T emi R omana n° 4 2014
Transcript
T emi R omana n° 4 2014
2014 n° 4 Temi Romana n° 4 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma ANNO LXII OTTOBRE – DICEMBRE 2014 Passeggiata in libreria n° 4 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma “I DIRITTI DEI MINORI” Matteo Santini e Pompilia Rossi (a cura di) Testi di: Francesca Beccaria, Emilia Casali, Francesca Cimatti, Ileana Iandolo, Sara Menichetti, Maria Paola Rosapepe, Alessandra Sarri, Silvia Veneziano NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA pp. 312, euro 20,00 Il presente volume costituisce un vademecum che sarà di grande ausilio per gli operatori del diritto minorile e per coloro che necessitino di un primo orientamento nella materia. È un testo aggiornatissimo, all’interno del quale è contenuta tutta la normativa nazionale ed internazionale attinente ai minori, suddivisa per argomenti. Per renderlo più completo e fruibile nella pratica, per chi quotidianamente lavora nel settore, all’interno del volume è stata inserita anche la giurisprudenza sia nazionale che internazionale, anch’essa suddivisa per argomenti. I diritti dei minori ivi trattati sono stati affrontati in modo esaustivo: nel testo infatti si rinvengono leggi e sentenze di diritto civile ma anche di diritto penale, al fine di consentire un compiuto inquadramento della materia. Direttore Responsabile: Mauro VAGLIO Direttore Scientifico: Alessandro CASSIANI Capo Redattore: Samantha LUPONIO Comitato Scientifico: Paola BALDUCCI, Antonio BRIGUGLIO, Luigi CANCRINI, Pierpaolo DELL’ANNO, Antonio FIORELLA, Giovanni Maria FLICK Giorgio LOMBARDI, Carlo MARTUCCELLI, Ugo PETRONIO Eugenio PICOZZA, Giulio PROSPERETTI, Giorgio SPANGHER Alfonso STILE, Federico TEDESCHINI, Roberta TISCINI, Giancarlo UMANI RONCHI, Romano VACCARELLA Comitato di Redazione: Mauro VAGLIO, Pietro DI TOSTO, Antonino GALLETTI Riccardo BOLOGNESI, Fabrizio BRUNI Alessandro CASSIANI, Domenico CONDELLO, Antonio CONTE Mauro MAZZONI, Aldo MINGHELLI, Roberto NICODEMI, Livia ROSSI Matteo SANTINI, Mario SCIALLA, Isabella Maria STOPPANI Coordinatori: Antonio ANDREOZZI, Andrea BARONE, Camilla BENEDUCE Domenico BENINCASA, Marina BINDA, Ersi BOZEKHU Francesco CASALE, Francesco CIANI, Benedetto CIMINO, Irma CONTI Antonio CORDASCO, Alessandro CRASTA, Carmelita DE FINIS Annalisa DI GIOVANNI, Ruggero FRASCAROLI, Maria Vittoria FERRONI Fabrizio GALLUZZO, Alessandro GENTILONI SILVERI, Mario LANA Paola LICCI, Andrea LONGO, Giuseppe MARAZZITA, Franco MARCONI Alessandra MARI, Gabriella MAZZEI, Arturo MEGLIO, Chiara PACIFICI Ginevra PAOLETTI, Chiara PETRILLO, Tommaso PIETROCARLO Aurelio RICHICHI, Sabrina RONDINELLI, Serafino RUSCICA Marco Valerio SANTONOCITO, Massimiliano SILVETTI, Luciano TAMBURRO Federico TELA, Antonio TESTA, Federica UMANI RONCHI, Clara VENETO Segretario di redazione: Natale ESPOSITO Progetto grafico: Alessandra GUGLIELMETTI Disegno di copertina: Rodrigo UGARTE ____________ Temi Romana - Autorizzazione Tribunale di Roma n. 320 del 17 luglio 2001 - Direzione, Redazione: P.zza Cavour - Palazzo di Giustizia - 00193 Roma Impaginazione e stampa: Infocarcere scrl - Via C. T. Masala, 42 - 00148 Roma “IL FALLIMENTO E LE ALTRE PROCEDURE CONCORSUALI” Antonio Caiafa DISCENDO AGITUR, ROMA pp. 526, euro 46,00 La difficoltà di conciliare una adeguata trattazione dei fondamenti della materia, in conseguenza dei continui successivi interventi integrativi della legge di riforma delle procedure concorsuali, e al tempo stesso, la sentita esigenza di offrire agli studenti uno strumento di studio ed approfondimento, sì da consentire loro di aderire liberamente ad una tesi ricostruttiva sistemica piuttosto che ad un’altra, hanno suggerito una esposizione essenziale e semplice al fine di permettere l’esercizio di una consapevole riflessione su varie tematiche. Il volume fornisce un quadro completo ed approfondito delle nuove regole del concorso, che ricostruisce con particolare attenzione alle problematiche interdisciplinari, allo scopo di individuare il corretto equilibrio fra la tutela delle ragioni creditorie e la salvaguardia delle risorse dell’impresa, cui la legge di riforma ha inteso garantire continuità mediante recupero delle capacità produttive. “LE 50 PAROLE DELLA DIGITAL FORENSICS PIÙ UTILIZZATE NELLE AULE DI GIUSTIZIA” Marco Zonaro NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA pp. 48, euro 5,00 Un piccolo vademecum che, senza grandi pretese, vuole essere uno strumento di sensibilizzazione all’utilizzo, in campo scientifico forense, di un linguaggio semplice e pulito, scevro di terminologie astruse e indecifrabili, proprie di chi invece con la scienza si confronta quotidianamente. 50 parole, tra le più utilizzate nelle Aule di Giustizia, che parlano di informatica forense, cercando di offrire una spiegazione breve e chiara di concetti tecnici ormai entrati a far parte della nostra quotidianità professionale. “GESTIONE DELLE CRISI BANCARIE TRANSFRONTALIERE” Marta Mariolina Mollicone NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA pp. 128, euro 15,00 La crisi finanziaria che dal 2008 ha riguardato gli Stati Uniti e si è velocemente espansa in Europa, con modalità domino, ha sottolineato l’inadeguatezza del sistema bancario sotto il profilo dell’assunzione del rischio, di prevenzione degli effetti collaterali e della composizione della crisi. L’Europa, al fine di evitare ulteriori crisi sistematiche e con l’obbiettivo di esonerare i contribuenti dai costi di un dissesto generato da scelte manageriali sbagliate, ha creato la Unione Bancaria. Vigilanza, risoluzione e garanzia dei depositi delle banche cross-border vengono, dunque, tutti investiti da un più profondo processo di armonizzazione e vengono collocati ad un nuovo e unico livello, quello europeo, dove la BCE assume il ruolo di protagonista. L’opera si concentra sul nuovo Meccanismo Unico di Risoluzione delle crisi bancarie transfrontaliere (Single Resolution Mechanism, SRM), che vede la sua disciplina nel Regolamento (UE) N. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio e sulla Direttiva Banking Recovery and Resolution N. 59/2014/EU, la quale mette a disposizione sia della nuova Authority europea di risoluzione (Resolution Board), sia delle Autorità Nazionali, strumenti per la prevenzione, per l’intervento precoce e per la risoluzione delle crisi bancarie. L’autore ha inteso delineare un quadro delle nuovissime disposizioni europee in materia bancaria che a breve entreranno in vigore, cercando di esprimere con semplicità espositiva un sistema contorto ed incompleto, nell’ottica di stimolare riflessioni e facilitare il suo recepimento nell’ordinamento italiano. Sommario n° 4 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma 2 ENRICO DE NICOLA: LA STORIA 4 SAGGI A cura di Eleonora Senese Profili problematici circa una innovativa causa di esclusione della responsabilità penale per colpa lieve Sergio De Dominicis 9 La differenziazione trattamentale per ragioni di sicurezza e i circuiti penitenziari Iole Falco 12 La truffa aggravata: profili processuali, giurisprudenziali e rapporto con reati aventi struttura analoga Roberta Mencarelli 19 Profili generali relativi alla tutela del consumatore ed azione di classe – Parte II Alessandro Nicodemi 34 Il concorso del professionista nei reati connessi alla crisi d’impresa Tommaso Pietrocarlo 38 Gioco d’azzardo patologico: nuove esigenze di tutele e vecchie regole di contesto Rita Tuccillo 47 OSSERVATORIO LEGISLATIVO Accesso civico e accesso disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 Marina Binda 57 NOTE A SENTENZA Lavoro (Rapporto di) – Licenziamento individuale – Successiva revoca del provvedimento – Reintegra nel posto di lavoro – Decorrenza ex tunc degli effetti dalla data di decorrenza originaria del rapporto di lavoro – Retribuzioni medio tempore maturate Carlotta Maria Manni 64 La destinazione urbanistica a verde privato come vincolo meramente conformativo della proprietà rispetto alla tutela ambientale Lorenzo Maria Pelusi 75 CRONACHE E ATTUALITÀ Il Trust dopo di noi! Matteo Santini 77 Dissesto degli enti locali e posizione dei creditori: l’intervento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo con le sentenze De Luca e Pennino c. Italia Francesca Sbarra Temi Romana 1 Enrico De Nicola: la storia La riconoscenza è il sentimento della vigilia A cura di Eleonora Senese E nrico De Nicola nasce a Napoli il 9 novembre 1877 da una famiglia che gli consente di effettuare gli studi che culmineranno nella laurea in Giurisprudenza, conseguita nel 1896 presso l’Università degli Studi di Napoli. L’anno precedente lavora per la rubrica quotidiana di ambito giudiziario del “Don Marzio” e, nel 1909, viene per la prima volta eletto deputato nel Collegio di Afragola. Nominato Sottosegretario di Stato per le Colonie tra il 1913 e il 1914, durante il quarto governo Giolitti, si ritrova nel corso della Prima Guerra Mondiale ad assumere una posizione interventista per poi ricoprire la carica di sottosegretario di Stato per il Tesoro nel 1919. All’epoca della marcia su Roma del 1922, è garante del patto nazionale di pacificazione tra fascisti e socialisti – che poi non ebbe più seguito – ma si ritrova ad appoggiare il Regime Fascista, pur mantenendo la carica di presidente della Camera fino al 1924, quando non presta, tuttavia, il giuramento. Cinque anni dopo, diviene Senatore del Regno, seppur ricoprendo la carica solo per alcune commissioni giuridiche. Alla caduta del regime, nonostante si sia ritirato a vita privata, interviene, sotto richiesta, per mediare fra gli Alleati e la Corona, evitando addirittura l’abdicazione di Vittorio Emanuele III e proponendo l’istituzione della figura di Luogotenente da affidare all’erede al trono Umberto, così da attenuare il peso della sconfitta della corona. Dopo un lavoro diplomatico tra i vari partiti politici, nel 1946 diventa capo provvisorio dello Stato dopo la contrapposizione tra la candidatura di Vittorio Emanuele Orlando, da parte della DC e delle destre, e quella di Benedetto Croce da parte, invece, delle sinistre e dei laici. Durante la prima adunanza dell’Assemblea costituente di quell’anno sono queste le sue parole: “Dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione”, alludendo anche alle condizioni in cui l’Italia verte in quel periodo. È il 1947 quando viene emessa l’ultima condanna a morte in Italia: gli autori della strage di Villarbasse chiedono una grazia che De Nicola non accetta a causa della gravità del delitto commesso. L’anno dopo entra in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana ed egli assume il titolo di Presidente in ruolo transitorio, prima che la maggioranza elegga il nuovo presidente: il liberale Luigi Einaudi. Di conseguenza diviene Senatore a vita e Presidente del Senato della Repubblica dal 28 aprile del 1951 al 24 giugno 1952 durante la prima Legislatura, fino alle sue dimissioni in occasione di quella che viene ricordata come “legge truffa”. Dopo una sospensione dalla carica in Senato nel 1955 in quanto nominato Giudice della Corte Costituzionale, riassume le funzioni di Senatore nel 1957, ma due anni dopo, il primo ottobre, muore all’età di 81 anni nella sua casa di Torre del Greco. Enrico De Nicola viene ricordato come una persona umile (rinunciò all’indennità prevista per il capo dello Stato che allora ammontava a 12 milioni di lire), onesta e soprattutto dedita al suo mestiere. Infatti era particolarmente stimato proprio per l’onestà, l’umiltà e l’austerità dei costumi. Esempio di rigore, distingueva il pubblico dal privato: il giorno della sua nomina a Presidente della Repubblica, giunse discretamente a bordo della sua auto privata a Roma dalla sua Torre del Greco; metteva i soldi per i francobolli della corrispondenza privata che partiva da un ufficio pubblico; si muoveva con mezzi propri, si fece rivoltare il cappotto dal sarto, indumento che divenne “dignitosissimo co-protagonista di numerosissime occasioni ufficiali”. Considerando la provvisorietà della sua carica, ritenne improprio stabilirsi al Quirinale, optando per Palazzo Giustiniani; durante la sua presidenza, ostentava un’agendina nella quale, asseriva, andava prendendo appunti sul corretto modo di esercitare la funzione presidenziale, quasi una sorta di codice deontologico per capi di Stato. Il suo successore, Luigi Einaudi, fra le prime cose che fece da presidente fu quella di ricercare quest’agendina ma, sostiene Giulio Andreotti, la trovò incredibilmente vuota, senza che De Nicola vi avesse scritto alcunché. Per tali motivi rappresenta ancora oggi 2 Temi Romana Enrico De Nicola: la storia un esempio di trasparenza e onestà intellettuale. In materia giudiziaria è da attribuirgli il perfezionamento di uditori giudiziari, la modifica della legge della professione forense, l’abolizione del domicilio coatto. Il lavoro parlamentare di De Nicola concerne anche un apporto alle istituzioni finanziarie come la gestione delle Casse provinciali del Credito agrario o del monopolio per le assicurazione sulla vita. Di ancora maggior rilievo sono le riforme sulla struttura degli organi interni della Camera come quelle dei gruppi parlamentari e le commissioni legislative permanenti (nove) che rimangono l’ammodernamento più importante apportato in epoca liberale. A lui sono state dedicate strade, piazze e Istituti scolastici di ogni ordine e grado. Nel 2009, Andrea Jelardi scrive Il Presidente galantuomo (Napoli, Kairòs Editore), vera e propria biografia di un personaggio che è stato l’ultimo notabile di un’Italia liberale, che ha visto la fine della Monarchia e dei Savoia e il primo Capo provvisorio di una Repubblica appena nata. avanzata dai 3 condannati (in quanto il quarto, l’organizzatore del colpo, era già morto ucciso in un regolamento dei conti), fu inevitabilmente respinta dal presidente della Repubblica. L’evento è considerato di particolare rilevanza nella storia della penalistica. Tra i giornalisti accreditati a cui toccò il compito di raccontare gli ultimi atti di vita degli assassini, vi era un ragazzo poco più che ventenne, Giorgio Bocca, redattore della Gazzetta del Popolo di Torino. La legge truffa Con tale termine si identifica la Legge elettorale italiana maggioritaria voluta dalla Democrazia Cristiana e dai suoi alleati (Psdi, Pli, Pri, Partito sardo d’azione, Svp) per ottenere il controllo certo della Camera dei Deputati. Fu così definita dalle opposizioni di sinistra in quanto prevedeva che alla lista o all’insieme delle liste che, essendosi “apparentate” tra loro, avessero ottenuto più del 50% dei voti toccasse il 65% dei seggi. Fallì per poche migliaia di voti, fu subito revocata, ma lasciò uno strascico di grave instabilità politica. La legge, promulgata il 31 marzo 1953 (n. 148) ed in vigore per le elezioni politiche del 3 giugno di quello stesso anno (sia pure senza che desse effetti), venne abrogata con la legge 615 del 31 luglio 1954. Infatti la Dc e i partiti satelliti si fermarono al 49,8%: per 54.968 voti il premio di maggioranza andò in fumo. Un fallimento che sancì la fine dell’era De Gasperi. La strage di Villarbasse Si trattò di un orribile delitto che scosse l’opinione pubblica del Paese: il fatto si svolse il 20 novembre del 1945 alla cascina Simonetto di Villarbasse, a una ventina di chilometri da Torino, nel corso di una rapina compiuta da quattro uomini, dieci persone vengono massacrate a colpi di bastone e gettate ancora vive in una cisterna, dove morirono dopo una lunga ed atroce agonia. La rapina fruttò la somma di 100mila lire, qualche gioiello e dei salami. I responsabili del crimine vennero arrestati dai Carabinieri e condannati a morte. La pena venne eseguita all’alba del 4 marzo 1947 a Torino alle Basse di Stura. Fu l’ultima condanna capitale della storia italiana. La pena di morte infatti sarà definitivamente cancellata dalla Costituzione che entrerà in vigore il 1° gennaio dell’anno dopo. Proprio in previsione di questa scadenza, nel corso del 1947 tutte le condanne a morte erano state sospese, ad eccezione di questa in quanto il gesto criminale compiuto era stato troppo orribile, tanto che la domanda di grazia Temi Romana L’Avvocato nel cuore De Nicola era un “Avvocato” e tale rimase nel cuore. Il suo studio a Napoli era il suo vero regno: là cercò sempre di tornare. Come avvocato De Nicola fu brillantissimo a cominciare dal processo che vide coinvolto il sindaco di Napoli Celestino Summonte. Aveva un’oratoria forte ed equilibrata che si può riassumere nella frase “Colui che dice bene il maggior numero di cose col minor numero di parole”. Un parlare pubblico che era più secco nei discorsi politici; più ornato nelle aule di giustizia. Viene considerato come uno dei maggiori avvocati penalisti italiani. 3 Saggi Profili problematici circa una innovativa causa di esclusione della responsabilità penale per colpa lieve Sergio De Dominicis Avvocato del Foro di Salerno L a disciplina di diritto processuale recata con il decreto legge 13 settembre 2012 n. 158, convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012 n. 189, sembra avere introdotto una originale e innovativa causa di esclusione soggettiva della responsabilità penale per colpa lieve, lasciando tuttavia intatto il sistema risarcitorio innanzi al Giudice civile. Agli operatori del diritto penale – Avvocati e Medici legali – non resterà che dimostrare, nel processo penale, che il fatto penalmente illecito, cagionante, a causa di una malpractice sanitaria, valutabile per le circostanze di fatto in cui si è verificato, un danno alla salute della persona non può che avere i connotati della colpa lieve ossia il grado della colpa media; per poi reclamare l’esenzione della responsabilità penale, ai sensi dell’art. 3 del predetto decreto del 2012. L’illecito astrattamente rilevante sul piano penale, ancorché produttivo di un evento lesivo per la salute della persona, non potrà implicare un verdetto di condanna ove si dimostri, in sede dibattimentale, che il medico o l’equipe medica abbiano tenuto nella vicenda dannosa un comportamento conforme alle c.d. linee guida ed alle buone pratiche sanitarie, come accreditate dalla comunità scientifica ed omologate dal Ministero della Salute1. Com’è noto, le c.d. norme Balduzzi, introduttive dell’esonero della responsabilità sanitaria per culpa levis, non sono state accolte favorevolmente dagli operatori del diritto penale. Infatti, ai sensi dell’art. 61, n. 3 e dell’art. 133 c.p. la graduazione della colpa incide già “ordinariamente” sull’erogazione della pena e sulla determinazione del quantum punitivo. Non è il caso di passare qui in rassegna i numerosi quid problematici, versati da medici ed avvocati, al fine di risolvere la questione che assume certamente rilievo sul piano sistematico. Basterà ricordare come, ad avviso dei primi commenta- tori, la disciplina salvifica discendente dal decreto Balduzzi era affetta da numerosi vizi ed errori tecnici, di tale portata da farla considerare inapplicabile. La soluzione è arrivata, molto opportunamente, dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione. Con la sentenza n. 16237/013, della Quarta Sezione penale (udienza del 29 gennaio 2013, Pres. Brusco, Rel. Blaiotta) la Cassazione, a proposito della responsabilità medica modificata in tema di colpa lieve dalla c.d. legge Balduzzi, ha affermato che «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve». Secondo la Suprema Corte, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.L. 13.9.2012 n. 158, convertito, con modificazioni, nella legge 8.11.2012 n. 189, solo con la dimostrazione della colpa grave, sarebbe quindi sanzionabile l’illecito penale colposo. Al di là delle considerazioni versate, in prima battuta, da autorevoli studiosi2 va detto che la c.d. legge Balduzzi conferisce agli operatori del processo penale (Pubblici Ministeri, Avvocati e Medici legali), straordinarie occasioni di analisi e di confronto sulle singole fattispecie penalistiche concernenti la responsabilità medica. Emerge, pertanto, il ruolo centrale del processo penale, entro il quale i protagonisti avranno il dovere di confrontarsi fino in fondo. Tanto più che la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 295 del 2 dicembre 2013, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del predetto art. 3 “per non sussistenza della rilevanza della questione”. Va detto, incidentalmente, che la citata sentenza n. 16237 della IV Sez. penale della Cassazione costituisce una pietra miliare in tema di responsabilità sanitaria, anche per la magnifica ricostruzione storica della giuri4 Temi Romana Saggi sprudenza in materia. E, tuttavia, la linea di demarcazione tra la colpa normale e la colpa professionale, ovverossia tra la culpa levis e la culpa lata non è facile da ritrovare, siccome tutte le possibili differenziazioni sembrano messe in crisi da due norme del codice civile. Innanzitutto dal secondo comma dell’articolo 1176, che recita: “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. L’altra norma civilistica, che integra la nozione di colpa grave, è offerta dall’articolo 2236, il quale stabilisce che «se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave». Si pone, invero, il problema di definire la colpa grave e di differenziarla dalla colpa lieve, almeno in via astratta e generale. Ed infatti, è proprio il predetto articolo 2236 del Codice Civile che, nel fare riferimento esplicito ad attività professionali di elevata complessità pone l’esigenza di ricavare la nozione di colpa grave, quale genus della colpa professionale e di rapportarla alla natura della concreta prestazione ed alla particolare complessità della stessa. Può dirsi subito che per le prestazioni professionali di carattere tecnico-scientifico, come quelle mediche, ai sensi degli articoli 1176 e 2236 c.c., non sembra esserci molto spazio per la colpa media ma solo per la colpa grave. Una colpa media in se è irrilevante: non solo perché è facilmente coperta da polizza di assicurazione ma perché, come proclama il decreto Balduzzi, può costituire una esimente sul piano penale. È la colpa grave quella che scatena le giuste preoccupazioni dei medici. Peraltro, come noto, ai sensi dell’articolo 42 c.p., l’illecito penale colposo viene caratterizzato da due proposizioni esplicative della “colpa generica” e della “colpa specifica”. Difatti nella norma si afferma che il delitto è colposo quando l’evento, anche se previsto, non è voluto e si verifica a causa di negligenza, imprudenza ed imperizia (colpa generica) ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline (colpa specifica). Temi Romana Ed ancorché i reati colposi contro la persona siano molteplici – fatta ovviamente esclusione per le contravvenzioni ove la colpa costituisce la regola base – appare opportuno rammentare che il codice penale prevede, specificatamente, le fattispecie tipiche dell’omicidio colposo (art. 589 c.p.) e delle lesioni personali colpose (art. 590 c.p.), cui devono aggiungersi le altre ipotesi specifiche di lesioni alla persona, disciplinate dall’art. 582 c.p., cioè quelle lievi, se la malattia ha durata non superiore a 20 giorni, e quelle gravissime, se la malattia ha durata permanente, ai sensi dell’art. 583 c.p.. Si ricorda come, con la legge n. 24 del 1963 venne riformato l’art. 582 c.p. e scomparvero le c.d. lesioni gravi, cioè quelle con prognosi non superiori a 40 giorni. Orbene, sia nell’omicidio colposo sia nei reati per lesioni colpose l’evento è disvoluto e si verifica per una delle cause previste dal suindicato articolo 42 c.p.; nel senso, cioè, che l’evento lesivo è contro l’intenzione, ancorché prevedibile ed, altresì, evitabile (ipotesi della colpa cosciente). Se, quindi, questa breve rassegna introduttiva viene calata nella problematica della responsabilità medica e si affronta, altresì, il thema della esenzione della responsabilità penale, in virtù dell’art. 3 del decreto Balduzzi, emerge, per altri profili, un dato di grande importanza scientifica e pratica: la colpa civilistica attribuibile al medico dagli articoli 1176 e 2236 c.c. è esclusivamente colpa grave; cioè, colpa non solo cosciente, ma colpa in concreto, contraria alle linee guida ed alle buone regole della professione sanitaria, che si ritengono esigibili nel caso di una infermità oggetto di trattamento medico-chirurgico in ambito ospedaliero. Inserendo il quadrante della responsabilità per colpa grave dentro il sistema penale, emerge che il tasso di