso
posizione contro l'interventismo - assolse il ruolo di cittadella
dell'antifascismo liberale: Croce con i suoi seguaci (Adolfo Omodeo, Guido
De Ruggiero, Francesco Flora ecc.) si battè - pur nei limiti che la situazione
politica imponeva - contro le mitologie del tempo, prima fra tutte il razzismo.
«Leonardo» I dilettanti e i geniali contro i quali polemizzava Croce si
esprimevano, con una variegata gamma di posizioni, in parecchie riviste
che, dalla sede di pubblicazione, vengono complessivamente indicate
come "le riviste fiorentine". La prima di queste è il «Leonardo» che, fondata
da Giovanni Papini, si pubblica con varia periodicità dal 1903 al 1907, e si
distingue per le suggestioni dannunziane che accoglie, per le sprezzanti
posizioni antidemocratiche e antisocialiste, per la polemica contro il
positivisismo.
«Hermes» e «Il Regno» (altre riviste fiorentine). «Hermes» fondata da
Giuseppe Antonio Borgese nel 1904 e «Il Regno» fondata da Enrico
Corradini alla fine del 1903. «Hèrmès» nel complesso fu «una rivista
disorganica e frammentaria; le sono mancate così l'audacia
antiaccademica, la libertà di discorso, la capacità e l'assimilazione e la
vitalità culturale del "Leonardo" come la definita funzione politica del
"Regno"»; va sottolineato comunque che anche essa si colloca nell'ambito
delle suggestioni dannunziane, che i suoi collaboratori si autodefiniscono
«imperialisti», che sulle sue pagine viene vaticinato «un prossimo
risorgimento di tutte le attività nazionali; tanto intellettuali quanto
fantastiche, così politiche come industriali ed economiche».
«Il Regno» è la rivista di giù accesi spiriti nazionalistici e antidemocratici; è
sulle sue pagine che si comincia a parlare di «missione africana» dell'Italia,
e della Francia come della «rivale naturale» nel Mediterraneo, ed è su essa
che si insiste sulla concezione di uno Stato come strumento per la
realizzazione dei «migliori». In altre parole, l'esaltazione della forte
personalità la mitologia individualisticà - alle quali avevano contribuito il
decadentismo, l'interpretazione "sociale" delle teorie di Darwin, Nietzsche,
la teoria delle élites di Gaetano Mosca e parecchi altri fattori - ora non sono
concepite come antagonistiche nei riguardi dello Stato, e trovano invece in
uno Stato autoritario al servizio dei migliori lo strumento per meglio
realizzarsi ed espandersi. È chiaro che da una prospettiva simile gli
obiettivi polemici sono il socialismo, i principi democratici e persino certe
posizioni di cattolici avanzati, come ad esempio don Romolo Murri.
«La Voce» è la più importante rivista del periodo, che Giuseppe Prezzolini
fonda nel dicembre del 1908 (durerà silo al 1916). Definire sinteticamente
la fisionomia non è facile, anche perché essa ebbe varie fasi, cioè direttori
e orientamenti diversi. Nella prima fase (1908-1911) diretta da Prezzolini Tra i collaboratori Croce, Amendola, Salvemini, Cecchi, Einaudi - « La
Voce» affronta i problemi di un rinnovamento culturale compiendo analisi
concrete (sulla scuola, sulla questione meridionale ecc.) e collegando la
figura di un nuovo letterato a una nuova realtà politico-sociale (e da ciò la
polemica per un verso contro D'Annunzio e per l'altro contro Giolitti). E
tuttavia assieme a questo c'è - specie in Prezzolini - una sorta di
illuministica fiducia nei poteri della cultura, degli intellettuali, un
atteggiamento di intellettualistica superiorità che isola questi "primi della
classe" da collegamenti e alleanze con le forze politiche. Quando
Salvemini e altri lasciano «La Voce» nel 1911 perché Prezzolini approva
l'impresa libica, la direzione passa dal 1912 alla fine del 1913 - la seconda
fase - a Papini, e la rivista si apre particolarmente a quelle prove letterarie
(liriche, frammenti, impressioni) che hanno fatto parlare di " espressionismo
vociano". Per un anno, il 1914 - è la terza fase - « La Voce» torna ad
essere diretta da Prezzolini, che la definisce «rivista dell'idealismo militante
», facendone una tribuna di posizioni irrazionalistiche e attivistiche (da
Bergson a Sorel) e dell'interventismo. Quando egli l'abbandona per
collaborare con Mussolini, che ha fondato il «Popolo d'Italia», « La Voce»
passa a Giuseppe De Robertis dalla fine del 1914 al 1916 - è la quarta
fase, quella della cosiddetta "Voce bianca", dal colore della copertina - e
diventa una rivista esclusivamente letteraria, che ospita autori destinati a
diventare poi fondamentali nella nostra letteratura (Ungaretti, Govoni,
Palazzeschi, Campana ecc.).
«l'Unità» ebbe un carattere decisamente politico, fondata da Salvemini nel
1912 dopo il suo dissenso con i vociani sull'impresa libica (e pubblicata
sino al 1920): concreta e pragmatica come la personalità del direttore
d'altronde), «divenne in breve il cenacolo di quanti rifuggendo dalla moda
del dannunzianesimo e dalle astrattezze idealistiche intendevano
approfondire lo studio della realtà che li circondava».
«Lacerba» fu eterogenea nei suoi interessi, volutamente eccessiva,
iconoclastica, "futurista", fondata da Papini e Ardengo Soffici nel 1913
(durerà fino al 1915); in essa parecchi autori (tra cui Palazzeschi)
espressero il loro momento più vistosamente futurista e Papini esibì il suo
ribellismo (famigerato l'articolo Vogliamo la guerra!). Gobetti a questo
proposito parlerà di «letteratura canagliesca».
Antonio Borghese
Giuseppe Antonio Borgese (1882, Polizzi Generosa, Palermo – 1952,
Fiesole, Firenze) fu scrittore, giornalisra e critico italiano. Si laureò in Lettere
all’Università di Firenze nel 1903 con una tesi di laurea dal titolo "Storia della
critica romantica in Italia" che venne pubblicata da Croce nelle Edizioni della
Critica a Napoli nel 1905. Contemporaneamente iniziò a collaborare al
Leonardo, poi al Regno e nel 1904 fondò la rivista Hermes, dichiaratamente
dannunziana, diventandone il giovanissimo direttore.
Svolse anche un'intensa attività giornalistica come redattore capo del
Corriere della Sera, inviato speciale de La Stampa e caporedattore del
Mattino.
Insegnò all'Università di Torino letteratura tedesca e in seguito a Roma, vinse
poi la cattedra presso l'Università di Milano, dove insegnò estetica e storia
della critica fino al 1931 quando, per la sua opposizione al regime fascista,
lasciò l'Italia per stabilirsi negli Stati Uniti dove si considerò un esiliato
politico, soprattutto dopo la sua dura requisitoria contro il fascismo scritta in
Goliath nel 1937.
Durante l'esilio insegnò nelle Università della California e di Chicago fino al
termine della seconda guerra mondiale. Fu negli Stati Uniti che incontrò
Thomas Mann al quale si legò con vincoli di amicizia. Innamoratosi di
Elisabeth Mann, figlia dello scrittore tedesco e lei stessa futura scrittrice,
chiese il divorzio dalla prima moglie, la letterata e poetessa Maria Freschi
dalla quale aveva avuto due figli, e sposò in seconde nozze Elisabeth. Nel
1945 Borgese ritornò alla cattedra di Milano, città in cui visse per lo più gli
ultimi anni della sua vita. Morì a Fiesole nel 1952.
Borgese fu scrittore versatile e accanto alla sua attività di giornalista e di
critico, fu anche compositore di opere poetiche, di romanzi, di racconti, di
novelle e di opere teatrali.
Oltre alle poesie La canzone paziente (1910), pubblicò Le Poesie (1922) e
Poesie 1922-1952 (1952).
Scrisse anche numerosi romanzi tra i quali Rubè (1921), opera notevole per
lo stile e per la trama psicologica che analizzava le contraddizioni morali di un
intellettuale e I vivi e i morti (1923).
Borgese scrisse anche molte novelle che raccolse in Le novelle nel 1950, tra
queste si ricordano La città sconosciuta del 1925, La tragedia di Mayerling
del 1925, Le belle del 1927, Il sole non è tramontato del 1929, Tempesta nel
nulla del 1931, Il pellegrino appassionato del 1933, La Siracusana del 1950.
Per il teatro compose due drammi: L'Arciduca (1924) e Lazzaro (1925).
Moltissimi e validi furono i saggi di critica letteraria e di estetica che seguono
un percorso approdante a tesi polemiche nei confronti dei suoi primi maestri e
modelli, soprattutto nei confronti di D'Annunzio.
Anche l'attività giornalistica e politica di Borgese viene testimoniata in
numerosi volumi, come La guerra delle idee, L'Italia e la nuova alleanza e
numerosi altri.
Tra i libri di viaggio si ricordano Autunno a Costantinopoli, Giro lungo per la
primavera, Escursioni in terre nuove e Atlante americano.
Il romanzo Rubè fu pubblicato per la prima volta da Treves nel 1921. Il libro
si divide in quattro parti e trentaquattro capitoli ed è stato ripubblicato da
Mondadori a partire dal 1928 e ripubblicato successivamente. Il protagonista
è Filippo Rubè, un giovane non ancora trentenne che arriva a Roma dalla
provincia siciliana per fare pratica d'avvocato presso uno studio legale.
Filippo era dotato di tutte le doti per riuscire nella carriera forense, tipiche di
un giovane meridionale e possedeva "una logica da spaccare il capello in
quattro, un fuoco oratorio che consumava l'argomentazione avversaria fino
all'osso e una certa fiducia d'essere capace di grandi cose". Allo scoppio
della prima guerra mondiale, Rubè si fa trascinare dalla propaganda
interventista dei marinettiani e si convince ad arruolarsi come volontario nel
reggimento di artiglieria guidato dal maggiore Berti. Conosce Eugenia, la
figlia del maggiore Berti, giovane di una bellezza "lineare come una vergine
preraffaellita conciliatrice del sonno e della morte". L'impatto con la guerra
risulta però traumatica per il giovane Filippo che, sconvolto da un breve
bombardamento, cade in un forte stato di depressione. Nel frattempo
Eugenia aveva raggiunto il padre al fronte come infermiera e Rubè le confida
il suo stato e i suoi tormenti. Tra i due giovani inizia una relazione. Il giovane,
a causa della depressione di cui soffriva, ottiene un permesso per un mese di
convalescenza che trascorre a Calini, suo paese natale. Trascorso il mese di
convalescenza, Filippo ritorna al fronte e, durante uno scontro sugli Altipiani,
viene ferito a un polmone. Trascorre una lunga degenza ad Udine e in
seguito ritorna a Roma dove ritrova Eugenia che convince a diventare la sua
amante. Iniziano un rapporto fatto di attrazione e repulsione, segnato dalla
"cupidigia" di Filippo e dell'"inespresso rancore" di Eugenia costretta a
squallidi incontri clandestini. Nel frattempo Rubè accetta di recarsi a Parigi in
missione e a Parigi conosce Celestina Lambert, la moglie di un generale, che
ascolta con comprensione la confessione delle contraddizioni e delle angosce
di Filippo ma ne rifiuta le avances. Alla fine della guerra Filippo si trasferisce
a Milano, trova un impiego presso un'industria metallurgica e sposa Eugenia.
Ma il matrimonio non serve a riavvicinare i due giovani che rimangono
completamente incapaci di comprendersi affettivamente. A causa della crisi
economica Rubè viene licenziato. Nello stesso tempo riceve dalla moglie la
notizia della sua gravidanza e ciò lo fa cadere in una disperata angoscia. A
Milano intanto Filippo ritrova un ufficiale conosciuto al fronte, Garlandi, che
indossa la camicia nera e si lascia convincere a partecipare ad un'adunanza
fascista. Dopo l'adunanza l'amico lo trascina in una bisca, dove Rubè vince
una forte somma alla roulette con la quale pensa di concedersi una vacanza
a Parigi. Nel viaggio verso Parigi, Filippo fa una sosta a Stresa e ritrova
Celestina Lambert che è all' Isola Bella in villeggiatura. Tra i due esplode una
forte passione, ma durante una gita sul lago, a causa di un temporale, la
barca si rovescia e Celestina annega. Filippo viene accusato di omicidio,
viene prosciolto in istruttoria ma è smarrito. Ritorna al suo paese ma la notizia
della vicenda in cui è incorso si è ormai sparsa, così il giovane riparte senza
aver rivisto la madre. Decide di ritornare da Eugenia e le spedisce un
telegramma dandole appuntamento alla stazione di Bologna, ma non si
incontrano. Così Rubè si mette a gironzolare per Bologna e incappa in una
manifestazione socialista. Cercando di sfuggire alla calca della folla
raggiunge la testa del corteo ma viene travolto dalla carica di cavalleria della
polizia. Lo portano all'ospedale dove muore tra le braccia di Eugenia e la sua
memoria verrà rivendicata sia dai socialisti che dai fascisti. I primi lo ricordano
come un martire della causa, i secondi per il passato di "glorioso
combattente".
Allegato al Modulo 3_ Le Avanguardie
U.D. 1, 2_ Crepuscolarismo e Futurismo (autori)
Corrado Govoni, Il Palombaro (1915), poesia, da Rarefazioni e parole in
libertà
Filippo Tommaso Marinetti
Manifesti futuristi
Fondazione e manifesto del futurismo
Pubblicato dal «Figaro» di Parigi il 20 febbraio 1909
Esaltazione dei progresso tecnico e scientifico, e delle prospettive affatto
nuove che esso apre, passione per il nuovo valore, la velocità, corsa verso il
futuro e bisogno di liberarsi dei limiti, dei retaggi che la vecchia cultura
impone: sono questi gli elementi base del Manifesto dei futurismo, esasperati
in asserzioni dogmatiche quanto quelle della cultura che si vuole distruggere,
tanto che dalla letteratura nuova il Manifesto passa ad appoggiare
l'interventismo, il nazionalismo, la guerra, come valori, come realizzazione
dell'uomo nuovo. Così le giuste istanze contro una letteratura accademica,
barbosa, immobile, vengono fuorviate, strumentalizzate, diremmo oggi,
associandosi a un progetto politico che non ne raccoglie se non le immagini e
le forze superficiali, il fascismo, ma che in realtà ne distrugge le potenzialità
innovatrici.
Avevamo vegliato tutta la notte - i miei amici ed io sotto lampade di
moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime,
perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico.
Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica
accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta
carta di frenetiche scritture. Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti,
poiché ci sentivamo soli, in quell'ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o
come sentinelle avanzate, di fronte all'esercito delle stelle nemiche,
occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s'agitano
davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano
nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli
ubriachi annaspanti, con un incerto batter d'ali, lungo i muri della città.
Sussultammo ad un tratto, all'udire il rumore formidabile degli enormi
tramvai a due piani, che passano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori,
come i villaggi in festa che il Po straripato squassa e sràdica d'improvviso,
per trascinarli fino al mare, sulle cascate e attraverso i gorghi di un diluvio.
Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l'estenuato
borbottìo, di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar dell'ossa dei
palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo subitamente
ruggire sotto le finestre gli automobili famelici.
«Andiamo,» diss'io, «andiamo, amici! Partiamo! Finalmente, la mitologia
e l'ideale mistico sono superati. Noi stiamo per assistere alla nascita del
Centauro e presto vedremo volare i primi Angeli!... Bisognerà scuotere le
porte della vita per provarne i cardini e i chiavistelli!... Partiamo! Ecco, sulla
terra, la primissima aurora! Non v'è cosa che agguagli lo splendore della
rossa spada del sole che schermeggia per la prima volta nelle nostre tenebre
millenarie! ... »
Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i
torridi petti. lo mi stesi sulla mia macchina come un cadavere nella bara, ma
subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava il mio
stomaco.
La furente scopa della pazzia ci strappò a noi stessi e ci cacciò
attraverso le vie, scoscese e profonde come letti di torrenti. Qua e là una
lampada malata, dietro i vetri d'una finestra, c'insegnava a disprezzare la
fallace matematica dei nostri occhi perituri.
Io gridai: «Il fiuto, il fiuto solo, basta alle belve!»
E noi, come giovani leoni, inseguivamo la Morte, dal pelame nero
maculato di pallide croci, che correva via pel vasto cielo violaceo, vivo e
palpitante.
Eppure non avevamo un'Amante ideale che ergesse fino alle nuvole la
sua sublime figura, né una Regina crudele a cui offrire le nostre salme,
contorte a guisa di anelli bisantini! Nulla, per voler morire, se non il desiderio
di liberarci finalmente dal nostro coraggio troppo pesante!
E noi correvamo schiacciando su le soglie delle case i cani da guardia
che si arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il
ferro da stirare. La Morte, addomesticata, mi sorpassava ad ogni svolto, per
porgermi la zampa con grazia, e a quando a quando si stendeva a terra con
un rumore di mascelle stridenti, mandandomi, da ogni pozzanghera, sguardi
vellutati e carezzevoli.
«Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio, e gettiamoci,
come frutti pimentati d'orgoglio, entro la bocca immensa e tôrta del vento!...
Diamoci in pasto all'Ignoto, non già per disperazione, ma soltanto per
colmare i profondi pozzi dell'Assurdo! »
Avevo appena pronunziate queste parole, quando girai bruscamente su
me stesso, con la stessa ebrietà folle dei cani che voglion mordersi la coda,
ed ecco ad un tratto venirmi incontro due ciclisti, che mi diedero torto,
titubando davanti a me come due ragionamenti, entrambi persuasivi e
nondimeno contradittorii. Il loro stupido dilemma discuteva sul mio terreno...
Che noia! Auff!... Tagliai corto, e, pel disgusto, mi scaraventai colle ruote
all'aria in un fossato...
Oh! materno fossato, quasi pieno di un'acqua fangosa! Bel fossato
d'officina! lo gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la
santa mammella nera della mia nutrice sudanese... Quando mi sollevai cencio sozzo e puzzolente - di sotto la macchina capovolta, io mi sentii
attraversare il cuore, deliziosamente, dal ferro arroventato della gioia!
Una folla di pescatori armati di lenza e di naturalisti podagrosi
tumultuava già intorno al prodigio. Con cura paziente e meticolosa, quella
gente dispose alte armature ed enormi reti di ferro per pescare il mio
automobile, simile ad un gran pescecane arenato. La macchina emerse
lentamente dal fosso, abbandonando nel fondo, come squame, la sua
pesante carrozzeria di buon senso e le sue morbide imbottiture di comodità.
Credevano che fosse morto, il mio bel pescecane, ma una ta, malattia
che si riteneva colmia carezza bastò a rianimarlo, ed eccolo risuscitato,
eccolo Pisse le persone sedentarie). in corsa, di nuovo, sulle sue pinne
possenti!
Allora, col volto coperto della buona melma delle officine - impasto di
scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti - noi, contusi e fasciate le
braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi
della terra:
Manifesto del futurismo
1. Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla
temerità.
2. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della
nostra poesia.
3. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il
sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il
passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una
bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo
cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un
automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della
Vittoria di Samotracia.
5. Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta
ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua
orbita.
6, Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza,
per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali.
7. Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non
abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve
essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a
prostrarsi davanti all'uomo.
8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo
guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte
dell'Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già
nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.
9. Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il
militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui
si muore e il disprezzo della donna.
10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie
d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni
viltà opportunistica o utilitaria.
11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla
sommossa: canteremo le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni
nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e
dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici
di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro
fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole
con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, le
locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli
d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica
garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla
entusiasta.
È dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di
violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il «Futurismo»,
perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di
professori, d'archeologhi, di ciceroni e d'antiquarii.
Già per troppo tempo l'Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi
vogliamo liberarla dagl'innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri
innumerevoli.
Musei: cimiteri!... Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti
corpi che non si conoscono. Musei: dormitori pubblici in cui si riposa per
sempre accanto ad esseri odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e
scultori che varino trucidandosi ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo
le pareti contese!
Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all'anno, come si va al
Camposanto nel giorno dei morti... ve lo concedo. Che una volta all'anno sia
deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo... Ma non
ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i musei le
nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine.
Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire?
E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa
contorsione dell'artista, che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere
opposte al desiderio di esprimere interamente il suo sogno?... Ammirare un
quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un'urna funeraria,
invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione.
Volete dunque sprecare tutte le forze migliori, in questa eterna ed inutile
ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e
calpesti?
In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle
biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni
crocifissi, registri di slanci troncati! ... ) è, per gli artisti, altrettanto dannosa
che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e
della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, per gl'infermi, pei prigionieri, sia
pure: - l'ammirabile passato è forse un balsamo ai loro mali, poiché per essi
l'avvenire è sbarrato... Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi,
giovani e forti futuristi!
E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli!
Eccoli!... Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!... Sviate il corso dei
canali, per inondare i musei!... Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva,
lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!... Impugnate i
picconi, le scuri, i martelli e demolite senza pietà le città venerate!
I più anziani fra noi, hanno trent'anni: ci rimane dunque almeno un
decennio, per compier l'opera nostra. Quando avremo quarant'anni, altri
uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come
manoscritti inutili. Noi lo desideriamo!
Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni
parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita
adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il
buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe
delle biblioteche.
Ma noi non saremo là... Essi ci troveranno alfine - una notte d'inverno in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia
monotona, e ci vedranno accoccolati accanto ai nostri aeroplani trepidanti e
nell'atto di scaldarci le mani al fuocherello meschino che daranno i nostri libri
d'oggi fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini.
Essi tumultueranno intorno a noi, ansando per angoscia e per dispetto,
e tutti, esasperati dal nostro superbo, instancabile ardire, si avventeranno per
ucciderci, spinti da un odio tanto più implacabile inquantoché i loro cuori
saranno ebbri di amore e di ammirazione per noi.
La forte e sana Ingiustizia scoppierà radiosa nei loro occhi. - L'arte,
infatti, non può essere che violenza, crudeltà ed ingiustizia.
I più anziani fra noi hanno trent'anni: eppure, noi abbiamo già sperperati
tesori, mille tesori di forza, di amore, d'audacia, d'astuzia e di rude volontà; li
abbiamo gettati via impazientemente, in furia, senza contare, senza mai
esitare, senza riposarci mai, a perdifiato... Guardateci! Non siamo ancora
spossati! I nostri cuori non sentono alcuna stanchezza, poiché sono nutriti di
fuoco, di odio e di velocità!... Ve ne stupite?... E logico, poiché voi non vi
ricordate nemmeno di aver vissuto! Ritti sulla cima delmondo, noi scagliamo
una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!
Ci opponete delle obiezioni?... Basta! Basta! Le conosciamo... Abbiamo
capito!... La nostra bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il
riassunto e il prolungamento degli avi nostri. - Forse!... Sia pure!... Ma che
importa? Non vogliamo intendere!... Guai a chi ci ripeterà queste parole
infami!...
Alzare la testa!...
Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra
sfida alle stelle!...
Manifesto tecnico della letteratura futurista
11 maggio 1912
Abbiamo visto, nel manifesto precedente, quale intervento sui contenuti
dell'arte e della letteratura intendesse operare il rnovimento futurista. Questo
manifesto tecnico - datato 11 maggio 1912 - propone, invece, di regolare
l'intervento sulle forme letterarie. Era accluso alla prima antologia dei Poeti
futuristi pubblicata dalle Edizioni di «Poesia», rivista internazionale fondata a
Milano nel 1905 dallo stesso Marinetti con Sem Benelli e Vitaliano Ponti. Tra i
collaboratori italiani sono, tra gli altri, Pascoli, Gozzano, Lucini e Palazzeschi.
Proprio sul «manifesto tecnico» Lucini ruppe con Marinetti, per motivi politici
(era contrario all'intervento militare in Libia) e letterari.
In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre dalla
testa dell'aviatore, io sentii l'inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da
Omero. Bisogno furioso di liberare le parole, traendole fuori dalla prigione del
periodo latino! Questo ha naturalmente, come ogni imbecille, una testa
previdente, un ventre, due gambe e due piedi piatti, ma non avrà mai due ali.
Appena il necessario per camminare, per correre un momento e fermarsi
quasi subito sbuffando!
Ecco che cosa mi disse l'elica turbinante, mentre filavo a duecento
metri sopra i possenti fumaiuoli di Milano. E l'elica soggiunse:
1. Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come
nascono.
2. Si deve usare il verbo all'infinito, perché si adatti elasticamente al
sostantivo e non lo sottoponga all'io dello scrittore che osserva o immagina. Il
verbo all'infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l'elasticità
dell'intuizione che la percepisce.
3. Si deve abolire l'aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo
colore essenziale. L'aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è
inconcepibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una
meditazione.
4. Si deve abolire l'avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l'una all'altra
le parole. L'avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve
essere seguito, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per
analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazzaimbuto, porta-rubinetto.
Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza dei
mondo, la percezione per analogia diventa sempre più naturale per l'uomo.
Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio
ancora, bisogna fondere direttamente l'oggetto coll'immagine che esso
evoca, dando l'immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale.
6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli
avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella
continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde
delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro
direzioni, s'impiegheranno segni della matematica: + - x : = > <, e i segni
musicali.