colpevolezza (colpa lieve, grave, gravissima, cosciente o incosciente) attiene alla misura della punibilità del reo e, quindi, all’applicazione della pena in relazione al particolare comportamento dell’imputato, come può dedursi dall’articolo 133 c.p. e dall’art. 61 n. 3 c.p.. In altri termini, nel processo penale il grado o la gravità della colpa è funzionale alla erogazione della pena e alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato. Mentre nel diritto civile il medico andrebbe esente da responsabilità se non abbia agito con colpa grave, nel 5 Saggi Ci si chiede se queste aperture della giurisprudenza di legittimità siano da preludio ad un indirizzo consolidato sulla responsabilità medica, in modo da affermare la gradualità della colpa nelle fattispecie penali, ancorché caratterizzate sul piano positivo da un unico grado di colpa. Si tratterà di riconoscere se la colpa professionale possa integrare una fattispecie penale il cui precetto sia in bianco, ed ove l’integrazione offerta dal contributo della medicina legale possa rappresentare una sorta di “colpa multigraduale”; cioè, una colpa media, o in concreto, che sia l’unica esigibile nella particolare circostanza in cui si è verificata e che sia accertabile dentro il processo penale. Il nodo da sciogliere sta, quindi, nell’offrire una visione dinamica della colpa lieve i cui confini con la colpa grave dovrebbero essere individuati in concreto, rappresentando una colpa medica unitaria concreta e non astratta e, comunque, vicina alla verità storica dei fatti illeciti portati in contestazione. Bisognerà misurarsi nel processo penale, allora, e valutare la fattispecie illecita dentro il contesto organizzativo e, quindi, fare emergere la giusta valutazione sul tasso di colpevolezza. Il criterio rilevante sul piano dell’esonero della responsabilità penale per illecito colposo risiede, a nostro avviso, nella rappresentazione di una colpa unitaria e “multigraduale”, ove la misura della gravità emerga dall’analisi della fattispecie in concreto e dal riscontro del comportamento effettivamente tenuto dal medico. Ed, invero, se si volesse passare in rassegna la più recente giurisprudenza della Cassazione in tema di responsabilità medica verrà ad emersione un dato, forse inaspettato, ma assolutamente oggettivo: risulta impossibile una definizione teoretica della colpa specifica del medico. Occorrerà, perciò, partire dal concetto di colpa media o multigraduale per costruire quella fattispecie di esonero della responsabilità penale disciplinata dal decreto Balduzzi. Del resto, dall’Ordinanza della Corte Costituzionale n. 295/2013 del 2 dicembre 2013, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del D.L. 13 settembre 2012 n. 158 si vedrà che la Corte, in qualità di Giudice delle leggi e della loro conformità a Costituzione, ha respinto la problematica devolutagli dal Tribunale di Milano diritto penale la stessa colpa, se lieve, opererebbe come scriminante soggettiva e, quindi, come causa di esclusione della responsabilità penale3. C’è, pertanto, una asincronia tra sistema civile e sistema penale, ancorché, il problema della colposità dell’illecito sanitario sia unitario. Tutti gli studi sull’illecito colposo, riguardanti la responsabilità medica, concordano nell’affermare che non esiste un unico modello di colpa, ma che esso vada rapportato alla fattispecie illecita ed al rapporto di causalità tra prestazione medica ed evento lesivo. La colpa in concreto, richiamando comportamenti negligenti ossia prestazioni connotate da imperizia o imprudenza, risulta rappresentare il concreto riferimento alla complessità della malattia del paziente e, quindi, ad argomentazioni al di fuori della dialettica specificamente penalistica, ed in quanto tali flessibili. Ma andiamo con ordine. La disposizione affermativa dell’esonero della responsabilità medica in sede penale delimita la scriminante soggettiva all’ipotesi della colpa lieve, fermo restando il rispetto delle linee guida, accreditate dal mondo scientifico ed omologate presso l’Autorità Ministeriale, nonché delle buone pratiche medico-chirurgiche generalmente accettate dalla comunità scientifica. Orbene, la proposizione contenuta nel D.L. n. 158 del 2012 faceva esplicito riferimento agli articoli 1176 e 2236 c.c., mentre nella legge di conversione il quadro è stato cambiato. Secondo alcuni si è trattato di un travisamento del concetto di colpa medica nella fase di conversione del decreto Balduzzi, considerando che la gravità della colpa nel processo penale incide sulla misura della sanzione, ai sensi dell’art. 61 n. 3 c.p. e dell’art. 133 c.p.. Secondo altri autori, si è voluto affidare al Giudice un ambito evolutivo e creativo più ampio ed elastico nel sistema del c.d. diritto vivente? In passato non sono mancate nella giurisprudenza della Corte di Cassazione aperture verso soluzioni empiriche ed evolutive, a condizione che fossero comunque rispettate le c.d. linee guida (Cass. n. 4391 del 2011). Di recente, la IV Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato l’abolitio criminis per la colpa lieve del medico, ai sensi dell’art. 3 della legge Balduzzi n. 189 del 2012, con motivazioni prudenziali e di notevole spessore creativo4. 6 Temi Romana Saggi Secondo la Corte di Cassazione (Sezioni penali) la norma civilistica indicata all’art. 2236 c.c. può, dunque, essere presa in considerazione, anche nel processo penale, quando ricorrono le condizioni per affermare che il medico si sia trovato ad affrontare prestazioni professionali in condizioni di emergenza e con problemi di particolare difficoltà tecnica. Si tratterebbe, dunque, dell’applicazione nel processo penale di una norma extrapenale perché ricorrono le condizioni dell’integrazione tipiche della c.d. norma penale in bianco (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 166 del 28 novembre 1973; Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, n. 39592 del 21 giugno 2007; Cass. Sez. IV Pen. n. 16328 del 5 aprile 2011; idem, n. 4391 del 22 novembre 2011: ex amplius, Cass. Sez. IV Pen. n. 16237 del 29 gennaio 2013). Conclusivamente si può dire che si riscontra nella giurisprudenza penale di legittimità un importante filone d’indirizzo orientato ad applicare nel processo l’art. 2236 c.c., a condizione che ricorrano, de facto, quelle condizioni di imprevedibilità ed inevitabilità specifiche dell’emergenza medica e che sussistano tutti gli altri presupposti che tendano a legittimare l’applicazione della scriminante prevista dal decreto Balduzzi. Il concetto di colpa lieve va, quindi, calato nel processo e nei suoi complessi profili scientifici, che solo un’autorevole consulenza medico-legale è in grado di svelare e porre in evidenza. Proprio la più recente giurisprudenza della Cassazione penale ha posto in nuova luce le linee guida accreditate ed omologate, rapportandole alla teoria dell’esigibilità e della colpa in concreto nel giudizio di responsabilità penale. Ad esempio, le ragioni dell’urgenza, le situazioni complessive della struttura ospedaliera, lo sciopero del personale ed altre concrete condizioni di emergenza potrebbero essere tali da fare emergere la colpa lieve o media quale scriminante soggettiva negli illeciti colposi. Invece, si può aggiungere che l’immotivato distacco delle linee guida potrebbe, altresì, determinare l’emersione della colpa grave. In conclusione, si può affermare che, qualora il medico abbia rispettato con diligenza e competenza quelle linee di buona pratica, potrebbe sostenersi che negli illeciti colposi venga ad emersione solo la colpa lieve che costituisce ora esimente e condizione di non puni- non per motivi sostanziali, bensì per questioni formali. Infatti, la Corte ha denunciato il vizio della mancanza di rilevanza della questione, così come enunciata dal Giudice a quo, reputandola insussistente. Così facendo, la Corte Costituzionale non ha deciso sulla questione della non manifesta infondatezza e, quindi, sull’eventuale contrasto dell’articolo 3 della legge Balduzzi con varie norme e principi costituzionali, tra cui il principio di tassatività della norma penale, la finalità rieducativa della pena, la violazione del principio di ragionevolezza e la disparità di trattamento tra operatori sanitari. La Corte Costituzionale non ha, cioè, potuto sciogliere la contraddizione tra l’abolitio criminis per colpa lieve, come introdotta dall’art. 3 del decreto Balduzzi, ed il presunto contrasto con i principi di ragionevolezza e di tassatività della fattispecie penale, siccome è noto che non esiste una definizione astratta del concetto di colpa grave, così come non esiste una esposizione teorica della colpa lieve. Inoltre, il ruolo giocato dalle linee guida e dalle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica accresce l’imprecisione e l’indeterminatezza perché esse contengono soltanto regole di perizia, senza fare alcun cenno ai comportamenti che potrebbero ritenersi, in via astratta, negligenti o infondati. Peraltro, come è stato opportunamente osservato, il decreto Balduzzi sembra avere spostato l’ambito di analisi dal tema dell’intensità della colpa lieve o grave, quale misura per graduare la sanzione ex art. 133 c.p., alla linea di discrimine tra esistenza o inesistenza del reato colposo. La colpa penale assumerebbe, quindi, una duplice configurazione: di strumento di valutazione della pena da erogare e, nei casi di osservanza delle linee guida e delle buone pratiche accreditate, di causa di non punibilità dell’illecito colposo. Quindi, è possibile affermare che la disposizione abolitiva della responsabilità penale ha molto valorizzato la portata e l’applicazione delle linee guida accreditate dalla comunità scientifica. Ma tutto ciò deve essere provato e dimostrato dentro il processo a dibattimento pieno! Ed, invero, prima del decreto Balduzzi la buona pratica clinica non costituiva il valore scriminante che oggi gli viene riconosciuto5. Temi Romana 7 Saggi bilità penale. A nostro avviso, tuttavia, sembra indispensabile affrontare l’agone del processo penale dibattimentale attra- verso il quale sarà possibile provare l’emersione della colpa lieve ed invocare, quindi, l’abolitio criminis della legge Balduzzi. _________________ 1 Scritti contenuti nel “Manuale di diritto sanitario” a cura di R. BALDUZZI e G. CARPANI, Bologna, il Mulino, 2013. 2 Cfr. G.L. GATTA, Diritto penale contemporaneo, 2013, Pres. Sezione Corte dei Conti, dott. Sergio Auriemma, convegno su Gestione del rischio in anatomia patologica, Roma 25.6.2014. 3 In mancanza di una specifica giurisprudenza in materia si ritiene che l’articolo 3 della legge Balduzzi n. 189 del 2012 abbia prevalente carattere processuale, siccome la colpa lieve può emergere solo nel giudizio dibattimentale e non anche nel giudizio abbreviato o in quello patteggiato ex 8 art. 444 c.p.p.. 4 È proprio la giurisprudenza sulla colpa in concreto che conferma l’orientamento cui aderiamo (cfr. nota n. 3). 5 Scritti nel volume La responsabilità del medico, a cura di L. D’APOLLO, Torino, Giappichelli, 2012. Temi Romana Saggi La differenziazione trattamentale per ragioni di sicurezza e i circuiti penitenziari Iole Falco Commissario di Polizia Penitenziaria N sospensione delle normali regole trattamentali (sostanzialmente identica alla abrogata disciplina di cui all’art. 90 O.P). Il provvedimento ministeriale consente l’adozione di misure in deroga al regime ordinario che comportano la sospensione nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’art. 4 bis O.P. e in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’organizzazione criminale, terroristica o eversiva, dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. Le modifiche apportate dalla Legge 94/2009 rispondendo all’intento di spezzare ogni legame tra il carcere ed il mondo esterno, allo scopo di isolare gli appartenenti ad organizzazioni criminali per indebolire la loro posizione, hanno inciso in modo particolarmente pesante sul contenuto del provvedimento sospensivo delle regole trattamentali delineato nel co. 2 quater dell’art. 41 bis O.P.. Le limitazioni in esso elencate dirette ad incidere con forza sui rapporti esterni (riduzione del numero dei colloqui con i familiari e i difensori, esclusione dei colloqui con terzi, riduzione della corrispondenza telefonica, visto di censura della corrispondenza epistolare) rappresentano, dunque, uno strumento di politica criminale volto a neutralizzare la pericolosità sociale di taluni detenuti e ad indurre scelte di rottura con l’organizzazione di appartenenza. Da quanto sopra detto è palese che le restrizioni prescritte per legge ex art. 4 bis co. 1 O.P., ovvero adottabili in forza di provvedimento ministeriale ex art. 41 bis co. 2 O.P., nei confronti di tale tipologia di detenuti, fuoriescono dalla logica propria delle finalità del trattamento ubbidendo ad una ratio diversa, cioè quella di evitare il permanere dal carcere di collegamenti associativi idonei a rappresentare un concreto rischio per la tutela della collettività, nella particolare prospettiva “dell’ordine e della sicurezza pubblica”. La differenziazione dei regimi detentivi richiede per converso una corrispondente organizzazione degli istituti penitenziari in circuiti. Tale classificazione risponde a due fondamentali esigenze: la ei primi anni ’90 alla recrudescenza della criminalità organizzata e, in particolare, ad alcuni feroci attacchi alle istituzioni lo Stato rispose, in materia penitenziaria, attraverso l’introduzione di un vero e proprio “doppio binario trattamentale”: da un lato, i condannati ordinari nei cui confronti continua ad essere prevalente la finalità specialpreventiva e rieducativa della pena e ai quali, pertanto, è offerto un trattamento penitenziario ed extrapenitenziario funzionale alla risocializzazione; dall’altro lato, i detenuti per i delitti di maggiore allarme sociale, in relazione ai quali appare necessario rafforzare le esigenze di prevenzione generale e di neutralizzazione. Dal 1991 in poi, infatti, per quest’ultima categoria di detenuti, si afferma la necessità di procedere ad un trattamento e ad un regime differenziato, finalizzato a far prevalere le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica su quelle direttamente connesse alla sicurezza interna degli istituti. Tale esigenza di tutela si è fatta strada in due diverse direzioni: da un lato, attraverso l’individuazione di un accesso differenziato ai benefici e alle misure alternative, secondo le previsioni introdotte dall’art. 4 bis O.P. e, dall’altro, attraverso la sospensione in tutto o in parte, per taluni detenuti, delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge penitenziaria, mediante l’introduzione dell’art. 41 bis co. 2 ad opera della Legge 356/92. A questa categoria di detenuti, per i quali vige una presunzione assoluta di pericolosità criminale o sociale, è preclusa o limitata la concessione delle misure alternative alla detenzione (fatta eccezione per la liberazione anticipata), dei permessi premio e del lavoro all’esterno, fruibili solo mediante l’offerta della “collaborazione con la giustizia” qualificata ex art. 58 ter O.P.. Da qui, la necessità, secondo il legislatore, di intervenire non solo nel settore delle misure alternative alla detenzione, ma anche in quello del trattamento penitenziario, restringendo al massimo le opportunità di contatto dei detenuti ex art. 4 bis O.P. con l’esterno. Per soddisfare tale esigenza, il legislatore, con legge 356/92, ha introdotto nell’art. 41 bis un 2° comma relativo ad un’ipotesi particolare di Temi Romana 9 Saggi ficati A.S. che tiene conto dell’evoluzione del fenomeno criminale mafioso e delle corrispondenti scelte istituzionali di prevenzione e di contrasto (Circ. n. 20 del 9.1.2007). La circolare in parola prevede l’inserimento nel circuito penitenziario A.S. per le seguenti tipologie di detenuti: a) imputati o condannati per i delitti previsti dal primo comma, primo periodo dell’art. 4 bis O.P. (ad eccezione di quanti siano detenuti per delitti commessi per finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, ovvero per coloro che provengano dal circuito 41 bis O.P., per i quali permane la classificazione come E.I.V.); b) soggetti cui sia stata contestata l’aggravante specifica di cui all’art. 7 legge n. 203/91 rappresentata dall’essersi avvalsi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero dall’avere agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose in esso indicate, i quali – a differenza di quanto disposto in passato – rientrano a pieno titolo, da un punto di vista sia normativo che funzionale, nell’ambito descritto dall’art. 4 bis O.P.; c) soggetti detenuti per altri fatti cui sia stato contestato a piede libero uno o più reati previsti dall’art. 4 bis O.P., ovvero nei cui confronti sia venuta meno l’ordinanza di custodia cautelare e soggetti imputati dei delitti previsti dall’art. 4 bis O.P. ma per tali reati scarcerati solo formalmente per decorrenza dei termini di custodia cautelare; d) soggetti imputati o condannati per fatti non previsti dall’articolo 4 bis né interessati dall’aggravante di cui all’art. 7 legge 203/91. Successivamente, con la Circolare n. 3619/6069 del 21.4.2009 l’Amministrazione Penitenziaria, per una più razionale gestione dei detenuti, a vario titolo ritenuti omogenei per l’elevata pericolosità, ha provveduto ad una rivisitazione dell’attuale assetto attraverso l’eliminazione del circuito E.I.V. e la conseguente adozione di un Nuovo circuito per detenuti Alta Sicurezza, destinato ai detenuti e internati appartenenti ad organizzazioni criminali, siano esse di tipo mafioso o terroristico. La ratio del nuovo circuito A.S. rimane quella di operare una separazione, all’interno degli istituti penitenziari, tra i detenuti comuni e quelli appartenenti a consorterie di tipo mafioso o terroristico, in modo da evitare ed impedire il verificarsi di fenomeni di assoggettamento, di reclutamento criminale o di strumentalizzazione a fini di turbamento della sicurezza degli istituti. Pertanto, il nuovo circuito A.S. continua a svolgere il delicato compito di gestire i detenuti ed internati di spiccata pericolosità, prevedendo al proprio inter- prima è, senza dubbio, quella di suddividere la popolazione detenuta in categorie omogenee, al fine di consentire una migliore applicazione del principio di individualizzazione del trattamento, atteso che tale diversificazione offre la possibilità di svolgere, in maniera più adeguata, l’osservazione scientifica della personalità, poiché essa viene in tal modo effettuata su persone con delle affinità, dal punto di vista del percorso criminale. L’altra esigenza, connessa alla sicurezza, è quella di fondare la separazione dei detenuti sulla scorta della loro tipologia, al fine di evitare influenze reciproche. L’attuale assetto normativo relativo all’allocazione dei detenuti, in ragione della pericolosità penitenziaria o criminale da essi manifestata, ha subito, nel corso degli anni, una profonda rivisitazione. La nozione di “circuiti penitenziari” venne introdotta per la prima volta nel 1993 con la Circolare DAP n. 3359/5809 del 21 aprile 1993 e ss. mm. e ii. del 6 giugno 1993 con la quale si distinse tra: 1. circuito penitenziario di primo livello, destinato alla c.d. Alta Sicurezza (A.S.), cioè ai detenuti più pericolosi, imputati o condannati per i delitti di cui agli artt. 416 bis c.p. (associazione di stampo mafioso), 630 c.p. (sequestro di persona a scopo di estorsione) e 74 T.U. 309/90 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope). La rigorosa separazione di tali soggetti dalla restante parte della popolazione detenuta trova ragione nella caratteristica ad essi comune di essere esclusi dalle misure alternative e dai benefici penitenziari ex art. 4 bis O.P. e, contestualmente, nella pericolosità degli stessi connessa al tipo di reato ed alla capacità di proselitismo e sopraffazione. 2. circuito penitenziario di secondo livello destinato ai detenuti c.d. di Media Sicurezza (M.S.), cioè a coloro che non rientrano né nel circuito A.S., né in quello a custodia attenuata ossia alla maggioranza della popolazione detenuta. 3. circuito penitenziario di terzo livello, ossia di Custodia Attenuata (C.A.) destinato alla popolazione detenuta tossicodipendente con bassa pericolosità considerata più facilmente recuperabile. Nel 1998 una nuova Circolare DAP n. 3479/5929 introdusse un quarto livello, vale a dire il circuito ad Elevato Indice di Vigilanza (E.I.V.) destinato a quei detenuti che, non avendo titolo di reato per essere inseriti nel circuito A.S. e non essendo in alcun modo collegabili con la criminalità organizzata, presentino, tuttavia, una pericolosità talmente spiccata da far risultare inopportuno il loro inserimento nel circuito di media sicurezza. Nel 2007 il DAP ha emanato una nuova circolare in materia di assegnazione e gestione dei detenuti classi10 Temi Romana Saggi tori nelle fattispecie di cui all’art. 74 D.P.R. 309/90 e 291 quater D.P.R. 43/73. Invece, per quanto riguarda coloro che hanno rivestito ruoli marginali nell’ambito delle suddette fattispecie di reato, non è ritenuto più coerente con le finalità del circuito alta sicurezza continuare a mantenerli nel suddetto sottocircuito A.S.3, ma si prevede espressamente la destinazione di tali soggetti al circuito di media sicurezza, seguendo la procedura prevista dalla suddetta circolare in tema di declassificazione. Come emerge dalla disamina delle circolari innanzi citate, le modalità custodiali, definite in conseguenza dell’istituzione dei circuiti penitenziari, sono state modellate sulle esigenze dell’alta sicurezza, le cui norme di assegnazione e di gestione sono state più volte analiticamente dettagliate, mentre nessuna norma specifica sulle modalità di gestione è stata invece dettata sul c.d. circuito di media sicurezza, sin dalla sua introduzione avvenuta nel 1993. Su tale presupposto l’Amministrazione è da ultimo intervenuta emanando la recente Circolare DAP n. 0206745 del 30 maggio 2012 che, sviluppando il percorso già intrapreso dalla precedente Circolare del 25 novembre 2011 ha disposto la creazione di circuiti regionali ex art. 115 D.P.R. 230/2000, in cui la media sicurezza si caratterizzi per un regime detentivo che preveda modalità custodiali meno rigide e un progressivo aumento ed ampliamento degli spazi e del tempo utilizzabili dai detenuti, per lo svolgimento di attività trattamentali, destinando ove possibile un istituto o un’intera sezione di questo totalmente a “regime aperto”. Si tratta dunque di un “altro” modo di fare sorveglianza che sposta l’ago della bilancia dal controllo fisico ed asfissiante del soggetto ristretto ad una sorveglianza c.d. “dinamica” che cioè pone alla base della sua funzionalità non solo l’aspetto giuridico-delinquenziale ma, innanzitutto, la “conoscenza” della persona detenuta, con riferimento alla sua personalità e specificità caratteriale e di relazione. no, tre differenti sottocircuiti, con medesime garanzie di sicurezza ed opportunità trattamentali, cui sono dedicate sezioni differenti, nelle quali vengono contenute altrettante tipologie di detenuti, tra le quali non vi è possibilità di comunicazione. I primi due sottocircuiti (A.S.1 ed A.S.2) sono dedicati ai detenuti di elevata pericolosità provenienti dal vecchio circuito E.I.V., il terzo (A.S.3) è dedicato ai detenuti già destinati all’Alta Sicurezza. In particolare: - nel sottocircuito A.S.1 sono inseriti i detenuti e gli internati appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso, nei cui confronti sia venuto meno il decreto di applicazione del regime di cui all’art. 41 bis O.P.. L’inserimento in tale sottocircuito è ovviamente giustificato dall’essere detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del primo comma dell’art. 4 bis O.P. e, comunque, per essere stati considerati elementi di spicco e rilevanti punti di riferimento delle organizzazioni criminali di provenienza. L’Amministrazione ritiene, dunque, opportuno che tali soggetti, che hanno rivestito ruoli di primaria importanza nelle organizzazioni criminali, vengano ristretti separatamente dagli altri, ugualmente appartenenti ad organizzazioni criminali, ma con ruoli di minore rilievo, in modo da evitare influenze nocive reciproche, anche in relazione alle possibili attività di proselitismo, ed impedire, infine, sopraffazioni dovute alla differenza di spessore criminale; - nel sottocircuito