7. Gli scrittori si sono abbandonati finora all'analogia immediata. Hanno
paragonato per esempio l'animale all'uomo o ad un altro animale, il che
equivale ancora, press'a poco, a una specie di fotografia... (Hanno
paragonato per esempio un fox-terrier a un piccolissimo puro-sangue. Altri,
più avanzati, potrebbero paragonare quello stesso fox-terrier trepidante a una
piccola macchina Morse. Io lo paragono invece a un'acqua ribollente. V'è in
ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre
più profondi e solidi, quantunque lontanissimi.)
L'analogia non è altro che l'amore profondo che collega le cose distanti,
apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno
stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico, e polimorfo, può
abbracciare la vita della materia.
Quando nella mia Battaglia di Tripoli, ho paragonato una trincea irta di
baionette a un'orchestra, una mitragliatrice ad una donna fatale, ho introdotto
intuitivamente una gran parte dell'universo in un breve episodio di battaglia
africana.
Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia,
come diceva Voltaire. Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La
poesia deve essere un seguito ininterrotto di immagini nuove senza di che
non è altro che anemia e clorosi.
Quanto più le immagini contengono rapporti vasti, tanto più a lungo
esse conservano la loro forza di stupefazione. Bisogna - dicono - risparmiare
la meraviglia del lettore. Eh! via! Curiamoci, piuttosto, della fatale corrosione
del tempo, che distrugge non solo il valore espressivo di un capolavoro, ma
anche la sua forza di stupefazione. Le nostre vecchie orecchie troppe volte
entusiaste non hanno forse già distrutto Beethoven e Wagner? Bisogna
dunque abolire nella lingua tutto ciò che essa contiene in fatto d'immagini
stereotipate, di metafore scolorite, e cioè quasi tutto.
8. Non vi sono categorie d'immagini, nobili o grossolane o volgari,
eccentriche o naturali. L'intuizione che le percepisce non ha né preferenze né
partiti-presi. Lo stile analogico è dunque padrone assoluto di tutta la materia e
della sua intensa vita.
9. Per dare i movimenti successivi d'un oggetto bisogna dare la catena
delle analogie che esso evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola
essenziale.
Ecco un esempio espressivo di una catena di analogie ancora
mascherate e appesantite dalla sintassi tradizionale:
Eh sì! voi siete, piccola mitragliatrice, una donna affascinante, e sinistra, e
divina, al volante di una invisibile centocavalli, che rugge con scoppii
d'impazienza. Oh! certo fra poco balzerete nel circuito della morte, verso il
capitombolo fracassante o la vittoria!... Volete che io vi faccia dei madrigali
pieni di grazia e di colore? A vostra scelta signora... Voi somigliate per me, a
un tribuno proteso, la cui lingua eloquente, instancabile, colpisce al cuore gli
uditori in cerchio, commossi... Siete, in questo momento, un trapano
onnipotente, che fora in tondo il cranio troppo duro di questa notte ostinata...
Siete, anche, un laminatoio, un tornio elettrico, e che altro? Un gran cannello
ossidrico che brucia, cesella e fonde a poco a poco le punte metalliche delle
ultime stelle!.. (Battaglia di Tripoli)
In certi casi bisognerà unire le immagini a due a due, come le palle
incatenate, che schiantano, nel loro volo tutto un gruppo d'alberi.
Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più fuggevole e di più
inafferrabile nella materia, bisogna formare delle strette reti d'immagini o
analogie, che verranno lanciate nel mare misterioso dei fenomeni. Salvo la
forma a festoni tradizionale, questo periodo del mio Mafarka il futurista è un
esempio di una simile fitta rete di immagini:
Tutta l'acre dolcezza della gioventù scomparsa gli saliva su per la gola,
come dai cortili delle scuole salgono le grida allegre dei fanciulli verso i
maestri affacciati al parapetto delle terrazze da cui si vedono fuggire i
bastimenti...
Ed ecco ancora tre reti d'immagini:
Intorno al pozzo della Bumeliana, sotto gli olivi folti, tre cammelli
comodamente accovacciati nella sabbia si gargarizzavano dalla contentezza,
come vecchie grondaie di pietra, mescolando il ciac-ciac dei loro sputacchi ai
tonfi regolari della pompa a vapore che dà da bere alla città. Stridori e
dissonanze futuriste, nell'orchestra profonda delle trincee dai pertugi sinuosi
e dalle cantine sonore, fra l'andirivieni delle baionette, archi di violino che la
rossa bacchetta del tramonto infiamma di entusiasmo...
È il il tramonto-direttore d'orchestra, che con un gesto ampio raccoglie i
flauti sparsi degli uccelli negli alberi, e le arpe lamentevoli degli insetti, e lo
scricchiolìo dei rami, e lo stridìo delle pietre. È lui che ferma a un tratto i
timpani delle gamelle e dei fucili cozzanti, per lasciar cantare a voce spiegata
sull'orchestra degli strumenti in sordina, tutte le stelle d'oro, ritte, aperte le
braccia, sulla ribalta del cielo. Ed ecco una gran dama allo spettacolo...
Vastamente scollacciato, il deserto infatti mette in mostra il suo seno
immenso dalle curve liquefatte, tutte verniciate di belletti rosei sotto le gemme
crollanti della prodiga notte. (Battaglia di Tripoli)
10. Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto
dell'intelligenza cauta e guardinga, bisogna orchestrare le immagini
disponendole secondo un maximum di disordine.
11. Distruggere nella letteratura l'«io», cioè tutta la psicologia. L'uomo
completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica
e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse
alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella letteratura, e sostituirlo finalmente
colla materia, di cui si deve afferrare l'essenza a colpi d'intuizione, la qual
cosa non potranno mai fare i fisici né i chimici.
Sorprendere attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi, la
respirazione, la sensibilità e gli istinti dei metalli, delle pietre, del legno ecc.
Sostituire la psicologia dell'uomo, ormai esaurita, con l'ossessione lirica della
materia.
Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani, ma indovinate
piuttosto i suoi differenti impulsi direttivi, le sue forze di compressione, di
dilatazione, di coesione, e di disgregazione, le sue torme di molecole in
massa o i suoi turbini di elettroni. Non si tratta di rendere i drammi della
materia umanizzata. È la solidità di una lastra d'acciaio, che c'interessa per
sé stessa, cioè l'alleanza incomprensibile e inumana delle sue molecole o dei
suoi elettroni, che si oppongono, per esempio, alla penetrazione di un obice.
Il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante, per noi, del
sorriso o delle lagrime di una donna.
Noi vogliamo dare, in letteratura, la vita del motore, nuovo animale
istintivo del quale conosceremo l'istinto generale allorché avremo conosciuto
gl'istinti delle diverse forze che lo compongono.
Nulla è più interessante, per un poeta futurista, che l'agitarsi della
tastiera di un pianoforte meccanico. Il cinematografo ci offre la danza di un
oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche
lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare e rimbalzano
violentemente sul trampolino. Ci offre infine la corsa d'un uomo a 200
chilometri all'ora. Sono altrettanti movimenti della materia, fuor dalle leggi
dell'intelligenza, e quindi di una essenza più significativa.
Bisogna introdurre nella letteratura tre elementi che furono finora
trascurati:
1. il rumore (manifestazione del dinamismo degli oggetti);
2. il peso (facoltà di volo degli oggetti);
3. l'odore (facoltà di sparpagliamento degli oggetti).
Sforzarsi di rendere per esempio il paesaggio di odori che percepisce
un cane. Ascoltare i motori e riprodurre i loro discorsi.
La materia fu sempre contemplata da un io distratto, freddo, troppo
preoccupato di sé stesso, pieno di pregiudizi di saggezza e di ossessioni
umane.
L'uomo tende a insudiciare della sua gioia giovane o del suo dolore
vecchio la materia, che possiede una ammirabile continuità di slancio verso
un maggiore ardore, un maggior movimento, una maggiore suddivisione di sé
stessa. La materia non è né triste né lieta. Essa ha per essenza il coraggio, la
volontà e la forza assoluta. Essa appartiene intera al poeta divinatore che
saprà liberarsi dalla sintassi tradizionale, pesante, ristretta, attaccata al suolo,
senza braccia e senza ali perché è soltanto intelligente. Solo il poeta
asintattico e dalle parole slegate potrà penetrare l'essenza della materia e
distruggere la sorda ostilità che la separa da noi.
Il periodo latino che ci ha servito finora era un gesto pretensioso col
quale l'intelligenza tracotante e miope si sforzava di domare la vita multiforme
e misteriosa della materia. Il periodo latino era dunque nato morto.
Le intuizioni profonde della vita congiunte l'una all'altra, parola per
parola, secondo il loro nascere illogico, ci daranno le linee generali di una
psicologia intuitiva della materia. Essa si rivelò al mio spirito dall'alto di un
aeroplano. Guardando gli oggetti, da un nuovo punto di vista, non più di
faccia o per di dietro, ma a picco, cioè di scorcio, io ho potuto spezzare le
vecchie pastoie logiche e i fili a piombo della comprensione antica.
Voi tutti che mi avete amato e seguito fin qui, poeti futuristi, foste come
me frenetici costruttori d'immagini e coraggiosi esploratori di analogie. Ma le
vostre strette reti di metafore sono disgraziatamente troppo appesantite dal
piombo della logica. lo vi consiglio di alleggerirle, perché il vostro gesto
immensificato possa lanciarle lontano, spiegate sopra un oceano più vasto.
Noi inventeremo insieme ciò che io chiamo l'immaginazione senza fili.
Giungeremo un giorno ad un'arte ancor più essenziale, quando oseremo
sopprimere tutti i primi termini delle nostre analogie per non dare più altro che
il seguito ininterrotto dei secondi termini. Bisognerà, per questo, rinunciare ad
essere compresi. Esser compresi, non è necessario. Noi ne abbiamo fatto a
meno, d'altronde, quando esprimevamo frammenti della sensibilità futurista
mediante la sintassi tradizionale e intellettiva.
La sintassi era una specie di cifrario astratto che ha servito ai poeti per
informare le folle del colore, della musicalità, della plastica e dell'architettura
dell'universo. La sintassi era una specie d'interprete o di cicerone monotono.
Bisogna sopprimere questo intermediario, perché la letteratura entri
direttamente nell'universo e faccia corpo con esso.
Indiscutibilmente la mia opera si distingue nettamente da tutte le altre
per la sua spaventosa potenza di analogia. La sua ricchezza inesauribile
d'immagini uguaglia quasi il suo disordine di punteggiatura logica. Essa mette
capo al primo manifesto futurista, sintesi di una 100 HP lanciata alle più folli
velocità terrestri.
Perché servirsi ancora di quattro ruote esasperate che s'annoiano, dal
momento che possiamo staccarci dal suolo? Liberazione delle parole, ali
spiegate dell'immaginazione, sintesi analogica della terra abbracciata da un
solo sguardo e raccolta tutta intera in parole essenziali.
Ci gridano: «La vostra letteratura non sarà bella! Non avremo più la
sinfonia verbale, dagli armoniosi dondolii, e dalle cadenze tranquillizzanti!»
Ciò è bene inteso! E che fortuna! Noi utilizziamo, invece, tutti i suoni brutali,
tutti i gridi espressivi della vita violenta che ci circonda. Facciamo
coraggiosamente il «brutto» in letteratura, e uccidiamo dovunque la solennità.
Via! non prendete di quest'arie da grandi sacerdoti, nell'ascoltarmi! Bisogna
sputare ogni giorno sull'Altare dell'Arte! Noi entriamo nei dominii sconfinati
della libera intuizione. Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in
libertà!
Non c'è in questo, niente di assoluto né di sistematico. Il genio ha
raffiche impetuose e torrenti melmosi. Esso impone talvolta delle lentezze
analitiche ed esplicative. Nessuno può rinnovare improvvisamente la propria
sensibilità. Le cellule morte sono commiste alle vive. L'arte è un bisogno di
distruggersi e di sparpagliarsi, grande innaffiatoio di eroismo che inonda il
mondo. 1 microbi - non lo dimenticate - sono necessari alla salute dello
stomaco e dell'intestino. Vi è anche una specie di microbi necessaria alla
vitalità dell'arte, questo prolungamento della foresta delle nostre vene, che si
effonde, fuori dal corpo, nell'infinito dello spazio e del tempo.
Poeti futuristi! lo vi ho insegnato a odiare le biblioteche e i musei, per
prepararvi a odiare l'intelligenza, ridestando in voi la divina intuizione, dono
caratteristico delle razze latine. Mediante l'intuizione, vinceremo l'ostilità
apparentemente irriducibile che separa la nostra carne umana dal metallo dei
motori.
Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico. Con la
conoscenza e l'amicizia della materia, della quale gli scienziati non possono
conoscere che le reazioni fisico-chimiche, noi prepariamo la creazione
dell'uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall'idea della
morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell'intelligenza
logica.
Modulo 4_ L’Ermetismo
U.D. 1_ Ermetismo e Giuseppe Ungaretti
L'ermetismo è stato uno dei più importanti movimenti letterari del ‘900. Il
nome “ermetico” fu applicato al movimento da un critico avverso, Costanzo
Flora nel suo saggio La poesia ermetica del 1936, per indicare una poesia
caratterizzata da una voluta oscurità dovuta ad un procedimento analogico
esasperato. L’ermetismo esordì negli anni Venti e si sviluppò negli anni tra il
1935 ed il 1940. Più che una scuola, fu un modo di intendere la letteratura.
Con "ermetico" si indicò un modo apparentemente oscuro di far poesia e
quegli scrittori che si mostravano non impegnati e privi di riferimenti alla
realtà. Il legame tra gli ermetici è costituito dalla ricerca dì una nuova poesia,
gli ermetici restarono estranei alla cultura genericamente idealista del tempo
e furono accusati di non essere impegnati, e di essere astratti. Si è distinto un
ermetismo spirituale e uno intellettuale: il primo ebbe un atteggiamento
religioso, il secondo un atteggiamento indifferente. Proprio per queste sue
caratteristiche l'ermetismo assunse l'idea di una letteratura intesa come
invenzione perpetua. L’ermetismo fu un fenomeno essenzialmente fiorentino,
l’organo ufficiale fu la rivista Campo di Marte, diretta da Alfonso Gatto e
Vasco Pratolini. Quasimodo anticipò l’ermetismo con la raccolta di poesie
Oboe sommerso del 1932, usando un linguaggio evocativo, oscuramente
analogico (= che procede per associazioni di idee) e consegnò all’ermetismo i
sostantivi assoluti ( = senza l’articolo), i plurali indeterminati (es. mansueti
animali), immagini del sogno, evocative ed analogiche (es. le pupille d’aria).
Con l’ermetismo il testo esce dal quotidiano e diviene astorico (= senza
tempo), poiché la letteratura non deve avere scopi pratici.
GIUSEPPE UNGARETTI
(1888-1970)
Nasce ad Alessandria d'Egitto nel 1888 da genitori lucchesi, che vi erano
emigrati sia per motivi di lavoro che per le loro idee anarchiche. Il padre,
operaio allo scavo del Canale di Suez, morirà due anni dopo la nascita del
poeta. La madre era fornaia. Può comunque fare gli studi superiori in una
delle più prestigiose scuole di Alessandria. Nella prima giovinezza frequenta
le associazioni anarchiche e socialiste dei nostri emigrati. Legge Baudelaire,
Leopardi e Nietzsche.
Dal 1912 al '14 frequenta a Parigi la Sorbona e partecipa ai dibattiti delle
avanguardie artistiche e letterarie del tempo, legandosi d'amicizia al poeta
surrealista Apollinaire e a pittori come Picasso (cubista), Modigliani e De
Chirico (metafisico). Apprezza anche il simbolismo di Valery e la filosofia
intuizionistica di Bergson. Ma lo interessano anche le esperienze di
rinnovamento della forma e della parola poetica, operate dai crepuscolari e
dai futuristi (ha infatti scambi epistolari con Soffici, Papini, Palazzeschi).
Giunto in Italia nel 1914, entra subito in contatto con i giovani intellettuali che
facevano capo alle riviste "La Voce" (antidannunziana) e "Lacerba" (su
quest'ultima -di indirizzo futurista- pubblica le sue prime poesie, anch'esse
influenzate dai modi crepuscolari e futuristi). Nel 1916 pubblica, in pochissime
copie, la sua prima raccolta di poesie, Il porto sepolto, che confluirà poi
nell'Allegria di naufragi del 1919. In questa raccolta è evidente lo stretto
legame tra poesia ed esperienza autobiografica.
Viene chiamato alle armi e combatte dal 1915 al '18 come soldato semplice
prima sul Carso e sull'Isonzo, poi sul fronte francese. Ungaretti era di idee
interventiste. E' nel corso della guerra che matura i temi fondamentali della
sua poesia. Egli cioè matura la convinzione che, essendo la sua un'epoca
"tragica", la poesia deve fornire una conoscenza a-logica, a-razionale,
intuitiva, che aiuti a ritrovare l'originaria purezza-innocenza.
Dopo la fine della guerra soggiorna ancora a Parigi, poi nel '20 si stabilisce a
Roma con un impiego presso il Ministero degli esteri. Nel '23 ripubblica Il
porto sepolto: questa volta con una presentazione di Mussolini. Intorno al '28,
nel monastero di Subiaco, matura la sua conversione religiosa, poiché egli si
rende conto che scoprire il mistero dell'animo umano significa, in ultima
istanza, scoprire Dio. Scrive gli Inni, che sono il cuore del suo secondo libro,
Sentimento del tempo, pubblicato nel '33. Nel '31 aveva ripubblicata la
raccolta Allegria di naufragi, col titolo Allegria.
Nel '36, a causa di ristrettezze economiche, decide di accettare la cattedra di
Letteratura italiana presso l'Università di San Paolo in Brasile, dove resterà,
con la famiglia, sino al '42, cioè fino a quando anche il Brasile entrerà nella
IIa guerra mondiale. Nel '39 gli muore il figlio Antonio di 9 anni: questa
esperienza, insieme a quella della morte del fratello e allo scoppio della
guerra, lo portano a scrivere nel '47 Il dolore.
Finalmente ottiene, per chiara fama, la cattedra di Letteratura moderna e
contemporanea all'Università di Roma, dove resterà fino al '58. Muore a
Milano nel 1970, al ritorno da un viaggio negli Usa. Poco prima Mondadori
aveva pubblicato in un unico volume tutta la sua produzione letteraria: Vita
d'un uomo.
Ideologia e poetica:
Ungaretti vive nel periodo in cui la borghesia, dopo aver realizzato in Italia il
capitalismo, non porta avanti gli ideali di giustizia e libertà, ma si chiude in se
stessa, temendo di perdere la propria egemonia, e affida la risoluzione delle
proprie contraddizioni sociali prima al colonialismo-imperialismo, poi alla
guerra mondiale, al fascismo e alla II guerra mondiale.
Ungaretti è il maestro riconosciuto dell'Ermetismo. Il termine "ermetico"
significa "chiuso", "oscuro". La definizione venne adottata per la prima volta
dalla
critica
nel
'36,
in
riferimento
soprattutto
alla
sua
poesia.
Successivamente si inclusero negli ermetici anche Montale, Saba e in parte
Quasimodo.
- L'Ermetismo si oppone soprattutto al Decadentismo di D'Annunzio, cioè agli
atteggiamenti estetizzanti e superomistici; ma anche a quello del Pascoli,
giudicato troppo bozzettistico e malinconico, troppo soggettivo e poco
universale.
- L'Ermetismo si oppone anche ai crepuscolari, ai futuristi, ai "vociani", perché
non si accontenta di una riforma stilistica e non sopporta la retorica.
E' l'esperienza della guerra che rivela al poeta la povertà dell'uomo, la sua
fragilità e solitudine, ma anche la sua spontaneità e semplicità (primitivismo)
che viene ritrovata nel dolore. L'esistenza è un bene precario ma anche
prezioso. In guerra egli si è sottratto ad ogni vanità e orgoglio; nella
distruzione e nella morte ha però riscoperto il bisogno di una vita pura,
innocente, spontanea, primitiva. Ha acquisito compassione per ogni soldato
coinvolto nell'assurda logica della guerra: ha maturato, per questo, un
profondo senso di fraterna solidarietà. La sua visione esistenziale è dolorosa
perch'egli pensa che l'uomo non abbia la possibilità di concretizzare le sue
aspirazioni conoscitive e morali. Ungaretti non crede nelle filosofie razionali e
cerca di cogliere la realtà attraverso una poetica che s'incentri sull'analogia,
cioè sul rapido congiungimento di ordini fenomenici diversi, di immagini fra
loro molto lontane che la coscienza comune non metterebbe insieme.
Questa esperienza lo porta a rifiutare -soprattutto nell'Allegria- ogni forma
metrica tradizionale: rifiuta il lessico letterario, le convenzioni grammaticali,
sintattiche e retoriche (ad es. elimina la punteggiatura, il "come" nelle
analogie, ecc. Diventano importanti gli accenti tonici, le pause). Crea un ritmo
totalmente libero, con versi scomposti, brevissimi, scarni, fulminei, dove la
singola parola acquista un valore assoluto, dove il titolo è parte integrante del
testo. La poetica qui è frammentaria, allusiva, scabra, anche perché il poeta
non ha una realtà ben chiara da offrire.
Ne Il porto sepolto Ungaretti lascia intendere che poesia significa possibilità
di contemplare la purezza in un mondo caotico e assurdo, ma la poesia
dev'essere espressione di un'esperienza particolare, intensamente vissuta: la
ricerca del vocabolo giusto è faticosa, perché l'uomo deve liberarsi del male
che è in lui e fuori di lui.
Ne L'allegria il poeta non accetta le illusioni e preferisce star solo con la sua
sofferenza (cfr. Peso, dove al contadino-soldato che si affida, ingenuamente,
alla medaglia di Sant'Antonio per sopportare meglio il peso della guerra, il
poeta preferisce stare "solo", "nudo", cioè senza illusioni ("senza miraggio"),
con la sua anima. Ungaretti tuttavia non è ateo: si limita semplicemente a
chiedersi che senso ha Dio in un mondo di orrori (cfr Risvegli) e perché gli
uomini continuano a desiderarlo quando ciò non serve loro ad evitare gli
orrori (cfr Dannazione). Il contrasto è fra una religiosità tradizionale,
superficiale, e una religiosità più intima e sofferta, che in Fratelli si esprime
come profonda umanità, partecipazione al dolore universale. E' solo negli Inni
che Ungaretti ripone nella fede religiosa la soluzione delle contraddizioni
umane (cfr La preghiera).
Il superamento dell'autobiografismo e la modificazione dello stile ermetico
avviene nel Sentimento del tempo. Qui il poeta ha consapevolezza che il
tempo è cosa effimera rispetto all'eterno (la riflessione è molto vicina ai temi
della religione). La poesia aspira a dar voce ai conflitti eterni, a interrogativi
drammatici: solitudine e ansia di una comunicazione con gli altri, rimpianto di
un'innocenza perduta e ricerca di un'armonia col mondo, ecc. In questa
raccolta Ungaretti ritrova i metri e i moduli della tradizione poetica italiana (ad
es. riscopre il valore dell'endecasillabo, del sistema strofico, della struttura
sintattica).
L'ultima importante raccolta, Il dolore, contiene 17 liriche dedicate al figlio e
altre poesia di contenuto storico (sulla II guerra mondiale). Qui il discorso
diventa più composto, quasi rasserenato. Toni e parole paiono affiorare da
un'alta saggezza raggiunta al prezzo di una drammatica sofferenza. Il poeta
esprime una inappagata ma inesauribile tensione alla pace e all'amore
universali..
U.D. 2_ U. Saba
Umberto Saba
pseudonimo di Umberto Poli
(Trieste, 9 marzo 1883 - Gorizia, 25 agosto 1957)
E’ stato un poeta e scrittore italiano. Di madre ebrea (quindi, secondo la
religione ebraica, ebreo) presto abbandonata dal marito, Saba visse una
malinconica infanzia, velata dalla lontananza del padre. Assunse lo
pseudonimo Saba (pane in ebraico) e dopo l’emanazione delle leggi razziali
nel 1938 visse a Parigi, Firenze, Roma, Milano. Solo nel 1947 tornò nella città
natale.
Saba formò nell’ambiente culturale mitteleuropeo triestino del primo '900,
guardando a Nietzsche e a Freud ma anche alla grande tradizione
ottocentesca italiana, soprattutto a Leopardi. Cominciò a scrivere nei primi
anni del secolo i suoi primi lavori: Poesie dell’adolescenza e giovanili, 1900 –
1907, e Versi militari, 1908.
Seguirono i capolavori: Trieste e una donna (1910 - 1912) e Serena
disperazione (1913 - 1915), in cui - con linguaggio semplicissimo e privo di
retorica - il poeta esprime sentimenti quotidiani, ed affetti domestici con
ricchezza di sfumature e contrasti psicologici.
La poetica di Saba:
Il colloquio confidenziale con la realtà (secondo la lezione pascoliana) si
arricchisce in seguito di toni lirici e si volge ai temi della gioia, del dolore, della
morte (Cose leggeri e vaganti, 1929 - 1931, L’amorosa spina, 1920, Preludio
e canzonette, 1922 - 1923, Cuor morituro, 1925 - 1930, Preludio e fughe,
1928 – 1929, Il piccolo Berto, 1929 - 1931) e gradatamente la poesia diviene
riflessione esistenziale ed accettazione rassegnata del tempo che fugge
(Parole, 1933 - 1934, Ultime cose, 1935 – 1943, Varie, 1944, Mediterranee,
1946, raccolte poi nel 1948 nel Canzoniere).