A.S.2 sono inseriti automaticamente i soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, mediante il compimento di atti di violenza; - nel sottocircuito A.S.3 è inserita, infine, la popolazione detenuta ai sensi della cit. circolare n. 20 del 9.1.2007 nonché coloro che hanno rivestito ruoli di capi, promotori, dirigenti, organizzatori e finanzia- Temi Romana 11 Saggi La truffa aggravata: profili processuali, giurisprudenziali e rapporto con reati aventi struttura analoga Roberta Mencarelli Avvocato del Foro di Roma L a truffa è uno dei reati maggiormente denunciati dalle Forze di Polizia all’Autorità Giudiziaria che ne hanno rilevato un aumento esponenziale negli ultimi vent’anni: su 100.000 abitanti si è infatti passati dalle 62 truffe del 1992 alle 159 del 2010 senza contare che, secondo gli ultimi aggiornamenti Istat, le truffe sono aumentate dal 2000 del 113,4% solo nel Mezzogiorno1. La truffa, già rilevante da un punto di vista quantitativo, assume rilevanza qualitativa per la molteplicità degli aspetti giuridici, sostanziali e processuali, che si prospettano all’attenzione dei soggetti del processo penale quando si configura come truffa aggravata di cui all’art. 640 cpv e 640 bis codice penale. dotato dei poteri d’imperio della p.a. stante il riferimento della circostanza aggravante agli enti pubblici in genere senza distinzione alcuna tra enti pubblici economici ed altri enti pubblici, ad esclusione degli enti originariamente pubblici ma successivamente privatizzati come Enel, Eni, Telecom. Enti pubblici sono anche le Aziende speciali istituite dai Comuni per la gestione dei servizi pubblici costituite in particolare per la gestione di servizi pubblici economici ai sensi degli artt. 22 e 23 L. n. 142/1990. Sulla nozione di ente pubblico sono recentemente intervenute anche le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 6773 del 12.2.2014 le quali hanno ulteriormente chiarito che “Ai fini della sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 640, comma secondo, n 1, cod. pen. può parlarsi di natura pubblicistica dell’ente concessionario se si accerta che l’affidamento da parte di un ente pubblico ad un soggetto esterno, da esso controllato, della gestione di un servizio pubblico, integra una relazione incentrata sull’inserimento del soggetto medesimo nell’organizzazione funzionale dell’ente pubblico, in modo che la società concessionaria si configuri come organo indiretto della p.a.. Ne consegue che, atteso il rapporto strumentale tra enti, non potrebbe parlarsi di danno all’ente partecipante quale mero effetto riflesso della partecipazione societaria”. Non è invece configurabile l’aggravante in parola con riferimento ad una società per azioni incaricata della gestione dei servizi comunali in quanto la natura eventualmente pubblica del servizio prestato assume rilievo esclusivamente ai fini della qualifica dei soggetti agenti secondo la concezione funzionale oggettiva accolta dagli artt. 357 e 358 c.p.4 ma non rileva ai fini della natura pubblicistica dell’ente. La seconda aggravante di cui al n.1 ricorre qualora il fatto sia commesso «con il pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare». Art. 640 cpv n. 1 c.p. Il capoverso dell’art. 640 c.p. ai numeri 1), 2) e 2 bis) prevede e disciplina tre circostanze aggravanti c.d. oggettive che determinano un aumento della pena base che passa da uno a cinque anni di reclusione e multa da 309 euro a 1.549 euro. Si parla di circostanze aggravanti oggettive poiché si tratta di circostanze che riguardano o le modalità dell’azione o le qualità del soggetto passivo. La prima circostanza aggravante di cui al n. 1 ricorre «se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico» (c.d. truffa in danno dello Stato) ed è un’aggravante ad effetto speciale in quanto la legge determina la misura della pena entro una nuova cornice edittale in modo indipendente da quella ordinaria del reato2. Tale aggravante è stata concepita dal Legislatore nell’ottica di apprestare una tutela rafforzata al patrimonio della p.a. e presuppone che lo Stato (o l’ente pubblico3) assuma le vesti del soggetto direttamente danneggiato dal fatto costituente reato a nulla rilevando, invece, il destinatario diretto della condotta d’inganno. Si deve precisare che nella nozione di ente pubblico rientra anche l’ente pubblico economico anche se non 12 Temi Romana Saggi In merito, è necessario specificare che deve trattarsi di un mero pretesto e che l’agente non deve aver fatto nulla per ottenere l’esonero, totale o temporaneo, altrimenti troverà applicazione la normativa speciale sugli illegittimi esoneri dal servizio militare o, in caso di accordo col pubblico ufficiale, si configurerà il delitto di corruzione. Tale aggravante sussiste anche nell’ipotesi in cui il soggetto passivo aveva diritto all’esonero essendo sufficiente che l’agente dissimuli il suo vero proposito facendo falsamente credere di potersi efficacemente adoperare per far conseguire alla vittima l’esonero sperato anche se questi ignori di avervi diritto per le sue condizioni fisiche o familiari o per altro motivo. L’aggravante non trova invece applicazione nel caso in cui il raggiro sia stato posto in essere dall’agente dopo l’esonero del soggetto passivo dal servizio militare. Ciò posto, si deve tuttavia osservare che, la circostanza de qua, da sempre caratterizzatasi per la sua scarsa applicazione, è divenuta addirittura anacronistica nel momento in cui è venuto meno l’obbligo della leva militare ai sensi dell’art. 7 D.Lgs. 8.5.2001 n. 215 e si potrebbe considerare attuale soltanto nel caso in cui si ritenga che l’esonero riguardi anche un servizio volontario e, quindi, il caso di fine anticipata della ferma volontaria. reato di estorsione. Quanto alla prima aggravante, si osserva che il criterio distintivo tra il reato di truffa commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario e il reato di estorsione va individuato, così come pacificamente ammesso in giurisprudenza5, nel diverso atteggiamento psicologico dei soggetti passivi nel sottomettersi all’ingiusto danno. Ed infatti, mentre il reato di truffa sussiste se il male minacciato viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, con la conseguenza che la persona offesa si determina perché tratta in errore dall’esposizione di un pericolo inesistente, il delitto di estorsione si ha quando il colpevole incute da solo o con altri il timore di un pericolo che fa apparire certo e proveniente da lui stesso o da altra persona a lui legata da un qualunque rapporto, di tal ché la persona offesa viene posta di fronte all’alternativa di adempiere all’illecita richiesta o di subire il male minacciato. In merito invece alla distinzione tra la seconda aggravante di cui all’art. 640 c. 2 n. 2) c.p. e l’estorsione, si rileva che, a differenza dell’estorsione, nella circostanza aggravante in oggetto, l’ordine dell’Autorità non è prospettato come dipendente dalla volontà o dal fatto dell’agente, con la conseguenza che rimane in capo al soggetto passivo l’illusione di agire liberamente pur se la sua conoscenza è in realtà viziata dall’errore nel quale è stato indotto. Lo stesso criterio varrà a distinguere la truffa aggravata dalla concussione nel caso in cui l’agente sia un pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio. Art. 640 cpv n. 2 c.p. Il numero 2 del comma 2 dell’art. 640 c.p., a sua volta, prevede due distinte circostanze aggravanti. La prima ricorre nei casi in cui «il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario». Posto che per pericolo immaginario deve intendersi tutto ciò che è effetto dell’immaginazione ed esiste solo in essa senza alcun fondamento della realtà, si ritiene che la ratio dell’aggravante in oggetto risieda nella natura particolarmente insidiosa de facto di chi fa percepire all’offeso un timore di un pericolo che non sussiste specie perché il più delle volte costui versa in una situazione psicologica più debole rispetto all’agente. La seconda aggravante ricorre nei casi in cui «il fatto sia commesso ingenerando nella persona offesa l’erroneo convincimento di dover eseguire un ordine dell’Autorità». Tanto con riferimento alla prima che alla seconda si pone la necessità di operare una distinzione rispetto al Temi Romana Art. 640 n. 2 bis c.p. Infine, il numero 2 bis, introdotto con l’art. 3, 28° co., L. 15.7.2009, n. 94, ha previsto l’aggravante comune della c.d. minorata difesa, ossia l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo e di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata difesa (art. 61, n. 5 c.p.). Trattasi di un’aggravante speciale e ad effetto speciale del delitto di truffa che determina un inasprimento della risposta sanzionatoria anche dal punto di vista della applicabilità della disciplina dettata dall’art. 63, c. 3 e 4 in caso di concorso di circostanze. Ed infatti l’art. 63 c. 3 c.p. prevede che “Quando per 13 Saggi della politica economica comunitaria e nazionale, al fine non soltanto di adempiere agli impegni che gli derivavano dai trattati europei (articoli 5 e 280 del Trattato di Roma, così come modificato dal Trattato di Amsterdam), ma anche per rispondere alle pressioni dei partners comunitari, preoccupati del dilagare di tali tipi di frodi e del coinvolgimento crescente in questa pratica della criminalità organizzata. Tuttavia, tale fattispecie ha visto sollevarsi un acceso dibattito in merito alla sua natura fin dalla sua introduzione. Ci si chiedeva cioè se la stessa configurasse una circostanza aggravante della truffa o fosse al contrario una fattispecie autonoma di reato. Il dibattito ha visto l’intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte attesa la notevole rilevanza pratica della questione. Ed infatti, configurare in termini di reato autonomo o di circostanza aggravante la fattispecie dell’art. 640 bis c.p. rileva in ordine alla esperibilità o meno del giudizio di bilanciamento delle circostanze che, ai sensi dell’art. 69 c.p., può essere effettuato in caso di concorso tra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti ed influisce così sulla determinazione della pena. La distinzione assume rilievo, seppure meno importante, anche agli effetti del concorso di persone nel reato, applicandosi gli artt. 116 e 117 ovvero l’art. 118 c.p., a seconda che si adotti l’una o l’altra opzione. Molteplici erano gli elementi che la dottrina richiamava a sostegno dell’una e dell’altra tesi7. In favore della configurabilità della fattispecie de qua quale circostanza aggravante militavano due elementi: la rubrica dell’articolo 640 bis c.p. (“truffa aggravata…”) e il richiamo esplicito operato dallo stesso articolo al fatto descritto dall’art. 640 c.p.. Secondo questa impostazione, pertanto, la truffa aggravata sarebbe costituita dagli stessi elementi della truffa (identità della struttura della condotta e dell’evento), fatta salva la specialità inerente all’oggetto della frode che consiste in «contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazione dello stesso tipo». A favore invece della configurabilità in termini di fattispecie autonoma di reato venivano addotti i seguenti elementi: - la collocazione della presunta circostanza fuori dal luogo “naturale” della aggravanti di truffa che è, come sopra illustrato, il capoverso dell’art. 640 c.p.; una circostanza la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o si tratta di circostanza ad effetto speciale, l’aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta. Sono circostanze ad effetto speciale quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo”. Ed il c. 4 “Se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può aumentarla”. La ratio di tale scelta normativa è da cogliere nella volontà legislativa di rafforzare la tutela dei soggetti più deboli stante anche e soprattutto il gran numero di truffe perpetrate a danno di soggetti anziani. Art. 640 bis c.p. L’art. 640 bis c.p. rubricato “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” prevede che «la pena è della reclusione da uno a sei anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’articolo 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee». Tale norma è stata inserita dall’art. 22 della Legge 19 marzo 1990, n. 55 (“Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale”) per rispondere alla diffusa preoccupazione, segnalata in ambienti giudiziari e accademici, circa l’insufficienza delle fattispecie incriminatrici comuni (mendacio bancario ex art. 95 l. n. 141/1938, falso in bilancio, ricorso abusivo al credito ex art. 218 l. fall. e la truffa di cui all’art. 640 c.p.) di far fronte all’ampliarsi del fenomeno della captazione fraudolenta di sovvenzioni pubbliche, nazionali e comunitarie6. E sempre nella stessa ottica, il Legislatore ha introdotto con la Legge 26 aprile 1990, n. 86 anche la malversazione ai danni dello Stato (art. 316 bis c.p.). In tal modo il nostro Legislatore del 1990 ha voluto offrire una tutela penale agli interessi finanziari dello Stato e della Comunità Europea incriminando sia la fraudolenta captazione sia la indebita utilizzazione delle sovvenzioni e dei contributi erogati, in attuazione 14 Temi Romana Saggi - l’autonomia assoluta dell’entità della sanzione rispetto a quelle previste anche per le ipotesi aggravate; - l’inutile (nel caso fosse, appunto, una circostanza aggravante) previsione esplicita della procedibilità d’ufficio, sulla base del contenuto dell’ultimo comma dell’art. 640 c.p.; - l’inconciliabilità con la lettera dell’art. 6 D.L. n. 152/1991 secondo cui, se il fatto è commesso da soggetto sottoposto a misura di prevenzione, la pena «per il reato di cui all’art. 640 bis c.p.» è aggravata (è discutibile che si possa configurare l’aggravante di un’aggravante). Anche la giurisprudenza non era univoca. Prima della pronuncia con cui le Sezioni Unite hanno risolto il dibattito infatti, nelle diverse Sezioni della Corte di Cassazione si era consolidato un indirizzo giurisprudenziale maggioritario (Cassazione Sezione II n. 11582/1998; n. 11077/2000; n. 2286/1999; n. 4240/1999) che riteneva la truffa relativa ad erogazioni pubbliche fattispecie autonoma di reato8, mentre minoritaria (Cass. Sez. II n. 4731/2000) risultava l’opzione giurisprudenziale che configurava la nuova fattispecie come circostanza aggravante9. Sicché, con sentenza del 10 luglio 2002, n. 26351 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il dibattito veniva definitivamente risolto con il riconoscimento della natura di circostanza aggravante della fattispecie prevista dall’art. 640 bis c.p.. Nella citata sentenza, le Sezione Unite hanno individuato, nel criterio strutturale della descrizione del precetto penale, il criterio da seguire per accertare la volontà legislativa in ordine alla qualificazione circostanziale o costitutiva della fattispecie di cui all’art. 640 bis c.p. «Nel caso dell’art. 640 bis la fattispecie è descritta attraverso il rinvio al fatto-reato previsto nell’art. 640, seppure con l’integrazione di un oggetto materiale specifico della condotta truffaldina e della disposizione patrimoniale (le erogazioni da parte dello Stato, delle Comunità europee o di altri enti pubblici).Una siffatta struttura della norma incriminatrice indica la volontà di configurare soltanto una circostanza aggravante del delitto di truffa. […] È proprio la struttura della fattispecie penale di cui all’art. 640 bis, definita da un lato attraverso il richiamo degli elementi essenziali del delitto di truffa di cui all’art. 640 (artifici o raggiri, induzione in errore con conseguente Temi Romana disposizione patrimoniale, ingiusto profitto per l’agente o per altri, danno del soggetto passivo) e dall’altro con l’introduzione di un elemento specifico (erogazioni pubbliche) che è estraneo alla struttura essenziale della truffa, a denotare la inequivoca volontà legislativa di configurare una circostanza aggravante e non un diverso titolo di reato. La descrizione della fattispecie, insomma, non immuta gli elementi essenziali del delitto di truffa, né quelli materiali né quelli psicologici, ma introduce soltanto un oggetto materiale specifico – tradizionalmente qualificato come accidentale e cioè circostanziale – laddove prevede che la condotta truffaldina dell’agente e la disposizione patrimoniale dell’ente pubblico riguardino contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo. Tra reato-base e reato circostanziato intercorre quindi un rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o per aggiunta, nel senso che il secondo include tutti gli elementi essenziali del primo con la specificazione o l’aggiunta di elementi circostanziali». In definitiva, con la pronuncia in esame le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità (a favore del riconoscimento della natura circostanziale della fattispecie in oggetto) mettendo l’accento sul c.d. oggetto materiale specifico della fattispecie descritta dall’articolo 640 bis c.p.: «contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo»10, pur sempre tenendo fermi i requisiti strutturali di cui all’art. 640 c.p.. Si deve tuttavia osservare che la soluzione prospettata dalla Suprema Corte a favore della natura di circostanza aggravante della fattispecie, si discosta dalle intenzioni originarie del Legislatore dell’art. 640 bis c.p. che ha inserito la figura criminosa de qua nell’ambito di un contesto normativo (la Legge 19 marzo 1990, n. 55) diretto a contrastare la delinquenza mafiosa e altre gravi forme di pericolosità sociale allo scopo di colpire più efficacemente un fenomeno delittuoso spesso, anche se non esclusivamente, legato alla criminalità organizzata. Ed invero, considerare la fattispecie di cui all’articolo 640 bis c.p. come circostanza aggravante, con la conseguente applicazione del bilanciamento delle circostanze eterogenee (quindi, anche circostanze attenuanti generiche), rende di fatto vano l’intento originario del Legislatore di potenziare la risposta sanzionatoria nei casi di truffa aventi ad oggetto «contributi, finanzia- 15 Saggi menti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee». dello Stato. Trattasi infatti di una fattispecie criminosa che, introdotta dalla Legge 26 aprile 1990, n. 86 a distanza di pochissimo tempo dalla previsione di cui all’art. 640 bis c.p., aveva lo specifico scopo di fornire copertura penale a tutte quelle condotte che, interessando la fase successiva alla indebita percezione del denaro pubblico, sarebbero rimaste fuori dal raggio di operatività del reato di truffa. Una questione peculiare è poi rappresentata dai rapporti tra la truffa aggravata e la fattispecie di cui all’art. 2 Legge 23 dicembre 1986, n. 898, che punisce l’indebito conseguimento di sovvenzioni da parte del Fondo Europeo per l’Agricoltura. Sul punto, carattere decisivo ha assunto l’art. 73, Legge 19 febbraio 1992, n. 142 che ha apportato un’importante modifica alla predetta fattispecie consistente nell’aggiunta dell’inciso «ove il fatto non configuri il più grave reato previsto dall’art. 640 bis c.p.». Grazie a tale modifica infatti, il reato di cui all’art. 2 L. 898/86 ha assunto carattere sussidiario rispetto al reato di truffa aggravata che si configurerà solamente in quelle ipotesi in cui al mendace comportamento o ad una qualsiasi alterazione della realtà da parte dell’agente nello svolgimento di attività finalizzate al conseguimento delle indennità si associa un quid pluris costituito da particolari accorgimenti o speciali astuzie capaci di elidere le comuni e normali possibilità di controllo degli organi amministrativi preposti, tali da integrare l’elemento oggettivo della truffa ovvero l’artifizio o il raggiro. A tal proposito, si deve infatti considerare che, tutelando il reato di frode comunitaria un grado inferiore del medesimo interesse tutelato dalla norma portante, quest’ultima assorbe in sé l’oggetto giuridico della norma sussidiaria. In tal senso numerose sono le conferme giurisprudenziali: Cass. Sez. II n. 7280 del 24.7.1997 secondo cui “l’indebito conseguimento di contributi comunitari mediante la mera esposizione di dati e notizie falsi è sanzionabile dall’art. 2 L. 898/86 allorché il soggetto si sia limitato semplicemente ad una esposizione menzognera di dati e notizie e non quando alle false dichiarazioni si accompagnino diversi ed ulteriori artifizi e raggiri che integrano invece la truffa aggravata” e ancora Cass. n. 4569/1998 e n. 11076/1999 “Ricorrre il reato di truffa aggravata quando le condotte relative Rapporto tra truffa aggravata e artt. 316 bis, 316 ter e art. 2 L. 898/86 Risolta in termini di circostanza aggravante la querelle sulla natura giuridica dell’art. 640 bis c.p., problemi si sono posti con riferimento alle molteplici interferenze tra il delitto di truffa aggravata (art. 640 cpv c.p. e 640 bis c.p.) e gli altri reati aventi struttura analoga come l’indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316 ter c.p.), la malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis c.p.) e l’indebito conseguimento di sovvenzioni da parte del Fondo europeo per l’agricoltura (art. 2 L. 898/96). Con riferimento al rapporto con il reato di cui all’art. 316 ter c.p. (“indebita percezione di erogazioni pubbliche”), si trattava di stabilire se gli artifici o raggiri tipicamente necessari per l’integrazione del reato di truffa ricomprendessero, o meno, le condotte di omissione o falsa dichiarazione descritte dall’art. 316 ter c.p. e, conseguentemente, di inquadrare il ruolo che tale ultima norma rivestiva all’interno dell’ordinamento penalistico in relazione alla più severa previsione di cui all’art. 640 bis. Si deve, altresì, considerare che il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche può configurarsi, a differenza di quello di cui all’art. 640 bis c.p., anche in difetto di un’induzione in errore da parte dell’agente, ossia in quelle ipotesi in cui l’erogazione non dipenda da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’erogatore che si rappresenta unicamente l’esistenza della formale dichiarazione del richiedente. Secondo giurisprudenza consolidata ed oggi determinante (Sezioni Unite del 19 aprile 2007 n. 16568), detto rapporto deve intendersi in termini di sussidiarietà e non di specialità, con la conseguenza che il residuale e meno grave delitto disciplinato dall’art. 316 ter c.p. si configurerebbe solo quando difettino gli estremi della truffa. Di tal ché, alla luce di tale orientamento, l’ambito di operatività dell’indebita percezione di erogazioni pubbliche rimarrebbe circoscritta a situazione del tutto marginali. Sempre in termini di sussidiarietà è da considerare il rapporto tra la truffa aggravata e il reato di cui all’art. 316 bis c.p., ossia il reato di malversazione a danno 16 Temi Romana Saggi ne (o assorbimento) per il quale è sufficiente l’unità normativa del fatto (desumibile dall’omogeneità tra i fini dei due precetti) ai fini dell’assorbimento dell’ipotesi meno grave in quella più grave, escludeva che tra le due fattispecie criminose operi il principio di specialità. Un terzo orientamento, poi, sempre escludendo un rapporto di specialità tra i reati in questione, ammetteva il concorso tra loro in considerazione della eterogeneità delle fattispecie sia rispetto al bene giuridico tutelato che rispetto alle modalità di consumazione, non occorrendo per la frode fiscale l’induzione in errore della amministrazione finanziaria né l’ingiusto profitto, che sono invece elementi costitutivi della truffa. Questo terzo orientamento consentiva nella prassi di applicare il sequestro preventivo per equivalente tanto nei confronti delle persone sottoposte ad indagini in forza dell’art. 640 c.p. quanto nei confronti degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato ai sensi degli artt. 24 e 53 del D.Lgs. n. 231/2001. L’esistenza, infatti, di un disallineamento normativo (venuto meno in forza della Legge Finanziaria 2008 che ha esteso ai reati tributari l’applicabilità della confisca per equivalente) precludeva l’attivazione di questa misura reale rispetto alle fattispecie rientranti nel D.Lgs. n. 74/2000 e, conseguentemente, alimentava l’orientamento volto a sostenere la compatibilità tra le violazioni di frode fiscale e truffa ai danni dello Stato. Ad oggi, comunque, si deve rilevare che le disposizioni in materia penale tributaria non costituiscono reato-presupposto per la responsabilità amministrativa degli enti. Risolutive sono state ancora una volta le Sezioni Unite della Cassazione che con la sentenza del 28 ottobre 2010 n. 1235 hanno così argomentato: «il raffronto fra le fattispecie astratte evidenzia che la frode fiscale è connotata da uno specifico artifizio, costituito da fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Una volta chiarito che la condotta di cui alla frode fiscale è una specie del genere “artifizio”, non si può far leva, per affermare la diversità dei fatti, sugli elementi danno e profitto, giacché questi dati fattuali di evento non possono trasformare una tale situazione di identità ontologica dell’azione in totale diversità del fatto. […] sia l’induzione in errore che il danno sono presenti nella condotta incriminata dal reato di frode fiscale, posto che alla presentazione di una dichiarazione non veridica si accompagna normalmente il versamento di un minor (o di nessun) tributo e genera, alla semplice esposizione di dati e notizie false sono congiunte a malizie ulteriori quali simulazione di compravendita, trasporti inesistenti con relative bolle di accompagnamento e fatture che attengono ad operazioni commerciali inesistenti dirette all’induzione in errore del soggetto passivo onde conseguire indebitamente aiuti comunitari”. Alla luce di quanto illustrato, pertanto, posto che in alcun modo può ammettersi la configurabilità di un concorso tra la truffa aggravata e i reati che, come visto, hanno, rispetto a quest’ultima, natura sussidiaria e residuale, si parlerà in questi casi di concorso apparente di norme in quanto il confluire di più norme incriminatrici nei confronti di un medesimo fatto non è reale con la conseguenza che, in luogo di configurarsi un concorso di reati, si ha unicità di reato essendo una sola la norma incriminatrice veramente applicabile all’ipotesi di specie. Rapporto tra truffa aggravata e frode fiscale Ha suscitato un vivo interesse in giurisprudenza anche il tema del concorso della truffa aggravata con la frode fiscale. Sul rapporto tra l’art. 640 bis c.p. e la frode fiscale, è intervenuta la Corte di Cassazione dapprima con la sentenza n. 34546/2009 successivamente confermata dalla sent. Sezione Unite n. 1235/2010 la quale ha sancito che “il delitto di frode fiscale può concorrere attesa l’evidente diversità del bene giuridico protetto con quello di truffa comunitaria purché allo specifico dolo di evasione si affianchi una distinta ed autonoma finalità extratributaria non perseguita dall’agente in via esclusiva”. Rilevante è stato il contrasto giurisprudenziale, risolto sempre con la pronuncia a Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (sentenza 28 ottobre 2010, n. 1235), sulla questione concernente la configurabilità o meno di un concorso tra i reati di frode fiscale (artt. 2 e 8 del D.Lgs. n. 74/2000) e di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, co. 2, n.1, c.p.). In merito, un primo orientamento riconosceva un rapporto di specialità tra la truffa aggravata e i reati di frode fiscale (artt. 2 e 8 D.Lgs. n. 74/2000) e concludeva nel senso che l’unica fattispecie che può formare oggetto di contestazione è quella prevista dalla disciplina tributaria. Un secondo orientamento giurisprudenziale, invece, facendo leva sull’operatività del principio di consunzio- Temi Romana 17 Saggi all’art. 640, co. 2, n. 1 c.p. e agli artt. 2 e 8 del D.Lgs. n. 74/2000. L’unico margine riconosciuto al concorso formale di reati è circoscritto all’ipotesi in cui accanto alla finalità tributaria si ponga, nella condotta dell’agente, una finalità extratributaria preordinata al conseguimento di contributi od altre sovvenzioni pubbliche: in questo caso l’alterità dei fini giustifica una sovrapposizione di imputazioni altrimenti inammissibile. Sul punto, di recente, la Corte di Cassazione, III Sez. Penale, con sentenza del 15 gennaio 2013 n. 10580, ha ulteriormente specificato che «il discrimen tra concorso apparente di norme e concorso di reati non è da ravvisarsi nella tipologia di artifizi e raggiri posti in essere dagli indagati, bensì nel tipo di profitto che, all’agente, la condotta criminosa apporta». Profitto che, ai fini della configurabilità di un concorso di reati, deve essere comprensivo dell’evasione fiscale ma contemporaneamente ulteriore rispetto a quest’ultima (profitto extratributario). in prima battuta e nella fase di liquidazione della dichiarazione, un’induzione in errore dell’Amministrazione finanziaria e un danno immediato quanto meno nel senso del ritardo nella percezione delle entrate tributarie […]. Il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali», dichiarando, infine, il seguente principio di diritto: «i reati in materia fiscale di cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articoli 2 e 8, sono speciali rispetto al delitto di truffa aggravata a danno dello Stato di cui all’articolo 640 c.p., comma 2, n. 1». Le Sezioni Unite, quindi, hanno fatto ricorso al principio di specialità, a discapito di quello di consunzione, quale direttrice per dirimere la questione relativa al concorso apparente delle norme incriminatrici di cui _________________ 1 ISTAT, Rapporto annuale 2012 – La situazione del Paese, pag. 151. in I delitti contro il patrimonio, Torino, Utet Giuridica, 2011, Parte Vol. X, p. 593. 2 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto Penale, Padova, CEDAM, 2011, p. 407. 7 ARIOLLI, La truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche è aggravante dell’art. 640 c.p., in Cass. Pen., 2002, p. 3378; BARTOLI, Truffa aggravata per conseguire erogazioni pubbliche: una fattispecie davvero circostanziale?, in Dir. Pen. Proc., 2003, p. 302 e ss., FABBRO, Truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche: davvero una circostanza aggravante?, in Cass. Penn., 2003, p. 2322; Terracina, La truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche ed il ruolo del bene giuridico nelle fattispecie di reato, in Indice Pen., 2003, p. 667 e ss. 3 Per ente pubblico deve intendersi, inoltre, l’ente pubblico economico, anche se non dotato dei poteri di imperio propri dell’attività della p.a., purché non si tratti di enti – originariamente pubblici ma successivamente – privatizzati, come Enel, Eni, Telecom, ecc.. Sono, invece, da considerarsi enti pubblici le Aziende speciali comunali costituite per la gestione di servizi pubblici economici ai sensi degli artt. 22 e 23 L. n. 142/1990. 4 Cass. Sez. VI 5 febbraio-25 febbraio 2009 n. 8392. 5 Cass. Sez. II 16 febbraio 1995 – 22 maggio 1995 n. 5845, Cass. Sez. VI 12 dicembre 1995 – 9 febbraio 1996 n. 4823, Cass. Sez. II 6 maggio 2008 – 28 maggio 2008 n. 21537. 6 Cfr. A. CADOPPI, S. CANESTRARI, A. MANNA, M. PAPA, Trattato di diritto penale, 8 Corte di Cassazione, II Sez. Penale, sentenza del 9 novembre 1998, n. 11582: «l’art. 640 bis c.p., al di là della non vincolante terminologia usata nella rubrica configura un’ipotesi autonoma di reato rispetto alla truffa contemplata dall’art. 640 c.p.»; Corte di Cassazione, II Sez. Penale, sentenza del 27 ottobre 2000, n. 11077: «l’art. 640 bis c.p. prevede una figura autonoma di reato e non una circostanza 18 aggravante del delitto di truffa di cui all’art. 640 c.p.»; Corte di Cassazione, I Sez. Penale, sentenza del 12 maggio 1999, n. 2286; Corte di Cassazione, I Sez. Penale, sentenza del 8 giugno 1999, n. 4240. 9 Corte di Cassazione, II Sez. Penale, sentenza del 17 aprile 2000, n. 4731: «l’articolo 640 bis c.p. prevede una circostanza aggravante del delitto di truffa di cui all’articolo 640 c.p. e non una figura autonoma di reato, con la conseguenza che, ove sia riconosciute sussistenti anche circostanze attenuanti è consentito al Giudice effettuare il giudizio di comparazione tra gli elementi accessori di segno diverso». 10 Cfr. S. CANESTRANI, A. GAMBERINI, G. INSOLERA, N. MAZZACUVA, F. SGUBBI, L. STORTONI, F. TAGLIARINI, Diritto Penale – Lineamenti di parte speciale, Bologna, Monduzzi Editore, 2003, p. 546. “Le S.U. della Cassazione con sentenza 10 luglio 2002 hanno attribuito rilevanza decisiva a criteri formali probanti, tra i quali, appunto, la formulazione della fattispecie mediante rinvio”. Temi Romana Saggi Profili generali relativi alla tutela del consumatore ed azione di classe Parte II Alessandro Nicodemi Avvocato, Dottorando di Ricerca “Consumatori e Mercato-area giuridica” Università degli Studi Roma Tre (XXVII ciclo) Il contributo reso ha affrontato – nella sua prima parte, già pubblicata – taluni profili generali relativi alla materia consumeristica, soffermandosi dapprima sulle istanze socio-economiche poste alla base della relativa legislazione per poi analizzare alcuni elementi pregnanti della disciplina di riferimento quali, in particolare, le clausole vessatorie, la tutela amministrativa ad esse correlata e l’azione di classe. In questa seconda parte, si continua ad analizzare l’azione di classe: istituto che – mutuato da altri ordinamenti ed apparentemente idoneo al contrasto delle condotte illecite poste in essere dagli operatori del mercato – allo stato sembra ancora caratterizzato da una ridotta effettualità Sommario Prima Parte: 1. – La tutela del consumatore in ambito comunitario e domestico: nozione ed evoluzione storica; 2. – Uno sguardo generale al Codice del Consumo: clausole vessatorie ed altri elementi di rilievo; 3. – La tutela amministrativa del consumatore introdotta dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27; 4. – La disciplina italiana della class action: la genesi ed i confronti con i rimedi preesistenti; 5. – I diritti tutelabili mediante l’azione di classe: struttura dell’illecito e danno risarcibile; 6. – Cenni di diritto comparato in materia di azione di classe; 7. – Le peculiarità processuali dell’azione di classe. Sommario Seconda Parte: 1. – Poteri processuali dell’organo giurisdizionale e pronunce adottabili dal Giudice; 2. – La legittimazione all’azione di classe; 3. – Il giudizio di ammissibilità nella class action; 4. – Le pronunce sull’ammissibilità del giudizio; 5. – Adesione ed intervento nell’art. 140 bis del Codice del Consumo; 6. – Le ipotesi emerse nella prassi giudiziaria: peculiarità delle singole fattispecie ed analisi correlata. 1. Poteri processuali dell’organo giurisdizionale e pronunce adottabili dal Giudice Le disposizioni normative in commento, come rilevato, recano disposizioni peculiari tese a predisporre una disciplina processuale in riferimento ad una situazione sostanziale connotata da specialità ed a matrice collettivistica. La peculiarità della disciplina in parola, in particolare, assurge ad un’evidenza netta laddove il legislatore ha regolamentato la scansione procedurale. Al riguardo, infatti, il ridetto art. 140 bis cod. cons., al comma 11, stabilisce che “Con l’ordinanza con cui ammette l’azione il tribunale determina altresì il corso della procedura assicurando, nel rispetto del contraddittorio, l’equa, efficace e sollecita gestione del processo. Con la stessa o con successiva ordinanza, modificabile o revocabile in ogni tempo, il tribunale prescrive le Temi Romana misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti; onera le parti della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli aderenti; regola nel modo che ritiene più opportuno l’istruzione probatoria e disciplina ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”. Il corso della procedura, dunque, non è prestabilito dalla norma – come avviene, invece, per il rito ordinario, ai sensi dell’art. 183 c.p.c. o per il rito cautelare ex artt. 669 bis e ss. c.p.c. – ma demandato ad una valutazione discrezionale dell’organo giudicante che, a tale proposito, dovrà, naturalmente, rispettare l’ineludibile principio del contraddittorio, per altro a rilievo costituzionale. Una siffatta potestà discrezionale del giudice – pervasiva dell’intero disposto normativo in parola ed idonea a predisporre un intenso potere valutativo in capo allo 19 Saggi stesso giudicante – è strumentale ad assicurare un processo celere ed equo e, al tempo stesso, a demandare ogni determinazione di natura processuale alla concretezza della situazione di volta in volta rilevante. L’intero comma 11 dell’art. 140 bis, in altri termini è interamente parametrato su una situazione giudiziale risarcitoria a valenza collettivistica laddove, non potendo essere applicate le regole ordinarie – predisposte per giustiziare illeciti a rilievo individuale – è stato demandata all’organo giurisdizionale la determinazione del corso della procedura in relazione alle necessità di pubblicità (coessenziali all’azione in parola) e a quelle probatorie (da non complicarsi né ripetersi, rilevando una pluralità di attori), pur nel rispetto di esigenze di celerità, equità e di rispetto del contraddittorio. Le menzionate caratteristiche dell’azione di classe, poi, incidono in termini assolutamente rilevanti non soltanto sulla procedura, ma anche sul tipo di pronunce che il giudice è facoltizzato ad emettere. Relativamente all’esito decisionale dell’azione di classe, in dottrina1 è stato osservato che con la novella del 2009 (L. 23 luglio 2009, n. 99), si è voluto in primo luogo introdurre uno strumento di tutela di immediata natura risarcitoria volta a compensare i pregiudizi sofferti dai singoli e quindi condannare l’impresa al risarcimento per l’ingiusto profitto che ha realizzato; ciò a differenza del modello originario disegnato dall’art. 140 bis cod. cons., nel quale il Tribunale nel caso di accoglimento della domanda attrice si limitava a determinare i criteri omogenei di calcolo per la liquidazione, in separato giudizio, delle somme da corrispondere ai singoli consumatori o utenti che avevano aderito all’azione collettiva, lasciando aperta la questione circa la quantificazione dei diritti dei singoli. Il Tribunale, ma solo se ciò fosse stato possibile allo stato degli atti di causa, poteva al limite determinare la somma minima da corrispondere a ciascun consumatore o utente. Il legislatore della riforma ha quindi inciso fortemente nella fase decisoria del giudizio prevedendo espressamente al 12° co. dell’art. 140 bis cod. cons., che «se accoglie la domanda, il Tribunale pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’art. 1226 c.c., le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la loro liquidazione». Attraverso la nuova azione di classe si rafforza l’ob- biettivo di realizzare strumenti di economia processuale e di uniformità decisoria all’interno di un processo suscettibile di risolvere potenzialmente un numero indefinito di posizioni individuali. Il novellato art. 140 bis cod. cons. si muove infatti nella direzione della aggregazione ab initio delle molteplici pretese individuali, presentando, come oggetto del processo, un accertamento completo della pretesa risarcitoria, sia in ordine all’an che al quantum del dovuto. Guardando alla disciplina concreta, l’art. 140 bis cod. cons., al comma 12, recita così: “Se accoglie la domanda, il tribunale pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile, le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme. In questo ultimo caso il giudice assegna alle parti un termine, non superiore a novanta giorni, per addivenire ad un accordo sulla liquidazione del danno. Il processo verbale dell’accordo, sottoscritto dalle parti e dal giudice, costituisce titolo esecutivo. Scaduto il termine senza che l’accordo sia stato raggiunto, il giudice, su istanza di almeno una delle parti, liquida le somme dovute ai singoli aderenti. In caso di accoglimento di un’azione di classe proposta nei confronti di gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, il tribunale tiene conto di quanto riconosciuto in favore degli utenti e dei consumatori danneggiati nelle relative carte dei servizi eventualmente emanate”. Il giudicante, dunque, potrà determinare gli importi risarcitori alla stregua di un criterio equitativo, ai sensi dell’art. 1226 c.c. laddove il danno non possa essere determinato nel suo preciso ammontare oppure sulla scorta di un criterio omogeneo di calcolo utile alla liquidazione delle somme, ma, evidentemente, a carattere generale od astratto, rimanendo la concreta individuazione degli importi demandata al successivo accordo delle parti o, in sua mancanza, alla determinazione del giudice stesso. La norma, come si vede, menziona dapprima la possibilità di valutazione del danno alla stregua di un criterio equitativo; una siffatta disposizione si giustifica sulla scorta del rilievo plurimo o collettivistico dei fatti da giustiziare: ove dovesse individuarsi specificamente il danno subito da ciascuno, la relativa istruttoria sarebbe oltremodo articolata e l’azione collettiva non verreb- 20 Temi Romana Saggi be mai a conclusione; per tale motivo, ove i danni individuali non siano concretamente determinabili, il giudice potrà decidere in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. In ordine alla possibilità di determinare il danno ex art. 1226 c.c., è comunque pacifico che tale strumento non vale ad alleggerire la prova del danno e della sua consistenza, quanto meramente la sua quantificazione2. Per altro, la liquidazione ex art. 1226 c.c. dovrà essere debitamente motivata in sentenza così da non assumere una connotazione personalistica e consentire la conoscibilità dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice, necessariamente ispirata a criteri di razionalità e non arbitrarietà3. Per il caso in cui, invece, sussista la possibilità di determinare i danni e, dunque, non si renda necessario ricorrere ad un criterio equitativo, ai sensi dell’art. 1226 c.c., allora il giudice provvederà ad individuare un criterio omogeneo di calcolo, utile a tale riguardo. Il carattere astratto o generico di tale criterio viene evidenziato nel prosieguo della norma laddove, demandandosi ad un possibile accordo delle parti la determinazione concreta degli importi risarcitori, si rende evidente come l’indicazione del giudice rimanga aspecifica, così da consentire alle parti di disporre degli interessi in gioco e da evitare loro una decisione imposta dall’Autorità giudiziaria, sempre capace di scontentare le parti processuali (sicuramente quella soccombente). La possibilità di un accordo sulla liquidazione del danno potrà consentire all’azienda di “autodeterminare” gli importi risarcitori, nei limiti dei propri vincoli di bilancio, all’ovvia condizione che una siffatta determinazione sia considerata dai danneggiati satisfattiva o ragionevolmente non inferiore a quanto potrebbe essere liquidato dal giudice: entrambe le parti, come detto, hanno interesse ad addivenire ad un accordo accettabile piuttosto che esporsi al rischio di una valutazione terza, potenzialmente dirompente per il professionista o non soddisfacente per i consumatori. In ordine all’ultimo periodo della norma in parola – secondo cui in caso di accoglimento di un’azione di classe proposta nei confronti di gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, il Tribunale tiene conto di quanto riconosciuto in favore degli utenti e dei consumatori danneggiati nelle relative Carte dei servizi eventualmente emanate – giova precisare che la valutazione Temi Romana giurisdizionale, naturalmente, non rimane vincolata da quanto stabilito nelle Carte dei servizi (per altro, emesse dagli stessi soggetti erogatori dei servizi ex art. 2, comma 12, lett. p), L. 481/95 ), posto che le relative indicazioni costituiranno per il giudice un criterio di valutazione da cui lo stesso potrà discostarsi ove non considerato congruo. 2. La legittimazione all’azione di classe In ordine alla legittimazione all’esercizio dell’azione di classe, la norma, al comma 1 del menzionato art. 140 bis cod. cons. stabilisce che “…ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa, può agire per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni”. Al capoverso del successivo comma 6 della stessa norma, poi, si stabilisce che “La domanda è dichiarata inammissibile quando… [omissis] il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe”. Le disposizioni legislative riportate rendono evidente come la legittimazione ad esperire l’azione de qua abbia una connotazione diffusa, risiedendo in capo a ciascun consumatore che sia interessato dai fatti dannosi che danno la stura alle rivendicazioni risarcitorie della classe. In ordine a tale punto, in giurisprudenza è stato rilevato che l’attore per potersi legittimare deve essere prima di tutto titolare, in proprio e personalmente, del diritto individuale che caratterizza la classe che intende rappresentare. Di conseguenza la legittimazione attiva non è regolata in termini diversi da quelli propri di qualunque altra azione. In altre parole non sussiste la legittimazione perché il proponente intende rappresentare gli interessi della classe, ma perché il suo interesse coincide con quello della classe, essendo egli portatore del medesimo diritto individuale omogeneo di cui sono titolari gli appartenenti alla classe4. In ogni caso, l’ampiezza della legittimazione attiva in parola sembra strumentale al favor legislativo accordato all’azione collettiva così da sollecitare o dare adeguato impulso all’utilizzo del relativo strumento giudiziario. Al riguardo, infatti, il legislatore avrebbe potuto – sul crinale delle opzioni teoricamente adottabili – conferire la legittimazione all’azione di classe ad associazioni 21 Saggi che fossero adeguatamente rappresentative della classe dei consumatori (per un raffronto in ordine a problematiche che possono apparire analoghe, si veda l’art. 28 dello Statuto dei lavoratori ove il profilo della legittimazione attiva, pur attinente a problematiche di rilievo collettivistico, è stato risolto dalla norma in termini differenti); conferire la legittimazione in parola a ciascun componente della classe, invece, sembra propriamente strumentale all’esigenza di implementare o dare impulso alle azioni giudiziarie in parola. Per la verità, guardando all’evoluzione storica della norma, nella versione primigenia adottata dalla L. 244/2007, il potere di agire era stato dapprima conferito alle associazioni consumeristiche iscritte ad apposito albo ministeriale nonché alle altre associazioni e comitati adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere; le successive rivisitazioni normative, però, hanno indotto ad una soluzione diversificata, come visto, assai più ampia sul crinale soggettivo. La latitudine soggettiva che, in tal modo, viene abbracciata dalla norma, nel conferire la legittimazione a qualsiasi componente della classe rimane, tuttavia, menomata o, in qualche misura depotenziata dalla disciplina normativa laddove al successivo comma 6 dello stesso art. 140 bis cod. cons. si stabilisce che la domanda è dichiarata inammissibile per il caso in cui il proponente non appaia in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe. La ratio giustificatrice di una siffatta disposizione pare debba rinvenirsi nell’esigenza di assicurare la debita tutela a situazioni di rango collettivo: l’esercizio dell’azione e la gestione dell’impianto processuale che ne deriva è bene che siano riservati a soggetti che dispongano delle competenze idonee ad assicurare la protezione degli interessi consumeristici portati all’attenzione del giudice. Ove così non fosse, le istanze dei consumatori, piuttosto che rafforzate, sarebbero depotenziate da un’azione giudiziale a valenza collettiva iniziata e gestita da soggetti non dotati delle necessarie competenze sul fronte della conoscenza delle situazioni di fatto o della capacità a gestire i correlati aspetti processuali. Tanto analizzato in via generale, occorre rilevare che, sul fronte della prassi applicativa, il singolo, nell’avviare l’azione risarcitoria di classe, sarà verosimilmente coadiuvato (anzi: spesso cooptato) da un’associazio- ne o da un comitato, posto che per la natura stessa delle cose non avrà interesse a farsi carico degli ingenti costi del contenzioso collettivo (a fronte del modesto tornaconto individuale del risarcimento spettantegli) né di solito possiede la forza economica ed organizzativa necessaria5. In ordine al rapporto tra il singolo consumatore e l’associazione alla quale egli abbia conferito mandato, la giurisprudenza (Ord. App. Torino, 23 novembre 2011) ha ritenuto che, in virtù del carattere speciale e autonomo del procedimento disciplinato dall’art. 140 bis c. cons., è ammissibile l’azione proposta da un’associazione cui sia stata conferita dai consumatori proponenti la mera rappresentanza in giudizio, senza