La produzione letteraria di Saba vede negli ultimi anni aggiungersi al lirismo
proprio del poeta il motivo moralistico e sentenzioso delle prose di Scorciatoie
e raccontini (1946) e della raccolta Uccelli, quasi un racconto (1951). Postumi
furono pubblicati il romanzo Ernesto ed il volume Amicizia.
Per contro, i primi versi di Saba erano prosastici, incerti, il motivo psicologico
fondamentale era dato dalla malinconia, le figure rappresentate simboli
quotidiani di una vita grigia e comune. Eppure, il linguaggio che dal prosaico
diviene talvolta - secondo alcuni - sciatto, e la costante aderenza al reale non
sfociano
nel
verismo
provinciale
ma
esprimono
un'intensa
carica
sentimentale che diviene canto.
I luoghi domestici e le figure care e quotidiane accompagnano e consolano la
vita malinconica del poeta ed il suo canto esprime un desiderio di
affratellamento. È questa una costante di Saba. Anche le poesie come quelle
della raccolta Preludio e fughe (1927 -1928) che poterebbero apparire come
una pausa meramente musicale, racchiudono un attento ascolto delle voci
interiori e sono spesso simbolo di sentimenti sofferti e di memorie.
Ricordo e nostalgia del passato:
Nelle ultime raccolte, accanto alla contemplazione assorta della vita si
insinuano il ricordo e la nostalgia del passato, spesso affidati alla musicalità
dei versi. Persistono, tuttavia, gli aspetti domestici e le figure amate, i versi
sono, però, più scanditi e la composizione è breve e incisiva.
Restano immutabili i temi originari: i fanciulli di Trieste, le vie solitarie, i caffè
fumosi del porto, le donne amate. Sono temi immobili, poiché Saba
concepisce la vita come immutabile: l’uomo - ed in questo segue il pensiero
di Leopardi - spera sempre un domani migliore, anche se sa che il nuovo
giorno porterà le stesse sofferenze di quello trascorso.
Saba è ritenuto una delle voci migliori e più riconoscibili del '900 italiano, per
la fedeltà ai propri temi, la ricchezza sentimentale, l’impegno umano,
l’itinerario spirituale e stilistico non condizionato dalle mode. La sua poesia è,
soprattutto, storia della sua esistenza, contemplata con la fermezza di chi sa
trovare nel dolore e nella pena il segno del destino umano, in nome del quale
si sente unito agli altri uomini (Leopardi – La ginestra).
Mentre i poeti del periodo fra le due guerre tendono ad una riflessione e ad
una grande consapevolezza letteraria, che conduce all’ermetismo, in Saba è
evidente la volontà di esprimersi in modi semplici, musicali, a volte con
notazioni diaristiche, anche se l’autobiografismo gradualmente si dissolve nel
canto. Il fondo costante di Saba è la consapevolezza malinconica di una
esistenza immutabile e la malinconia è alleviata dalla contemplazione delle
cose quotidiane, dal sentirsi vivere, dall’accettare le passioni come sempre
diverse e sempre le stesse.
I paesaggi non sono descritti, bensì evocati dal ricordo e dall’affetto che
modulano un canto monotono, ma intimo e suggestivo. Di Saba esistono due
documenti critici di altissimo valore: Quello che resta da fare ai poeti (1911),
articolo rifiutato dalla Voce e la Storia e cronistoria del Canzoniere (1948) che
appartiene all’ultima fase della sua opera.
La "poesia onesta":
L’apparente contraddizione tra la poesia onesta propugnata nell’articolo e la
critica della propria opera, attenta a sottolineare i meriti e a trascurare le
manchevolezze, si risolve nell’essere il Saba critico di se stesso e, quindi, in
possesso di una verità diretta che fa della seconda opera la conclusione
logica di una vita trascorsa al servizio della poesia.
La prima ragione di Saba, la sua umanità, fa sì che la sua poesia sia un dono
per gli altri (Pascoli), con la speranza di giungere ad un discorso fatto di
umiltà, semplicità e pietà. L’esame critico si riallaccia all’affermazione del
1911: - ai poeti resta da fare la poesia onesta (N.B. – si è in pieno clima di
avanguardia, il manifesto di Marinetti è del 1909).
Saba contrappone il Manzoni degli Inni sacri (versi mediocri ma immortali
perché onesti, frutto di autentici sentimenti), al D’Annunzio delle Laudi e dalla
Nave (versi magnifici, ma effimeri perché disonesti in quanto artificiali, non
rispondenti ai sentimenti, bensì costruiti ad effetto).
Saba ha quindi già ben chiara la nozione di una poesia che non deve essere
frutto di artificio, di finte passioni, di menzogna, esclusivamente volta ad
ottenere un bel risultato. Compito dello scrittore è far collimare contenuto e
forma, magari limitando la spinta emotiva, piuttosto che correre il rischio di
esagerare e mentire. Il poeta, lo scrittore in genere, deve essere, tanto nella
vita, quanto nella letteratura, un uomo onesto.
Tale principio, che è il punto di partenza di Saba, è ancore determinante al
momento della critica della propria opera e tale possibilità critica gli viene
dalla consapevolezza di ciò che egli ha inteso realizzare (non è crepuscolare,
come a volte è definito, per gli stessi motivi per i quali rinunzia al
dannunzianesimo e tutto ciò che può essere o sembrare posa).
Saba parla della necessità di sostenere con il ritmo l’espressione della
passione, fissando così i limiti dello strumento, a vantaggio del sentimento da
esprimere. Saba mira al giusto equilibrio tra sentimento ed arte, tra contenuto
e forma, seguendo l’ispirazione, senza timore di ripetere se stesso o gli altri,
(al contrario dei simbolisti, sostenitori della poesia pura). Saba si accosta ad
una poesia discorsiva, capace di accogliere tutte le occasioni di ispirazione
che la vita può offrire.
Poeta, non letterato di professione:
Il poeta deve rileggersi cercando di rilevare la corrispondenza fra stati
d’animo e versi, tra pensato e scritto, mediante moduli tradizionali e semplici,
in netto contrasto con le soluzioni allora di moda. Il poeta, inoltre, deve
abbandonare il modello del letterato di professione (D’Annunzio) rifiutando sia
le soluzioni dei futuristi, sia quegli esiti dannunziani che hanno prodotto una
poesia artificiale e la collusione tra letteratura e politica.
Parimenti
Saba
rifiuta
la
ricerca
esasperata
dell’originalità
e
la
sperimentazione eccessiva e gratuita, mirando, invece, ad una equilibrata
opera di revisione, di selezione e di rifacimento. Al contrario di quanto vede
fare intorno a sé, Saba adotta il più semplice dei linguaggi e propone un
discorso non drammatico, alieno da violente speculazioni, cercando di
sviluppare la naturale capacità dell’uomo – Saba nello stabilire il contatto con
gli altri, sulla base di uno scambio fondato su una diversa, ma sempre
semplice ed umana interpretazione dell’esistenza.
Saba vive pazientemente aspettando la serena disperazione, ossia la
serenità che viene dalla volontaria partecipazione a ciò che deriva
dall’esperienza del mondo, dalla ricerca dell’equilibrio e dal senso delle
proporzioni, mentre la disperazione è la consapevolezza dell’inalterabilità
della vita e dell’inevitabilità del destino.
A
tale
consapevolezza,
Saba
contrappone
la
pazienza,
il
gusto
dell’interpretazione, l’amore della vita, per arrivare non alla spiegazione (alla
maniera di Montale) bensì a mitigare l’impatto con la realtà.
La malinconia e la dolente consapevolezza dell'esistenza, la meditazione sul
trascorrere del tempo, diviene accorata saggezza della maturità e un
doloroso amore della vita. Che trova voce nel dialogo interiore fra passato e
presente e la consapevolezza delle propria vicissitudini esistenziali diviene
coscienza della tragedia storica di tutto un popolo, sempre restando aliena
dalla retorica.
Umberto Saba assume un ruolo indipendente e originale nella letteratura
italiana, in quanto si distacca in genere dalle maggiori correnti poetiche e si
dedica per tutta la vita alla ricerca di nuove finalità e di nuovi significati
poetici. La sua personalità, su cui influirono le drammatiche vicende della sua
esistenza, è orientata verso la saggezza, in quanto egli, pur non ignorando i
problemi e i mali dell'uomo, rivaluta la vita umana individuando in essa
importanti valori. Il poeta ebbe inoltre una salda fede nella sua funzione
letteraria e si impegnò per il rinnovamento dell'arte. Sono significativi, per la
comprensione della sua poetica, due scritti in prosa: Storia o cronistoria del
"Canzoniere" e Quello che resta da fare ai poeti (articolo). Il primo fra questi
scritti ci illumina a proposito della storia spirituale dell'autore, mentre il
secondo chiarisce il suo programma, che si riassume nel concetto della
"poesia onesta". Compito del poeta è infatti, secondo il Saba, esprimere il
suo mondo con sincerità, evitando compiacimenti stilistici e concettuali. Per
lui il simbolo della poesia onesta, ossia utile e sincera, è il Manzoni (Inni
Sacri), mentre un esempio tipico di poesia povera è il D'Annunzio. Pertanto,
da giovane, Saba si oppone al predominio letterario dannunziano, in nome di
una profonda rigenerazione dello spirito poetico e propone un ritorno alle vere
fonti della poesia. Egli rimane comunque lontano anche dai più tipici
oppositori del D'Annunzio, ossia dai Crepuscolari, poichè per lui la forma non
è importante, mentre lo era per i Crepuscolari, anche se questi erano per un
linguaggio volutamente dimesso. Nella sua opera, il linguaggio è solitamente
semplice, ma a volte assume toni eleganti; ciò avviene sempre in relazione
agli argomenti che nella sua opera mai sono disposti in modo sistematico,
bensì risentono di una certa casualità e spesso si avvicinano alla cronaca
quotidiana. Egli, ed in ciò consiste buona parte della sua poesia, vede quello
che l'uomo comune non nota. Con ciò, non si adegua necessariamente alla
problematica pascoliana delle piccole cose, bensì riesce a trarre significato
poetico universale da svariate vicende quotidiane. Sono notevoli nella sua
poesia i motivi umani della famiglia, della città natale, delle speranze
dell'uomo. Troviamo nella sua opera anche il tema della felicità, che non è
trattato in modo pessimistico, proprio perchè l'autore ritiene che la felicità sia
raggiungibile. La stessa morte non è motivo di disperazione, ma riconcilia con
la vita. C'è nel Saba pertanto, accanto alla consapevolezza del dolore, quella
che si può definire la "serena disperazione". Il suo messaggio si allontana
dalla visione definitivamente pessimistica di buona parte della poesia
moderna e risulta saggia e positiva, poiché esalta i valori principali dell'uomo
ed induce alla volontà di lottare per essi. Saba rappresenta una nota di
sincerità e di equilibrio.
U.D. 3_ Eugenio Montale
Nasce a Genova nel 1896. Suo padre è un grosso commerciante.
Nell'adolescenza è costretto ad abbandonare gli studi regolari per la sua
cattiva salute, ma continua a leggere molto: Rousseau, Baudelaire, Mallarmé,
Valéry, Cervantes, Manzoni... A vent'anni scrive il suo primo capolavoro:
Meriggiare pallido e assorto. Chiamato sotto le armi, partecipa alla I guerra
mondiale come ufficiale di fanteria, ma non sarà un'esperienza così
significativa come per Ungaretti.
Nel dopoguerra legge Gentile, Croce e soprattutto Boutroux, la cui filosofia
contingentista (che si oppone al determinismo positivistico, cioè alla
spiegazione scientifica di tutta la realtà) lo influenza nella composizione della
raccolta di poesie Ossi di seppia (tra il '20 e il '25).
Nel '25 scopre, come critico letterario, l'importanza di Svevo. Aderisce anche
al Manifesto degli intellettuali contro il fascismo, promosso da Croce.
Con Ossi di seppia (stampati da quel Piero Gobetti che solo pochi mesi dopo
morirà a seguito di violenze fasciste), Montale si stacca dalla precedente
tradizione aulica-accademica, carica di toni retorici, per affermare invece una
poesia dal timbro familiare e dialogico, rivolta a un interlocutore-lettore
vicinissimo. La polemica è soprattutto nei confronti di Carducci, D'Annunzio e
Pascoli. Montale non sopporta, di loro -com'egli stesso dirà-, i "furori
giacobini", il "superomismo", il "messianismo". Il poeta preferisce porsi in
attesa d'incontrare qualcuno o qualcosa che dia senso al tutto.
Ossi di seppia infatti hanno come tema centrale la riflessione su di sé e la
proiezione di sé in un simbolo naturale, nel senso che la natura viene usata
per parlare del proprio io. L'essere dell'uomo può essere colto solo nel suo
"non-essere". La parola parla solo per negare i contenuti della vita e della
storia. Uno dei suoi versi recita: "Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che
non siamo, ciò che non vogliamo". Ma si tratta di una negatività dialettica,
tesa al positivo, valida per sgombrare il campo dalla retorica consolatoria.
L'uomo non ha un "centro" ma vuole cercarlo. In questo senso Montale rifiuta
quelle che per lui sono le false certezze del marxismo e del cristianesimo
ideologizzato (come nel fascismo).
Con il '27 inizia il suo ventennio fiorentino. Fa l'impiegato presso una casa
editrice, poi diventa direttore del Gabinetto Scientifico Letterario Vieusseux
(sarà sollevato dall'incarico nel '38 dal regime per motivi politici). Scrive sulla
rivista "Solaria", stringe amicizia con Vittorini, Gadda, Bo, Contini..., sposa la
moglie di un critico d'arte.
Nella nuova raccolta Le occasioni (1928-39) il tema centrale è "l'altro da sé",
una presenza umana o naturale che viene incontro al poeta, alla ricerca della
salvezza. Questo "altro", di cui Montale è sempre stato gelosissimo, è stato
rivelato da un critico letterario nell'82: si tratta di Irma Brandeis, appartenente
a un'illustre famiglia di ebrei mitteleuropei emigrati negli USA. Pare certo che
Irma si sia convertita al cattolicesimo. La sua presenza percorre quasi tutta
l'opera di Montale (vedi la figura di Clizia, pseudonimo usato per indicare la
trascendenza). Ne Le occasioni la lirica è più ermetica, più chiusa, perché
pretende di evocare un mistero senza svelarlo. Negli anni prebellici e durante
la IIa guerra mondiale Montale vive di collaborazioni letterarie e di traduzioni.
Il terzo libro pubblicato s'intitola La bufera e altro (1940-1954). L'interesse
continua a vertere sulla condizione umana in sé, a prescindere dagli
avvenimenti storici. La storia è ciò che passa, l'uomo è ciò che resta.
L'infelicità è nell'uomo a prescindere dal suo tempo presente. In lui v'è
tensione verso l'essenziale, l'assoluto. La sua poesia è metafisico-simbolista.
La stessa Clizia fa da mediatrice fra il poeta e l'assoluto.
Nel '48 viene assunto dal "Corriere della sera". Dal '67 è senatore a vita. Nel
'75 ottiene il Nobel per la letteratura. Negli ultimi libri vi è una saggia e amara
ironia (Satura, 1962-70, e altri). Muore nel 1981.
Meriggiare. In questa lirica Montale usa 5 infiniti presenti a capoverso per
abolire ogni possibilità di determinare il soggetto dell'azione e per rendere
universale, indefinito ed eternamente presente il contenuto della poesia, che
è la cosmica contemplazione della vita come sofferenza. Il muro contemplato
in lungo e in largo non si può scavalcare. Il paradiso è irraggiungibile. Il
"colle" del Leopardi era un'occasione per fantasticare su ciò che non si
vedeva. Il "muro" di Montale impedisce qualunque fantasia. Il suicidio non è
la conclusione finale, perché Montale, pur convinto che l'uomo da solo non
possa trovare soddisfazione di sé, spera di poter incontrare qualcuno che gli
porti la salvezza (è in attesa di un "miracolo" che gli sveli l'origine delle cose).
U.D. 4_ Salvatore Quasimodo
Nasce nel 1901 a Modica (Ragusa). Suo padre è capostazione delle ferrovie,
soggetto a continui trasferimenti per motivi di lavoro. Nel 1908 si stabilisce a
Messina e vi rimane sino al 1920, conseguendo il diploma di istituto tecnico
commerciale.
Si trasferisce a Roma nel '21 iscrivendosi alla facoltà di ingegneria, ma ben
presto smette gli studi, per mancanza di mezzi. Costretto a lavorare per
vivere, dal '26 è impiegato a Reggio Calabria presso il Genio civile. Comincia
a scrivere le prime poesie (Acque e terre) che vengono pubblicate sulla
rivista fiorentina "Solaria"(1930), allora molto quotata. La linea della rivista era
antifascista sul piano ideologico, antiaccademica e antiformalista sul piano
letterario: venne soppressa nel '36. Nel '34 approda a Milano e vi resterà
quasi sino alla morte.
La raccolta è caratterizzata dalla mitizzazione della Sicilia, che, pur essendo
descritta in maniera realistica, assume i toni e i colori di un paradiso perduto,
irraggiungibile: un Eden di cui il poeta rimpiange l'innocenza umana (non
ancora corrotta dal male di vivere), nonché l'armonia con la natura. La
rievocazione della Sicilia, in questo senso, è fusa con quella dell'infanzia
(infanzia e giovinezza sono le età che Quasimodo predilige). Dominano
quindi i temi del dolore, della solitudine e incomunicabilità, dell'impossibilità di
trovare conforto o consolazione nella vita. Questi temi, d'altra parte,
costituiscono l'unica opposizione permessa dal regime fascista, la cui
letteratura
era
invece
ottimistica
e
trionfalistica.
Stilisticamente
e
lessicalmente Quasimodo è vicino a Pascoli, D'Annunzio e Verga. Del Verga
assume il realismo; del Pascoli l'arte di trasfigurare la natura; del D'Annunzio
l'identificazione del poeta con la natura. Quasimodo ricerca un modo
espressivo raffinato, limpido, teso alla bellezza classica.
Nelle due raccolte successive, Oboe sommerso (1932) e Erato ed Apollion
(1936), Quasimodo cerca di adeguarsi completamente alla scuola ermetica,
nel tentativo, non riuscito, di superarne i maestri (Ungaretti e Montale),
portandone all'estremo certi moduli tipici. Fa questo proprio negli anni in cui
Ungaretti tentava invece un recupero delle forme metriche tradizionali. In
queste raccolte le rime sono piuttosto orecchiabili (di qui il loro successo
popolare), ma poco profonde. Per seguire una moda, Quasimodo in realtà
tradì se stesso: la sua poetica assunse delle forme strane e troppo studiate
(ad es. le immagini vengono accostate in maniera arbitraria).
Nel '38 lascia il Genio civile e diventa giornalista. Dal '36 al '42 raccoglie
Nuove poesie, con cui cerca di ritornare al felice equilibrio di Acque e terre.
La raccolta più importante di Nuove poesie è Ed è subito sera. In questo
recupero della sua poetica più autentica è stato senza dubbio aiutato dalle
sue traduzioni dei lirici greci (1940), che in parte lo hanno allontanato dallo
stile ermetico, oscuro e artificiale, da lui usato, e lo hanno portato a
valorizzare di nuovo le forme metriche tradizionali (ad es. l'endecasillabo).
Inoltre la sua Sicilia (soprattutto quella del mondo greco) gli pare sempre di
più come un momento alternativo al decadimento "morale" del vivere.
Nel '41 viene nominato, dal ministro dell'Educazione nazionale, per "chiara
fama", professore di Letteratura italiana al Conservatorio di Milano. La sua
ultima produzione, quella del dopoguerra, è la più significativa. I temi
autobiografici, di stampo decadente, si convertono in temi civili: il monologo
lascia lo spazio al dialogo con gli uomini, cioè alla scoperta della presenza
degli altri, alla compassione (a volte anche troppo ingenua) per le vittime
dell'immane tragedia della guerra. La meditazione sul dolore dell'uomo si
arricchisce di nuovi contenuti: l'esilio, i miti familiari, il populismo... (La sua
poesia "civile" non è comunque che la ricerca di un significato che trascenda
il vivere e il morire). Per questo suo impegno morale e civile (la pretesa era
quella di trasformarsi in un "poeta-vate"), che lo avvicina alla corrente
neorealistica (e politicamente alla sinistra, ma senza molta convinzione),
Quasimodo otterrà nel '59 il premio Nobel per la letteratura.
In Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949), si forma in
sostanza una nuova poesia, in cui trovano posto i dolori e le speranze degli
uomini, per quanto il poeta non sia mai andato a cercare le cause esistenziali
e sociali di tanto soffrire. Il contenuto morale delle sue poesie, anche in
queste raccolte (il cui stile peraltro lascia un po' a desiderare), è sempre
quello dell'angoscia esistenziale, ovvero la ricerca di una realtà nuova; ma
questa realtà, per il poeta, non può essere raggiunta, per cui egli non ha un
proprio messaggio da offrire e rimane chiuso nella sua solitudine. Quasimodo
non è mai riuscito a superare la crisi dei valori storici della borghesia e del
fascismo: l'ha soltanto costatata. Tuttavia, egli verrà visto come colui che,
nonostante le sue continue ricadute nell'oratoria, nella sentenziosità e nella
coralità, ha saputo distaccarsi nettamente dalla tradizione ermetica, che non
permetteva un facile rapporto tra poeti e pubblico. Muore a Napoli nel 1968.
Questo poeta figura tra i maggiori interpreti della condizione dell'uomo
moderno. Egli svolse una funzione significativa nella letteratura del
Novecento, come dimostrano i numerosi riconoscimenti a lui tributati dalla
cultura internazionale, che culminarono nel 1959 con l'assegnazione del
premio Nobel per la letteratura. Nella sua opera letteraria egli rivelò il suo
carattere pensoso e profondamente umano e nello stesso tempo giunse,
attraverso un itinerario ricco di svolte e di approfondimenti, a soluzioni
originali e ricche sul piano intellettuale ed artistico. Nelle prime raccolte
Acque e terre (1930) e Ed è subito sera (1942) Quasimodo sviluppò i temi
connessi con la solitudine, con lo sradicamento dell'uomo, che egli
individuava anche nella sua personale condizione di esule profondamente
legato al mondo della sua infanzia, ossia ad una dimensione di bontà e di
sanità non più raggiungibile. Egli aderì all'Ermetismo spontaneamente, per la
sua naturale esigenza di concretezza e perchè vide nella nuova poesia un
sussidio contro il Romanticismo, il sentimentalismo, l’autobiografismo e
qualcosa di utile per il raggiungimento di una più acuta visione delle cose; il
suo ermetismo risultò in ogni caso originale, poichè egli aderì ad un
linguaggio scarno ma non privo di sfumature musicali e caratterizzato da un
velo di tristezza. Il paesaggio della Sicilia è quindi al centro della sua
ispirazione nella prima parte della sua produzione letteraria ma non viene
meno nei successivi momenti della sua storia spirituale. La sua stessa
adesione alla sensibilità greca, che egli sentì come viva e importante, si
collega in parte al legame affettivo che lo univa al mondo siciliano, che egli
considerò particolarmente vicino a quello ellenico. Di tale adesione è frutto un
libro di traduzioni di lirici greci (1940), importante come autentica opera di
poesia, oltre che per l'aspetto culturale. Alla traduzione dei poeti greci tenne
dietro
in
particolare
l'arricchimento
del
linguaggio
poetico
ed
un
approfondimento sul piano della concezione e della ispirazione. Di tali
cambiamenti abbiamo validi esempi soprattutto nelle raccolte successive alla
Seconda Guerra Mondiale. Le tragiche esperienze del conflitto indussero in
particolare il poeta ad allontanarsi dagli aspetti più rigidi dell'Ermetismo, ad
abbandonare le meditazioni solitarie e ad avvicinarsi a tutti gli uomini, nel
tentativo di aiutarli nella ricostruzione degli antichi valori. Ciò notiamo
soprattutto in Giorno dopo giorno (1949) e nella raccolta successiva La vita
non è un sogno (1949) e in genere in quella parte della sua produzione che è
la più apprezzata dai critici e la più ricca di valori e di significati. Tra gli
elementi più importanti di questo periodo appaiono il rinnovamento del
linguaggio ed un arricchimento dei temi, nell'ambito dei quali trovano posto
importanti istanze sociali. È significativa inoltre la volontà dell'autore di agire
per la trasformazione della realtà e per la realizzazione di un mondo migliore.
Per la presenza di questo ideale, che in realtà illumina in vario modo tutta la
produzione dell'autore e per la costante partecipazione al rinnovamento della
letteratura, il messaggio di Quasimodo si riassume pertanto in una nota di
notevole impegno.
Allegati al Modulo 4_ Ermetismo
U.D. 1,2, 3, 4_ Ermetismo (autori)
Giuseppe Ungaretti (Poesie)
Tratte da Allegria
Veglia
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
San Martino del Carso
Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
E' il mio cuore
il paese più straziato
tratta da Fratelli
Soldati
Bosco di Courton luglio 1918
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie.
I fiumi
di Giuseppe Ungaretti
Cotici, il 16 agosto 1916.