il potere di disporre dei diritti sostanziali azionati. Per quanto concerne, invece, il dato comparativo, preme evidenziare la differenza con la normativa statunitense: la Rule 23 sect. (a) delle statunitensi Federal Rules of Civil Procedure (FRCP), nell’ambito di una regolamentazione generale (a livello federale) delle azioni di classe, ammesse da parte di chiunque e tendenzialmente in ogni materia, considera non solo l’eventualità che si agisca, ma anche quella che si sia convenuti quali rappresentanti di una classe mentre l’art. 140 bis cod. cons. non fa cenno di un’evenienza del genere la quale pure sarebbe in astratto configurabile nonostante la specificità delle situazioni giuridiche elencate dal 2° co. quale possibile oggetto di una domanda di classe. È infatti ben ipotizzabile un fondato interesse dell’impresa a citare in accertamento negativo uno o più consumatori od utenti che appaiano in astratto «in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe» (6° co.) e che, direttamente o tramite l’adesione ad iniziative di associazioni e comitati, abbiano stragiudizialmente avanzato nei suoi confronti pretese riconducibili a quelle situazioni giuridiche o le abbiano vantate attraverso le casse di risonanza dei mezzi di comunicazione; anche se non è realistico immaginare che essa impresa decida di soddisfare un interesse del genere mettendo, almeno potenzialmente, tutte le uova in un paniere o, in alternativa, senza poter ottenere un risultato vincolante se non per quei pochi consumatori od utenti che decidessero di aderire alla difesa (e ciò a causa del ben diverso meccanismo nostrano dell’opt in rispetto a quello statunitense dell’opt out), a meno che 22 Temi Romana Saggi il vaglio giudiziale, volto ad escludere un possibile conflitto di interessi, è esattamente mutuato dalla normativa statunitense, in cui la previsione è posta al fine di scongiurare tutti quei casi tratti dalla prassi americana in cui l’utilizzo dello strumento della settlement class action, era attuato per fini fraudolenti, in cui erano le stesse imprese a spingere il consumatore, utente del servizio e come tale esso stesso vittima della loro condotta, a promuovere una class action per poi giungere ad una transazione capestro che sarebbe divenuta vincolante anche per tutte le altre vittime sia attuali che future. Il caso più macroscopico di conflitto di interessi è quello di alcune imprese statunitensi, che avevano utilizzato amianto nei processi di lavorazione, e verso la fine degli anni ’90 si erano rivolte ad un pool di legali per far promuovere una class action e, ottenuta la certificazione, avevano l’intenzione di concludere una transazione tombale che avesse coperto qualunque altra pretesa risarcitoria anche da parte di tutti i futuri soggetti che avessero successivamente contratto una patologia da asbestosi. L’analisi dottrinale in parola, sul punto, ha tuttavia rilevato che una simile ipotesi fraudolenta per i diritti dei consumatori rappresenta nel nostro sistema un’eventualità difficile a verificarsi nella pratica. Infatti, mentre nel sistema statunitense un’eventuale transazione della causa è destinata irrimediabilmente a vincolare tutti i partecipanti alla classe, nel sistema nostrano ciò è espressamente escluso, avendo l’art. 140 bis cod. cons. espressamente previsto al 15° co. che l’eventuale transazione collettiva possa assumere efficacia sui crediti individuali solo attraverso l’esplicita adesione del singolo interessato. Ad ogni modo, l’eventualità che sia l’impresa a selezionare l’attore collettivo per garantirsi una controparte più docile o addirittura interessata al “naufragio” dell’azione e di tutti i suoi incauti aderenti, è giustamente contemplata anche dal legislatore italiano, il quale esclude l’ammissibilità dell’azione per il caso di un possibile conflitto di interessi. Circa l’insussistenza dell’omogeneità dei diritti vantati, costituendo il carattere omogeneo delle situazioni sostanziali che si intende far valere il presupposto dell’azione collettiva, ne deriva, inevitabilmente, l’inammissibilità della tutela di classe proposta. Sul punto, è già stato osservato come la tutela realizza- l’obiettivo non sia quello di lucrare l’improponibilità di ulteriori azioni di classe dopo la scadenza del termine per l’adesione che fosse fissato dal giudice (14° co., periodi 3-4, art. 140 bis, cit.)6. 3. Il giudizio di ammissibilità nella class action Ai sensi dell’art. 140 bis, comma 6, cpv, cod. cons., “La domanda è dichiarata inammissibile quando è manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi ovvero quando il giudice non ravvisa l’omogeneità dei diritti individuali tutelabili ai sensi del comma 2, nonché quando il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe”. Il giudizio di ammissibilità in parola, idoneo, come già è stato rilevato nel corso della presente opera, a destare notevoli preoccupazioni negli operatori pratici e nella classe forense in particolare, attese le incertezze che esso genera in relazione al prosieguo del giudizio, poggia sui diversi criteri menzionati dalla norma, insuscettibili – si ritiene – di un’applicazione estensiva, caratterizzandosi il “filtro” di ammissibilità in termini di eccezionalità rispetto alle ordinarie regole processuali. Per altro, la fase preliminare di ammissibilità in argomento ha sollevato altresì dubbi sul versante della legittimità costituzionale, essendo idonea a realizzare un’indebita compressione del diritto di azione dei consumatori e ponendo il dubbio – necessariamente correlato alla menzionata compressione – che non si realizzi, in tal modo, un eccessivo sbilanciamento del sistema a vantaggio delle imprese convenute7. In particolare, l’organo giudicante dovrà vagliare se il giudizio in questione sia manifestamente infondato, così andando ad effettuare una valutazione che, pur a carattere sommario in quanto fondato sulle acquisizioni processuali primigenie, impinge direttamente nel merito della vicenda. Altri fattori idonei a giustificare il giudizio di ammissibilità, secondo la formulazione della norma, sono poi rinvenibili nella sussistenza di un conflitto d’interessi, evidentemente tra il promotore dell’azione e la classe rappresentata, l’insussistenza dell’omogeneità dei diritti vantati che sola fonda l’azione di classe, o l’apparente inidoneità del proponente a curare adeguatamente gli interessi della classe. Circa la possibile sussistenza di un conflitto d’interessi, giova riportare l’analisi svolta in dottrina8, secondo cui Temi Romana 23 Saggi sino ad oggi in Italia mostra come le azioni di classe siano sempre state proposte da enti rappresentativi dei consumatori, dietro esplicito mandato alle liti rilasciato dal singolo appartenente alla classe9. In via ultima, comunque, la dottrina10 si è chiesta se l’introduzione del giudizio di ammissibilità dell’azione di classe – in relazione alla quale non si pongono le particolari questioni di contemperanza di interessi costituzionali, invece connessi all’analoga fase di ammissibilità prevista da altre procedure giudiziali (si allude all’art. 5, L. 117/88 relativo alla responsabilità civile dei magistrati) – non valga a sostanziare una limitazione del diritto di azione dei consumatori ed un correlato, indebito vantaggio in favore dell’imprese. bile per tramite della class action attenga a situazioni ora definite omogenee, non più “identiche”, come avveniva con la precedente formulazione normativa. L’identità precedentemente richiesta dalla norma, ben vero, frapponeva ostacoli di rilievo all’ammissibilità dell’azione di classe, ponendo a proprio presupposto una serialità di illeciti non già accomunati sul versante sostanziale, ma propriamente identici. L’omogeneità, il carattere analogo od assimilabile consente invece adesso una tutela seriale od a rilievo plurimo; a fronte di una situazione siffatta si staglia quella relativa a situazioni distinte o non omologabili che, contrassegnate dalle proprie rispettive peculiarità, necessiterebbero, al contrario, di azioni individuali e sarebbero inconciliabili con l’azione di classe. Siffatte situazioni a carttere differenziato, precludendo una tutela a carattere seriale, imporrebbero la formulazione di un giudizio di inammissibilità da parte del giudice. Laddove, al contrario, il giudice formulasse un giudizio di ammissibilità, con la relativa ordinanza egli dovrà provvedere a fornire una perimetrazione di quanto costituirà oggetto del giudizio: in particolare, ai sensi dell’art. 140 bis, comma 9, lett. A), cod. cons., egli dovrà definire i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o devono ritenersi esclusi dall’azione. Ultimo criterio utile a definire l’ammissibilità dell’azione di classe è dato dal fatto che il proponente appaia in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe. Il giudizio di adeguatezza del proponente è volto sostanzialmente a verificare che l’azione di classe sia attivata solo da parte di un soggetto che prometta di avere la capacità di coltivarla e portarla a termine con le energie e le capacità sufficienti al ruolo ricoperto, specie al fine di evitare che gli effetti conseguenti alla sostituzione processuale ex lege nei confronti di tutti i possibili aderenti possano tornare a loro pregiudizio, per il caso in cui si siano affidati a chi non sia in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe, privati come sono di ogni possibilità di controllo diretto sul processo e sulle modalità di sua conduzione. Proprio al fine di scongiurare una possibile dichiarazione di inammissibilità dell’azione per la riscontrata non adeguata rappresentatività dell’attore, la prassi seguita 4. Le pronunce sull’ammissibilità del giudizio Il giudizio preliminare di ammissibilità cui è assoggettata l’azione di classe assolve al duplice scopo: a) di tutelare l’impresa convenuta contro azioni temerarie che potrebbero nondimeno arrecare notevole pregiudizio alla sua immagine; b) di rassicurare i potenziali aderenti circa la serietà dell’iniziativa assunta del proponente, incentivando le adesioni e favorendo così il conseguimento degli obiettivi propri del giudizio di classe11. In particolare, come visto, il comma 6 dell’art. 140 bis c. cons. prevede che all’esito della prima udienza il Tribunale decide con ordinanza sull’ammissibilità dell’azione, dichiarando l’inammissibilità della domanda quando la stessa appare manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi, quando il giudice non ravvisa l’omogeneità dei diritti individuali tutelabili ai sensi del comma 2°, nonché quando il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe. Contro l’ordinanza del Tribunale è ammesso reclamo alla Corte d’appello, che decide a sua volta con ordinanza resa in camera di consiglio. Circa l’udienza in parola è stato ritenuto12 che essa sia un’udienza preliminare di discussione (dunque, aperta al pubblico) che precede e prepara la successiva trattazione del merito; trattazione, quest’ultima, che, in assenza di specifiche disposizioni stabilite con l’ordinanza dal Tribunale, avverrà secondo le cadenze che caratterizzano il rito di cognizione ordinario. Per altro, il profilo letterale della norma non esclude che ai fini del giudizio di ammissibilità sia esperibile un’at- 24 Temi Romana Saggi tività istruttoria non documentale e che, quindi, in tale fase si svolgano, ad es., audizioni testimoniali con forme semplificate e senza capitolazione o per la richiesta di informazioni alla Pubblica Amministrazione. Il profilo dell’ammissibilità dell’azione di classe, in ogni caso, sostanziando la fase preliminare nell’ambito del giudizio in parola, ha formato oggetto di plurime pronunce giurisprudenziali. In particolare, al riguardo, è stato ritenuto che il giudizio sull’ammissibilità non debba necessariamente svolgersi in un’unica udienza e che possano concedersi alle parti termini per il deposito di memorie scritte, utili a supportare ulteriormente le contrapposte tesi difensive (Trib. Milano, ord. 20 dicembre 2010; App. Milano, ord. 3 maggio 2011). Nell’ambito della fase giudiziale in parola, poi, la giurisprudenza ha ritenuto che le parti possano precisare o modificare le domande ed eccezioni già formulate entro gli stessi limiti previsti per il giudizio ordinario dall’art. 183, comma 5°, c.p.c. (in tal senso, Trib. Milano, ord. 20 dicembre 2010). Per quanto concerne la non manifesta infondatezza dell’azione, invece, è stato precisato che il giudizio preliminare nel merito ha carattere sommario ed assume la veridicità dei fatti che le parti hanno introdotto nel giudizio (sulla base del principio di tradizione romanistica secondo cui si vera sint exposita), i quali, ove necessario, dovranno essere provati nella successiva fase istruttoria (così App. Roma, ord. 27 gennaio 2012). Con riferimento al diverso profilo relativo all’adeguatezza dei proponenti l’azione, inoltre, è stato ritenuto che si debba presumere l’idoneità a curare in modo adeguato l’interesse della classe da parte di associazioni iscritte all’elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale previsto dall’art. 137 cod. cons. (Trib. Napoli, ord. 9 dicembre 2011, confermata sul punto da App. Napoli, ord. 29 giugno 2012). Diversamente, non sono stati ritenuti in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe i consumatori sprovvisti di adeguati mezzi finanziari e organizzativi (Trib. Torino, ord. 28 aprile 2011; Trib. Torino, ord. 7 aprile 2011). Il Tribunale di Torino, nelle ordinanze menzionate, ha infatti ritenuto i consumatori non adeguati a rappresentare gli interessi della classe sulla scorta del dato che i conti correnti bancari degli attori, dagli stessi allegati Temi Romana nel giudizio, erano in situazione di sofferenza (nei casi in parola erano state esercitate azioni di classe contro istituti di credito in relazione all’applicazione delle commissioni di massimo scoperto). Per quanto concerne, invece, la necessaria omogeneità dei diritti tutelabili, già nella vigenza dell’originario testo normativo – secondo cui l’azione di classe doveva essere promossa a tutela di diritti omogenei di consumatori che si trovano in una posizione identica tra loro – la giurisprudenza aveva ritenuto (pur non senza contrasti) che il requisito dell’identità, nella sostanza, coincidesse con quello dell’omogeneità, non sussistendo la necessità che i danni individuali di cui ciascun consumatore chiedeva il risarcimento fossero identici (in tal senso, App. Roma, ord. 27 gennaio 2012; App. Torino, ord. 23 settembre 2011; Trib. Roma, ord. 20 aprile 2012; Trib. Napoli, ord. 9 dicembre 2011). Soluzione, questa, in qualche misura necessitata, posto che, diversamente, ben pochi sarebbero stati gli spazi di tutela rimasti all’azione di classe, a quel punto esperibile soltanto in ipotesi residuali. La ragionevolezza di tale soluzione, infatti, è stata di seguito abbracciata anche dal legislatore che, re melius perpensa, nel 2012 ha ritenuto di abbandonare il criterio dell’identità dei diritti sostituendolo con quello, sicuramente meno restrittivo, dell’omogeneità dei diritti (art. 140 bis, commi 2° e 6°, c. cons.). Con precipuo riferimento al requisito dell’omogeneità dei diritti, poi, la giurisprudenza sembra orientata nel senso di considerarne la ricorrenza quando, sulla base delle deduzioni difensive sollevate, il Tribunale sia in grado di svolgere un’unica istruttoria valevole per tutti i membri della classe (Trib. Roma, ord. 11 aprile 2011, confermata sul punto da App. Roma, ord. 27 gennaio 2012). Soltanto così, ben vero, l’azione di classe può svolgere la funzione di economia processuale che le è propria: ove fosse impossibile svolgere un’attività probatoria comune, il Tribunale si vedrebbe costretto a trattare e decidere singolarmente la posizione di ciascun consumatore non dissimilmente da quanto avverrebbe nell’ipotesi di esercizio di tante azioni individuali. Altro aspetto da vagliare attiene alla possibilità d’impugnare in Cassazione l’ordinanza della Corte d’appello che abbia deciso sul reclamo proposto avverso l’ordinanza del Tribunale che decide sull’ammissibilità dell’azione di classe. 25 Saggi Da ultimo, giova esaminare l’ipotesi in cui l’azione sia stata ammessa. In tal caso, il proponente dovrà dare esecuzione alla pubblicità disposta dal Tribunale a pena d’improcedibilità dell’azione, ai sensi dell’art. 140 bis, comma 9°, Codice del Consumo. Posto che i costi legati alla pubblicità possono essere di certo rilievo, si era ipotizzato che, almeno nei casi in cui la responsabilità del convenuto fosse maggiormente evidente, il Tribunale potesse imputare al convenuto gli oneri relativi. Tale soluzione, tuttavia, è stata espressamente scartata dalla giurisprudenza sulla base del rilievo per cui, essendo l’esecuzione della pubblicità una condizione per la prosecuzione dell’azione, il relativo onere non può essere efficacemente addossato al convenuto, il quale di norma non ha interesse alla prosecuzione dell’azione nei propri confronti (Trib. Torino, ord. 15 giugno 2012). Sul punto, la giurisprudenza – con un decisum accolto favorevolmente dalla dottrina13 – si è pronunciata negativamente sulla scorta del rilievo per cui l’ordinanza che dichiara o conferma l’inammissibilità dell’azione di classe non è suscettibile di assumere la stabilità del giudicato sostanziale e non produce la efficacia preclusiva del dedotto e del deducibile, in quanto è fondata su una delibazione sommaria. Nell’ipotesi di pronuncia di inammissibilità per manifesta infondatezza dei diritti omogenei fatti valere, la valutazione del giudice è, invero, operata, oltre che in sede di cognizione sommaria, ai soli fini del giudizio di ammissibilità della domanda di classe e, dunque, con delibazione finalizzata ad una pronuncia di rito, idonea a condizionare unicamente la prosecuzione dl quel processo di classe. A norma dell’art. 140 bis, comma 14, D.Lgs. n. 206 del 2005 – dunque, secondo la Suprema Corte – è unicamente l’ordinanza di ammissibilità che preclude la proposizione delle medesima azione di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa dopo la scadenza del termine per l’adesione e non la ordinanza di inammissibilità, la quale non preclude affatto la riproponibilità dell’azione (Cass., Sez. I, 14 giugno 2012, n. 9772). Con riferimento, poi, alla possibilità che il vaglio di ammissibilità dell’azione comporti una vulnerazione del diritto di difesa dei consumatori, in merito a tale questione è intervenuta la Corte d’appello di Torino, con ordinanza del 27 ottobre 2010, ritenendo che il “filtro” di ammissibilità per l’azione di classe non si ponga di per sé in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., dal momento che esso non soltanto non rappresenta un ostacolo apprezzabile per la difesa dei diritti azionati, ma è caratterizzato da forme procedurali di pieno contraddittorio ed esercizio del diritto di difesa. La Corte, sul punto, ha altresì ritenuto che il “filtro” in parola sia funzionale all’interesse degli stessi consumatori, i quali, proprio in virtù del vaglio giudiziale di ammissibilità, sono posti in condizione di evitare di aderire ad un’azione manifestamente infondata (allontanando da sé, in tal maniera, gli effetti di un giudicato che si preannuncia fin dall’inizio ad essi sfavorevole); a maggior ragione, tenuto conto del fatto che tale adesione può avvenire senza ministero di difensore tecnico e comporta automatica rinuncia ad ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo. 5. Adesione ed intervento nell’art. 140 bis del Codice del Consumo “Con l’ordinanza con cui ammette l’azione il tribunale fissa termini e modalità della più opportuna pubblicità, ai fini della tempestiva adesione degli appartenenti alla classe. L’esecuzione della pubblicità è condizione di procedibilità della domanda. Con la stessa ordinanza il tribunale: a) definisce i caratteri dei diritti individuali oggetto del giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o devono ritenersi esclusi dall’azione; b) fissa un termine perentorio, non superiore a centoventi giorni dalla scadenza di quello per l’esecuzione della pubblicità, entro il quale gli atti di adesione, anche a mezzo dell’attore, sono depositati in cancelleria. Copia dell’ordinanza è trasmessa, a cura della cancelleria, al Ministero dello sviluppo economico che ne cura ulteriori forme di pubblicità, anche mediante la pubblicazione sul relativo sito internet. È escluso l’intervento di terzi ai sensi dell’articolo 105 del codice di procedura civile”. Le disposizioni riportate, presenti ai commi 9 e 10 del ridetto art. 140 bis, cod. cons., individuano un altro momento di rilievo all’interno della scansione procedurale propria delle azioni giudiziarie in commento, 26 Temi Romana Saggi ponendo, al tempo stesso, una disciplina necessaria a rivendicazioni a valenza collettivistica. Il sistema c.d. dell’opt-in, in base al quale un soggetto sceglie di entrare nel contenzioso di classe, rinviene un proprio necessario antecedente nella pubblicità realizzata dall’attore, secondo i termini e le modalità fissate dal Tribunale. La pubblicità in ordine alla sussistenza di un procedimento giudiziario ed in ordine alla correlata possibilità di aderire alle relative istanze giudiziarie costituisce un momento strutturale ed ineludibile dell’azione di classe, in assenza del quale non potrebbero trovare ingresso nel processo istanze a valenza pletorica. Esattamente per tale motivo, la pubblicità in parola deve anche specificare il proprium dell’azione di classe, vale a dire i criteri di appartenenza alla classe stessa, in assenza dei quali non è consentito aderire all’azione collettiva. Il nostro legislatore, come si diceva, ha scelto il sistema dell’opt-in, ritenendo, evidentemente di non adottare l’opposto sistema dell’opt-out, proprio del sistema statunitense e fondato sull’automatica estensione del giudicato nei confronti di tutti i soggetti che non abbiano espressamente scelto di rimanere estranei all’azione di classe (in schietta difformità, pare, con le connotazioni proprie del nostro sistema processuale per cui le pronunce giudiziarie non producono effetti verso coloro che non abbiano preso parte al processo, salvo che siano eredi od aventi causa, ai sensi dell’art. 2909 c.c.). Gli aderenti acquistano la qualità di parti sostanziali del processo ed usufruiscono delle agevolazioni connesse: l’interruzione della prescrizione, la liquidazione del danno e la formazione di un titolo esecutivo, anche in mancanza di un giudizio individuale. Essi non assumono anche la posizione di parte processuale che spetta esclusivamente ad attore e convenuto. Anzi, al proponente, anche dopo l’adesione degli altri, spetterà di veicolare le richieste probatorie, la gestione della lite e la presentazione di prove ed argomenti. Il proponente è titolare esclusivo dei diritti ed obblighi processuali; spetterà, ad es., solo a lui il potere di reclamare l’ordinanza che dichiari eventualmente inammissibile la domanda o di resistere contro l’eventuale reclamo dell’impresa contro l’ordinanza che ammette l’azione di classe. Sarà il proponente il destinatario dei provvedimenti in Temi Romana materia di spese. Naturalmente, l’attore non sarà titolare di quei poteri processuali che presuppongono la capacità di disporre dei diritti sostanziali degli aderenti: non potrà transigere o formulare rinunce in verbali di conciliazione relativamente a crediti altrui né deferire o riferire il giuramento su questi aspetti. Le transazioni stipulate dagli aderenti vincolano solo chi vi abbia aderito; l’intervenuta transazione estingue il processo e coloro che non vi abbiano aderito dovranno tutelare i loro diritti dando vita ad una nuova causa. La situazione sopra descritta relativamente alla posizione processuale dei soggetti aderenti alla class action – frutto dell’analisi dottrinale14 e condivisa anche dalla giurisprudenza15 – è evincibile da un’attenta analisi del dato normativo laddove la posizione dei soggetti aderenti rimane sempre nettamente distinta rispetto a quella delle parti sulla scorta di un’attenta differenziazione terminologica, foriera, evidentemente, di distinte situazioni processuali. In ordine alle questioni che occupano, comunque, pare ineludibile l’osservazione per cui l’attore, gravato dei rischi correlati all’esercizio dell’azione giudiziale ed alla correlata possibilità di soccombenza – con quel che ne segue sul piano delle spese – rimanendo unico