5
10
Mi tengo a quest'albero
Ma quelle occulte
mutilato
mani
abbandonato in questa
che mi intridono
dolina
mi regalano
che ha il languore
40 la rara
di un circo
felicità
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
Ho ripassato
il passaggio quieto
le epoche
delle nuvole sulla luna
della mia vita
Stamani mi sono disteso
in un'urna di acqua
e come una reliquia
ho riposato
45 Questi sono
i miei fiumi
15 L'Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil'anni forse
50 di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre
Ho tirato su
le mie quattr'ossa
20 e me ne sono andato
come un acrobata
sull'acqua
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
55 e ardere d'inconsapevolezza
nelle estese pianure
Mi sono accoccolato
Questa è la Senna
vicino ai miei panni
e in quel suo torbido
25 sudici di guerra
mi sono rimescolato
e come un beduino
60 e mi sono conosciuto
mi sono chinato a ricevere
il sole
Questi sono i miei fiumi
contati nell' Isonzo
Questo è l' Isonzo
30 e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell'universo
Il mio supplizio
35 è quando
non mi credo
in armonia
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
65 mi traspare
ora ch'è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre
Umberto Saba (Poesie)
A mia moglie
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell'andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull'erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l'occhio, se il giudizio mio
non m'inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun'altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa;
che, se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la tua carne.
se l'incontri e muggire
l'odi, tanto è quel suono
lamentoso, che l'erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t'offro quando sei triste.
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d'un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l'angusta
gabbia ritta al vederti
s'alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere:
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera.
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l'accompagna.
E così nella pecchia
ti ritrovo, ed in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun'altra donna.
La capra
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
Poesie di Montale tratte da Ossi di Seppia
Non chiederci la parola
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Spesso il male di vivere ho incontrato
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Poesie di Quasimodo
Da Acque e terre _ Ed subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra
Trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Da Giorno dopo giorno_ Alle fronde dei salici
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese:
oscillavano lievi al triste vento.
Modulo 5_ dal Neorealismo alle NeoAvanguardie
U.D. 1_ Neorealismo e Neoavanguardia
Il Neorealismo è stato un movimento sviluppatosi tra il 1940 e il 1950 che si
è espresso soprattutto nella narrativa e nel cinema.
Il secondo dopoguerra e la lotta antifascista sono gli eventi storici che fanno
da sfondo ad un nuovo profondo rivolgimento culturale e letterario. Come mai
prima d'ora, il nesso con la realtà socio-politica è direttamente determinante
anche nell'elaborazione della nuova poetica. In Italia, nell'immediato secondo
dopoguerra si fa vivissimo negli intellettuali il bisogno di un impegno concreto
nella realtà politica e sociale del paese. Con l'antifascismo represso, prima, e
poi l'adesione ai moti di rivolta popolare determinano in molti scrittori
l'esigenza di considerare la letteratura come una manifestazione e uno
strumento del proprio impegno. In questa atmosfera emergono dei giudizi
pesanti riguardo l'Ermetismo e il Decadentismo: in generale si ripudia la
tendenza ad evadere in altre dimensioni, in particolare si rinfaccia
all'Ermetismo la sua astensione dal confronto politico-culturale con il
fascismo e, tanto più che la maggior parte degli ermetici si era astenuta
anche dal partecipare alla Resistenza, mantenendo atteggiamento di distacco
ed isolamento.
Questo diffuso bisogno di impegno concreto nel reale da origine a romanzi
ispirati alla Resistenza e ad importanti dibattiti che hanno per tema il ruolo e i
doveri degli intellettuali nella società, il passato rapporto degli intellettuali col
fascismo e quello attuale col partito comunista. Molto rilevante è la posizione
acquisita dalle riviste, tra le cui primeggiava "Il Politecnico" di Elio Vittorini. Il
neorealismo è libero incontro di alcune individualità ben distinte all'interno di
un clima storico comune, dotato di una carica di entusiasmo e di
sollecitazione fantastica. Infatti il neorealismo non fu una scuola, ma un
insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle
diverse Italie, specialmente delle Italie fino allora più sconosciute dalla
letteratura. Il neorealismo in Italia è sorto come conseguenza della crisi tra il
1940 e il 1945 che, con la guerra e la lotta antifascista, investì, sconvolse fino
alle radici e cambiò il volto all'intera società italiana. Il neorealismo si nutrì,
quindi, di un modo di guardare il mondo, di una morale e di una ideologia
nuove che erano proprie della rivoluzione antifascista. Il neorealismo si
presentò così come un'arte impegnata contro l'arte che tendeva ad eludere i
problemi reali del nostro Paese e cercò un mutamento delle forme espressive
che sottolineasse la rottura con l'arte precedente e potesse esprimere più
adeguatamente i nuovi sentimenti.
La poetica del Neorealismo, da un punto di vista tecnico e formale, appare
molto povera e priva di elementi innovatori. In questo periodo si gioca anche
la sopravvivenza del concetto di autonomia della letteratura, che era stato tra
i più significativi apporti della stagione del decadentismo. Il Neorealismo con
le sue aspirazioni e le sue tensioni, la poetica e la pratica risentono anche
pesantemente di un condizionamento ideologico e politico, che nella
produzione deteriore del movimento finisce con lo sfociare nel fenomeno del
populismo.
Neoavanguardia
A partire dalla fine degli anni Cinquanta, gli anni del boom economico e della
definitiva trasformazione della società italiana in società fortemente
industrializzata, in una situazione letteraria caratterizzata per un verso
dall'esaurimento della fase neo-realistica, dal ritorno alle tematiche
intimistiche e neo-crepuscolari e da un rifiuto della storia come oggetto di
ispirazione e rappresentazione (Tomasi, Bassani, Cassola, ecc.) e per altro
verso dal sempre più massiccio coinvolgimento degli intellettuali nei
meccanismi dell'industria editoriale, assistiamo a un nuovo fenomeno di
rilievo nello sviluppo delle poetiche novecentesche italiane: la nascita della
cosiddetta neo-avanguardia. Gli scrittori che possono essere compresi in
questo movimento, dopo esperienze separate sul piano sia della produzione
letteraria sia della teoria e della critica e dopo la pubblicazione di un'antologia
di poeti Novissimi (Sanguineti, Pagliarani, Giuliani, Porta, Balestrini), nel 1963
si riuniscono a Palermo e si organizzano in corrente, autodefinendosi Gruppo
63 (che è anche il titolo di un'antologia di scritti degli appartenenti al gruppo).
Come i neorealisti muovendo dal rifiuto della metafisica ermetica e decadente
e delle sperimentazioni delle avanguardie storiche si erano richiamati alla
poetica del realismo ottocentesco, così gli scrittori della neo-avanguardia
muovendo dal rifiuto dell'ideologismo talora greve dei neorealisti, come dal
rifiuto dell'intimismo di quelle che spregiativamente chiamano le «Liale degli
anni '60» (i Bassani, i Cassola, gli altri autori dei best seller di qualità), si
richiamano alle poetiche sperimentalistiche delle avanguardie storiche.
Mutano i contesti e le ragioni socio-culturali delle scelte, male principali
soluzioni formali, e molti degli aspetti particolari della concezione stessa della
natura e del ruolo dell'arte rimangono quelle dei modelli.
Negli scrittori della neoavanguardia il rifiuto dell'ideologizzazione esasperata
della precedente letteratura si traduce in un sostanziale rifiuto dell'ideologia
come chiave interpretativa della realtà: «oggi nessuna ideologia è in grado di
offrire una interpretazione esauriente del mondo e allorché allora si tenti di
utilizzarle in questo senso non possono che produrre falsi significati». La
realtà nell'arte della neo-avanguardia deve essere recuperata «nella sua
intattezza» (A. Guglielmi) attraverso un'operazione essenzialmente affidata al
linguaggio. Ma il linguaggio della società odierna - la società capitalistica
avanzata, dei mass media, della pubblicità, dell'industria editoriale, ecc. - è
irrimediabilmente logoro, incapace ormai di farsi portatore di significati
autentici e di reale comunicazione fra gli uomini. Tanto più la crisi investe la
condizione di poeta: come credere ancora nell'esercizio tradizionale,
artigianale delle tecniche di scrittura poetica, in un tempo e in un mondo in cui
la letteratura è mercificata e le sue tecniche sono utilizzate per reclamizzare
una lavastoviglie, un detersivo o una carta igienica? Un discorso analogo vale
per le arti figurative nell'età della riproducibilità tecnica.
Con il linguaggio di cui dispone e nel contesto in cui si trova a rovere, il poeta
contemporaneo non potrà far altro che comunicare «la negazione della
comunicazione esistente» (A. Guglielmi), ovvero compiere una mimesi diretta
del caos, cioè una riproduzione immediata ed enfatizzata della mancanza di
significato, dell'inautenticità della comunicazione normale (sia riproducendo
lacerti di comunicazione quotidiana apparentemente dotati di significato, di
cui evidenziare la banalità, svelare l'insignificanza; sia fornendone un
equivalente provocatorio, un coacervo di parole preso poco meno che a
caso). Asintattismo, asemanticità, parole in libertà, parole casualmente
radunate e disposte sulla pagina, reperti del mondo della comunicazione (di
massa e non: dallo slogan pubblicitario alla citazione televisiva, dal più
recente anglismo al più remoto frammento lessicale delle lingue morte, ecc.),
pratica del nonsense, uso ludico del significante (cioè dei puri e semplici corpi
fonici delle parole), rifiuto del significato, e via dicendo sono tra le soluzioni
formali più radicali adottate da molti esponenti di questo movimento.
È stato notato che il proporsi di quella che A. Guglielmi definiva «una poesia
dell'alienazione» e «una sorta di visione schizofrenica della realtà» portava la
neoavanguardia ad affrontare molte delle difficoltà di poetica e di procedura
già in parte sperimentate dalle avanguardie storiche. Percorrere sino in fondo
la via della negazione di ogni possibilità di comunicazione che non fosse la
"comunicazione della non comunicazione", sino al silenzio e alla denuncia
della morte dell'arte; ridurre la rappresentazione del caos del linguaggio e
della realtà a gioco intellettuale, a puro e semplice divertimento; adottare
soluzioni intermedie che non rifiutino completamente la semanticità del
linguaggio (cioè la possibilità di trasmettere significati autentici attraverso il
linguaggio): queste, che sono le principali strade percorse dagli scrittori della
neoavanguardia, sono anche - a prescindere dai referenti e dai significati
storico-culturali contingenti - le vie grosso modo percorse dalle avanguardie
storiche. Gli stessi scrittori della neoavanguardia, del resto, ne sono in larga
misura consapevoli e se spiegano le oggettive differenze che li separano
dalle avanguardie storiche non ne rifiutano l'eredità e anzi tentano in varie
sedi (ad esempio nell'antologia dei Poeti italiani del Novecento di Sanguineti)
una rivalutazione e rivitalizzazione della tradizione avanguardistica nostrana.
Alla mimesi del caos, al naufragio nel mare dell'oggettività, al perdersi nei
labirinti del mondo moderno senza cercare una via d'uscita, proprio negli anni
del boom delle neo-avanguardie si è ribellato in alcuni suoi interventi
memorabili Italo Calvino (Il mare dell'oggettività del 1958 e La sfida al
labirinto del 1962, editi entrambi ; «Il menabò»), la cui esperienza letteraria è
da sempre stata concepita all'insegna del logos contro il caos, all'insegna
della ragione contro l'irrazionalità. Analizzando ne La sfida al labirinto gli
sviluppi della letteratura e delle avanguardie nel mondo contemporaneo, pur
ammettendo la difficoltà del compito e la necessità di adeguarsi a una realtà
in perenne movimento e sempre più complessa, Calvino ribadisce la fedeltà
ai propri principi e delinea i compiti a cui a suo parere la letteratura e la
cultura non possono sottrarsi: «Resta fuori chi crede di poter vincere labirinti
sfuggendo alla loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente
quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornire essa stessa la
chiave p. uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l'atteggiamento
migliore per trovare la via d'uscita, anche se questa via d'uscita non sarà altro
che il passaggio da un labirinto all'altro. È la sfida al labirinto che vogliamo
salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e
distinguere dalla letteratura della resa al labirinto».
N.B. la scelta antologica degli autori di questo 5° modulo verrà preparata
successivamente, il docente ve ne darà comunicazione. Grazie.
U.D. 2_ Elio Vittorini (1908-1966)
Elio Vittorini nasce il 23 luglio 1908 a Siracusa da Lucia Sgandurra e
Sebastiano vittoriani, primo di quattro figli.
Seguendo gli spostamenti del padre ferroviere, trascorre l'infanzia e
insistentemente in tutta la sua opera sarà presente il fascino del treno e del
viaggio. Inquieto e ribelle, durante l'adolescenza fugge diverse volte da casa
«per vedere il mondo», utilizzando i biglietti omaggio cui hanno diritto i
familiari di un dipendente delle ferrovie.
Nel 1924 entra in contatto con un gruppo di anarchici siracusani in lotta
contro lo squadrismo fascista e interrompe gli studi tecnici a cui i genitori
l'hanno destinato. Quindi, a diciassette anni decide di lasciare definitivamente
la Sicilia e si stabilisce a Gorizia, dove troverà lavoro in un'impresa di
costruzioni. Nel 1926 pubblica un articolo politico sulla rivista «La conquista
dello stato», assumendo posizioni di fascismo antiborghese. E nel 1927
grazie all'amicizia con Curzio Malaparte comincia a collaborare con «La
Stampa» e pubblica su «La fiera letteraria» il racconto il Ritratto di re
Gianpiero con presentazione di Enrico Falqui.
Il 10 settembre 1927, dopo la fuga architettata per potersi sposare subito,
viene celebrato il matrimonio "riparatore" con Rosa Quasimodo, la sorella del
celebre poeta Salvatore Quasimodo. Nell'agosto del '28 nascerà il loro primo
figlio, chiamato, in omaggio a Curzio Malaparte, Giusto Curzio.
In questo periodo intraprende la lettura di alcuni dei maggiori scrittori europei,
fra cui Gide, Joyce e Kafka, e nel frattempo le sue collaborazioni si
estendono a «Il Mattino», «Il Lavoro fascista» e ad altri periodici. Nel '29
suscita scandalo un suo articolo contro il provincialismo della cultura italiana.
Vittorini comincia ad essere considerato «uno scrittore tendenzialmente
antifascista». Quindi perde le collaborazioni «ai giornali che pagano» e
comincia a collaborare con una piccola rivista fiorentina, «Solaria», su cui
pubblica la maggior parte dei racconti, raccolti poi in volume nel 1931 con il
titolo Piccola borghesia — il suo primo libro. Così Vittorini diviene un
«solariano» e — come racconta egli stesso in Della mia vita fino ad oggi —
«solariano negli ambienti letterari di allora, era parola che significava
antifascista, europeista, universalista, antitradizionalista…».
Grazie al direttore della rivista, Giansiro Ferrata, realizza il suo sogno di
vivere a Firenze, dove nel 1930 si trasferisce con la famiglia. Qui lavora come
segretario di redazione di «Solaria» e, per interessamento di Gianna Manzini,
viene assunto come correttore di bozze al quotidiano «La Nazione». La sera
frequenta il noto caffè degli ermetici «Le Giubbe Rosse», o s'incontra con gli
amici in casa di Drusilla Tanzi, moglie del critico d'arte Matteo Marangoni, da
tutti chiamata " Mosca" — la futura compagna di Eugenio Montale. In questi
anni, sollecitato e dal desiderio di leggere i testi della letteratura
anglosassone in lingua originale e dall'intento di aprirsi le porte anche come
traduttore, da autodidatta e con grande zelo, inizia a studiare la lingua inglese
proprio nella tipografia de «La Nazione», aiutato dal tipografo Chiari. Non
parlerà mai l'inglese, ma da quella lingua tradurrà decine di libri (il Robison
Crusoe e le opere di Lawrence, Poe, Saroyan, Faulkner, Powys, Steinbeck,
Defoe, Caldwell ecc.). Attraverso recensioni e traduzioni — e poi in seguito
anche mediante la sua attività editoriale — Vittorini, al pari di Cesare Pavese,
contribuirà a diffondere in Italia la moderna letteratura anglosassone e a
creare così il mito dell'America: il mito di una civiltà moderna progredita,
industriale e cittadina in contrapposizione a quella italiana, arcaica arretrata
rurale e provinciale.
Vivendo poveramente, negli anni 1931-1937 collabora al «Bargello», il
settimanale della federazione fascista di Firenze, su cui esprime le sue
posizioni di fascista «di sinistra». Nel 1932 vince ex aequo con Virgilio Lilli il
premio per il miglior Diario del viaggio in Sardegna, bandito dal settimanale
«L'Italia letteraria». Dal primo Quaderno sardo nascerà nel '36 il libro Nei
Morlacchi. Viaggio in Sardegna, ristampato nel '52 col titolo Sardegna come
un'infanzia. Nel '33 inizia la pubblicazione a puntate su «Solaria» del
romanzo Il garofano rosso (edizione definitiva 1948). Nel '34 è costretto a
lasciare il lavoro di correttore di bozze a causa di un'intossicazione da
piombo. Nello stesso anno nasce il suo secondo figlio, Demetrio, tenuto a
battesimo da Montale.
Nel '36 interrompe la stesura di Erica e i suoi fratelli (edito incompiuto nel '54)
e comincia a scrivere l'opera che costituisce il punto più alto della sua attività:
Conversazione in Sicilia. Il romanzo appare a puntate su «Letteratura» tra il
'38 e il '39, e poi nel '41 uscirà in volume: prima presso l'editore Parenti col
titolo Nome e lagrime, e poco dopo col titolo definitivo presso la casa editrice
Bompiani.
Insieme con altri fascisti di sinistra e ex fascisti, Vittorini segue con
drammatica partecipazione la guerra civile di Spagna, schierandosi dalla
parte dei repubblicani spagnoli. E in seguito alla pubblicazione di un articolo
antifranchista, divenuto sospetto al Regime, viene espulso dal partito fascista.
Quindi si accosta ai gruppi comunisti clandestini. Nel '37 pubblica sul n.1 di
«Letteratura» — una nuova rivista fiorentina «con la quale si cercava di
sostituire […] la scomparsa «Solaria» — Giochi di ragazzi, romanzo
incompiuto concepito come seguito de Il garofano rosso.
Avendo trovato lavoro presso Bompiani, alla fine del 1938, si trasferisce con
la famiglia a Milano, dove attraversa un periodo di crisi per via del suo
vecchio amore per la milanese Ginetta Varisco, moglie del commediografo
Cesare Vico Lodovici. Nel 1941 la censura fascista, contestando le note
critiche di Vittorini, sequestra l'antologia Americana, che tuttavia l'anno
successivo verrà rimessa in vendita da Bompiani, benché con l'eliminazione
di quasi tutte le note critiche.
Durante la guerra, svolge attività clandestina per il partito comunista.
Nell'estate del '43 viene arrestato, ma rimane nel carcere di San Vittore fino a
settembre. Tornato libero, si occupa della stampa clandestina, prende parte
ad alcune azioni della Resistenza e partecipa alla fondazione del Fronte della
Gioventù, lavorando a stretto contatto con Eugenio Curiel. Recatosi nel
febbraio del '44 a Firenze per organizzare uno sciopero generale, rischia la
cattura da parte della polizia fascista; quindi si ritira per un certo periodo in
montagna, dove, tra la primavera e l'autunno, scrive Uomini e no, edito
presso Bompiani nel 1945. Finita la guerra, torna a Milano con Ginetta e
chiede l'annullamento del suo precedente matrimonio.
Nel '45 dirige per alcuni mesi «L'Unità» di Milano e fonda per l'editore Einaudi
la rivista «Il Politecnico». L'apertura culturale della rivista e soprattutto le
posizioni assunte da Vittorini in merito alla necessità di una ricerca
intellettuale autonoma dalla politica, suscitano la famosa polemica con i
leader comunisti Mario Alicata e Palmiro Togliatti che portarono alla sua
prematura chiusura nel '47.
Sempre nel '47 esce Il Sempione strizza l'occhio al Frejus, mentre nel '49
escono Le donne di Messina (apparso poi, in una nuova veste, nel '64) e la
traduzione americana di Conversazione in Sicilia, con prefazione di
Hemingway. Nel '50 riprende la sua collaborazione a «La Stampa» e nel '51
inizia a dirigere per Einaudi la collana di narrativa “I gettoni”, dimostrandosi
uno scopritore di talenti: Beppe Fenoglio, Carlo Cassola, Italo Calvino, Lalla
Romano, Mario Rigoni Stern, Ottiero Ottieri e molti altri. In quello stesso anno
lascia il partito comunista, salutato polemicamente da Togliatti.
Nel '55 la sua vita privata è lacerata dalla morte del figlio Giusto.
Nel '56 esce La Garibaldina e nel '57 Diario in pubblico, volume che raccoglie
gran parte dei suoi scritti critici. Grande clamore suscita poi il suo rifiuto di
pubblicare Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Nel '59 fonda con Calvino
«Il Menabò» — rivista aperta a una narrativa che voglia essere al passo con
la civiltà industriale. L'anno successivo passa alla direzione della collana di
Mondadori La Medusa e nel '61 si avvicina anche al mondo del cinema,
scrivendo la sceneggiatura per un film mai realizzato, Le città del mondo.
Nel '63 si ammala gravemente e viene sottoposto a un primo intervento
chirurgico. Malgrado la malattia, fittissima è la sua attività editoriale, avendo
assunto nel frattempo la direzione della collana di Mondadori Nuovi scrittori
stranieri, e quella di Einaudi Nuovo Politecnico.
Il 12 febbraio 1966 muore nella sua casa milanese di via Gorizia. Postumo
escono il volume critico Le due tensioni (1967) e il romanzo incompiuto scritto
negli anni cinquanta, Le città del mondo (1969).
Conversazione in Sicilia"
Il romanzo si presenta al lettore come un viaggio di un uomo a ritroso nella
sua terra natìa. L'identità del viaggiatore è incerta, ma è lo stesso autore ad
avvisare che il racconto non è autobiografico.
È possibile leggere l'opera con due diverse chiavi di lettura: la prima è quella
nel segno dell'allucinazione, del sogno e questa via spiegherebbe l'assenza
di un vero filo rosso che accomuni i vari incontri del protagonista, i dialoghi
estenuanti e ripetitivi, le situazioni finora estranee al panorama letterario
italiano e il tono decisamente bizzarro e inconsueto della narrazione. Inoltre
così troverebbe un senso anche il surreale e inverosimile ritorno nel finale di
tutti i personaggi incontrati nel corso della storia, subito dopo il dialogo col
fantasma del fratello morto in guerra.
Un'altra possibile interpretazione - ed è questa la più in auge per la critica legge l'intera opera in chiave simbolica, quasi allegorica. Vittorini, per non
incorrere nella censura del regime mussoliniano - il libro viene pubblicato nel
1941 -, avrebbe mascherato le sue reali intenzioni antifasciste dietro un
romanzo i cui personaggi e dialoghi hanno un significato che va oltre
l'apparenza.
L'arrotino che cerca lame e coltelli, ma non ne trova presso la gente,
simboleggia il rivoluzionario che cerca di agitare il popolo, ma nessuno vuole
reagire perché tutti fanno finta di niente di fronte alle violenze.
L'uomo Ezechiele, i cui occhi madidi sembrano implorare pietà per il mondo
offeso, sta ad indicare la filosofia consolatoria.
Porfirio, il venditore di stoffe, è la cultura cattolica che, al posto dell'offesa
inferta dalle forbici, propugna l'azione dell'Acqua viva. I tre rappresentano gli
sforzi di chi cerca in ogni modo di opporsi al regime, ma non vi riesce a causa
dell'indifferenza comune.
In questa prospettiva i due passeggeri altezzosi del treno Coi Baffi e Senza
Baffi rappresentano il perbenismo menefreghista borghese di chi si
disinteressa dei poveri che lo circondano. Ed è proprio questo infischiarsene
e disprezzare che provoca ironica ilarità nel quartetto di personaggi che il
protagonista incontra più tardi: il Gran Lombardo che aspira ad una nuova
moralità, il vecchietto col suo ghigno sarcastico e gli altri due giovani nello
scompartimento.
Gli umili che l'autore descrive non sono più solo specchio della Sicilia povera
e arretrata, già oggetto di analisi da parte dei veristi; ma di tutti i prevaricati di
ogni tempo ed ogni luogo, di quelli che soffrono e proprio per questo sono più
umani degli altri.
Nell'opera è presente il motivo del viaggio: esso è infatti un pretesto, o meglio
artificio, per introdurre, per mezzo delle voci dei personaggi, situazioni ed
idee dell'autore.
Vi è inoltre la vitalità della madre che non si lascia abbattere dall'abbandono
del coniuge, anzi si adopera per sbarcare il lunario con ogni espediente. Ella
inoltre critica senza rimpianto il marito donnaiolo e vigliacco.
La tecnica utilizzata da Vittorini è molto suggestiva, in quanto permette di
creare un alone di indeterminatezza e mistero attorno alla scena narrata.
Tuttavia le allusioni criptiche rischiano di cogliere il lettore impacciato e
incredulo di fronte ad un testo che potrebbe sembrare puramente fantastico. I
richiami realisti e veristi della parte prima e terza, l'ambientazione sicula,
potrebbero impedire che l'opera venga correttamente compresa come uno
scritto pregno di significato politico e non organico al regime.
In alcuni momenti il tempo dell'azione si ferma rispetto a quello della
narrazione: è il caso degli infiniti e noiosissimi dialoghi tra i personaggi che
perseverano nel ripetere poche frasi intramezzate da brevi esclamazioni.
Sembra che Vittorini senta il bisogno di ribadire più e più volte lo stesso
concetto.
In definitiva, l'opera presenta un elevato valore storico, anche se difficilmente
risulterebbe comprensibile senza le indicazioni fornite dalle note.
U.D. 3_ Cesare Pavese
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, Cuneo 9 settembre 1908 - Torino 27
agosto 1950) è stato uno fra i principali scrittori italiani del Novecento.
Importante fu l'opera di Pavese scrittore di romanzi, poesie e racconti, ma
anche quella di traduttore e critico: oltre all'Antologia americana curata da
Elio Vittorini, essa comprende la traduzione di classici della letteratura da
Moby Dick di Melville, nel 1932, ad opere di Defoe, Joyce e Dickens.
La sua attività di critico in particolare contribuì a creare, verso la metà degli
anni '30, il sorgere di un certo mito dell'America. Lavorando nell'editoria (per
la Einaudi) Pavese propose alla cultura italiana scritti su temi differenti, e
prima d'allora raramente affrontati, come l'idealismo ed il marxismo, inclusi
quelli religiosi, etnologici e psicologici.
Studioso e pensatore che si riconosceva nella sinistra italiana, morì suicida a
quarantadue anni di età in una piccola camera al terzo piano dell'Hotel Roma
a Torino. Per tutta la vita aveva cercato di vincere la solitudine interiore,
sentita come condanna e vocazione.
Pavese nacque nel 1908 a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, dove il padre,
cancelliere di tribunale a Torino, aveva un podere. Sono questi i luoghi e le
esperienze infantili che vennero successivamente mitizzati dal Pavese
scrittore.
Nel 1914 morì il padre e questo gli causò un primo trauma. La madre infatti si
sostituì al marito defunto nell'allevare il figlio in maniera quanto mai rigida.
Pavese compì gli studi liceali a Torino con Augusto Monti, collaboratore di
Gobetti, narratore, studioso di problemi della scuola. Fu il primo contatto con
il mondo degli intellettuali e con personalità come Leone Ginzburg, Tullio
Pinelli, Vittorio Foa, studioso di problemi politici e sociali, Norberto Bobbio.
Durante gli anni dell'università Pavese maturò l'interesse per la letteratura
americana; in quegli anni, intanto, alternava il lavoro di traduttore con
l'insegnamento della lingua inglese (si era nel frattempo laureato con una tesi
sul poeta americano Walt Whitman). Nel 1935 venne inviato al confino per
attività antifascista (in realtà si era limitato a prestarsi come recapito per
lettere compromettenti per un'attivista comunista insegnante di matematica di
cui era innamorato); mentre era al confino pubblicò Lavorare stanca (iniziato
nel 1928) e, nello stesso periodo, iniziò la stesura de Il mestiere di vivere,
diario letterario ed esistenziale che continuò a scrivere fino alla fine dei suoi
giorni.
Le poesie di Lavorare stanca (1936) furono fortemente innovative e, insieme
alle sue opere di narrativa, attrassero un vasto pubblico. Ritornato dal
confino, Pavese scoprì che la donna da lui amata si era sposata (e questo gli
causò un secondo trauma); da quel momento Pavese fu angosciato dal
timore che quanto già accaduto potesse ripetersi. La sensazione angosciosa
del fallimento, complicata pare da disturbi della sfera sessuale, lo
accompagnò fino alla morte in un hotel di Torino dove si suicidò ingoiando un
dose di barbiturici. Buon per lui che, nel 1938, il rapporto con la casa editrice
Einaudi divenne stabile. Nel 1940 poté così terminare il romanzo breve La
bella estate ed iniziare Feria d'agosto; nel 1941, pubblicò Paesi tuoi.
Richiamato alle armi, venne congedato a causa dell'asma che lo affliggeva.
Dall'8 settembre 1943 fino alla Liberazione si rifugiò dapprima presso la
sorella, poi in un collegio dei padri Somaschi a Casale Monferrato, estraniato
rispetto alle vicende del Paese, mentre molti suoi amici entravano nella
Resistenza. Tale esperienza venne narrata ne La casa in collina (scritto tra il
1947 ed il 1948). Nell'opera è espressa la conflittualità tra la sua scelta e
quella degli amici, molti dei quali morirono in seguito a tale risoluzione. A
guerra finita, tuttavia, e quasi per riscattare la scelta precedente, Pavese
entrò nel PCI. Nel 1950, vinse il Premio Strega con il trittico (tre romanzi
brevi) La bella estate. La delusione amorosa per la fine del rapporto
sentimentale con l'attrice americana Constance Dowling - cui dedicò gli ultimi
versi di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi - ed il disagio esistenziale lo
indussero al suicidio il 27 agosto del 1950, in una camera dell'albergo Roma,
a Torino.
Il suo amico scrittore Davide Lajolo bene descrisse in un libro intitolato non
casualmente Il vizio assurdo il malessere esistenziale che sempre aveva
avvolto la vita dell'intellettuale piemontese.
La poetica di Pavese: dal 1936 al 1941
Pavese esordisce come poeta nel 1936, con Lavorare stanca. La raccolta
viene ripubblicata nel 1943, con l'aggiunta di trentuno poesie e la
soppressione di sei. In piena cultura ermetica Pavese imbocca la via della
poesia - racconto (ritmi narrativi, toni del parlato, osterie, città etc.).
L'esperienza narrativa produce un verso allungato e dalla cadenza ampia
(decasillabo allungato a tredici sillabe).
Nel saggio Il mestiere di poeta Pavese sostiene la necessità dell'aderenza
delle parole alle cose e rifugge la musicalità fine a sé stessa. Tali primi canoni
di poetica sono poi modificati per evitare che la poesia - racconto diventi
bozzettismo naturalistico. Pavese teorizza una poesia che si risolve in
immagini. Poesia - racconto e poesia - immagine coesistono in Lavorare
stanca, opera in cui sono già presenti i topoi pavesiani: solitudine come
condanna esistenziale, incapacità di dialogo, vagheggiamento della donna,
campagna come mito da cui originano le prime impressioni e l'identità
dell'individuo, la figura dell'espatriato che torna al luogo d'origine, cercando la
propria infanzia, alla ricerca della propria identità.
Pavese alla capacità affabulatoria unisce una precisa consapevolezza critica.
Il carcere costituisce la sua prima prova narrativa valida (carcere della
solitudine). Il protagonista vive l'esperienza del confino ma si tratta soprattutto
di un'autobiografia spirituale: la vicenda dell'intellettuale che cerca di rompere
la solitudine, ma che da questa è risucchiato. Di là delle implicazioni politiche
il romanzo è caratterizzato dall'analisi esistenziale.
Nel 1941, pubblica Paesi tuoi attirando l'attenzione della critica, che lo
interpreta come una manifestazione di realismo. In realtà la descrizione di
una campagna primitiva ed i temi della passione, del sangue, nonché un
linguaggio che attinge al dialetto ed al parlato, uniti all'apparente oggettività
naturalistica, conferiscono una dimensione mitica e rituale alla narrazione,
una lettura del reale in chiave simbolica, attinta dagli studi di antropologia e
del sacro.
La sua consacrazione del mito deriva dall'idea secondo la quale nell'infanzia
si creano miti e simboli che formano una specie di memoria atavica. Pavese
è lontano da ogni rappresentazione realistica in quanto ha, come principio di
poetica, la necessità di focalizzare il fondo mitico ed irrazionale che è
patrimonio di ogni individuo e che ne determina la personalità ed il destino.
Nell'ultimo decennio, dal '40 al '50, Pavese produce opere eterogenee per
tematica e stile. La riflessione sul mito orienta Pavese in due direzioni,
apparentemente lontane, ma che hanno lo stesso obiettivo.
Da un lato recupera il fondo mitico della propria personalità, distanziandosi
dalla realtà e rifugiandosi nell'intellettualismo (Dialoghi con Leucò) per un
altro verso indugia al neorealismo, all'osservazione dell'ambiente e degli
uomini (Il compagno, 1946).
La stessa coesistenza di interessi diversi si trova nel 1949 in La luna e i falò e
in Tra donne sole. I due motivi si integrano, poiché mettono a fuoco l'uomo,
alienato nel contesto cittadino, che cerca le proprie radici mitiche. La
narrativa di Pavese non si distingue per la complessità della trama, bensì si
identifica in brevi capitoli potenzialmente evocativi.
I due testi esemplari sono La casa in collina e La luna e i falò. La casa in
collina fu pubblicato insieme a Il carcere. Il titolo del volume era Prima che il
gallo canti (Vangeli: Monte Uliveto, Cristo a Pietro: "Prima che il gallo canti mi
rinnegherai tre volte") che chiarisce l'accostamento dei due romanzi: il
protagonista de Il carcere è schiavo della solitudine fino ad amarla.
Corrado, protagonista de La casa in collina, mentre i suoi amici partecipano
alla lotta partigiana, si estranea nella propria solitudine finché giunge alla
consapevolezza che il suo isolamento è stato un tradimento. Pavese
approfondisce, oltre al tema mitico, anche quello sociale e di classe. La
solitudine diviene, da stato d'animo, condizione esistenziale e sociale.
Anche La luna e i falò è un romanzo - bilancio, atemporale, nel quale Pavese
cala i propri temi e i propri principi teorici. Il ritorno all'infanzia è il percorso
obbligato per conoscersi ed avere consapevolezza del proprio destino. La
novità del romanzo è costituita dal fatto che il pellegrinaggio ai luoghi mitici
dell'infanzia si conclude nella constatazione che tutto è perduto: sono
scomparse le persone e cambiati i luoghi, è la lucida e dolorosa
constatazione che la morte è connaturata all'uomo.
U.D. 4_ Alberto Moravia
Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle , nato a Roma il 28
novembre del 1907 e morto il 26 settembre del 1990) è stato un importante
scrittore italiano. Moravia è il cognome della nonna paterna. Il padre Carlo,
ebreo, era architetto e pittore. La madre Teresa Iginia De Marsanich era di
Ancona ma di origini dalmate. Fu il terzo di quattro figli, tra le più anziane
Adriana e Elena ed il più piccolo Gastone. Egli non riuscì a compiere studi
regolari perché all'età di nove anni venne colpito da una seria forma di
tubercolosi ossea che lo costrinse a letto per ben cinque anni, tre dei quali
trascorsi a casa e due presso il sanatorio Codivilla di Cortina d'Ampezzo.
Ragazzo di viva intelligenza, non potendo condurre la vita dei ragazzi della
sua età, ebbe molto tempo per la lettura alla quale si dedicò con fervido
impegno e profonda passione, formandosi così una solida base letteraria
allargata alle più significative tendenze della cultura europea. Tra i suoi autori
preferiti vi furono Fëdor Dostojeskij, Joyce, Goldoni, Shakespeare, Molière,
Mallarmé e molti altri. Imparò con facilità il francese e il tedesco e iniziò a
scrivere versi in francese e in italiano. Nel 1925, lasciato il sanatorio, recatosi
a Bressanone per la convalescenza inizierà a scrivere Gli indifferenti.
Conobbe in quel periodo Corrado Alvaro e Massimo Bontempelli e nel 1927
iniziò a collaborare alla rivista '900 dove pubblicò i suoi primi racconti tra i
quali la Cortigiana stanca, che uscì in francese (Lassitude de courtisane) nel
1927, il Delitto al circolo del tennis del 1928, Il ladro curioso e Apparizione nel
1929.
Nel '29, dopo non poche difficoltà, riuscì a pubblicare a sue spese (5.000 Lire
dell'epoca) presso l'editore milanese Alpes il suo primo romanzo, Gli
indifferenti, che ottenne subito da parte della critica buoni consensi e venne
considerato uno degli esperimenti più interessanti di narrativa italiana di quel
tempo. La struttura teatrale 'in blocchi' del romanzo era molto in linea con il
gusto letterario francese dell'epoca. Dal 1930 iniziò a collaborare con La
Stampa, allora diretta da Curzio Malaparte e nel 1933 fondò, insieme a Mario
Pannunzio, la rivista "Caratteri", che vedrà la luce per soli quattro numeri, e la
rivista Oggi. Sempre nel 1933 iniziò a collaborare con la Gazzetta del Popolo,
ma il regime fascista avversò la sua opera vietandone le recensioni a Le
ambizioni sbagliate, sequestrando La mascherata e vietando la pubblicazione
di Agostino. Nel 1935 si reca in America dove, invitato da Prezzolini, allora
direttore della Casa Italiana della Columbia University di New York, tenne
alcune conferenze sul romanzo italiano. Ritornato in Italia scrisse un libro di
racconti lunghi intitolato L'imbroglio che verrà pubblicato da Bompiani nel
1937. Per evitare la censura del regime Moravia scriverà negli anni del
fascismo racconti allegorici e surrealistici, tra i quali I sogni del pigro
pubblicato nel 1940 e nel 1941 il romanzo La mascherata che però verrà
sequestrato in occasione della seconda edizione. Da questo momento sarà
costretto a pubblicare i suoi articoli sui giornali e sulle riviste sotto
pseudonimo.
Nel 1941 si unì in matrimonio con la scrittrice Elsa Morante che aveva
conosciuto nel 1936 e con lei visse per un lungo periodo a Capri dove
scriverà il romanzo Agostino. Dopo gli avvenimenti dell'8 settembre del 1943
si rifugiò con la moglie a Fondi, in Ciociaria e da questa esperienza nascerà il
romanzo La ciociara. Nel 1944 saranno pubblicati i racconti de L'epidemia e il
saggio La Speranza, ovvero Cristianesimo e Comunismo. Con l'annuncio
della Liberazione lo scrittore ritornerà a Roma e riprenderà la sua attività
letteraria e giornalistica collaborando con Corrado Alvaro a "Il Popolo di
Roma", a "Il Mondo", all'"Europeo" e soprattutto al "Corriere della Sera" dove
sarà presente fino alla morte con i suoi réportages, le sue riflessioni critiche e
i suoi racconti. Gli anni che seguono il dopoguerra vedranno aumentare la
fortuna letteraria e cinematografica dello scrittore che pubblicò La romana
(1947), i racconti La disubbidienza (1948), L'amore coniugale e altri racconti
(1949) e il romanzo Il conformista (1951). Nel 1952 gli venne assegnato il
premio Strega per I racconti e iniziano le traduzioni dei suoi romanzi all'estero
e i film tratti dai suoi racconti e romanzi. Sarà del 1952 La provinciale con la
regia di Mario Soldati, La romana del 1954 con la regia di Luigi Zampa, del
1955 Racconti romani di Gianni Franciolini. Nel 1953 fondò con Alberto
Carrocci la rivista Nuovi Argomenti della quale divenne il redattore e come
collaboratore l'amico Pier Paolo Pasolini. Nel 1954, in seguito alla
pubblicazione dell'opera I racconti romani, gli sarà assegnato il premio
Marzotto. Scriverà intanto il romanzo Il disprezzo e sulla rivista "Nuovi
Argomenti" il saggio L'uomo come fine. Scrisse inoltre alcune importanti
prefazioni, come quella ai Cento sonetti del Belli, al Paolo il caldo di Brancati
e a Passeggiate romane di Stendhal.
Nel 1957 iniziò a collaborare all'Espresso tenendo una accurata rubrica di
critica cinematografica, le cui recensioni verranno pubblicate nel 1975 in un
volume intitolato Al cinema. Nel 1960 con la pubblicazione La noia gli verrà
assegnato il premio Viareggio e nel 1960 Vittorio De Sica realizzerà il film
tratto dall'omonimo libro La ciociara.
Separatosi da Elsa Morante nel 1962 andò a vivere con la giovane scrittrice
Dacia
Maraini.
Verrà intanto realizzato il film diretto da Mauro Bolognini Agostino e la perdita
dell'innocenza nel 1962 e nel 1963 Il disprezzo dal regista Jean-Luc Godard,
La noia (film) con la regia di Damiano Damiani a cui seguiranno nel 1964 Gli
indifferenti di Francesco Maselli. Moravia, nel frattempo, si occupò sempre
più di teatro e a partire dal 1966 fondò con Dacia Maraini ed Enzo Siciliano
una compagnia teatrale che porta il nome "del Porcospino". Con essa verrà
rappresentata L'intervista di Moravia, La famiglia normale della Maraini,
Tazza di Enzo Siciliano e alcune opere di Carlo Emilio Gadda, Goffredo
Parisi a altri autori. Purtroppo, a causa della mancanza di fondi, la compagnia
dovrà essere chiusa.
Nel 1967 si recò in Cina, in Giappone e in Corea, insieme alla compagna
Maraini, come corrispondente, ed i suoi articoli verranno raccolti nel 1968 in
un volume intitolato La rivoluzione culturale in Cina. Nel 1971 verrà
pubblicato il romanzo Io e lui e il saggio Poesia e romanzo e nel 1972 lo
scrittore compierà un viaggio in Africa dal quale nascerà l'ispirazione per
l'opera A quale tribù appartieni? che uscirà nello stesso anno.
Nel 1973 raccoglie in un libro alcuni dei racconti apparsi precedentemente sul
"Corriere della Sera", pubblicazione, questa, seguita nel 1976 da un'altra
raccolta. Uscirà, intanto, nel 1978 il romanzo al quale aveva lavorato per molti
anni, La vita interiore. Negli anni seguenti Moravia continuò a scrivere e a
pubblicare racconti e saggi e a collaborare attivamente con "Il Corriere della
Sera". Il viaggio compiuto nel 1982 in Giappone e la sosta a Hiroshima gli
faranno scrivere tre inchieste, che pubblicherà per l'"Espresso", sulla bomba
atomica, tema che sarà poi al centro del romanzo L'uomo che guarda del
1985, ma soprattutto del particolare saggio L'inverno Nucleare strutturato
lungo interviste che l'autore pone a studiosi scientifici e politici del tempo,
dalle cui pagine traspaiono anche la precarietà e l'aridità umana che il
periodo successivo alla bomba atomica inevitabilmente ha lasciato. La
seguente raccolta di racconti dal titolo La cosa, sarà dedicata dallo scrittore
alla sua nuova compagna Carmen Llera con la quale si unirà in matrimonio
nel 1986 e che susciterà un certo scandalo per il fatto che la donna aveva
quarantacinque anni meno di Moravia.
Nel 1984 verrà eletto deputato europeo nelle liste del PCI, ruolo che coprirà
per 4 anni. Nel 1985 gli viene conferito il titolo di "personalità europea". Da
Strasburgo dove si recò come inviato del "Corriere della Sera" lo scrittore
inizierà nel 1984 la corrispondenza Il Diario europeo e nel 1986 verrà
pubblicato un volume dal titolo L'angelo nucleare e altri scritti teatrali curato
da Renzo Paris e il primo volume delle Opere (1927-1947) curato da Geno
Pampaloni. Nel 1989 uscirà, a cura di Enzo Siciliano, il secondo volume delle
Opere (1948-1968). Nel settembre 1990 Moravia viene trovato morto nel
bagno del suo appartamento in Lungotevere della Vittoria, sempre a Roma.
Nello stesso anno uscirà la sua autobiografia scritta insieme ad Alain Elkann
ed edita da Bompiani Vita di Moravia.
U.D. 5_ Vitaliano Brancati
Vitaliano Brancati (Pachino, 24 luglio 1907 - Torino, 25 settembre 1954) è
stato uno sceneggiatore e scrittore italiano che si impose nel panorama della
narrativa neorealista negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale.
Nato in provincia di Siracusa da una famiglia non aliena da interessi letterari sia il nonno che il padre erano stati autori di novelle e di poesie - compì gli
studi inferiori nel suo paese natale e quelli superiori a Catania dove si trasferì
con la famiglia nel 1920. Si iscrisse alla Facoltà di Lettere laureandosi nel
1929 con una tesi su Federico De Roberto e insegnando per qualche tempo
presso un istituto magistrale. Trasferitosi a Roma, oltre ad insegnare,
Brancati inizia l'attività di giornalista: dapprima scrive per "Il Tevere" e, in
seguito, dal 1933 in poi, per il settimanale letterario "Quadrivio". La sua
formazione giovanile viene segnata da un'ideologia irrazionalista che entra in
crisi quando da Catania si trasferisce a Roma dove ha modo di frequentare
intellettuali crociani e democratici che gli aprono un orizzonte culturale
europeo.
La sua attività letteraria inizia con opere "di regime" e pertanto animate da
intenti propagandistici di stampo fascista come il poema drammatico Fedor
del 1928, i drammi Everest del 1931 e Piave del 1932 e il romanzo L'amico
del vincitore. Nel 1934 pubblica il romanzo Singolare avventura di viaggio
dove appaiono per la prima volta i temi legati ai problemi dell'esistenza e
all'erotismo.
In seguito al contatto con Alvaro, Moravia e altri scrittori di quel periodo,
proprio nel '34, Brancati, matura la sua crisi politica, si distacca dalle posizioni
fasciste e disconosce i suoi scritti giovanili per lo più improntati all'ideologia
dell'azione.
Tornato a Catania si dedica all'insegnamento e nello stesso tempo collabora
al settimanale Omnibus di Leo Longanesi fino al 1939 quando la rivista viene
soppressa da parte del regime fascista.
Si dedica all’insegnamento fino al 1941, anno in cui ritorna a Roma e
pubblica Gli anni perduti, da lui stesso considerato il suo primo vero romanzo,
di carattere comico-simbolico ispirato a Gogol e a Cechov nel quale si
avverte chiaramente l’allontanamento dall’ideologia fascista e l’amarezza
verso la realtà storico-politica del suo tempo.
Nel 1943 verranno raccolte nel volume I piaceri le corrispondenze tratte da
"Omnibus" di ispirazione anticonformista radical-liberale.
Seguono i romanzi di maggior successo come la farsa spregiudicata Don
Giovanni in Sicilia pubblicato nel 1941, il racconto tragicomico di
un'impotenza sessuale Il bell'Antonio nel 1949 e il romanzo rimasto
incompiuto e pubblicato postumo (1959), Paolo il caldo, storia di
un'ossessione erotica alla quale si intreccia una lucida analisi del costume
politico e culturale del dopoguerra.
Nel 1942 conosce, al teatro dell’Università, l’attrice Anna Proclemer con la
quale inizia una relazione che sfocerà nel 1947 nel matrimonio.
Scrive sciascia di lui:«Brancati è lo scrittore italiano che meglio ha
rappresentato le due commedie italiane, del fascismo e dell'erotismo in
rapporto tra loro e come a specchio di un paese in cui il rispetto della vita
privata e delle idee di ciascuno e di tutti, il senso della libertà individuale,
sono assolutamente ignoti. Il fascismo e l'erotismo però sono anche, nel
nostro paese, tragedia: ma Brancati ne registrava le manifestazioni comiche
e coinvolgeva nel comico anche le situazioni tragiche»
Notevole il suo ruolo anche in ambito teatrale e cinematografico. Per il
cinema Brancati scrive nel 1951 la sceneggiatura di Signori in carrozza, de
L'arte di arrangiarsi diretto da Luigi Zampa, nel 1952 Altri tempi con la regia di
Alessandro Blasetti, nel 1951 Guardie e ladri di Mario Monicelli, nel 1954
Dov'è la libertà e Viaggio in Italia con la regia di Roberto Rossellini.
Ma pellicole sono tratte anche da alcune sue opere narrative. È il caso di
Anni difficili (1947) di Luigi Zampa tratto dalla novella Il vecchio con gli stivali
e per il quale lo stesso Brancati collaborò alla sceneggiatura. Il film diede
inizio ad un filone di pellicole di satira politica che furono inizialmente
osteggiate dalla censura.
Nel 1960 viene tratto dall'omonimo romanzo il film Il bell'Antonio del regista
Mauro Bolognini con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale e nel 1973
Paolo il caldo diretto da Marco Vicario e interpretato da Giancarlo Giannini e
Ornella Muti.
Nel 1952 la censura colpisce ancora più duramente il teatro di Brancati con il
divieto di rappresentare uno dei suoi migliori lavori teatrali, La governante,
dramma di un'omosessualità femminile.
Nello stesso anno lo scrittore, prendendo spunto dal divieto di rappresentare
il suo lavoro teatrale, scrive un pamphlet dal titolo Ritorno alla censura nel
quale egli afferma i diritti del teatro ad esprimersi e dove ripropone la sua
poetica del comico ispirata ad un forte realismo classico.
Separatosi dalla moglie nel 1953, muore a Torino l’anno successivo.
Brancati si impose all'attenzione della critica e del pubblico nel 1941 con Don
Giovanni in Sicilia.
Nel Don Giovanni in Sicilia lo scrittore immagina una grossa città siciliana,
Catania, che fa da vivace sfondo alla vita dei giovani benestanti, sempre in
cerca di avventure amorose, che trascorrono il tempo a immaginare
avventure erotiche e viaggi in celebri luoghi che si concludono sempre in
modo
deludente.
Si tratta a prima vista di un quadro ironico e divertente della provincia italiana
dove vengono messe in evidenza le velleità maschiliste, i vagheggiamenti
erotici e tutte quelle forme di megalomania che vanno sotto il nome di
"gallismo". n realtà l'opera va oltre la dimensione provinciale che viene
assunta da Brancati come esempio della società italiana del tempo, piena di
faciloneria, velleitarismo e sogni di grandezza. Brancati crea delle macchiette
nascondendo una vocazione di saggista e di osservatore attento degli
atteggiamenti degli uomini in un preciso contesto storico.
Lo stile dell'opera è scanzonato e beffardo, la scrittura agilissima e pervasa di
sana e vigorosa sensualità.
Gli anni che trascorsero tra il Don Giovanni e il Bell'Antonio non furono anni
facili, ma Brancati, appena fu possibile, riprese a pubblicare bozzetti,
racconti, composizioni teatrali, trovandosi trasportato dalla satira politica.