soggetto titolato alle scelte processuali, è portatore altresì dei poteri correlati senza che i soggetti aderenti possano incidere a tale riguardo. Per quanto concerne, poi, la possibilità che intervengano forme di accordo o conciliazione tra l’attore ed il convenuto, gli aderenti potranno prestarvi assenso oppure no, ma nell’ipotesi in cui non lo facciano si vedranno costretti ad esercitare azioni giudiziarie individuali, ove vogliano vedere tutelati i propri diritti in maniera difforme rispetto agli accordi conclusi tra le parti. Sul fronte pratico, dunque, trattandosi, come detto di small claims, sovente gli aderenti preferiranno aderire agli accordi conclusi tra le parti anche quando essi non siano pienamente satisfattivi. Sulla scorta del dato normativo riportato, quindi, i poteri processuali della parte attrice sono tutt’altro che secondari laddove gli aderenti rimarranno, appunto, in una posizione di fatto subordinata a scelte processuali fatte dal proponente. Nell’azione di classe non è perciò immaginabile un litisconsorzio, nemmeno aggregato, degli aderenti con 27 Saggi positivo, registrata nella casistica giudiziaria nazionale. Nello specifico, il Tribunale di Napoli, con sentenza depositata il 18 febbraio 2013, ha accolto le istanze avanzate da un gruppo di consumatori che aveva acquistato un pacchetto turistico “tutto compreso” per un viaggio a Zanzibar. La sistemazione alberghiera non era, però, conforme alle informazioni che il gruppo aveva ricevuto prima della partenza. Il Tribunale, quindi, ha considerato il venditore del pacchetto turistico inadempiente rispetto alle obbligazioni che aveva assunto e lo ha condannato al risarcimento del danno non patrimoniale per vacanza rovinata a favore dei consumatori che avevano promosso l’azione nonché di quelli che, trovandosi in una posizione omogenea rispetto a questi, avevano aderito all’iniziativa giudiziaria17. Nel dettaglio, il Tribunale ha ritenuto che con il contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico “tutto compreso” – sottoscritto dal consumatore sulla base di una articolata proposta contrattuale contenuta in un depliant illustrativo – l’organizzatore assume specifici obblighi contrattuali, segnatamente di tipo qualitativo, relativi a modalità di viaggio, sistemazione alberghiera, livello di servizi, etc. Di conseguenza, ove le prestazioni non siano esattamente adempiute, sulla base di un criterio medio di diligenza valutabile dal giudice di merito, si configura la responsabilità contrattuale ed il conseguente obbligo risarcitorio in capo all’organizzatore, salvo la prova della non imputabilità dell’inadempimento, derivante da eventi verificatisi successivamente al perfezionamento del contratto, quali il caso fortuito o la forza maggiore, ovvero l’esclusiva responsabilità del terzo o del consumatore. Vertendosi in tema di responsabilità contrattuale, sul turista-consumatore incombe l’onere di comprovare la fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione dell’inadempimento di controparte, mentre all’organizzatore è demandata la prova di aver agito con normale diligenza, di aver fatto tutto il possibile per evitare i danni ed, eventualmente, la dimostrazione della sussistenza del caso fortuito o di forza maggiore a sua discolpa. Sulla scorta di tali principi, quindi, è stato individuato, a carico dell’organizzatore, un inadempimento del con- l’attore, tanto è vero che il comma 10 dell’art. 140 bis cod. cons., esclude tassativamente qualunque tipologia di intervento di terzi, vuoi litisconsortile, vuoi adesivo. Pertanto gli aderenti, a differenza di quanto accadrebbe se essi fossero veri e propri intervenuti in giudizio, non potranno autonomamente impugnare una sentenza di rigetto, verosimilmente neppure se il rigetto fosse motivato con la loro “estraneità” alla classe. Proprio in vista dello sbarramento alla possibilità da parte di altri danneggiati a proporre un autonomo giudizio dopo la scadenza del termine per l’adesione assegnato dal giudice ai sensi dell’art. 140 bis comma 9, cod. cons., vengono dal legislatore imposti al rappresentante della classe puntuali obblighi di pubblicità, onde consentire la massima adesione all’azione da adempiersi nelle forme e modalità che verranno indicate dallo stesso Tribunale e dalla cui mancata ottemperanza consegue l’improcedibilità della domanda, sempre a termini del citato comma 9, secondo periodo16. Sul versante ultimo, in ogni caso, è dato osservare come la disciplina in parola si sia differenziata non poco dall’omologa disciplina statunitense: quest’ultima appare schiettamente schierata accanto ai consumatori, come si evince, tra l’altro, dal sistema dell’opt-out nonché dalla sussistenza dei danni punitivi; quella nostrana, invece, appare maggiormente tesa a contemperare le posizioni di consumatori e professionisti, probabilmente con una maggiore attenzione alla posizione di questi ultimi come verrebbe da osservare guardando al sistema dell’opt-in (pure imposto dai principi del nostro ordinamento), dal filtro di ammissibilità, dalla circostanza che gli accordi conclusi dall’attore nel concreto tendano a vincolare anche i soggetti aderenti (venendo in rilievo small claims, come si diceva, difficilmente azionabili individualmente). 6. Le ipotesi emerse nella prassi giudiziaria: peculiarità delle singole fattispecie ed analisi correlata Il presente paragrafo intende esaminare taluni casi giudiziari che, in ragione delle rispettive peculiarità, appaiono di particolare interesse nella tutela giudiziale delle posizioni di classe e, dunque, meritevoli di un adeguato commento in questa trattazione. La presente disamina, in particolare, trae il proprio incipit dalla prima ipotesi di azione di classe ad esito 28 Temi Romana Saggi dei molti aspetti critici della disciplina contenuta nell’art. 140 bis cod. cons.. In particolare, la Corte d’appello di Milano ha riformato la decisione resa in primo grado da Trib. Milano 13 marzo 2012 (in Foro it., 2012, I, 1909) e ha sancito, in contrasto con Trib. Napoli 18 febbraio 2013, cit., l’inammissibilità dell’intervento volontario nel processo di classe nonché l’impossibilità di assimilare l’aderente alla parte processuale. La novità proposta dalla Corte d’appello milanese, nello specifico, sta nell’aver comunque riconosciuto all’interventore in primo grado la legittimazione ad impugnare la sentenza, ma con riferimento al solo capo relativo alle spese processuali. La scelta interpretativa compiuta è apparsa persuasiva alla dottrina20 perché tende a scoraggiare l’ampliamento del contraddittorio nel processo di classe, ontologicamente destinato, nel modello accolto dal nostro legislatore, a svolgersi tra due soli soggetti cui riconoscere i poteri e le prerogative delle parti processuali. La terza – ed ultima, per quanto consta – vicenda giudiziaria che ha visto accogliere le istanze dei consumatori è esitata nella sentenza resa dal Tribunale di Torino in data 28 marzo 2014 che ha dichiarato la nullità delle clausole aventi ad oggetto le commissioni di massimo scoperto introdotte dalla Soc. Intesa Sanpaolo S.p.A. nei confronti dei propri correntisti per violazione del dato normativo di riferimento (art. 2 bis, D.L. 29 Novembre 2008, n. 185, come convertito dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2) con conseguente condanna alla restituzione delle somme indebitamente pagate. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che le clausole, comunque denominate che impongano una remunerazione per la banca indipendentemente dall’effettivo utilizzo delle somme e dalla durata di tale utilizzo, siano del tutto vietate, pur ponendosi dei distinguo tra conti non affidati ed affidati (in riferimento a questi ultimi la nullità sarebbe evitabile, secondo il decisum, ove la remunerazione fosse ancorata ad un utilizzo per un periodo continuativo non inferiore a trenta giorni – primo periodo – o comunque sia prevista da patto scritto e con connessione effettiva all’utilizzo del fondo). Le conclusioni del Tribunale, per altro, si sono fondate altresì sulla ratio ispiratrice della norma (l’art. 2 bis, D.L. 29 novembre 2008, n. 185, come convertito dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2), diretta a considerare con sfa- tratto di viaggio “tutto compreso” atteso che la struttura alberghiera prenotata nel pacchetto turistico presentava deficienze non segnalate nel dépliant richiamato nel contratto e la struttura alternativa, dove i turisti avevano soggiornato per alcuni giorni, era qualitativamente inferiore alla prima. Sul fronte dell’identità dei diritti azionati, la pronuncia in parola ha, poi, affermato che il richiamo all’identità dei diritti di una pluralità di consumatori e utenti deve essere inteso nel senso che è necessario che tutti gli elementi costitutivi, con riferimento sia all’an, sia al quantum del risarcimento, siano identici potendosi differenziare soltanto per il fatto che ineriscano a soggetti differenti. In base al concetto richiamato, quindi, veniva dichiarata inammissibile l’adesione all’azione di classe di quei consumatori che, come dagli stessi dedotto, si trovavano in una situazione di fatto diversa da quella indicata dall’ordinanza con cui l’azione medesima è stata dichiarata ammissibile. Il dictum giudiziale in esame, come detto, si segnala per il fatto di essere la prima pronuncia di accoglimento relativa ad una domanda esercitata ai sensi dell’art. 140 bis cod. cons. Sul piano dell’analisi dei contenuti, poi, non rileva tanto l’affermazione dell’inadempimento del professionista – fondata sulla base dell’avvenuta erogazione di un servizio secondo modalità difformi e qualitativamente inferiori rispetto a quelle convenute – quanto l’applicazione del criterio dell’identità dei diritti, interpretato dalla sentenza in parola in chiave letterale piuttosto che alla stregua di un canone di omogeneità, già affermato in ambito giudiziario anteriormente alla modifica normativa indotta dal D.L. 1/12 e maggiormente condivisibile (in tal senso, App. Roma, ord. 27 gennaio 2012; App. Torino, ord. 23 settembre 2011; Trib. Roma, ord. 20 aprile 2012; Trib. Napoli, ord. 9 dicembre 2011). Altra vicenda giudiziaria inerente all’azione di classe che ha registrato un esito positivo è quella esitata nella sentenza resa dalla Corte d’Appello di Milano in data 26 agosto 201318 in cui un solo consumatore, rappresentato da un’associazione consumeristica, ha ottenuto la restituzione di 14,50 euro, pari al costo di un test influenzale pubblicizzato in modo ingannevole dalla società distributrice in Italia. La sentenza della corte meneghina è stata segnalata in dottrina19 perché contribuisce a fare chiarezza su alcuni Temi Romana 29 Saggi vore l’imposizione di remunerazioni che, non corrispondendo a servizi effettivamente resi, risulta scollegata con la funzione sinallagmatica naturalmente intrinseca al rapporto contrattuale di conto corrente21. Passando alla disamina di un altro caso giurisprudenziale, l’analisi dottrinale22 ha considerato degna di nota anche la vicenda giudiziaria esitata nell’ordinanza resa dal Tribunale di Firenze in data 15 luglio 2011. In particolare, detta pronuncia viene segnalata per quanto riguarda l’individuazione dei diritti a tutela dei quali è ammissibile l’azione di classe. Nella specie, un assessore comunale della città di Firenze aveva citato in giudizio la società affidataria del servizio di pulizia delle strade comunali, lamentando il fatto che essa non aveva provveduto a mantenere le strade pulite in occasione di una forte nevicata che si era verificata a Firenze nel dicembre 2010. Il Tribunale, con decisione confermata in sede di reclamo, ha dichiarato l’azione inammissibile sulla base della considerazione che nella specie non ricorreva alcuno dei casi previsti dalla legge per la promozione di un’azione di classe. In particolare, a giudizio del Tribunale, non sussisteva un rapporto contrattuale tra il proponente e il convenuto, dal momento che il contratto di servizio obbligherebbe il convenuto esclusivamente nei confronti dell’ente pubblico che affida il servizio. Inoltre, sempre a giudizio del Tribunale, non sussisteva una responsabilità del produttore, dal momento che, contrariamente a quanto sostenuto dal proponente, la responsabilità del produttore non ricomprende la responsabilità del fornitore di un servizio. Questa decisione è considerata degna di nota proprio perché ha escluso dal novero dei diritti tutelabili mediante un’azione di classe il diritto al risarcimento del danno subito a causa di una qualche violazione imputabile a un fornitore di servizi con il quale il proponente non sia legato da un rapporto contrattuale, conformemente all’originaria formulazione della norma. In seguito, il legislatore ha ritenuto di includere anche questo diritto tra quelli tutelabili mediante un’azione di classe. Infatti, il testo riformato dell’art. 140 bis, comma 2, lett. b), cod. cons. precisa che l’azione di classe tutela i diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto o servizio nei confronti del relati- vo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale. Questa riforma avrà certamente l’effetto di estendere l’ammissibilità di un’azione di classe anche a casi che in origine ne erano esclusi. Degna di nota appare, poi, la pronuncia resa dal Tribunale di Roma con ordinanza 11 aprile 2011, nella controversia Codacons c. BAT, specie con riferimento al dato relativo all’identità dei diritti posti ad oggetto dell’azione di classe. Il caso traeva origine dalla domanda proposta da un’associazione dei consumatori per ottenere l’accertamento della responsabilità della parte convenuta per aver esercitato un’attività pericolosa, quale la produzione e la vendita di sigarette, senza adottare tutte le misure idonee ad evitare conseguenze pregiudizievoli in capo ai consumatori, causando – così – danni non patrimoniali, consistenti nella dipendenza da nicotina, nonché nel timore di ammalarsi di altre patologie e danni patrimoniali, costituiti dalla spesa necessaria per l’acquisto quotidiano di sigarette indotto dalla dipendenza. Il Tribunale adito dichiarava con ordinanza l’inammissibilità della domanda, ritenendola manifestamente infondata ed affermando l’insussistenza dell’interesse collettivo tutelato. Più nel dettaglio, in relazione all’ultimo profilo indicato, il Tribunale di Roma affermava che “la tutela cumulativa può avvenire soltanto in quei casi in cui, per le caratteristiche della fattispecie sostanziale, la decisione del giudice si può basare esclusivamente su valutazioni di tipo comune, essendo del tutto inesistenti o marginali i temi personali; non già nell’ipotesi in cui le questioni individuali da accertare […] superino le eventuali questioni comuni a ciascun consumatore, e le caratteristiche dei diritti azionati impediscano una liquidazione dei danni omogenea e unitaria per tutte le pretese potenzialmente azionabili”23. I principi così affermati successivamente venivano confermati nella fase d’appello (da App. Roma, ord. 27 gennaio 2012). La pronuncia si segnala per la peculiarità del caso concreto nonché per l’adesione, da parte degli organi giudicanti, alla tesi giurisprudenziale incline a definire l’identità dei diritti azionati alla stregua di un criterio restrittivo piuttosto che alla luce di un più ampio criterio di omogeneità. 30 Temi Romana Saggi Proseguendo la disamina del dato giurisprudenziale, di certo interesse appare anche l’ordinanza resa dal Tribunale di Milano in data 8 novembre 2013. Tale dictum è stato segnalato in ambito dottrinale in quanto costituisce una delle prime applicazioni della nuova disciplina dell’art. 140 bis c. cons. introdotta dall’art. 6 L. 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui subordina l’ammissione dell’azione di classe non più alla “identità” ma alla “omogeneità” dei diritti dedotti24. Si ritiene comunemente che tale modifica sia diretta a favorire l’accesso all’istituto, coerentemente alla rubrica della norma di modifica (“Norme per rendere efficace l’azione di classe”), ma l’esatto significato del concetto di omogeneità è controverso: mentre vi è chi ritiene che si evochi un’interpretazione diffusa in altri ordinamenti di lingua latina, secondo la quale essa consiste nella dipendenza del danno risarcibile da una medesima azione, omissione o condotta abituale, altri affermano che implichi invece la necessaria predominanza delle questioni comuni su quelle individuali. Il dubbio dipende dalla ricostruzione che si adotta a proposito delle finalità dell’istituto de quo: la seconda interpretazione, in qualche modo avallata dalla pronuncia odierna, si ricollega all’idea che l’azione di classe svolga soprattutto funzioni di economia processuale; la Corte milanese la riprende, aggiungendo un riferimento forse meno pregnante all’esigenza di assicurare uniformità delle decisioni. La prima interpretazione, per converso, concepisce l’istituto come uno strumento rivolto anche ad altri fini, in particolare di deterrenza delle condotte illecite25. Le doglianze posta alla base della controversia in parola erano state avanzate dall’Associazione Altroconsumo la quale proponeva azione ex art. 140 bis, D.Lgs. 206/2005, chiedendo che, dichiarata l’ammissibilità dell’azione e fissati i criteri per l’inclusione dei futuri aderenti alla domanda in modo da ricomprendervi tutti gli abbonati ai servizi ferroviari delle Trenord s.r.l. nel periodo 9 dicembre 2012-19 dicembre 2012, la convenuta Trenord s.r.l. fosse condannata al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali causati agli utenti del servizio ferroviario da questa gestito in talune giornate del mese di dicembre 2012 allorquando – a seguito dell’introduzione senza adeguata sperimentazione di un nuovo software per l’assegnazione e l’organizzazione dei turni del personale dipendente – si erano Temi Romana verificati gravissimi disservizi su tutte le tratte coperte dal servizio. In particolare, secondo l’assunto di parte attrice, si erano verificati ritardi dei convogli in partenza ed in arrivo, soppressione di molteplici treni, mancanza di informazioni ed assistenza, trasbordi da un convoglio all’altro, sovraffollamento dei vagoni, modifica degli itinerari (per la cui descrizione si rinviava ai resoconti redatti dai singoli attori, sub. doc. 21a), i quali tutti avrebbero configurato inadempimenti alle obbligazioni assunte nei confronti di ciascun utente con il contratto di trasporto, il cui contenuto sarebbe stato integrato delle condizioni dettate dal c.d. contratto di servizio stipulato dalla convenuta con la Regione Lombardia, relativamente agli standard minimi di qualità del servizio da erogare all’utenza. A seguito di tali fatti e delle correlate difese giudiziali avanzate sul punto dalla Società convenuta, il Tribunale dichiarava l’inammissibilità dell’azione collettiva, ritenendo la disomogeneità delle posizioni dei soggetti appartenenti alla classe. In particolare, secondo le parole dell’ordinanza, “Omogenea, in realtà, si presenta nella fattispecie solo la causa che ha provocato gli inadempimenti lamentati dagli abbonati al servizio ferroviario (e dunque la messa in funzione di un sistema informatico per la gestione dei turni del personale senza la necessaria sperimentazione, risultato così inidoneo a garantire la presenza di addetti su ogni convoglio), del tutto estrattori al rapporto fra Trenord s.r.l. e gli utenti, rispetto ai quali vengono in rilievo esclusivamente le conseguenze di tale errata scelta, e dunque l’inadempimento alle obbligazioni assunte con il contratto di trasporto. Queste, secondo la stessa descrizione offerta dagli attori, sono state invece affatto diverse tra loro, trattandosi in alcuni casi di ritardi tra i 15/20 minuti, in altri tra ì 60/80 minuti, in altri ancora di diverse ore, od altresì di cancellazione di convogli con dirottamento su altri: certamente comune a tutto tali situazioni è stata prospettata l’erogazione di un servizio inaccettabile quanto a sovraffollamento delle carrozze, ma è evidente come anche questo inadempimento si configuri in modo del tutto differente in relazione alla durata dei vari percorsi. Difettano di uniformità anche i danni lamentati dai singoli attori promotori dell’odierna iniziativa giudiziaria: ed infatti non solo non possono essere equiparati i pre- 31 Saggi Con maggiore sforzo esplicativo, l’ipotesi in esame costituisce un caso di danno seriale azionabile con lo strumento processuale di cui all’art. 140 bis, cod. cons. laddove le differenti posizioni degli utenti del servizio di trasporto con riferimento alla difformità dei danni subiti potevano essere valutate e giustiziate – si ritiene – alla stregua di criteri omogenei di calcolo per la liquidazione delle somme di spettanza, in conformità al disposto di cui al comma 12 del ridetto art. 140 bis. Le tesi da ultimo sostenute, per altro, appaiono da ultimo condivise anche dalla giurisprudenza, posto che un’ulteriore ricerca è esitata nella discoperta di un avviso – pubblicato sul sito Internet del Ministero dello Sviluppo Economico – che recita nei seguenti termini: “Il Tribunale di Milano (10^ sezione Civile) ha fissato termini e modalità di pubblicità dell’azione di classe nei confronti dell’operatore ferroviario della Regione Lombardia Trenord Srl, per permettere agli utenti pendolari di aderire alla class action proposta da Altroconsumo (art. 140 bis del Codice del Consumo). La Corte di Appello di Milano (2^ sezione civile), infatti, aveva dichiarato ammissibile l’azione di classe proposta da Altroconsumo contro Trenord S.r.l. per i danni subiti dai pendolari a causa del disservizio ferroviario dello scorso dicembre 2012. Gli utenti coinvolti sono, pertanto, i pendolari che possiedono un abbonamento settimanale, mensile o annuale valido per le tratte ferroviarie coperte da Trenord nel periodo tra il 9 al 19 dicembre 2012. Gli interessati hanno tempo fino al 27 settembre 2014 per il deposito degli atti di adesione presso la cancelleria del Tribunale di Milano. Il Tribunale di Milano ha stabilito, inoltre, che la pubblicità (ai sensi del comma 9, art. 140 bis Codice del Consumo) per la divulgazione della class action in corso deve effettuarsi sul quotidiano La Repubblica e rispettivamente sui siti web del Tribunale e del Ministero dello sviluppo economico”. Paiono, dunque, accolte, nel proprio aspetto ultimo e sostanziale, le considerazioni critiche sopra espresse in ordine alla pronuncia resa dal Tribunale di Milano in data 8 novembre 2013. giudizi subiti da coloro i quali siano giunti in ritardo di 30 minuti al luogo di destinazione rispetto a quelli che siano rimasti in attesa per ore sulle banchine ferroviarie, ma nemmeno quelli di coloro che abbiano comunque usufruito del servizio con i connessi disagi e quelli di coloro che, scoraggiati dalla prima esperienza, abbiano nei giorni successivi deciso di recarsi al lavoro con la propria auto. Ritiene infatti questo Tribunale che anche i danni lamentati debbano presentare caratteri di base comuni (pur non richiedendosi l’identità del petitum), in mancanza dei quali verrebbe meno la possibilità di trattare congiuntamente la fase di merito con riferimento ad una pluralità (potenzialmente indefinita, per effetto delle eventuali adesioni ex art. 140 bis, IX co. lett. a) di crediti: contestualmente all’introduzione del sicuramente più elastico criterio della “omogeneità”, il legislatore del 2012 ha previsto che la liquidazione del danno sia definitivamente attuata con la fase decisoria dell’azione di classe (rimanendo in via alternativa la possibilità di stabilire il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione), sul necessario presupposto che siano aggregati fin dall’inizio del processo pretese individuali suscettibili di essere valutate unitariamente, senza la necessità di un’istruttoria relativa alle particolari posizioni degli attori, La class action può dunque essere esperita solo per far valere crediti di natura seriale ed isomorfi, diversamente non potendo conseguire quelle finalità di economia processuale e di uniformità decisoria che le sono unanimemente riconosciute. La domanda deve pertanto essere dichiarata inammissibile…[omissis]”. Per la verità, la pronuncia appena richiamata non appare convincente: il danno riportata dagli utenti, pur non identico, originava dalle medesime cause e, in via di massima, si atteggiava in termini di affinità, similarità o, per dirla con le parole del legislatore, in termini di omogeneità. Pare che negare l’applicabilità dell’istituto in un’ipotesi di danno a valenza plurima come quello azionato nel caso di specie valga, in qualche misura, a privare di fondamento la valenza dell’azione di classe, vale a dire il ruolo che il legislatore ha inteso attribuire a tale azione all’interno del nostro ordinamento. _________________ 1 Cfr. SACCHI, Nuova class action., cit. 3 Opinione sostenuta anche da C. SCO- zione e rimedi nell’azione di classe., in Class 2 Cfr. SACCHI, Nuova class action., cit. GNAMIGLIO, action il nuovo volto della tutela collettiva in Risarcimento del danno, restitu- 32 Temi Romana Saggi Italia – Atti, Milano, Giuffrè, 2011. di classe, in Riv. Dir. Proc., 2013, 1, p. 191. 