Con il Bell'Antonio, pubblicato nel 1949, lo scrittore riprende i motivi del Don
Giovanni producendo un romanzo corale che assomiglia ad una grande
commedia antica e che rappresenta, in fatto di "orchestrazione", un grande
progresso nei confronti del Don Giovanni.
Per il Don Giovanni in Sicilia, Brancati riceverà, nel 1950 il Premio Bagutta.
Nel 1955, un anno dopo la morte, venne pubblicato il romanzo Paolo il Caldo.
La sua pubblicazione era stata autorizzata dall'autore in una nota scritta due
giorni prima di morire nella quale avvertiva che il libro era rimasto incompiuto
degli ultimi due capitoli. Nonostante il romanzo ci sia pervenuto non concluso,
si avverte subito che esso non è inferiore ai precedenti e soprattutto che
l'idea della vita, in esso espressa, è profondamente cambiata da quella che
animava i romanzi precedenti.
Se nel Don Giovanni lo slancio sensuale era pieno di allegria e nel
Bell'Antonio la vicenda aveva ancora una sostanziale intonazione burlesca,
nel Paolo il Caldo le cose cambiano e la sensualità di Paolo Castorini ha
qualcosa di ossessivo e tragico. Anche in questo romanzo la forma è
limpidissima anche se si nota, al confronto con gli altri due libri, una maggiore
propensione all'analisi e al discorso indiretto.
Il mondo davanti al quale ci pone Brancati è un mondo morale concreto e
organico dal quale egli contempla e giudica gli uomini che lo circondano
facendo così nascere la sua satira politica e quella della vita provinciale.
Il mondo appare così dominato da personaggi dalla testa vuota, vanagloriosi
seduttori di donne e di imperi che appartengono alla schiera dei vanitosi,
prepotenti e oppressori, sia in politica che in amore.
Brancati, che si è sviluppato come scrittore nel periodo che va dal 1930 al
1942, trae questa visione del mondo dalla sua esperienza di uomo, nato e
vissuto nel Ventennio fascista, in un periodo decisivo della vita italiana fatto di
esaltazioni e speranze deluse.
Dalla Sicilia Brancati riesce a trarre non solo la forza della concretezza
artistica, ma anche a rompere con gli schemi letterali e culturali di Verga e
Pirandello.
U.D. 6_ Primo Levi
Primo Levi nasce a Torino nel 1919 da una famiglia ebrea piemontese di
solide tradizioni intellettuali. Laureato in chimica e chimico di professione,
diventa scrittore in seguito alla traumatica esperienza della deportazione ad
Auschwitz. E’ questo l’evento centrale della sua vita, che fa scattare in lui la
molla della scrittura, sentita come un’impellente necessità di confessione, di
analisi e come un ineludibile dovere morale e civile. Il ricordo mai estinto di
Auschwitz è anche probabilmente alla base dell’inatteso ed enigmatico
suicidio con il quale lo scrittore pone termine alla sua esistenza, nel 1987.
Fino al 1938 Primo Levi è un normale studente di agiata famiglia con la
passione
della
chimica,
dalla
quale
spera
di
ricavare
"la
chiave
dell’universo…il perché delle cose"; le leggi razziali rappresentano per lui una
svolta che gli apre gli occhi sulla natura del fascismo e lo orienta verso
l’azione politica. Alla fine del 1942 entra nel Partito d’Azione clandestino e
dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si unisce a un gruppo partigiano di
"Giustizia e libertà" operante nella Valle d’Aosta. Catturato dalla milizia
fascista il 13 dicembre 1943, viene internato nel campo di concentramento di
Fossoli e successivamente deportato ad Auschwitz (febbraio 1944).
Nel Lager, dove rimane circa un anno, Primo Levi riesce a sopravvivere
grazie a circostanze fortunate, sulle quali torna per tutta la vita a mettere
l’accento:
"Sono stato fortunato: per essere stato chimico, per avere incontrato un
muratore che mi dava da mangiare, per avere superato le difficoltà del
linguaggio…; mi sono ammalato una volta sola, alla fine, e anche questa è
stata una fortuna, perchè ho evitato l’evacuazione dal lager: gli altri, i sani,
sono morti tutti, perchè sono stati deportati verso Buchenwald e Mauthausen,
in pieno inverno".
Il Lager incide profondamente sulle sue convinzioni: gli dà la coscienza di
essere diverso in quanto ebreo e lo spinge verso lo scetticismo religioso.
"Sono diventato ebreo in Auschwitz. La coscienza di sentirmi diverso mi è
stata imposta."
"L’esperienza di Auschwitz è stata per me tale da spazzare qualsiasi resto di
educazione religiosa….C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio".
A testimonianza di questa tragica esperienza, Primo Levi scrive di getto nel
1946 e pubblica nel 1947 Se questo è un uomo, il libro che solo dieci anni più
tardi sarà riconosciuto come il capolavoro della letteratura concentrazionaria,
sul quale la nostra classe ha svolto uno studio approfondito.
Dal momento in cui le truppe russe entrano nel Lager di Auschwitz,
abbandonato dai tedeschi in ritirata, prende avvio La tregua, il secondo libro
di memoria di Levi, pubblicato nel 1963 e considerato da alcuni la sua opera
più alta. La tregua narra il tormentato viaggio di ritorno in patria dell’autore
con un gruppo di compagni attraverso un’Europa ancora sconvolta dalla
guerra. Come l’esperienza del Lager è associabile all’inferno (cfr. Il Lager
come metafora dell’inferno), così l’odissea del viaggio di ritorno, nel quale
avviene una lenta e travagliata resurrezione alla vita, rimanda al purgatorio, in
una sorta di percorso simile a quello dantesco; tuttavia l’analogia si ferma qui,
in quanto Levi, a differenza di Dante, non potrà mai raggiungere la completa
liberazione.
Questo secondo libro rivela l’acquisita consapevolezza di una vocazione
letteraria: scrivere non è più per Levi un fatto occasionale o episodico e, al
dolente testimone del Lager, si affianca uno scrittore dall’ispirazione varia,
che sperimenta forme letterarie diverse dalla memorialistica.
Pubblica racconti di genere fantascientifico come quelli raccolti nelle Storie
naturali (1967) o in Vizio di forma (1971), accanto ai quali vanno ricordati i
brevi testi di Sistema periodico (1975), intitolati ciascuno a un elemento
chimico e ispirati alla professione dell’autore. Per spiegare la sua doppia
natura, di scrittore e di scienziato, Levi usa la metafora del centauro, come
abbiamo scoperto nello spettacolo visto quest’anno al Teatro, diretto dal
regista Scaglione, che si basa proprio su alcuni racconti delle Storie naturali
(cfr. Dossier dell’Area di progetto). Questi testi rivelano, dietro le vicende
paradossali venate da una sottile ironia, l’intento di indurre alla riflessione sui
rapporti fra la scienza e l’umanità.
Nell’ambito del filone legato agli interessi scientifici dell’autore, l’opera più
importante è forse La chiave a stella (1978), dove si raccontano le esperienze
di vita e di lavoro dell’operaio piemontese Faussone, che gira il mondo per
svolgere il suo lavoro di montatore: nel personaggio, quasi una proiezione
dell’autore, spiccano la curiosità intellettuale e un vivo senso della dignità del
proprio lavoro.
Ma il filone memoriale-saggistico nella produzione letteraria di Levi non si
interrompe: direttamente a La tregua si collega infatti il romanzo Se non ora,
quando? (1982), che descrive il viaggio di un gruppo di partigiani ebrei russi
che vanno dalla Bielorussia all’Italia passando per la Palestina, e il libretto
memoriale-ragionativo I sommersi e i salvati (1986) torna sulla tragedia di
Auschwitz con l’intento non più di raccontare ma di riflettere, riallacciandosi a
Se questo è un uomo.
Su una linea di sostanziale continuità rispetto alle opere in prosa si collocano
le raccolte poetiche ( L’osteria di Brema, 1975; Ad ora incerta, 1984; Altre
poesie, riunite postume), anticipate dai versi che precedono come un’epigrafe
Se questo è un uomo e La tregua e ispirate alla tematica del Lager.
Il punto di contatto fra le "due nature" di Primo Levi, quella del letterato e
quella dello scienziato, sta in una fiducia illuministica nella ragione che si
traduce in una scrittura limpida, chiara, essenziale, dove ogni parola viene
"pesata".
U.D. 7_ Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Nasce nel 1896 a Palermo da una famiglia di antica nobiltà.
Il padre tenta di avviarlo alla carriera diplomatica, distogliendolo dalla
passione
per
la
letteratura
e
facendolo
iscrivere
alla
facoltà
di
Giurisprudenza, ma Giuseppe non si laureò mai. Nel 1915 interrompe gli
studi per arruolarsi e partecipare alla guerra. Tenta la carriera militare ma ne
rimane deluso e disgustato, soprattutto dopo l´avvento del regime fascista e
si congeda nel 1925.
Nel 1932 sposa Alessandra Wolf-Stomersee, una baronessa di origini lituane
e italiane, figliastra dello zio di Giuseppe, ambasciatore a Londra, e studiosa
di psicanalisi.
Nel 1933 viene divisa l’eredità del nonno e a Giuseppe tocca solo un palazzo
nel centro di Palermo. Tuttavia gli affitti sono sufficienti per vivere di rendita.
Si dedica alla sua passione per la lettura e scrive saggi critici su vari
argomenti e racconti che usciranno postumi. Viene richiamato alle armi
durante la Seconda Guerra mondiale, ma può ritornare a Palermo dopo l´8
settembre 1943.
Nel 1943 i bombardamenti alleati distruggono il Palazzo Lampedusa e questa
rimase per lo scrittore una ferita molto profonda.
Nel 1954 partecipa al grande Convegno letterario a San Pellegrino Terme,
accompagnando il cugino Lucio Piccolo, che veniva presentato addirittura da
Eugenio Montale. Ha occasione di conoscere i più celebri scrittori del
momento, ma non ne riceve un’impressione esaltante dal punto di vista
umano. Tuttavia si convince del proprio proposito di scrivere un romanzo e
cosí comincia la stesura del "Gattopardo". Nel 1956 l’editore Mondadori gli
rifiuta la pubblicazione del romanzo. Intanto Lampedusa continua a scrivere
anche i suoi "Racconti".
Nel 1957 Vittorini rifiuta di pubblicare nella collana Einaudi "I Gettoni" il
romanzo di Lampedusa.
Nello stesso anno Lampedusa muore di cancro.
Nel 1958 lo scrittore Giorgio Bassani cura per Feltrinelli la pubblicazione del
"Gattopardo" ed è subito un grande successo di pubblico.
Il successo e la celebrità del libro furono accresciute nel 1963 con l´uscita del
film di Luchino Visconti.
Il Gattopardo
Il protagonista del romanzo è Fabrizio Corlera, principe di Salina; è un uomo
‘..immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava il rosone inferiore dei lampadari;
le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato;
e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la
riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli
faceva spesso piegare in cerchio [...]’
E’ un uomo di mezz’età e viene infatti specificata l’età precisa: quaranta anni .
La sua forte personalità è caratterizzata da un temperamento autoritario, una
certa rigidità morale, disprezzo per i parenti e gli amici che si fanno trascinare
dagli eventi, senza però reagire, e tutte questi aspetti del suo carattere
rivelano la sua origine tedesca (da parte della madre).
Il principe è inoltre un impegnato studioso di astronomia, e per questa sua
intensa passione e interesse ha ricevuto spesso riconoscimenti pubblici .
Mi ha colpito moltissimo il suo rapporto con gli astri che non è unicamente
dato da interesse scientifico,
ma
al
contrario l’osservazione e la
contemplazione delle stelle fa nascere in lui un tale pathos da trasferirlo,
quasi trascendentalmente, in un mondo irreale, dove ogni cosa è certezza e
dove la sua anima trova pace e tranquillità lontano da quello terreno, reale
sempre pieno di pensieri, preoccupazioni e angosce .
Il principe ha un grande spessore psicologico che traspare con chiarezza
dalle parole dell’autore.
E’ un uomo intelligente, saggio ed ironico, prova molto affetto e stima per il
nipote Tancredi, di cui è anche tutore ; Tancredi sarà infatti l’unica presenza
gradita al principe morente alla conclusione del libro.
Il pensiero della morte è perennemente nei pensieri del principe, ma con la
sua forza, il suo coraggio il suo carattere molto deciso, riesce ad affrontare
questo eterno timore, questa assidua angoscia con serenità e con gioia, e
proprio per questo motivo vive la sua vita cercando di cogliere ciò che di più
bello e gradevole gli offre .
Grande personalità e grande importanza assume nel romanzo Tancredi,
nipote del principe Fabrizio, il quale nutre per lui un affetto forse maggiore
rispetto a quello che ha per i suoi nove figli .
E’ in parte opportunista in quanto desidera ricavare vantaggi per se’ e per la
sua ricca classe dalla partecipazione alla spedizione dei Mille : ‘Se vogliamo
che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi..’
Con queste concise parole infatti Tancredi spiega al principe la sua adesione
alle idee garibaldine che poi invece rinnegherà .
Altro fatto che fa intuire la personalità del giovane, è il matrimonio con
Angelica che è frutto per gran parte, del ‘calcolo’; e cioè Tancredi ha scelto la
sua donna in base a criteri rigidi e di puro interesse, invece che in base a
sentimento .
Anche se molto differente come personalità dal principe Fabrizio, Tancredi
rappresenta una figura sicura, che si sa comportare nel migliore dei modi
qualsiasi ambiente, e che sa guardare con distacco cose e a valutarle con
ironia e spirito critico .
Angelica, personaggio molto importante, è come è stato detto prima, la
giovane moglie di Tancredi.
Ella ha frequentato per molto tempo un ottimo collegio che l’ha piuttosto
‘sgrezzata’ ma non l’ha trasformata in una vera e propria signora .
A tancredi infatti toccherà questo compito che sarà facilitato dalla personalità
della giovane che sposando un Falconieri riceve un titolo nobiliare, offrendo
però il suo ricco patrimonio .
Altro importante personaggio è la principessa Stella moglie innamoratissima
di Fabrizio.
Ella è una donna rigidamente cattolica; inoltre reagisce alle infedeltà del
marito con brevissime scene isteriche, placate da abbondanti porzioni di
Valeriana .
Quando è in compagnia con altre persone è comunque molto abile nel
cercare di dimenticare e di non pensare ad ogni motivo di turbamento .
Altro personaggio è Concetta, figlia di Fabrizio, da sempre innamorata di
Tancredi .
Dei sette figli del principe è l’unica che viene descritta nell’evolversi della sua
personalità.
Prende tutto con molta serietà, non ha capacità di distacco né di fare ironia, e
perciò soffre molto .
Bendicò è l’unico animale che compare nel romanzo; anche se è soltanto un
cane è uno dei personaggi più vivi del romanzo.
E’ molto amato dal principe, e questo suo affetto lo si vede nel ‘colloquio’ che
ha con lui in cui lo paragona alle stelle per il motivo che Bendicò , come gli
astri, è incapace di produrre angoscia.
Al momento della sua morte viene imbalsamato e rimane così per molto
tempo, finché, ridotto ad un ammasso polveroso, per ordine di Concetta viene
gettato giù dalla finestra nelle immondizie.
Questo gesto sarà l’atto finale che porterà alla rovina del principe .
Ultimo personaggio è Don Calogero Sedara, sindaco di Donnafugata, Paese
dove vive la famiglia Salina, padre di Angelica.
E’ un uomo molto astuto, di umili origini, mas divenuto molto ricco facendo
carriera nel campo della politica .
Il periodo in cui si svolgono i fatti è all’incirca tra il 1860 - 1910.
E’ stata scelta questa determinata collocazione temporale poiché l’autore
vuole dare al lettore l’immagine della Sicilia in un momento di cambiamento e
di passaggio politico tra istituzioni antiche e tempi moderni che stavano pian
piano e con difficoltà entrando in un mondo ancora conservatore e
tradizionalista .
L’immagine che l’autore ci offre del suo paese è un’immagine viva, animata
da uno spirito tradizionalista ma allo stesso tempo ampiamente consapevole
del cambiamento storico che stava attraversando .
Gli avvenimenti e i fatti si svolgono in un ambiente aristocratico, nobile,
mentre non viene mai accennata la condizione poco agiata dei poveri e dei
contadini di quel periodo .
Il tempo viene scandito dall’autore molto precisamente; vengono precisati vari
momenti della giornata come ad esempio : prima del tramonto, quella
mattina, durante la sera, ecc...
Inoltre all’inizio di ogni parte (il romanzo è diviso in otto parti) viene espresso
il mese e l’anno in cui si svolgono i fatti che verranno narrati in quella
determinata parte; come ad esempio : maggio/agosto/ottobre/novembre
1860, febbraio 1861, novembre 1862, luglio 1883, maggio 1910.
I fatti sono ambientati a Palermo, la residenza del principe di Salina, e
Donnafugata la residenza estiva .
U.D. 8_ Leonardo Sciascia
Leonardo Sciascia è nato a Racalmuto, in provincia di Agrigento, nel 1921.
È stato sino al 1957 insegnante elementare. Ha spesso soggiornato a Parigi,
ma contraddicendo un topos biografico degli intellettuali siciliani, non ha
abbandonato la Sicilia.
Gli interessi per la società siciliana evidenti già ne Le parrocchie di
Regalpetra (1956) assumono dimensione narrativa nei romanzi Gli zii di
Sicilia (1961), Il giorno della civetta (1961), A ciascuno il suo (1966); alla
rievocazione di vicende siciliane del passato sono dedicati Il Consiglio
d'Egitto (1963) e Morte dell'Inquisitore (1964).
Ma con gli anni l'orizzonte narrativo di Sciascia si allarga alla società
nazionale: Il contesto (1971), Todo modo (1974), Candido ovvero un sogno
fatto in Sicilia (1977). Frequenti, a partire dagli anni Settanta, i suoi interventi
sulla cronaca politica (L'affaire Moro, 1978), che al di là delle specifiche
posizioni - prima "scomodo" compagno di strada dei comunisti, poi dei
radicali, poi sottile (forse troppo) giudice delle disfunzioni dello Stato - si
distinguono per coraggiosa sincerità. É morto a Palermo nel novembre 1989.
Depurata da ingenuità stilistiche e ideologiche, la lezione del neorealismo in
Sciascia si è tradotta nella costante attenzione a una realtà storica e umana,
nella volontà di comprenderla e farla comprendere, nell'ampliamento, quasi,
dei confini stessi della narrativa. L'opera narrativa di Sciascia - connotata da
una scrittura limpida, di classico rigore - cioè diventa, nelle sue prove migliori,
saggio, testimonianza, o comunque struttura narrativa polivalente che può
accogliere il dialogo filosofico, la sottile discussione tra i protagonisti che si
scontrano sul problema del male o sull'interpretazione di un pensiero di
Pascal (si pensi a Todo modo, 1974), o può fondere assieme narrazione e
inchiesta, interpretazione di materiale d'archivio, andamento da romanzo
giallo e meditazione filosofica. È questa, d'altra parte, la sua vocazione
moralistica e saggistica, che egli ha espresso nella raccolta La corda pazza
(1970) o nelle annotazioni e "moralità" di Nero su nero (1979) e di Cruciverba
(1983).
Tecniche narrative e linguaggio
Il ricorso al genere "giallo" è stato giustificato dall'autore con la ragione che
quella poliziesca è la «tecnica narrativa più sleale, perché impedisce al lettore
di lasciare a metà il libro». In realtà, lo schema del "giallo" è ribaltato, dal
momento che, alla fine del romanzo, il colpevole si salva, grazie all'omertà
del potere. Non un "giallo", ma un "romanzo-pamphlet" è dunque Il giorno
della civetta, che con il suo titolo shakespeariano allude non solo a quella
spietata lotta per il potere e a quella corruzione che rendono la Sicilia della
mafia molto simile all'Inghilterra dell'Enrico VI, ma anche al contrasto tra la
luce della ragione (il "giorno") e l'ombra del delitto e della morte (la "civetta").
Il paesaggio più emblematico è in questo senso quello del chiarchiaro (un
desolato «insieme di grotte, di buche, di anfratti»), luogo di raduno di uccelli
notturni, che suggerisce l'idea della morte. Non meno squallida è la
descrizione del paese: «un vecchio paese di case murate in gesso, con
strade ripide e gradinate: e in cima a ogni gradinata c'è una brutta chiesa».
Entro quelle case, la gente si trincera dietro il "muro" dell'omertà: un
comportamento secolare, dettato dalla paura, che viene magistralmente
esemplificato, fin dalla sequenza iniziale, nella faccia «colore di zolfo» del
bigliettaio e nell'ipocrita domanda del «panellaro», davanti al quale si è svolto
il delitto: «perché [...] hanno sparato?». Sul piano linguistico, tre sono gli
elementi principali del romanzo: i soprannomi, il gergo dei mafiosi, i proverbi.
Noti
col
termine
dialettale
di
"ingiurie",
i
soprannomi
designano
fulmineamente una personalità: Zicchinetta, ad esempio, è il deliquente che
gioca d'azzardo (non solo con le carte da gioco, ma anche con la giustizia); e
Parrinieddu deriva la sua "ingiuria' di "piccolo prete" dalla sua untuosa
ipocrisia e dal suo facile eloquio. Molto significativo è anche il termine di
Barruggieddu, dato a un cane la cui cattiveria ricorda quella del "Bargello", il
capo degli sbirri, visti dai contadini come strumenti di usurpazione. "Cosca"
(dal nome della corona di foglie del carciofo), "persona di rispetto", "astutatu"
(ucciso, come si spegne una candela) sono esempi perspicui del gergo della
mafia. Quanto ai proverbi, basti ricordare il più tremendo: «E lu cuccu ci dissi
a li cuccuotti: / a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti» (Ed il cuccu disse ai propri
figli: al chiarchiaro ci incontreremo tutti), ove si allude al tragico
appuntamento con la morte. Ma, accanto ai toni "parlati" (che hanno i loro
esempi migliori nel discorso incisivo di Arena o in quello immaginifico di
Pizzuco), si collocano i toni alti, lirici, come nel bellissimo frammento, ispirato
da una poesia di A. Bertolucci: «era l'indolente sera di Parma toccata da una
struggente luce che era già lontananza, memoria, indicibile tenerezza».
Personaggi e motivi dominanti
L'antagonismo tra "ordine" e mafia, tra ragione e corruzione (tema dominante
di molte opere di Sciascia) si risolve, nel romanzo. in un duro scontro tra
Bellodi, capitano dei carabinieri, e Arena, il capo mafia. Eroe "positivo",
secondo i canoni del neorealismo, Bellodi è sottratto tuttavia dall'autore al
populismo tipico di quel movimento: di estrazione borghese, colto (conosce
bene la produzione letteraria siciliana), cortese (si rivolge con il "lei" alle
persone più umili e ha rispetto anche dei criminali), Bellodi si ritrova come
uno straniero in mezzo al popolo siciliano; non solo, infatti, ha bisogno di un
interprete per comprendere il significato di alcune espressioni dialettali; ma
incontra ben altre barriere oltre il linguaggio. Uomo di legge, gli è estranea e
gli ripugna l'omertà della gente; ma quel che più lo turba è 1a collusione degli
uomini politici con la mafia. Ed è proprio questo il suo dramma: in Sicilia egli
riesce a concludere felicemente la sua indagine, ma nulla può contro le
connivenze degli ambienti politici romani e dei "quaquaraquà" di Stato, che
parlano a vanvera e insabbiano sistematicamente la verità. Il processo di
idealizzazione che spinge il protagonista fino ai limiti della programmaticità
coinvolge anche il suo antagonista, don Mariano Arena, sollevandolo alle
dimensioni di una figura epica, visceralmente scaturita dalla storia stessa
della Sicilia: dotato di una sapienza popolare che tocca il suo vertice
umoristico nell'immagine della diabolica danza sul «bosco di corna»
dell'umanità, il "padrino" ha una sua spietata fierezza («né rimorso né paura,
mai») e una sua machiavellica coerenza nel male («una cieca e tragica
volontà»). che lo impongono nel romanzo come una figura di grande rilievo.
Anche se non può certo condividerne la - 'filosofia mafiosa". l'autore non gli
rifiuta una vigorosa statura umana (e su questa sua scelta si potrebbe
discutere...) ma si chiede significativamente: «E quale altra nozione poteva
avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era sempre soffocata dalla
forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle
parole su una realtà immobile e putrida?». Può destare perplessità il fatto che
Bellodi, riconosciuto come vero "uomo" dal capo mafia, gli risponda (sia pure
con disagio): «Anche lei [è un uomo]». In realtà, per Sciascia, l'etica di don
Mariano è superiore, pur nella sua feroce primitività, a quella dei suoi
protettori politici: tanto è vero che il capitano Bellodi non è sconfitto dal codice
"culturale" mafioso, ma dal codice "politico- dei suoi "superiori", che finiscono
con l'essere i veri "mandanti". Che lo Stato non abbia i1 diritto di proclamarsi
innocente di fronte alla mafia è dimostrato dall'incredibile dichiarazione del
sottosegretario che alla Camera nega l'esistenza stessa del fenomeno
mafioso; di questo inquietante personaggio riusciamo solo a sapere che è un
rottame della Repubblica di Salò: né altro può dirci l'autore, che, nella nota
aggiunta al romanzo, dichiara di aver dovuto ricorrere all'espediente dell'
"anonimo" per non incorrere nell'imputazione di oltraggio e vilipendio. Questa
era l'Italia del 1961, data di pubblicazione del romanzo; e la più grave
denuncia di tutto un sistema politico è quella contenuta nelle ultime righe
della Nota, quando l'autore è costretto ad avvertire di non aver potuto
scrivere il proprio libro «con quella piena libertà di cui uno scrittore [...]
dovrebbe
sempre
godere».