4 Trib. Torino, Ord. 4 giugno 2010. 12 Cfr. CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe, cit., p.172 e ss. 5 Così CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe, cit., p. 110. 6 Così V. TAVORMINA, La nuova class action: il coordinamento con la disciplina del codice di procedura civile, in Obbl. e Contr., 2010, 4, p. 246. 7 Così CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe cit., p. 176. 8 Cfr. SACCHI, Nuova class action, cit. 9 Così SACCHI, Nuova class action, cit. 10 Cfr. CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe, cit., p. 176. 11 Così S. BOCCAGNA, Una condivisibile pronuncia della Corte di cassazione sulla non ricorribilità ex art. 111 Cost. dell’ordinanza che dichiara inammissibile l’azione Temi Romana 20 Cfr. DE SANTIS, Recenti sviluppi della giurisprudenza, cit. 14 Cfr. Di LANDRO, Interessi dei consumatori e azione di classe, cit., p. 142 e ss. 21 Per un approfondimento sulla pronuncia in commento, cfr. A. ANTONUCCI, Class action bancaria: considerazioni sulla prima vittoria consumeristica, in Nuova Giur. Civ., 2014, 7-8, p. 580. 15 Cfr. Trib. Torino, 4 giugno 2010, ord., in Danno resp., 2011, p. 81 e ss. 22 Cfr. G. AFFERNI, Recenti sviluppi dell’azione di classe cit., p. 1275 e ss. 16 Cfr. SACCHI, Nuova class action., cit. 23 Ricostruzione della vicenda giudiziaria tratta da R. DONZELLI, L’azione di classe tra pronunce giurisprudenziali e recenti riforme legislative, in Corriere Giur., 2013, 1, p. 103. 13 Cfr. BOCCAGNA, Una condivisibile pronuncia della Corte, cit., p. 191 e ss. 17 Sintesi della vicenda giudiziaria mutuata da G. AFFERNI, Recenti sviluppi dell’azione di classe, in Contratto e Impr., 2013, 6, p. 1275. 18 In Foro it., 2013, I, p. 3326. 19 Cfr. A. D. DE SANTIS, Recenti sviluppi della giurisprudenza sull’azione di classe a tutela dei consumatori, in www.Treccani.it, 14 gennaio 2014. 33 24 Cfr. A. GIUSSANI, Intorno alla tutelabilità con l’azione di classe dei soli diritti omogenei, in Giur. It., 2014, 3, p. 603. 25 Così GIUSSANI, Intorno alla tutelabilità, cit., p. 603 e ss. Saggi Il concorso del professionista nei reati connessi alla crisi d’impresa Tommaso Pietrocarlo Avvocato del Foro di Roma 1. Il concorso del professionista nei reati connessi alla crisi d’impresa deve essere inquadrato – sia pure in termini generali – nell’ambito delle tematiche riguardanti il concorso di persone nel reato. Con la presente trattazione non si intendono affrontare le responsabilità, per così dire, dirette, ossia quelle in cui potrebbe incorrere colui che, in ragione della professione esercitata, vada a ricoprire la carica di amministratore o di sindaco di una società, ovvero assuma la veste di attestatore – quale professionista indipendente – nei casi di concordato preventivo, accordo di ristrutturazione o piano attestato, previsti dalla legge fallimentare. Si vuole, piuttosto, esaminare la possibilità che un “consulente” di impresa, di solito un avvocato o un commercialista, concorra, per effetto dei “consigli” dati o delle attività poste in essere in una situazione di crisi aziendale, nei reati commessi dall’imprenditore o dagli altri soggetti chiamati “direttamente” dalla legge penale a rispondere di talune ipotesi di reato. Pertanto, per affrontare la tematica in questione, è necessario formulare, attraverso l’esame dei principi generali in materia di concorso di persone nel reato, alcune ipotesi in cui taluno possa concorrere nel reato commesso da altri. derne soltanto ove abbia realizzato interamente tutti gli elementi espressamente previsti dalla norma penale, ossia quando abbia posto in essere la condotta ivi descritta, quando l’evento – ove previsto – si sia realizzato e, da ultimo, quando ricorra anche l’elemento psicologico contemplato dalla previsione normativa. 3. La situazione presenta caratteri più problematici – con riguardo al rispetto dei canoni di tipicità e di tassatività del precetto penale – allorquando il fatto reato sia stato commesso da più soggetti. In tali casi, potrebbe in astratto accadere: a) che ciascuno dei concorrenti realizzi interamente la condotta tipica; b) che solo uno o alcuni soggetti la realizzino, mentre altri si limitino ad attività di preparazione o agevolazione; c) che ciascun concorrente realizzi soltanto un segmento di condotta e che questa sia quindi realizzata dall’insieme di tali segmenti; d) che uno o taluni soggetti si limitino a far sorgere il proposito di altri di compiere il fatto illecito, ovvero rafforzino tale proposito criminoso. 4. Il nostro Codice penale, con l’art. 110, ha adottato i principi di unicità della fattispecie concorsuale e di pari responsabilità di ciascun concorrente. Si afferma, infatti, come tale norma riguardi, prima ancora che l’aspetto della responsabilità, quello della tipicità, nel senso che essa andrebbe ad innestarsi nella fattispecie penale c.d. monosoggettiva e consentirebbe la punibilità di condotte che altrimenti – isolatamente considerate – non sarebbero punibili, poiché costituenti soltanto parti di quelle previste dalla norma penale. Nei vari casi indicati al n. 3 che precede, infatti, e senza una disciplina del concorso, soltanto nell’ipotesi sub a) sarebbero punibili le condotte di tutti i concorrenti, poiché ciascuno di essi, avendo realizzato per intero la 2. Nel nostro sistema penale vigono, come è noto, oltre che il principio di legalità, anche i corollari di tipicità e di tassatività della fattispecie penale. Con tali concetti si intende precisare che l’illecito penale, oltre che essere previsto da una norma di legge, deve contenere l’esatta e precisa enunciazione del fatto costituente reato, in modo tale che ciascuno sappia con certezza, prima di agire, quale sia il comportamento vietato e sanzionato dalla norma penale. Quando il reato è interamente commesso da un solo soggetto, questi – in sintesi – sarà chiamato a rispon34 Temi Romana Saggi condotta tipica, sarebbe punibile in base alla sola norma penale incriminatrice. Si pensi, viceversa, all’ipotesi sub 3), b) e c), in cui nessuno o soltanto taluno dei concorrenti ponga in essere quella condotta esattamente prevista dalla norma penale. A stretto rigore, in assenza della disciplina del concorso di persone nel reato, nessuno dei concorrenti di cui all’ipotesi sub c) sarebbe punibile e, rispetto all’ipotesi sub b), lo sarebbero soltanto alcuni di essi. Quanto all’ipotesi sub d), senza una disciplina del concorso resterebbero al di fuori della sfera di punibilità quei soggetti che non hanno compiuto alcuna attività materiale, ma hanno soltanto “influenzato” moralmente la commissione del reato. E allora, poiché le norme penali incriminatrici sono, di regola, costruite come fattispecie c.d. monosoggettive, soltanto attraverso il “sistema” delineato dagli artt. 110 e ss. c.p. è possibile ritenere illecite anche quelle condotte “causali” rispetto al fatto reato, che altrimenti non potrebbero essere sanzionate. In tutti questi casi, il concorrente nel reato risponde a pieno titolo del reato commesso da altri, sebbene non ne abbia realizzato la condotta tipica, ma abbia soltanto “influenzato” moralmente l’autore materiale. La giurisprudenza appare spesso consapevole che, soprattutto in tema di concorso morale, esiste un rilevante profilo di possibili forme atipiche e differenziate in cui può manifestarsi il contributo causale del concorrente. Tuttavia, si afferma che tale circostanza, ben lungi dal rendere penalmente irrilevante il contributo del determinatore o dell’istigatore, fa sorgere soltanto l’obbligo, da parte del giudice, di “… motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti …” (così la ben nota SS.UU. 30.10.2003, n. 45276). 8. Quanto all’elemento psicologico del reato a titolo di concorso, esso richiede la consapevolezza e la volontà del contributo causale arrecato alla condotta altrui, oltre che quello previsto dalla fattispecie monosoggettiva. 5. Si deve, a questo punto, stabilire sulla base di quali principi una condotta “atipica” possa dirsi, comunque, “causale” rispetto al fatto reato e, dunque, possa dare luogo ad un’ipotesi di concorso nel reato. Ciò con l’importante precisazione che, comunque, la consumazione del reato segna il limite oltre il quale non vi è possibilità di concorso: pertanto, la condotta rilevante dovrà essere necessariamente individuata tra quelle poste in essere prima di tale momento. 9. Come quasi tutti i reati, anche quelli che possono rilevare nell’ambito della c.d. crisi d’impresa sono costruiti come fattispecie monosoggettiva. Si pensi, ad esempio, alla bancarotta fraudolenta prevista dall’art. 216 L. Fall., che ha come destinatario l’imprenditore e, per effetto dell’estensione ex art. 219, gli amministratori, i direttori generali, i sindaci ed i liquidatori di società. Ebbene, anche rispetto a tale reato possono venire in rilevo le norme ed i principi, appena ricordati, in materia di concorso di persone e, dunque, anche il c.d. extraneus può concorrere nel reato di bancarotta. Le forme possono essere, perciò, tanto quella del concorso materiale che quella del concorso morale. Si pensi, ad esempio, al “consiglio”, dato dal consulente all’imprenditore o all’amministratore di una società in crisi, di costituire una “bad company” ove collocare le passività o una società “good” ove inserire gli asset in pregiudizio dei creditori ed in modo da cagionare il fallimento (art. 223, comma 2, n. 2 L. Fall., fallimento per effetto di operazioni dolose). 6. Appare ormai consolidata, in dottrina ed in giurisprudenza, quella teoria che costruisce la “causalità” nel concorso di persone nel reato in termini di causalità c.d. agevolatrice o di rinforzo. Si afferma che, da un punto di vista oggettivo, la condotta del concorrente è punibile, a titolo di concorso c.d. materiale, anche quando essa, considerando ex post l’evento così come si è, in concreto, verificato, ne abbia soltanto facilitato la realizzazione, rendendolo più probabile, più facile, più grave. 7. Quanto al c.d. concorso morale, è da tempo consolidata la distinzione tra colui che faccia sorgere l’altrui proposito criminoso (c.d. determinatore) e colui che rafforzi tale proposito (c.d. istigatore). Temi Romana 35 Saggi Tale “consiglio” si può tradurre, per ciò solo, in caso di dichiarazione di fallimento, in una ipotesi di concorso morale per determinazione o istigazione altrui – ossia per aver fatto sorgere, ovvero rafforzato, l’altrui proposito criminoso – nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Ove, invece, il professionista abbia agevolato – attraverso la predisposizione di mezzi, strutture, pareri tecnici, etc. – la commissione del reato, si potrebbe profilare un vero e proprio concorso materiale. comune sentire, che un consulente possa concorrere nel reato di bancarotta ove coadiuvi materialmente l’imprenditore a distrarre beni dalla società, magari mettendo a disposizione altro ente cui cedere, a prezzo esiguo o senza alcuna contropartita, beni sociali, può essere meno “intuitivo” ritenere illecito il semplice “consiglio”, dato dal consulente, di trasferire un bene ad altra società per sottrarlo al fallimento. Tuttavia, soprattutto la disciplina del concorso c.d. morale prima ricordata, laddove ritiene che tale forma di responsabilità sussista anche in capo a colui che si limiti a “rafforzare” un proposito criminoso già esistente, sembra chiaramente orientata nel senso restrittivo. Del resto, la massima prima ricordata è proprio il frutto dell’applicazione dei principi sul concorso morale, secondo cui non occorre che il concorrente abbia posto in essere una condotta materiale concretamente percepibile, ma è sufficiente che egli abbia determinato altri a commettere un delitto, ovvero lo abbia, per così dire, “incoraggiato”. Si veda, nello stesso senso, Cass. 15.2.2008, n. 10742, in tema di affitto di azienda privo di effettiva contropartita e preordinato ad avvantaggiare i soci a scapito dei creditori. La S.C. ha, in questo caso, ritenuto sussistente il concorso del consulente della società nel reato di bancarotta fraudolenta per aver progettato e portato ad esecuzione la conclusione di tale contratto. 10. Ancora più insidiosa si può presentare l’ipotesi di concorso eventuale nel reato di bancarotta fraudolenta c.d. documentale, che ricorre anche quando la contabilità esista, ma sia tenuta in modo tale da impedire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (art. 216, comma 1, n. 2, ult. parte). In linea di principio, il consulente contabile dovrebbe comunque restare estraneo a tale possibile incriminazione, atteso che, di per sé, l’obbligo di una corretta tenuta della stessa grava sull’imprenditore, ovvero su amministratori, sindaci, liquidatori. 11. La giurisprudenza, tuttavia, sia pure in presenza di un atteggiamento non meramente inerte del professionista, ha ritenuto, con riferimento ad entrambe le forme di bancarotta, che: “Concorre in qualità di extraneus nei reati di bancarotta patrimoniale e documentale il consulente contabile che, consapevole dei propositi distrattivi o di confusione contabile dell’imprenditore, dia consigli o suggerimenti sui negozi giuridici atti a sottrarre i beni ai creditori o lo assista nella conclusione dei relativi negozi o svolga attività dirette a garantirgli l’impunità o a rafforzarne, con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni l’intento criminoso”. (Così, Cass., Sez. V, 9.10.2013, n. 49472). 13. Le medesime conclusioni si attagliano, ad esempio, anche all’ipotesi di falso in bilancio ex artt. 2621 e 2622 c.c., punite, in caso di fallimento, alla stregua della bancarotta, ai sensi dell’art. 223, comma 2, n. 1, L. Fall.. Anche se la norma in esame richiede, accanto alla falsità nel bilancio e nelle altre comunicazioni sociali, la prova che tali operazioni siano state causali rispetto al dissesto, è tuttavia possibile e, anzi, probabile che – ove si sia giunti all’esposizione di dati falsi attraverso il “consiglio” di un “esperto” e da tale consiglio sia derivato anche un semplice aggravamento del dissesto – il professionista sia chiamato a rispondere del delitto in esame. 12. Ecco, dunque, che si delinea una sorta di zona, per così dire, grigia, dai contorni estremamente problematici, nell’ambito della quale il professionista – ancorché non si spinga fino a mettere a disposizione dell’imprenditore mezzi, strutture, persone, e tuttavia orienti, con la sua “scienza”, le scelte imprenditoriali – può, comunque, concorrere nei reati c.d. fallimentari. Se, infatti, nessun dubbio sussiste, neppure in base al 14. Nei reati tributari, il concorso del professionista (morale o materiale) nel reato dell’imprenditore può 36 Temi Romana Saggi configurarsi attraverso modalità analoghe alle precedenti. Si pensi, con riguardo esclusivamente alle ipotesi meno eclatanti, al “consiglio” di creare, ovvero di utilizzare, società estere che si frappongano nell’acquisto di beni o servizi, con il risultato di ottenere costi fittizi e, eventualmente, anche una provvista estera sottratta a tassazione. Secondo le regole generali in materia di concorso c.d. morale, il consulente in questo caso risponderebbe, in concorso con l’imprenditore, del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false, ex art. 2 D.Lgs. 10.3.2000, n. 74. Ciò, pur non avendo fornito alcun apporto materiale (es.: mettendo a disposizione società esistenti, persone compiacenti, etc.) alla commissione del fatto. Si pensi, ad esempio, al caso del tenutario di scritture contabili di una società c.d. “cartiera”, ossia quella non dotata di attrezzature, strutture, personale che però emetta fatture per prestazioni di beni o servizi che non può rendere. O, specularmente, all’eventuale concorso del consulente con colui che utilizzi tali fatture in dichiarazione. La S.C., con sentenza 26.5.2010, n. 35453, Sez. V, ha ritenuto responsabile del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, ex art. 8 cit., anche il commercialista – in concorso con il legale rappresentante della società emittente – nel cui studio furono rinvenute numerose fatture irregolari che non erano state contabilizzate dall’emittente, ma che, tuttavia, erano regolarmente annotate nella contabilità dell’utilizzatore. 16. Conclusivamente, si può affermare che il ruolo del consulente, specialmente nel caso in cui esso venga esercitato in una situazione di crisi d’impresa, si può prestare agevolmente ad essere qualificato in termini penalmente rilevanti se il comportamento tenuto non tenga adeguatamente conto della portata dei principi in tema di concorso di persone nel reato, ormai pacifici in giurisprudenza. 15. Sempre ponendo l’attenzione ad ipotesi, per così dire, meno evidenti, si potrebbe profilare anche il concorso – da parte del commercialista che curi la contabilità della società emittente – nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. cit.), ovvero in quello di dichiarazione fraudolenta mediante uso di false fatture (art. 2). Temi Romana 37 Saggi Gioco d’azzardo patologico: nuove esigenze di tutele e vecchie regole di contesto Rita Tuccillo Avvocato del Foro di Roma, Dottore di Ricerca in Diritto dell’arbitrato interno ed internazionale Università Luiss “Guido Carli” di Roma 1. Introduzione Il gioco1 è, sul piano fattuale, un’attività ludica piacevole e di svago, a carattere individuale o collettivo, che coniuga differenti funzioni di sviluppo della creatività, di educazione e pedagogia2, di prevenzione dell’ira3 e di relax4. Il gioco è una delle prime manifestazioni di vita del bambino, ma caratterizza l’intero percorso della vita. La ragione del continuo interesse dell’uomo al gioco si può ravvisare nel bisogno di evadere dalla realtà quotidiana per rifugiarsi in quello che viene definito il “mondo magico del gioco”5. Storicamente considerato uno strumento socialmente utile quale mezzo di svago e distrazione, può assumere “connotati parossistici e sproporzionati, quando da forma di svago diventa passione smodata, che distoglie dalle comuni attività della vita”6. Il gioco può trasformarsi in una “fonte di disordini morali, suscettibili di compromettere gravemente gli interessi patrimoniali e familiari del contraente, accecato dalla passione”7. Il fenomeno del gioco lungi dall’apparire come aspetto giuridico “di interesse meramente dottrinale e studiato per solo desiderio di completezza”8 ha assunto un ruolo determinante nel panorama economico e giuridico degli stati moderni che ne detengono il monopolio. L’offerta statale di giochi è varia e progressivamente crescente, in quanto rappresenta uno strumento di finanziamento per i bilanci pubblici. Tuttavia mentre lo svolgimento sporadico di giochi può avere effetti limitati sul reddito e sulla salute, il suo esercizio assiduo può incidere sul giocatore creandone dipendenza, sino a diventare una patologia. Sicché si assiste nel corso degli ultimi anni ad una crescente diffusione delle pratiche del gioco e ad una preoccupante incremento dei giocatori d’azzardo patologici. dell’obbligatorietà o meno dei debiti di gioco o di scommessa non sembrano uniformi. Il diritto romano presentava due possibili alternative: in alcune ipotesi, vietava in pecuniam ludere; in altre, riconosceva piena validità ed efficacia al gioco. Pertanto le scommesse sulla corsa, sulla lotta, o sul salto erano valide ed efficaci e davano luogo ad obbligazioni protette con azione; le scommesse proibite erano colpite con sanzioni penali e davano luogo altresì all’infamia9. Il codice civile del 1865 si limitava a distinguere tra debito munito di azione e debito non munito di azione. L’invalidità dei negozi collegati al gioco dipendeva da un giudizio di illiceità del gioco medesimo, derivante da illiceità della causa di gioco o da illiceità per contrarietà a norme imperative10. L’ordinamento giuridico vigente riconosce rilevanza giuridica al gioco ove più soggetti si accordano per disputare una gara o una partita in base a “regole da loro stessi imposte o comunque accettate, obbligandosi ad una prestazione di contenuto patrimoniale a favore”11 del vincitore. Una prima dicotomia tra giochi è presente nel codice civile12 che distingue tra “giuoco” e “scommessa” (artt. 1933-1935 c.c.). La distinzione è considerata giuridicamente irrilevante, non esistendo una differenza di disciplina applicabile tale da giustificare una classificazione, utile solo ad appagare esigenze di precisione concettuale13. Dunque, il prevalente orientamento dottrinale14 ravvisa nel gioco un mero presupposto di fatto della scommessa, di tal che il gioco diverrebbe rilevante per il diritto solo quando vi sia una scommessa sull’esito dello stesso15. Ciò premesso, dall’analisi degli articoli 1933-1935 del codice civile e degli articoli 718-723 del codice penale è possibile distinguere tre tipi di giochi: giochi vietati; giochi non proibiti ma tollerati; giochi pienamente tute- 2. Classificazione dei giochi I criteri posti dagli ordinamenti giuridici a fondamento 38 Temi Romana Saggi dipendenza dell’esecuzione di una o di alcune delle prestazioni dal verificarsi di un evento incerto. L’aleatorietà non dipende dalla incertezza intorno al vantaggio economico derivante dal contratto, non rilevando giuridicamente tale circostanza, ma si identifica nel dato strutturale della subordinazione dell’an o del quantum delle prestazioni all’esito del gioco o della scommessa21. L’art. 1935 c.c. prevede che “non compete azione per il pagamento di un debito di giuoco o di scommessa, anche se si tratta di giuoco o di scommessa non proibito”. In tali ipotesi di giochi e scommesse, l’unico effetto riconosciuto dall’ordinamento al gioco, “anche se si tratta di giuoco o di scommessa non proibiti” (ex art. 1933 c.c.), è la soluti retentio del vincitore. Il fondamento della irripetibilità è variamente indicato dalla dottrina. Secondo alcune opzioni interpretative22, il debito di gioco sarebbe da ricondursi ad un’obbligazione naturale; secondo altre23, si tratta di prestazioni contrarie al buon costume. Altro orientamento dottrinale ritiene che l’irripetibilità, con la quale viene sanzionato il debito di gioco, trovi la sua ratio nell’essere la prestazione subordinata nell’an e nel quantum all’esito di un gioco e, quindi, nel fatto che il trasferimento patrimoniale, prodottosi in dipendenza dell’esito del gioco medesimo, non risponde a interessi economici meritevoli di piena tutela. Tale trasferimento non potrebbe, quindi, essere ricondotto all’adempimento di un dovere morale e sociale, ma neanche potrebbe essere ritenuto immorale24. In altre parole, l’art. 1933 c.c. stabilisce quale regola giuridica generale che il gioco è un’attività considerata non meritevole di tutela, tanto che da un lato non dà azione al vincitore, dall’altro, non consente la ripetizione di quanto pagato. L’obbligazione sottesa al rapporto giuridico del gioco d’azzardo lecito manca della coercibilità, ma l’adempimento spontaneo non è ripetibile25. lati. La tripartizione dei giochi non si basa sulle caratteristiche del gioco, ma esclusivamente sulla voluntas legis. Il legislatore stabilisce quali giochi sono proibiti, quali giochi sono tollerati e quali, infine, sono tutelati. 