Le parrocchie di Regalpetra: Un giovane nel clima fascista
Le parrocchie di Regalpetra (1956) di Leonardo Sciascia sono una sorta di
cronaca-saggio che descrive ambiente, personaggi; vicende di un paese
siciliano e testimonia la lucida e dolente denunzia, da parte dell'autore, delle
remore storiche, sociali e civili che gravano sulla sua terra. Le pagine
riportate restituiscono con vivace immediatezza il clima di un'epoca - gli anni
1935-37, conquista dell'Abissinia e guerra civile di Spagna - e forniscono una
preziosa testimonianza autobiografica che può far capire al lettore di oggi
quel lento processo di maturazione, di presa di coscienza che portò tanti
giovani a scoprire la vera realtà del fascismo, a superare le rumorose
mitologie dell'epoca.
II testo presenta parecchi motivi di interesse: offre ad esempio illuminanti
indicazioni sulle letture di un giovane diciottenne del tempo (l'età di Sciascia
nel 1939, a conclusione della guerra civile spagnola); contiene, sia pure in
nuce, la genesi di uno dei migliori racconti di Sciascia, L'antimonio, dedicato
alla guerra di Spagna; e altri ancora. Noi ne traiamo spunto per suggerire
ricerche e approfondimenti su uno degli eventi più importanti - sul piano
politico e su quello culturale - degli anni Trenta: la guerra civile spagnola.
Questa scoppia dopo le elezioni del 1936, nelle quali le varie forze che si
battono per rinnovare il paese - costituite da raggruppamenti diversi:
democratici borghesi, socialisti, comunisti, anarchici - si presentano unite in
un "Fronte Popolare", ottengono la maggioranza e formano il governo. Ma le
forze della conservazione la grande proprietà terriera appoggiata dall'alto
clero - che hanno già una loro organizzazione squadristica, "La Falange",
scatenano la guerra civile con la complicità dell'esercito: la maggior parte
degli ufficiali, guidati dal generale Francisco Franco e circa i due terzi delle
truppe si ribellano al governo legale repubblicano e riescono a controllare
quasi metà del paese. La guerra civile per tre anni (1936-1939) lacerò la
Spagna con eccessi di vario genere da entrambe le parti e si concluse- grazie
all'aiuto militare che Hitler e Mussolini diedero al generale golpista - con la
dittatura di Franco, durata sino alla sua morte (1975).
È necessario ricordare - più di quanto normalmente non si faccia - che la
guerra civile spagnola fu complicata anche da contrasti interni tra le forze
repubblicane: i conflitti maggiori si ebbero tra gli schieramenti della sinistra
nella quale gli anarchici e il POUM (Partito comunista di ispirazione non
stalinista) si scontravano con il partito comunista per così dire "ortodosso",
ufficiale, al quale andava ovviamente l'appoggio dell'URSS. Non si trattò solo
di divergenze ideologiche, ma di veri e propri scontri armati (i "fatti di maggio"
del 1937 a Barcellona) e della persecuzione ed eliminazione fisica di un gran
numero dì dissidenti e di anarchici da parte comunista (una "linea politica",
questa, alla quale pare non sia stato estraneo Togliatti).
Nell'Europa fra le due guerre la guerra civile di Spagna fu sentita come una
prefigurazione, come una sorta di prova generale di un conflitto mondiale nel
quale era in gioco il futuro dell'Europa: così si spiega l'affluenza di volontari
da ogni parte che formarono le "Brigate internazionali" e portarono ai
repubblicani in lotta la loro concreta solidarietà. In esse militarono - solo per
limitarci ad esponenti rappresentativi della cultura e della politica - i francesi
André Malraux e Georges Bernanos, gli inglesi George Orwell e W.H. Auden
e, fra gli italiani, Carlo Rosselli, Aldo Garosci, Umberto Calosso del gruppo
"Giustizia e Libertà", repubblicani, anarchici guidati da Camillo Berneri,
socialisti
e
comunisti
(Nenni,
Longo,
Di
Vittorio).
Considerevole è stato poi l'eco che la guerra di Spagna ha avuto nella
letteratura. Solo qualche indicazione: anzitutto la produzione dei poeti
spagnoli che parteciparono alla difesa della repubblica (un nome per tutti:
Rafael Alberti, che sceglierà l'esilio - come Pablo Picasso, Antonio Machado,
e tanti altri - dopo la vittoria franchista); poi una ricca produzione narrativa:
Per chi suona la campana di Hemingway, La speranza di Malraux, I grandi
cimiteri sotto la luna di Bernanos, Omaggio alla Catalogna di Orwell, e segno di un interesse non spento - L'antimonio (1960) di Leonardo Sciascia.
LA CONGIURA SCOPERTA [IL CONSIGLIO D'EGITTO]
Sciascia è generalmente noto - soprattutto al grosso pubblico dei lettori che
non abbiano specifici interessi letterari - come autore di romanzi volti a
mettere in luce gli aspetti negativi della società contemporanea italiana, la
mafia soprattutto. Ma nei suoi romanzi lo scrittore siciliano ha trattato anche
del passato, remoto o prossimo (dalle congiure giacobine del Settecento alla
guerra di Spagna del 1936). Del presente inoltre si è occupato non solo come
romanziere, ma anche come saggista o meglio come moralista attento ai
segni del costume pubblico e privato e a cogliere, dietro le apparenze, la
realtà.
Ci sembra utile riportare-dalle pagine successive del Consiglio, nelle quali si
descrivono le torture cui il Di Blasi viene sottoposto - il passo che segue:
Ma nel ricordo s'insinuò, inquieto e dolente, il pensiero che anche i giudici e
gli sbirri avevano avuto un'infanzia, [...1 il pensiero che tra poco il fastidio
dell'ufficio che stavano compiendo sarebbe stato sommerso dalle dolci
nebbie familiari: il fastidio, cioè, di torturare un loro simile. Avrebbero
mangiato e dormito, avrebbero giuocato coi loro bambini e avrebbero fatto
all'amore; si sarebbero preoccupati del raffreddore del bambino o del cimurro
del cane; il tramonto del sole, il volo delle rondini, il profumo dei giardini li
avrebbe provocati alla malinconia o alla gioia. E ora stavano assistendo alla
tortura. «Questo non deve accadere a un uomo» pensò: e che non sarebbe
più accaduto nel mondo illuminato dalla ragione. (E la disperazione avrebbe
accompagnato le sue ultime ore di vita se soltanto avesse avuto il
presentimento che in quell'avvenire che vedeva luminoso popoli interi si
sarebbero votati a torturarne altri; che uomini pieni di cultura e di musica,
esemplari nell'amore familiare e rispettosi degli animali, avrebbero distrutto
milioni di altri esseri umani: con implacabile metodo, con efferata scienza
della tortura; e che persino i più diretti eredi della ragione avrebbero riportato
la questione nel mondo: e non più come elemento del diritto, quale almeno
era nel momento in cui lui la subiva, ma addirittura come elemento
dell'esistenza).
È evidente in esse un procedimento che ritornerà più volte nelle ultime cose
di questo scrittore. Sciascia parte cioè da una vicenda del passato (o magari
del passato prossimo) o da un dato d'archivio (i verbali di un processo o una
cronaca) e li attualizza, li "fa parlare"; ma in vario modo: o, come nelle pagine
che precedono, vivendo "dal di dentro" la vicenda del protagonista, cui lo
legano l'ansia di rinnovamento della società siciliana e la fiducia nella
ragione, o, come nelle righe citate, sovrapponendo al dato del passato
l'esperienza storica e la realtà del presente (che, di frequente, vuol dire la
delusione
del
presente...).
IL GIORNO DELLA CIVETTA
Intreccio
Due colpi di lupara freddano. in un'alba grigia, Salvatore Colasberna, un
costruttore
che
ha
rifiutato la protezione della mafia. L'indagine è affidata al capitano Bellodi, expartigiano parmense, che tenta di incrinare la coltre di omertà del piccolo
paese siciliano. Un confidente, Calogero Di Bella, detto Parinieddu, fa più di
un nome sui possibili colpevoli e Bellodi punta sul nome giusto: Saro Pizzuco.
Un dialogo in un caffè romano e l'intervento di un` 4 eccellenza" mostrano
che l'indagine di Bellodi è seguita con fastidio nei palazzi del potere,
ammanigliato con la mafia. Scompare intanto un potatore, Paolo Nicolosi,
colpevole solo di essersi imbattuto casualmente nell'assassino. La consorte
ricorda che il marito, dopo i colpi di lupara, aveva visto passare di corsa un
tale Zicchinetta. soprannome di un ex-detenuto, Diego Marchica. Due boss
della mafia decidono di sopprimere il traditore Di Bella, che però. prima di
essere ucciso, rivela in una lettera al capitano il nome del "padrino": don
Mariano Arena. Bellodi fa arrestare sia i due sicari (Marchica e Pizzuco) sia il
mandante (Arena). Nel corso dell'interrogatorio, mediante lo stratagemma di
un falso verbale, Marchica e Pizzuco sono indotti ad accusarsi a vicenda;
viene intanto ritrovata. in una contrada, l'arma del primo delitto e
successivamente. in fondo a un crepaccio. si rinviene anche il cadavere di
Nicolosi. Manovrata dall'alto, la stampa locale sostiene che l'indagine ha
trascurato, per il delitto Nicolosi, la pista giusta, quella del delitto passionale.
Altri giornali, invece, ventilano gravi compromissioni ministeriali, provocando,
a Roma, una sequela di allarmate telefonate notturne tra alti burocrati. Si
arriva così alla "scena madre" del romanzo: l'interrogatorio di don Mariano
Arena. Il capo mafia respinge ogni responsabilità, ma sostiene con fierezza la
sua visione "mafiosa` del mondo, riconoscendo tuttavia un degno avversario
in Bellodi, che a sua volta preferisce il "padrino" a ministri e deputati
compromessi con la mafia. Un dibattito parlamentare sui "fatti di Sicilia"
conferma i sospetti del capitano: un sottosegretario dichiara che la mafia non
esiste «se non nella fantasia dei socialcomunisti». La conclusione è scontata:
recatosi a Parma per un breve congedo, Bellodi apprende sui giornali che la
sua indagine è stata demolita con alibi inoppugnabili e che è prevalsa la tesi
del delitto passionale. Bellodi non si arrende e decide di tornare al più presto
in Sicilia a "rompersi la testa".
U.D. 9_ Le narratrici
(Morante, Ginzburg, Ortese, Romano, Banti)
Elsa Morante (Roma 18 agosto 1912 - 25 novembre 1985), è stata una
scrittrice di narrativa italiana tra i più importanti romanzieri del dopoguerra.
Elsa Morante ha trascorso la sua infanzia nel quartiere popolare di Testaccio.
Figlia illegittima di una maestrina ebrea e di un impiegato delle poste, alla
nascita fu riconosciuta da Augusto Morante, sorvegliante in un istituto di
correzione giovanile. La Morante iniziò giovanissima a scrivere filastrocche e
favole per bambini, poesie e racconti brevi, che a partire dal 1933, sino
all'inizio della seconda guerra mondiale, furono via via pubblicati su varie
riviste di diversa natura (tra le quali si ricordano Il Corriere dei Piccoli, Il
Meridiano di Roma, I Diritti della Scuola, Oggi). Il suo primo libro fu proprio
una selezionata raccolta di alcune di queste sue storie giovanili, Il Gioco
Segreto, pubblicato nel 1941; esso fu seguito, nel 1942, da un libro per
ragazzi, intitolato Le Bellissime Avventure di Caterì dalla Trecciolina (ma poi
riscritto nel 1959 con il titolo Le Straordinarie Avventure di Caterina). Nel
1936 conobbe lo scrittore Alberto Moravia che sposò nel 1941; insieme
incontrarono e frequentarono i massimi scrittori e uomini di pensiero italiani
del tempo, tra cui Pier Paolo Pasolini, che fu un caro amico per entrambi.
Verso la fine della seconda guerra mondiale, per sfuggire alle rappresaglie
dei nazisti, Moravia e la Morante lasciarono Roma ormai occupata e si
rifugiarono a Fondi, un paesino nell'area intorno a Cassino. Tale parte
dell'Italia meridionale appare di frequente nelle opere narrative successive
dei due scrittori; Elsa Morante ne parla soprattutto nel romanzo La Storia.
Durante questo periodo iniziò a tradurre il diario di Katherine Mansfield; le
sue opere successive mostrano alcune influenze della Mansfield. Dopo la fine
della guerra, Morante e Moravia incontrarono il traduttore americano William
Weaver, che li aiutò a raggiungere il pubblico americano. Il suo primo
romanzo fu Menzogna e sortilegio; uscito in Italia nel 1948, vinse il Premio
Viareggio. Il romanzo fu poi pubblicato negli Stati Uniti con il titolo House of
Liars nell'anno 1951. Il successivo romanzo della Morante, L'isola di Arturo,
uscì in Italia nel 1957. L'opera riscosse grande successo di pubblico, e
ottenne il Premio Strega. Ne fu tratto anche un film omonimo, diretto da
Damiano Damiani. Durante gli anni Sessanta Elsa Morante rifletté a lungo
sulla sua narrativa, e distrusse molto di ciò che aveva scritto nel frattempo, ad
eccezione di poche cose, tra cui una poesia, L'Avventura. Nel 1963 pubblicò
una seconda raccolta dei suoi racconti: Lo scialle andaluso. L'opera
successiva, Il mondo salvato dai ragazzini che è un misto di poesia, canzoni
e una commedia, apparve nel 1968. Morante e Moravia si separarono nel
1961, ma la Morante continuò a scrivere, sebbene sporadicamente. Lavorò in
questi anni ad un romanzo che non vide mai la luce: Senza i conforti della
religione. La Storia, una storia ambientata a Roma durante la seconda guerra
mondiale, uscì nel 1974 ed ebbe fama internazionale, ma ricevette anche
attacchi spietati da parte dei critici. Luigi Comencini ne trasse uno
sceneggiato TV interpretato da Claudia Cardinale. L'ultimo romanzo di Elsa
Morante fu Aracoeli, pubblicato nel 1982. Ammalatasi in seguito ad una
frattura al femore, tentò il suicidio nel 1983. Nel 1984 ricevette il Prix Médicis
per Aracoeli. Morì nel 1985 a seguito di un infarto dopo una seconda
operazione chirurgica.
Natalia Ginzburg (Palermo, 14 luglio 1916 — Roma, 6/7 ottobre 1991) è
stata una scrittrice di primo piano della letteratura italiana del Novecento.
Natalia Levi nasce a Palermo da una famiglia ebraica di origine triestina, il 14
luglio 1916. Il padre, Giuseppe Levi, professore universitario e i suoi tre
fratelli saranno imprigionati e processati con l'accusa di antifascismo. Natalia
trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Torino, in stato di emarginazione e trova
presto conforto nella scrittura. Esordisce nel 1933 con il suo primo racconto, I
bambini, pubblicato dalla rivista "Solaria" e nel 1938 sposa Leone Ginzburg
col cui cognome firmerà in seguito tutte le sue opere. In quegli anni stringe
legami con i maggiori rappresentanti dell'antifascismo torinese e in particolare
con gli intellettuali della casa editrice Einaudi della quale il marito, docente
universitario di letteratura russa, era collaboratore dal 1933. Nel 1940 segue il
marito, che era stato mandato al confino per motivi politici e razziali, in un
paese dell'Abruzzo dove rimane fino al 1943. Nel 1942 scrive e pubblica, con
lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, il suo primo romanzo intitolato La
strada che va in città che verrà ristampato nel 1945 sotto il nome dell'autrice.
Nel febbraio del 1944, in seguito alla morte del marito ucciso nel carcere di
Regina Coeli, Natalia ritorna a Torino e al termine della Seconda guerra
mondiale comincia a lavorare per la casa editrice Einaudi. Nel 1947 esce il
suo secondo romanzo È stato così che vince il premio letterario "Tempo". Nel
1950 sposa l'anglista Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e
direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra. Inizia per Natalia un periodo
ricco per la produzione letteraria che si rivela prevalentemente orientata sui
temi della memoria e dell'indagine psicologica. Nel 1952 pubblica Tutti i nostri
ieri , nel 1957 il volume di racconti lunghi, Valentino, che vince il premio
Viareggio e il romanzo Sagittario, nel 1961 Le voci della sera che, insieme al
romanzo d'esordio verranno successivamente raccolti nel 1964 nel volume
Cinque romanzi brevi. Nel 1962 esce la raccolta di saggi Le piccole virtù e nel
1963 vince il premio Strega con Lessico famigliare che viene accolto da un
forte consenso di critica e di pubblico. Nel 1969 muore il marito e la scrittrice
si dedica sempre più alla narrativa. Negli anni Settanta fanno seguito i volumi
Mai devi domandarmi del 1970 e Vita immaginaria del 1974. Nella successiva
produzione la scrittrice, che si era rivelata anche fine traduttrice con La strada
di Swann di Proust, ripropone in modo più approfondito i temi del microcosmo
familiare con il romanzo Caro Michele del 1973, il racconto Famiglia del
1977,il romanzo epistolare La città e la casa del 1984 oltre La famiglia
Manzoni, nel 1983, visto in una prospettiva saggistica. La Ginzburg si rivela
inoltre autrice di commedie tra le quali, Ti ho sposato per allegria del 1970, e
Paese di mare nel 1972. Nel 1983 viene eletta nelle liste del Partito
Comunista Italiano al Parlamento. Muore a Roma tra il 6 e il 7 ottobre 1991.
Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti (Firenze 1895 - Ronchi di Massa
1985) è stata una scrittrice italiana del XX secolo. Uno dei tratti caratteristici
della sua scrittura fu quello di porsi come narratrice in una posizione anomala
di fronte alle storie, capace si di assecondarle, ma rifiutarne le suggestioni
per rimanere più libera non solo di fantasticare, ma di creare nuovi rapporti
con i suoi personaggi. Nata a Firenze nel 1895 da una famglia d'origine
calabrese fu incoraggiata fin dall'inizio dal padre avvocato ad intraprendere
studi umanistici. All'inizio della sua avventura letteraria la sua prosa fu
imperniata sulla memoria e su ricordi giovanili. In seguito, sposando nel 1924,
il critico letterario Roberto Longhi, già suo professore al liceo, uomo con una
profonda cultura sia letteraria sia artistica, e assieme collaborarono alla
nascita di Paragone la rivista, della quale tenne fino alla morte del marito la
direzione della sezione letteraria, fu proprio in quel periodo fecondo, la sua
prosa divenne più elaborata e raffinata portando alla luce con storie
complesse a sfondo principalmente psicologico la condizione delle donne
nella società del tempo, analizzando attraverso la convergenza di punti dì
vista diversi personaggi femminili colti con grande acutezza nei loro momenti
di crisi morale ed esistenziale. Fra i suoi romanzi più riusciti si ricorda
soprattutto Artemisia (1947), che rievoca la vita della pittrice seicentesca
Artemisia Gentileschi, narrando una vocazione artistica di donna in lotta con i
pregiudizi del suo tempo e, nelle Donne Muoino (1951) dove il racconto serve
da pretesto per un'indagine a fondo, sull'amicizia e su i segreti da mantenere
e, infine nei racconti raccolti in Campi Elisi (1963), dove ritroviamo il grande
tema che interessa principalmente la Banti, la solitudine della donna alla
ricerca di una dignità nel mondo degli uomini, in una vicenda di proteste,
umiliazioni, ribellioni, dolori. Opere principali:Itinerario di Paolina 1937, Il
Coraggio delle Donne 1940, Sette Lune 1941, Artemisia 1947, Le Donne
Muoiono 1951, La Monaca di Sciangai 1957, Campi Elisi 1963, Je Vous écris
d'un pays loítain 1971, La Camicia bruciata 1973, Da un paese vicino 1975,
Un Grido Lacerante 1981 (Finalista al Premio Campiello).
Lalla Romano (1909 - 2001)
Dopo aver frequentato le elementari a Demonte, si trasferisce a Cuneo con la
famiglia nel 1916, dove compie gli studi superiori. Conseguita la maturità nel
'24, s'iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino: tra i
suoi professori, spiccano le figure di Ferdinando Neri e Lionello Venturi. Su
indicazione di quest'ultimo, comincia a frequentare la scuola di pittura di
Felice Casorati. Laureatasi nel 1928, continua a dedicarsi alla pittura ed alla
poesia: ha, intanto, conosciuto scrittori e intellettuali del calibro di Cesare
Pavese, Mario Soldati, Franco Antonicelli, Arnaldo Momigliano. Nel '32
sposa, a Cuneo, Innocenzo Monti, e nel '33 nasce il suo unico figlio, Pietro.
Nel '35 raggiunge a Torino il marito, ivi trasferito per motivi di lavoro;
successivamente, espone in mostre collettive ed in una personale. Spinta dal
giudizio positivo espresso da Eugenio Montale su alcuni suoi versi, nel '41
pubblica da Frassinelli la sua prima raccolta di poesie, "Fiore". Durante la
guerra, aderisce al movimento "Giustizia e libertà" e, su invito di Pavese, nel
'44 traduce per Einaudi i "Trois contes" di Flaubert. Nel '46 decide di
abbandonare l'attività pittorica per dedicarsi completamente alla scrittura.
Esordisce nella narrativa nel 1951 con una raccolta di brevi testi in prosa, "Le
metamorfosi", con presentazione di Vittorini; è del '53 il suo primo romanzo,
"Maria", elogiato da Montale sul "Corriere della Sera" e definito da Gianfranco
Contini un "piccolo capolavoro". Negli anni seguenti, escono il libro di poesie
"L'autunno" (1955), i romanzi "Tetto murato" (1957) e "L'uomo che parlava
solo" (1961) ed il libro di viaggi "Diario di Grecia" (1959). Bene accolto dalla
critica e dal pubblico, il suo quarto romanzo, "La penombra che abbiamo
attraversato"
(1964),
è
"una
rivisitazione
di
esperienze
infantili
e
adolescenziali nella quale il rigore stilistico e l'esercizio dell' analisi tengono a
freno
l'incombente
compiacimento
autobiografico"
(S.Guglielmino).
Il
successo arride anche al successivo "Le parole tra noi leggère" (1969), che
vince il premio Strega; seguono, tra le altre cose, il romanzo "L'ospite" (1973),
la raccolta di poesie "Giovane è il tempo" (1974), il volume di racconti "La
villeggiante" (1975), il romanzo "Una giovinezza inventata" (1979), le fiabe de
"Lo stregone" (1979) . E' dell'81 "Inseparabile", dell'86 "La freccia di Tatiana"
(con fotografie di Antonio Ria), dell'87 il romanzo "Nei mari estremi" ove è
rievocata la malattia e la morte del marito. Da segnalare, negli ultimi anni, "Le
lune di Hvar" (1991), "In vacanza col buon samaritano" (1997), "Dall'ombra"
(1999).
Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 - Rapallo, 9 marzo 1998). La
fama di scrittrice di Anna Maria Ortese ha avuto inizio con la pubblicazione di
"Il mare non bagna Napoli", la sua seconda raccolta di novelle, che meritò,
nel 1953, il Premio Viareggio. Nel 1967 ha, inoltre, ottenuto il Premio Strega,
con "Poveri e semplici".
•
Angelici dolori, racconti (Bompiani, Milano 1937)
•
L’infanta sepolta, racconti (Milano sera, Milano 1950)
•
Il mare non bagna Napoli, novelle e cronache (Einaudi, Torino 1953;
ultima riedizione: Adelphi, Milano 1994)
•
Silenzio a Milano, cronache (Laterza, Bari 1958; ultima riedizione: La
Tartaruga, Milano 1986)
•
I giorni del cielo, racconti (Mondadori, Milano 1958)
•
L’iguana, romanzo (Vallecchi, Firenze 1965; ultima riedizione: Adelphi,
Milano 1986)
•
Poveri e semplici, romanzo (Vallecchi, Firenze 1967; Rizzoli BUR,
Milano 1974)
•
La luna sul muro, racconti (Vallechi, Firenze 1968)
•
L’alone grigio, racconti (Vallecchi, Firenze 1969)
•
Il porto di Toledo, romanzo (Rizzoli, Milano 1975; Rizzoli BUR, Milano
1985)
•
Il cappello piumato, romanzo (Mondadori, Milano 1979)
•
Il treno russo, cronache (Pellicanolibri, Catania 1983)
•
Il mormorio di Parigi, cronache (Theoria, Roma-Napoli 1986)
•
Estivi terrori, racconti (Pellicanolibri, Catania 1987)
•
In sonno e in veglia, racconti (Adelphi, Milano 1987)
•
Il cardillo addolorato, romanzo (Adelphi, Milano 1993)
•
Alonso e i visionari, romanzo (Adelphi, Milano 1997)
•
Corpo celeste, testi e interviste (Adelphi, Milano 1997)
U.D. 10_ Italo Calvino
Italo Calvino nasce a Santiago de las Vegas (Cuba) il 15 ottobre 1923,
durante il breve trasferimento dei genitori per motivi professionali. Il padre
Mario, ligure d'origine, è agronomo mentre la madre, (Eva) Evelina Mameli,
nativa della Sardegna, è biologa. Nel 1925 la famiglia ritorna in Italia,
stabilendosi a San Remo. Qui Calvino vive la sua infanzia, che egli ricorda
spensierata nel clima amorevole di in una famiglia dedita alle attività
scientifiche ed alla ricerca. Il periodo fascista non sembra sulle prime segnare
in modo particolare la sua personalità né sconvolgere la serenità familiare di
quegli anni. Nonostante i genitori siano intimamente e culturalmente contrari
al "Regime", la loro posizione (socialista lei, tendenzialmente anarchico lui)
sfuma dentro una generale condanna della politica. Nel 1927 frequenta l'asilo
infantile St. George College. Il primo vero contatto con la cultura fascista è
vissuto da Calvino negli anni tra il 1929 ed il 1933, quando non può sottrarsi
all'esperienza di diventare balilla, obbligo scolastico esteso anche alle scuole
valdesi frequentate dal piccolo Italo. Nel 1934 inizia la frequentazione del
ginnasio-liceo "G.D. Cassini", dove coltiva l'amicizia con Eugenio Scalfari,
che più tardi diverrà un importante rapporto per la sua crescita letteraria e
politica. La famiglia Calvino non ha una fede religiosa, e per quei tempi
manifestare apertamente un certo atteggiamento agnostico costava almeno
l'appellativo di "anticonformisti". Segno che Calvino ricorderà poi quale
elemento di formazione importante, per averlo presto svezzato ai sentimenti
della tolleranza e della diversità, con la conseguenza di predisporlo al
costante confronto con le ragioni dell'"altro". Sono questi i semi culturali e
sociali di quella formazione poliedrica che il giovane Calvino più tardi tradurrà
in una scrittura capace di spaziare dalla saggistica politica a quella letteraria
e teatrale; dal racconto impegnato, a quello ironico e umoristico; dalla
pungente critica sociale, alla sceneggiatura di testi teatrali, finanche alla
composizione di testi per canzoni. Ma proprio quando l'età gli darebbe
occasione di gustare appieno quella grande ricchezza cosmopolita e culturale
che si addensa nel circondario di San Remo in quegli anni, la guerra
sconvolge la serena vita di provincia. Destina Calvino ad una serie di
vicissitudini, dai toni anche drammatici, capaci però di saldarsi con l'apertura
di vedute già matura nel carattere, forgiando così l'impegno politico e sociale
che Calvino esprimerà in forma di partecipazione e di scrittura. Tra il 1941 e
1942, dopo aver completato gli studi liceali, si trasferisce a Torino e si iscrive
alla facoltà di Agraria. Mentre prepara e sostiene gli esami dei primi anni,
superati poi con successo ma senza convinzione, Calvino coltiva quelli che
sempre più marcatamente appaiono come i suoi veri interessi: la letteratura, il
cinema, il teatro. Scrive La commedia della gente, un lavoro teatrale per un
concorso letterario e Pazzo io o pazzi gli altri che presenterà alla casa
editrice Einaudi ma senza successo. L'ambiente culturale di Torino, che
Calvino frequenta assiduamente, ed i fermenti politici di contrapposizione al
regime, più che mai vivi nel capoluogo piemontese, fondono in lui letteratura
e politica. Grazie all'amicizia ed ai suggerimenti di Eugenio Scalfari (già suo
compagno al liceo), focalizza i suoi interessi sugli aspetti etici e sociali che
coltiva nelle letture di Montale, Vittorini, Pisacane. Nel 1943 si trasferisce alla
facoltà di Agraria e Forestale di Firenze, dove sostiene pochi esami. Il 9
agosto 1943 ritorna a Sanremo. L'8 settembre trova Calvino renitente alla
leva. Contrario ad aderire alla Repubblica di Salò, trascorre un breve periodo
nascosto e solitario a Sanremo, momento in cui approfondisce ulteriormente
il canovaccio politico-sociale della sua passione letteraria. La definitiva scelta
per la clandestinità matura più per questioni affettive ed emozionali che per
persuasione politica. All'indomani dell'uccisione del giovane medico Felice
Cascione per mano fascista, Calvino aderisce assieme al fratello Floriano,
alla seconda divisione d'assalto partigiana "Garibaldi" intitolata allo stesso
Cascione. In verità, egli si definisce un anarchico, ma in quegli anni di
clandestinità impara ad ammirare gli esiti positivi dell'organizzazione ed il
coraggio che la genuina persuasione politica irradia, allorché è scelta
convinta. Nel marzo del 1945, quando ormai gli alleati sono in Italia, Calvino è
protagonista attivo nella battaglia di Baiardo, una delle ultime battaglie
partigiane. Ricorderà l'evento nel racconto Ricordo di una battaglia, scritto nel
1974. Dopo la Liberazione, mentre la sua inclinazione anarchica e libertaria
non affievolisce, in lui va costruendosi un'ampia e complessa visione del
mondo che non cede a semplificazioni politiche e sociali. Non esalta l'idea
comunista sotto il profilo culturale e filosofico. Matura, ciononostante,
l'esigenza di organizzare forme politiche e strutture sociali a difesa dei diritti,
della dignità umana e della libertà. Con questo spirito aderisce al P.C.I. e ne
diviene attivista e quadro, esprimendo la sua partecipazione con interventi di
carattere politico e sociale, su quotidiani e periodici culturali, oltre che nelle
sedi istituzionali del partito. Si iscrive alla Facoltà di lettere di Torino,
accedendo direttamente al III anno, grazie alla legislazione postbellica in
favore dei partigiani ed ex combattenti. Conosce Cesare Pavese che diverrà
guida culturale ed umana, oltre che "primo lettore" delle sue opere. Scrive
Angoscia in caserma ed inizia una collaborazione con Il Politecnico, periodico
diretto da Elio Vittorini. Tra il '46 ed il '47 compone Campo di mine, vincitore
di un concorso letterario indetto da "L'Unità", ed una serie di racconti che
saranno poi messi assieme ne Ultimo viene il corvo pubblicato nel 1949. Tra
l'estate e il 31 dicembre del 1946, per concorrere al Premio Mondadori per un
inedito, scrive il primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno. Dopo la laurea nel
1947, che consegue con una tesi su Joseph Conrad, inizia una
collaborazione con l'Einaudi, curandone l'ufficio stampa. Il rapporto con la
casa editrice sarà centrale nelle attività di Calvino, anche se talvolta
intermittente ma ricco di incarichi sempre diversi e via via più importanti.
Durerà fino al 1961, momento in cui si trasformerà in "consulenza editoriale
esterna". Le attività culturali si intensificano assieme alle conoscenze
personali. Frequenta Vittorini, Natalia Ginzburg, Delio Cantimori, Franco
Venturi, Norberto Bobbio, Felice Balbo. Collabora con "l'Unità" e con
"Rinascita". Nel 1949 viene pubblicato Ultimo viene il corvo e resta inedito Il
bianco Veliero. Scrive interventi politico-sociali e di saggistica letteraria, su
diverse riviste culturali, tra cui "Officina", "Cultura e realtà", "Cinema Nuovo",
"Botteghe Oscure", "Paragone", oltre che su "Il Politecnico" di Vittorini già
citato. Sulle riviste pubblica anche brevi racconti, fra cui La formica argentina
e le prime novelle di Marcovaldo. Nel mese di agosto del 1950 Cesare
Pavese si suicida e Calvino perde l'amico e maestro, oltre che il suo "primo
lettore". Ne rimane sconvolto poiché Pavese era da lui vissuto come uomo
forte di carattere e di temperamento risoluto. Gli resta il profondo rammarico
per non aver intuito il dramma dell'amico. I suoi viaggi sporadici si infittiscono
e nel 1951 visita l'Unione Sovietica per un paio di mesi, dandone puntuale
resoconto nel Taccuino di viaggio in URSS di Italo Calvino, con cui vince il
premio Saint Vincent. Scrive il romanzo I giovani del Po e, quasi di getto, Il
visconte dimezzato. Tra il '53 ed il '54 tenta un romanzo di ampio respiro che
resterà inedito La collana della regina, mentre lavora assiduamente ad un
progetto nuovo che lo appassiona particolarmente. Si tratta delle Fiabe
italiane, rimaneggiamento e raccolta di antiche fiabe popolari, pubblicate nel
novembre del 1956. Sul versante dell'impegno politico, l'idea di società
maturata con gli anni non delude il suo spirito anarchico e libertario, anzi lo
arricchisce e lo caratterizza nella forma di precisi interventi critici in occasione
del XX Congresso del PCUS del 1956. Calvino esprime il dissenso per certi
aspetti che la politica sovietica va prendendo, soprattutto in ragione della
libera espressione e circa l'importanza della forma democratica. Ma non
risparmia critiche neppure ad una certa chiusura culturale dei dirigenti del
PCI, né a a talune pratiche interne all'apparato. L'idea di un nuovo PCI
riformato e rifondato, che ispira Calvino, è dichiaratamente di matrice
giolittiana. La disillusione è però incolmabile solo pochi mesi dopo il
Congresso, quando l'armata rossa invade la Polonia. Con i fatti di Poznan e
Budapest matura in Calvino la decisione di abbandonare il partito. Il 1 agosto
1957 formalizzerà con una lettera al Comitato Federale di Torino le proprie
dimissioni,seguite a quelle di Antonio Giolitti. Spesso interviene su una rivista
di intellettuali dissidenti "Città aperta", a conferma che l'amarezza maturata a
seguito di certe scelte del partito non degrada in qualunquismo, ma si fa
critica puntuale e propositiva. Continua a scrivere ed a viaggiare e fonda con
Vittorini "Il Menabò". Tra il '58 ed il '62 pubblica La gallina di reparto, La
nuvola di smog e l'antologia Racconti. Sulla rivista culturale "Contacronache"
scrive testi di canzoni: Canzone triste, Dove vola l’avvoltoio, Oltre il ponte, Sul
verde fiume Po. Nel 1959 pubblica il romanzo Il cavaliere inesistente e parte
per un viaggio negli Stati Uniti, esperienza che diverrà soggetto del racconto
inedito Un ottimista in America . Escono su "Il Menabò" il saggio La sfida al
labirinto ed il racconto La strada di San Giovanni. La sua fama è ormai
affermata. Spesso è chiamato per conferenze e dibattiti in ogni parte
d'Europa. Nell'isola di Maiorca riceve il premio internazionale Formentor. Nel
1962, in occasione di un ciclo di incontri letterari, conosce a Parigi la sua
futura moglie, la traduttrice argentina Esther Juthit Singer, detta Chiquita, che
sposerà a L'Avana il 19 febbraio del 1964. A Cuba ha anche occasione di
incontrare Ernesto Che Guevara. Torna in Italia e si stabilisce a Roma con la
moglie ed il figlio di lei Marcello Weil. Nasce in quegli anni il gruppo '63,
corrente letteraria neoavanguardista, che Calvino segue con interesse pur
senza condividerne l'impostazione di fondo. Pubblica i racconti La giornata di
uno scrutatore e Speculazione edilizia. A fine '64 vanno in stampa le prime
cosmicomiche La distanza della Luna, Sul far del giorno, Un segno nello
spazio, Tutto in punto. Poco dopo pubblica Il barone rampante ed il dittico La
nuvola di smog - La Formica argentina. Il 12 febbraio del 1966 muore l'amico
Elio Vittorini, al quale dedica il saggio Vittorini: progettazione e letteratura.
Calvino traccia nel saggio il pensiero d'un intellettuale aperto e fiducioso, in
dissonanza col pessimismo letterario di quegli anni, della decadenza e della
crisi. All'indomani della morte di Vittorini, Calvino inaugura un periodo di
meditazione, necessario forse ad elaborare il proprio vissuto, distante dal
frastuono delle città e della vita pubblica. Nel 1967 si trasferisce a Parigi
assieme alla famiglia. Approfondisce la sua passione per le materie
scientifiche e per il gioco combinatorio. I frutti di questo nuovo arricchimento
già si manifestano nella raccolta di racconti Ti con zero, vincitore del Premio
Viareggio 1968. Premio che però Calvino rifiuta, ritenendo ormai tali
manifestazioni
letterarie
semplice
espressione
retorica,
anche
se,
successivamente, accetterà altri premi letterari. Pubblica la prima edizione
dell'antologia scolastica La lettura. Assieme a Guido Neri, Gianni Celati ed
altri intellettuali, lavora al progetto per la realizzazione di una rivista sociale e
letteraria a larga diffusione, destinata al grande pubblico. Pur non
condividendo l'ideologia di fondo del sessantotto francese, Calvino è
particolarmente attratto ed affascinato dal valore utopico disseminato di certe
rivendicazioni del movimento studentesco e sociale. Tra il '69 ed il '73 lavora
ad alcuni progetti letterari e pubblica racconti e saggi su diverse riviste.
Escono il racconto I tarocchi ed i saggi Osservare e descrivere e Problema
da risolvere, pubblicati nella nuova edizione del testo scolastico La lettura.
Nel 1971 scrive Gli amori difficili per la collana "Centopagine" della Einaudi.
Nel 1972 vince il Premio Feltrinelli conferito dalla Accademia nazionale dei
Lincei, pubblica Le città invisibili che sarà finalista al XXIII Premio Pozzale
1974 per la letteratura. In quell'anno inizia anche una collaborazione con il
"Corriere della Sera" che durerà fino al 1979, quando inaugura la serie di
racconti del signor Palomar. Pubblica due lavori autobiografici, il primo,
Ricordo di una battaglia, rievoca la dura ed umanamente ricca esperienza da
partigiano. L'altro, Autobiografia di uno spettatore, particolare sguardo di
Calvino sul cinema, diventa prefazione a Quattro film di Federico Fellini. Nel
mese di maggio del 1975 inizia un altro periodo di intensi viaggi. A maggio è
in Iran dove, per conto della RAI, cura la preparazione di un programma
radiofonico. L'anno successivo si reca negli USA, in Messico ed in Giappone,
per una serie di incontri e di conferenze. Il signor Palomar in Giappone,
racconto che pubblica nelle colonne del Corriere della sera, s'ispira a quei
viaggi. A Vienna, nel 1976, viene insignito d'un importante premio letterario
europeo, dal Ministero dell'Istruzione austriaco. Nel 1979 pubblica Se una
notte d'inverno un viaggiatore ed inizia la sua collaborazione con il giornale
"La Repubblica". Chiude quasi completamente il suoi interventi di carattere
politico e sociale, con l'amaro articolo L'apologo sull'onestà nel paese dei
corrotti, pubblicato l'anno successivo sul quotidiano diretto da Eugenio
Scalfari. Gli anni '80 vedono Calvino, ritornato a Roma con la famiglia,
prevalentemente alla ricerca lungo quel territorio che è il punto di confine tra
letteratura e scienze, sempre ispirato all'amico francese Queneau. Ne cura
l'opera Segni cifre e lettere e ne traduce la Piccola cosmologia portatile,
redigendone anche la guida. S'impegna altresì nella stesura di testi teatrali,
dove tenta d'inserire l'arte cosmologica e combinatoria. Nel 1983 esce
Palomar pubblicato da Einaudi. Per la casa editrice torinese cura anche
l'introduzione ad America di Franz Kafka. A causa della seria crisi in cui versa
l'Einaudi, nel 1984 è costretto a pubblicare presso Garzanti Collezioni di
sabbia e Cosmicomiche vecchie e nuove. Nel 1985, durante l'estate, Calvino
lavora ad una serie di conferenze (Lezioni americane, pubblicate postume)
che avrebbe dovuto tenere presso l'Università di Harvard. Colto da ictus il 6
settembre a Castiglione della Pescaia, viene ricoverato all'ospedale Santa
Maria della Scala di Siena dove muore nella notte tra il 18 e il 19 settembre.
Sono usciti postumi anche i volumi Sotto il sole giaguaro, La strada di San
Giovanni e Prima che tu dica pronto. In questa prima fase della sua
produzione, collocabile all'interno del movimento neorealista, Calvino scrive il
suo romanzo breve Il sentiero dei nidi di ragno e numerosi racconti raccolti
nel volume Ultimo viene il corvo. Con queste opere Calvino mostra una lucida
capacità rappresentativa della realtà che coniuga impegno politico e
letteratura in modo spontaneo e leggero. In queste storie lo scrittore ligure
per raccontare le storie della sua esperienza partigiana adotta un punto di
vista oggettivo, tramite il quale i suoi ricordi diventano la misura della
comprensione del mondo. In Il sentiero dei nidi di ragno l'intreccio è narrato
dal punto di vista di Pin, un ragazzo, il protagonista del romanzo. Questa
ricerca di oggettività, comunque, non scade mai in pura cronaca: è sempre
presente la dimensione mitico-fiabesca che permette a Calvino di far
intravedere la realtà sotto le spoglie del sogno. È proprio con quest'opera che
Calvino dà l'avvio all'operazione di sdoppiamento dei piani interpretativi che
contraddistingue la sua produzione: da una parte il livello puramente
narrativo, semplice e comprensibile da tutti i lettori, dall'altra quello visibile
solo dai lettori più smaliziati. Questa scelta è compiuta, all'inizio, su precise
basi ideologiche, in seguito, con la contaminazione di forme colte e popolari,
Calvino mantiene la tecnica dello sdoppiamento dei livelli di lettura. Calvino
da sempre era stato attirato dalla letteratura popolare, con particolare
attenzione al mondo delle fiabe. Con Il visconte dimezzato, percorre sempre
di più la strada dell'invenzione fantastica: l'impianto è ormai totalmente
abbandonato al fiabesco e la narrazione procede secondo due livelli di
lettura: quello di immediata fruizione e quello allegorico-simbolica, in cui sono
presenti numerosi spunti di riflessione (contrasto tra realtà e illusione, tra
ideologia ed etica, etc.). In conclusione il romanzo invita i lettori all'equilibrio,
in quanto non è possibile possedere la verità assoluta. Anche le altre due
opere della trilogia I nostri antenati mostrano caratteristiche simili. Il
protagonista de Il barone rampante è un alter ego di Calvino che ormai ha
abbandonato la concezione della letteratura come messaggio politico. Il
Cavaliere inesistente invece è velato da un cupo pessimismo, dietro al quale
la realtà appare irrazionale e minacciosa. Accanto alla produzione allegoricosimbolica, Calvino continua comunque un tipo narrazione che descrive la
realtà quotidiana. Riprende ad esaminare il ruolo dell'intellettuale nella
società, constatando la sua assoluta impotenza di fronte alle cose del mondo.
Sempre a questa fase appartengono i racconti di Marcovaldo, in due serie:
più aderente a strutture fiabesche la prima (1958) mentre le seconda (1963)
tratta temi urbani con toni che a volte sfiorano l'assurdo. Nel 1963 esce
anche La giornata di uno scrutatore, in cui Calvino narra le vicende di un
militante comunista che, scrutatore in manicomio, entra in contatto con
l'irrazionale ed entra in crisi. Nella pubblicazione Sfida al labirinto
(dell'esistenza) Calvino espone le sue idee riguardo la funzione degli
intellettuali, i quali, secondo lui, devono cercare di comprendere il caos del
reale per tentare di dare un senso alla vita. L'influsso di varie discipline
scientifiche apre la fase "fantascientifica" de Le cosmicomiche e di Ti con
Zero, in cui lo scrittore si domanda come la ragione e scienza possano
influire sulla ricerca esistenziale dell'uomo. Intorno agli anni Sessanta Calvino
aderisce ad un nuovo modo di fare letteratura, intesa ora come artificio e
come gioco combinatorio. Per lo scrittore ligure è necessario rendere visibile
ai lettori la struttura stessa della narrazione, per accrescere il loro grado di
consapevolezza. In questa nuova fase produttiva Calvino si avvicina ad un
tipo di scrittura che potrebbe essere definita combinatoria perché il
meccanismo stesso che permette di scrivere assume un ruolo centrale
all'interno della produzione; Calvino infatti è convinto che ormai l'universo
linguistico abbia soppiantato la realtà e concepisce il romanzo come un
meccanismo che gioca artificialmente con le possibili combinazioni delle
parole: anche se questo aspetto può essere considerato il più vicino alla
Neoavanguardia, egli se ne distanzia per uno stile ed un linguaggio
estremamente comprensibili. Questa nuova concezione di Calvino risente di
numerosi influssi: lo strutturalismo e la semiologia, le lezioni parigine di
Roland Barthes sull'ars combinatoria e la frequentazione del gruppo di
Raymond Queneau (l'Oulipo), la scrittura labirintica di Jorge Luis Borges
nonché la rilettura del Tristram Shandy di Sterne, che definirà come il
progenitore di tutti i romanzi d’avanguardia del nostro secolo. Il primo
prodotto di questa nuova concezione della letteratura è il Castello dei destini
incrociati (1969), al quale in seguito verrà aggiunto La Taverna dei destini
incrociati (1973), in cui il percorso narrativo è affidato alla combinazione delle
carte di un mazzo di tarocchi. Un gruppo di viandanti si incontra in un
castello: ognuno avrebbe un'avventura da raccontare ma non può perché ha
perduto la parola. Per comunicare allora i viandanti usano le carte dei
tarocchi, ricostruendo grazie ad esse le proprie vicissitudini. Qui Calvino usa
il mazzo dei tarocchi come un sistema di segni, come un vero e proprio
linguaggio: ogni figura impressa sulla carta ha un senso polivalente così
come lo ha una parola, il cui esatto significato dipende dal contesto in cui
viene pronunciata. L'intento di Calvino è proprio di smascherare i meccanismi
che stanno alla base di tutte le narrazioni, creando così un romanzo che va
oltre sé stesso, in quanto riflessione sulla propria natura e configurazione.
Questo gioco combinatorio è centrale anche nel successivo romanzo dello
scrittore, Le città invisibili (1972), sorta di riscrittura del Milione di Marco Polo
in cui è lo stesso mercante veneziano a descrivere a Kublai Khan le città del
suo impero. Queste città però non esistono tranne che nell'immaginazione di
Marco Polo, vivono solo all'interno delle sue parole. La narrazione quindi per
Calvino può creare dei mondi ma non può distruggere l'inferno dei viventi che
sta intorno a noi, per combattere il quale, come suggerito nella conclusione
del romanzo, non si può far altro se non valorizzare quello che inferno non è.
Ne Le città invisibili l'esibizione dei meccanismi combinatori del racconto
diventa ancora più esplicita che nel Castello dei destini incrociati grazie
anche alla struttura stessa del romanzo, segmentata in testi brevi che si
susseguono dentro una cornice. Le città invisibili infatti è composto da nove
capitoli, ognuno all'interno di una cornice in corsivo nella quale avviene il
dialogo tra l'imperatore dei Tartari, Kublai Khan, e Marco Polo. All'interno dei
capitoli vengono narrate le descrizioni di cinquantacinque città, secondo
nuclei
tematici.
Questa
complessa
costruzione
architettonica
è
indubbiamente finalizzata alla riflessione da parte del lettore sulle modalità
compositive dell'opera: in questo senso Le città invisibili è un romanzo
fortemente metatestuale, poiché induce a produrre riflessioni su sé stesso e
sul funzionamento della narrativa in generale. L'opera più metanarrativa di
Calvino, però, è sicuramente da considerarsi Se una notte d'inverno un
viaggiatore (1979). In questo romanzo, più che altrove, Calvino mette a nudo
i meccanismi della narrazione, avviando una riflessione sulla pratica della
scrittura e sui rapporti tra scrittore e lettore. Il libro è formato da dieci capitoli
inseriti all'interno di una cornice: i capitoli in realtà sono dieci incipit di
altrettanti romanzi. Nella cornice invece si narra della storia tra il Lettore e
Ludmilla, la Lettrice, una vicenda tradizionale in cui non manca il lieto fine. La
narrazione inizia con il Lettore che va a comprare una copia del romanzo di
Calvino Se una notte d'inverno un viaggiatore scoprendo però dopo poche
pagine che il libro è difettoso, è composto cioè da tanti racconti tutti uguali;
torna allora in libreria trovando Ludmilla nella sua stessa condizione. Da qui
si dipana una storia inframezzata solo da inizi di romanzi: ogni volta che
Ludmilla e il Lettore si imbattono in un romanzo al quale si appassionano, la
narrazione si interrompe per i più svariati motivi. Alla fine il Lettore non
riuscirà a completare la lettura dei romanzi ma finirà per sposarsi con la
Lettrice alla quale, a letto prima di spegnere la luce, comunicherà che sta
finendo di leggere Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. I
dieci inizi di racconti da cui è composto il libro corrispondono ognuno ad un
diverso tipo di narrazione. Mediante questo "esercizio di stile" Calvino
esemplifica quali sono i modelli e gli stilemi del romanzo moderno (da quello
della neoavanguardia a quello neo-realistico, da quello esistenziale a quello
fantastico surreale). Alla base del racconto c'è dichiaratamente lo schema a
incastro delle Mille e una notte, all'interno del quale Calvino colloca i
suggerimenti e le sollecitazioni provenienti dal romanzo contemporaneo. Se
una notte d'inverno un viaggiatore è sostanzialmente un gioco in cui Calvino
ostenta in modo quasi provocatorio i suoi "trucchi" di narratore, ma è un gioco
serio, quasi drammatico, perché vuole denunciare l'impossibilità di giungere
alla conoscenza della realtà. Il romanzo ha avuto un notevole successo in
Italia e all'estero, specialmente negli Stati Uniti, dove è stato letto
immediatamente come esempio di letteratura postmoderna.