3. Giochi vietati L’articolo 718 c.p. sancisce il principio generale per cui il gioco d’azzardo è illegale per l’ordinamento, se non autorizzato. La ratio legis dell’assunto trova fondamento nella concezione del gioco d’azzardo come un “vizio” che “rafforza la cupidigia e l’avversione al lavoro”16, tanto che l’esigenza ludica diffusa nel sociale deve poter essere esercitata esclusivamente sotto il controllo e il monopolio statale, che gestisce il gioco d’azzardo lecito. L’art. 721 c.p. definisce “giochi d’azzardo” illegali quelli nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è, interamente o quasi, aleatoria. Integrano la fattispecie del gioco d’azzardo il relativo esercizio, l’agevolazione o la partecipazione allo stesso, ove tali condotte siano tenute “in un luogo pubblico o aperto al pubblico o in circoli privati di qualunque specie” (ex artt. 718 e 720 c.p.). L’art. 721 c.p. considera un gioco “d’azzardo” in presenza di due elementi costitutivi: il fine di lucro e l’alea. La Corte di Cassazione Penale ha precisato che “Il gioco d’azzardo, punito dall’art. 718 cod. pen., si configura allorché l’abilità del giocatore assume un ruolo minimo rispetto alla aleatorietà dovuta alla fortuna ed al caso e sussiste un fine di lucro, che può essere escluso solo allorquando la posta sia talmente tenue da avere un valore del tutto irrilevante”17. Il gioco o “la scommessa proibita ha dal punto di vista civilistico causa illecita” per contrarietà a norma imperativa e all’ordine pubblico ed è, quindi, sanzionata con la nullità, “ne nasce la negazione al vincitore dell’azione per ottenere la posta vinta e l’ammissibilità della ripetizione di quanto abbia pagato il perdente”18. L’obbligazione naturale è, quindi, estranea a questa fattispecie e riferibile solo alle ipotesi di giochi non proibiti. 5. Giochi pienamente tutelati I giochi pienamente tutelati producono effetti contrattuali e sono assistiti da azione in giudizio per il pagamento della posta promessa. L’ordinamento giuridico vieta il gioco d’azzardo da un lato, e, attraverso leggi speciali (Casa da Gioco, Lotto, Lotterie Nazionali) e norme derogative, conferisce 4. Giochi non proibiti ma tollerati Il Capo XXI del libro IV del codice civile è rubricato “Del giuoco e della scommessa”. Il gioco e la scommessa19 sono tipici contratti aleatori20, in ragione della Temi Romana 39 Saggi liceità e tutela ai giochi d’azzardo autorizzati, in quanto gestiti direttamente o indirettamente dallo Stato (a mezzo di Gestori licenziati dal Ministero), dall’altro. La legittimità costituzionale delle leggi speciali che derogano al divieto di gioco d’azzardo è stata confermata dalla Corte Costituzionale, che ha affermato l’impossibilità che “i proventi del gioco lecito siano al tempo stesso prodotto di un reato ed entrate di diritto pubblico: e ciò in base al carattere di unità e di coerenza del nostro ordinamento giuridico”26. L’evidente contrasto tra il divieto di giochi d’azzardo, previsto dagli artt. 718-721 c.p., e l’offerta al pubblico degli stessi in regime di monopolio statale è motivato sull’assunto che “solo una legge dello Stato può derogare al diritto penale vigente, tale effetto può essere conseguito anche da una legge non emessa espressamente ad hoc, purché contenga disposizioni incompatibili con il divieto penalmente sanzionato. Si può inoltre rammentare che per le disposizioni penali in generale o per quelle specifiche in tema di gioco d’azzardo (artt. 718-722 c.p.) fa difetto un divieto di abrogazione o modifica tacita”27. Se ne desume che i giochi d’azzardo pienamente tutelati trovano la loro legittimità in leggi statali di natura e con efficacia derogatoria delle disposizioni penali richiamate. Efficacia derogatoria, disposta dal legislatore, che troverebbe “ragioni giustificative della sottrazione di ipotesi di specie alla disciplina della ipotesi di genere: accanto a quella più generale di disincentivare l’afflusso di cittadini italiani a case da gioco aperte in Stati confinanti nelle zone prossime alla frontiera, si pone quella più particolare di sovvenire alle finanze di comuni o regioni ritenute dal legislatore particolarmente qualificate dal punto di vista turistico e dalla situazione di dissesto finanziario”28. Tali ragioni giustificative sono considerate dal legislatore prevalenti rispetto ad altri valori costituzionalmente tutelati, quali: il lavoro, di cui all’art. 1 Cost., inteso come valore fondamentale caratterizzante la forma dello Stato che manifesta la volontà della Costituzione che tutti i cittadini siano impegnanti in attività socialmente utili; il risparmio, incoraggiato e tutelato dall’art. 47 Cost.; la solidarietà sociale, che tramuta il diritto del cittadino al lavoro in un dovere sociale; la libertà e dignità umana, che posso essere pregiudicate dal gioco d’azzardo29. Ne consegue che l’offerta di giochi d’azzardo leciti è oggi molto varia e vi rientrano, in primis, le competizioni sportive e le lotterie autorizzate. L’art. 1934 c.c. individua infatti quali giochi tutelati “I giuochi che addestrano al maneggio delle armi, le corse di ogni specie e ogni altra competizione sportiva”. Per verificare se si tratti di una competizione sportiva secondo una voce dottrinale30 non assume rilievo lo sforzo fisico dei partecipanti, secondo altra dottrina31 l’elemento rilevante è la vigoria fisica da intendersi non come sforzo, ma come esercizio del corpo. Benché le competizioni sportive rientrino tra i giochi tutelati dall’ordinamento è previsto il potere del giudice di rigettare o di ridurre la domanda di adempimento dell’obbligazione contratta ove ritenga la posta eccessiva. Il diritto alla prestazione è, ovviamente, subordinato allo svolgimento della competizione nel rispetto delle regole. Il successivo art. 1935 c.c. prevede poi che “le lotterie danno luogo ad azione in giudizio, qualora siano legalmente autorizzate”. La lotteria32 è qualificata come un contratto bilaterale o plurilaterale avente ad oggetto una prestazione patrimoniale caratterizzata dall’aleatorietà del risultato e dall’aperta partecipazione del pubblico. Il presupposto di liceità della lotteria è l’autorizzazione. Quest’ultima realizza un elemento della fattispecie, la cui assenza comporterebbe la nullità del contratto e la ripetibilità delle prestazioni. Nell’alveo dei contratti di lotteria autorizzata rientrano anche le lotterie istantanee33. Tali lotterie, a differenza di quelle tradizionali in cui le vincite vengono attribuite a posteriori, sono caratterizzate dalla circostanza per cui l’Amministrazione finanziaria si impegna a mettere a disposizione degli scommettitori un numero prefissato di premi, predeterminati a monte e corrispondenti ad altrettanti biglietti vincenti, adeguatamente criptati, in modo da mantenere celata la possibilità degli acquirenti di scoprire anzitempo la natura vincente del tagliando. Sono considerati giochi leciti e tutelati i giochi automatici34, che con macchine elettriche consentono una vincita in denaro o in natura e la possibilità di prolungare il gioco. La definizione di apparecchio idoneo a gioco lecito è prevista nell’art. 110, comma 6 e 7, R.D. 18 giugno 1931, n. 773 e successive modifiche, ai sensi del quale: “Si considerano apparecchi idonei per il gioco lecito: a) quelli che, dotati di attestato di confor- 40 Temi Romana Saggi guire nel gioco, l’obiettivo da perseguire. Nella seconda fase (fase della perdita progressiva), caratterizzata da un gioco sempre più solitario e con episodi di perdite sempre più rilevanti, il giocatore insegue invano la vincita, trasformando il gioco nella principale attività della vita quotidiana. In tale fase, il gioco appare sempre più monopolizzare il pensiero e le preoccupazioni del soggetto, fino a trasformarsi in una fuga dalla vita reale. Nella terza fase (fase della disperazione) il giocatore perde la cognizione della realtà e per continuare a giocare può contrarre debiti, compiere atti illegali o violenti. Il superamento del disturbo comportamentale necessita di un percorso di cura e riabilitazione spesso lungo e complesso. Il principale ostacolo alla cura della patologia si rinviene nella circostanza che il gioco è oggi una pratica sociale riconosciuta dall’ordinamento: la dipendenza da sostanze stupefacenti è contrastata da una normativa stringente che sanziona alcune condotte connesse agli stupefacenti; la dipendenza da alcol è limitata da sanzioni amministrative, che sanzionano, ad esempio, la guida in stato di ebbrezza; il gioco, al contrario, non è considerata una pratica riprovevole, il giocatore non è emarginato dalla società, ma anzi circondato da messaggi pubblicitari che incitano al gioco. Il fenomeno del gioco d’azzardo patologico è dilagante, tanto che l’azzardo è considerato una delle principali cause di indebitamento delle famiglie e delle imprese38. La spesa per giochi e lotterie è considerata come un “moltiplicatore negativo” della domanda di beni e servizi destinati alla vendita, poiché con lo sviamento della domanda verso dissipazione e tassazione riduce lo stimolo potenziale alla produzione di valore aggiunto39. Dunque il gioco influisce negativamente sulla crescita economica di un Paese, sia in quanto dirotta la spesa verso beni che non producono utilità, sia perché determina un rilevante costo sociale. Il costo sociale del gioco d’azzardo patologico è composto da voci variabili: costo lavoro, inteso quale ridotta capacità lavorativa; un costo relazionale e affettivo, che può comprendere separazioni, divorzi e dunque costi di giustizia; costi per la riabilitazione del gioco, che incidono sulla spesa sanitaria; costo sociale, che comprende l’incremento di attività illecite e, dunque, della illegalità. Tali elementi sono la ragione dell’attenzione che viene da ultimo riservata al tema. mità (...), nei quali insieme con l’elemento aleatorio sono presenti anche elementi di abilità, che consentono al giocatore la possibilità di scegliere, all’avvio o nel corso della partita, la propria strategia, selezionando appositamente le opzioni di gara ritenute più favorevoli tra quelle proposte (...); b) quelli, facenti parte della rete telematica (…); c) quelli elettromeccanici privi di monitor attraverso i quali il giocatore esprime la sua abilità fisica, mentale o strategica (…)”. Dunque dal dato normativo al fine della liceità del gioco offerto sembrerebbe necessario che il gioco stesso presenti quale carattere predominante la abilità del giocatore, intellettiva o fisica, e come carattere solo secondario l’alea. Eppure i giochi che vengono offerti non pare rispondano effettivamente a tali requisiti, a meno di non voler considerare gioco di abilità una slot machine e abilità fisica lo sforzo di spingere un pulsante. 6. Il gioco d’azzardo patologico Il mero incontro con il gioco d’azzardo non porta fisiologicamente all’evoluzione di un quadro patologico, sono, invece, necessari diversi elementi per trasformare una attività ludica in una condotta di dipendenza. Quest’ultima è il risultato di un processo caratterizzato dal concorso di fattori diversi legati al contesto sociale, storico, culturale ed economico. La letteratura scientifica considera il gioco d’azzardo come una addiction35, intesa come “dedizione”, che ben rappresenta la mancanza di libertà e di responsabilità del giocatore patologico. Col termine new addictions si fa riferimento a quelle forme di dipendenza, in cui non è implicata una sostanza chimica che crea dipendenza fisica, ma in cui sussiste una dipendenza psicologica, che spinge alla ricerca costante di un oggetto, di un’attività, di un comportamento. Il gioco d’azzardo patologico è un disturbo delle abitudini e degli impulsi che determina il compimento di atti ripetuti senza motivazione razionale, che portano a ledere interessi personali del soggetto e di altre persone36. Dall’analisi dei percorsi37 delle persone che hanno sviluppato problemi con il gioco, si è riscontrata una evoluzione del quadro dall’incontro con il gioco alla vera e propria compulsività, che può essere suddivisa in tre diverse fasi. Nella prima fase (fase vincente) il giocatore occasionale ottiene una vincita, che diventa lo stimolo per prose- Temi Romana 41 Saggi La portata del fenomeno sociale del gioco era già evidente negli anni ’80, quando ha determinato il riconoscimento da parte della comunità scientifica del gioco d’azzardo come patologia, attraverso l’inclusione del “Pathological Gambler” nella terza versione del DSM40. Si riscontra, oggi, un crescente interesse del legislatore nella prevenzione della dipendenza che ha portato alla promulgazione del decreto legge 13 settembre 2012, n. 158 convertito in L. 8 novembre 2012, n. 18941, recante “Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”. Il citato decreto, all’art. 5, ha disposto l’aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza (c.d. LEA) con riferimento “alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da ludopatia, intesa come patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome da gioco con vincita in denaro, così come definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (G.A.P.)”. Con questa disposizione si è manifestata la consapevolezza del legislatore che la dipendenza da gioco d’azzardo è una patologia che necessita di un intervento riabilitativo, che data la diffusione, non può esulare dalle prestazioni fornite dal Sistema sanitario nazionale (c.d. SSN). Tuttavia, per la effettiva modifica dei LEA e l’inserimento del GAP tra le patologie curate dal SSN è necessaria, come noto, la promulgazione di un decreto ad hoc del Presidente del Consiglio dei Ministri42, che allo stato tarda ad intervenire. Nelle more, si deve tener conto che il gioco d’azzardo patologico è una patologia che può incidere, in particolare, sulla capacità di agire e naturale del giocatore, nonché sulle eventuali relazioni coniugali. emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi”. Il gioco patologico, come abbiano anticipato, è considerato come un disturbo comportamentale, che può senz’altro influenzare le scelte del giocatore, ma difficilmente potrebbe assurgere ad una infermità mentale abituale. Il giocatore patologico potrebbe rientrare in alcuni presupposti della inabilitazione, e, precisamente: infermità mentale non così grave da determinare l’interdizione o la prodigalità. La citata infermità mentale sussiste in presenza di un’alterazione delle facoltà mentali, che dia luogo ad una incapacità parziale o totale di curare i propri interessi44. La dipendenza da gioco per portare a una sentenza di inabilitazione dovrebbe trovare riscontro in una perizia psicologica, medica o psichiatrica, che ravvisi nel disturbo veri e propri sintomi patologici invalidanti la capacità di intendere e volere. Ciò trova un ostacolo nella considerazione della dipendenza da gioco alla stregua, non già di un vizio della volontà tale da rendere irresistibile al giocatore la vocazione al gioco, ma piuttosto di un vizio della personalità, che pure potendo non avrebbe avuto l’indole di astenersi. La dipendenza da gioco d’azzardo potrebbe, inoltre, determinare una pronuncia di inabilitazione per prodigalità. La giurisprudenza ritiene tuttavia a tal fine necessaria “una alterazione mentale che escluda o riduca notevolmente la capacità di valutare il denaro, di risolvere i problemi anche semplici di amministrazione, di cogliere il pregiudizio conseguente allo sperpero delle proprie sostanze”45. Tuttavia, il ricorso all’istituto per i giocatori patologici è stato escluso in capo ai soggetti che erano dediti al gioco, ma in maniera consapevole, anzi al preciso scopo di guadagnare denaro46. Una tutela per il giocatore patologico potrebbe rinvenirsi nell’istituto dell’amministrazione di sostegno. L’art. 404 c.c.47, definisce l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno prevedendo che “La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno”. L’amministrazione di sostegno ha come presupposto 7. Limitazioni della capacità di agire Il gioco d’azzardo patologico può influire sulla capacità di agire del giocatore, intesa quale “idoneità a compiere a validamente atti giuridici che consentano al soggetto di acquisire ed esercitare diritti o di assumere ed adempiere obblighi”43, riducendola o, addirittura, eliminandola. In queste ipotesi, al fine di tutelare il giocatore si potrebbe ricorrere a strumenti di tutela come l’interdizione, l’inabilitazione o l’amministrazione di sostegno, per cui è opportuno verificarne la concreta applicabilità. Ai sensi dell’art. 414 c.c., il ricorso all’interdizione è possibile solo per: “Il maggiore di età e il minore 42 Temi Romana Saggi getti privati estranei alla normale linea creditizia bancaria e finanziaria. La Corte di Cassazione, in una recente sentenza53, ha affermato che il giocatore, il quale vuole invocare la propria incapacità naturale derivante dall’essere avvezzo al gioco d’azzardo al fine di annullare quel contratto di prestito, deve necessariamente fornire prova rigorosa della patologia la quale non può desumersi dalla mera frequentazione assidua delle sale da gioco. L’aspetto più problematico dell’annullamento di un atto per incapacità naturale è la prova dell’incapacità, che non risulta facile da integrare. una qualsiasi menomazione che ponga l’interessato nella, anche, momentanea impossibilità di provvedere ai propri interessi. Per ottenere il relativo provvedimento, dunque, non è necessaria la sussistenza di alcuna comprovata incapacità totale o parziale di intendere e volere, ossia una diagnosticata patologia inficiante la cognizione del soggetto. Anche solo una generica menomazione di natura fisica o psichica che renda l’interessato incapace di attendere alle proprie esigenze e ai propri interessi consente la nomina dell’amministratore di sostegno. Il ricorso all’istituto dell’amministrazione per la tutela degli interessi, soprattutto economici, dei giocatori patologici è ormai considerato possibile dalla giurisprudenza, che propende all’utilizzo dello strumento invece di ricorrere a misure di tutela più incisive sulla capacità del destinatario48. La disciplina dell’AdS49 prevede, infatti, la possibilità che il giudice tutelare stabilisca espressamente quali atti potrà compiere il beneficiario in modo autonomo, quali gli saranno del tutto vietati e quali dovrà compiere con la necessaria assistenza dell’amministratore50. Un altro istituto che potrebbe essere utilizzato al fine di tutelare i giocatori patologici è l’incapacità naturale. Quest’ultima è disciplinata dall’art. 428 c.c. che stabilisce “Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti possono essere annullati, quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente”51. In alcuni (e isolati casi) la giurisprudenza52, riconoscendo la sussistenza della patologia in capo all’attore, ha ritenuto che la stessa fosse talmente rilevante da determinare nel malato l’incapacità obiettiva di autodeterminarsi perfino nel contrarre di un prestito, finalizzato al reperimento di liquidità da destinare al gioco d’azzardo. Il giocatore aveva maturato una totale dipendenza dal gioco d’azzardo che lo aveva portato a dilapidare il proprio patrimonio familiare. Il bisogno di giocare non era più limitato al tempo ma anche all’entità degli investimenti tanto da raggiungere mediamente cinquecento euro al giorno. Per mantenere i ritmi compulsivi era stato costretto a contrarre prestiti facendo ricorso a sog- Temi Romana 8. Rapporti tra coniugi Il gioco patologico può avere, e molto spesso ha, effetti pregiudizievoli nei rapporti familiari. L’art. 143 c.c., comma 3, stabilisce che “[e]ntrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”. Lo sviamento delle risorse economiche derivanti dai proventi realizzati con la propria attività lavorativa per fini futili, quali dedicarsi all’attività di gioco, può configurare una violazione del dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia. In tali casi, il pregiudizio economico causato dal giocatore e patito dal coniuge potrebbe essere ricondotto alla categoria del danno ingiusto. Peraltro potrebbe rilevare oltre al risarcimento del danno patrimoniale, anche quello non patrimoniale, essendo coinvolti aspetti riguardanti la persona e lo svolgimento della propria vita, danneggiata dalla condotta del coniuge giocatore54. La concreta risarcibilità del danno causato dal giocatore d’azzardo patologico al coniuge può essere impedita da alcune circostanze. L’ingiustizia del danno patito dal coniuge del giocatore potrebbe escludersi ove entrambi i coniugi abbiano contribuito, anche se in diversa misura, a determinare il danno, in applicazione del principio volenti non fit iniuria. Probabilmente potrebbe escludersi una responsabilità aquiliana del giocatore anche nell’ipotesi in cui “il coniuge abbia contratto il matrimonio con la consapevolezza55 della propensione al gioco” o nell’ipotesi in cui conscio della patologia sia rimasto inerte. Il giocatore inoltre potrebbe dimostrare in giudizio che la dipendenza dal gioco d’azzardo ha determinato una 43 Saggi mità hanno ritenuto che il disturbo della shopper non determinasse una incapacità di intendere e volere e dunque hanno confermato l’addebito della separazione nei confronti della moglie affetta dalla sindrome da “shopping compulsivo” facendole perdere il diritto al mantenimento. Allo stesso modo nelle ipotesi di giocatori patologici è ben possibile che l’autorità giudiziaria non ritenga sufficiente la sussistenza di una dipendenza comportamentale per l’esclusione ad nutum della volontarietà della condotta del giocatore. Il giocatore dunque che abbia dilapidato patrimonio, da destinare ai bisogni della famiglia, potrebbe violare gli obblighi di mantenimento derivanti dalla normativa dettata in tema di matrimonio ed incorrere, oltre che in una possibile condanna al risarcimento dei danni subiti, in una pronuncia di addebito in sede di separazione. “mancanza rilevante sul piano della volontà e, quindi, dell’imputabilità della condotta”56 escludendo così l’applicabilità dell’art. 2043 c.c. A quanto precede si deve inoltre aggiungere che l’utilizzo di risorse economiche per fini estranei ai bisogni della famiglia potrebbe configurare una violazione dei doveri coniugali e determinare, in sede di separazione e divorzio, l’addebito a carico del coniuge giocatore. Chiaramente la condizione patologica del giocatore potrebbe portare ad escludere l’imputabilità della condotta dannosa allo stesso giocatore per carenza della sua volontà, ma la prova dello stato di incapacità del giocatore in sede processuale è ardua. La Corte di Cassazione57 si è occupata del tema in relazione ad un’altra dipendenza comportamentale: lo shopping compulsivo. In questa ipotesi, i Giudici di legitti- _________________ 1 La parola ‘gioco’ deriva dal latino iocus che significa scherzo, burla, da cui il predicato iocari, giocare. In greco le parole che significano gioco, scherzo e cioè ?? ?????? e ????????, sono connesse alla radice di ???? ?????? ossia bambino. 2 Come rilevato da Quintiliano, Institutio oratoria, 1. 3, 8-12, Torino, Einaudi, 2001. 3 Come è messo in risalto da Seneca, De ira IV, 21, v. trad. e ann., Milano, Serdonati, 1863. 4 Cfr. M.G. CAVALCA SCHIROLI (a cura di), Lucio Anneo Seneca, De tranquillitate animi, Bologna, Cooperativa Libraria Universitaria editrice, 1981. 5 Cfr. L. BUTTARO, Del gioco e della scommessa, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna, Zanichelli, 1959, p. 3. 6 Cass. 21 aprile 1949, n. 964, in Foro it. 1949, I, c. 1177 ss. 7 Cass. 21 aprile 1949, n. 964, ult. loc. cit. 8 Così DI GIANDOMENICO – RICCIO, sub art. 1933 c.c., in Dei singoli contratti (artt. 1861-1986), a cura di D. VALENTINO, Torino, UTET, 2011, vol. IV, p. 324. 9 Sul tema si rinvia a FUNAIOLI, Il giuoco e la scommessa, in Trattato di diritto civile italiano, a cura di F. VASSALLI, Torino, UTET, 1961, vol. IX, t. II, fasc. 1, p. 116. 10 Cfr. A. PINO, Il gioco e scommessa e il contratto aleatorio, in Studi in onore di Francesco Santoro-Passarelli, III, Napoli, Jovene, 1972, p. 787. 11 Cfr. DI GIANDOMENICO – RICCIO, sub art. 1933 c.c., cit., p. 335. 12 Precisamente nel Capo XXI, del Titolo III rubricato “Dei singoli contratti”, del Libro IV dedicato alle obbligazioni. 13 Cfr. L. BUTTARO, Giuoco, I, Giuoco e scommessa, dir. civ., in Enc. Giuridica, Roma, Treccani, 1989, XV, p. 2. 14 Cfr. E. BRIGANTI, La disciplina dei debiti di giuoco, in Riv. del Notariato, 1994, p. 252. 15 Cfr. FUNAIOLI, Il giuoco e la scommessa, cit., p. 114 e ss., ove precisa che “la disciplina giuridica prescinde oggi del tutto dalla distinzione fra scommesse in base a giuoco o indipendenti da questo (e fatte per passatempo, per emulazione, per sostenere 44 un effettivo contrasto di opinioni, ecc.), ma ha riguardo unicamente alla distinzione fra quei tipi di scommesse più o meno direttamente tutelate (art. 1933 e segg. cod. civ.) o proibite”. 16 Lavori preparatori al codice civile consultabili anche in AA.VV., Il nuovo codice civile commentato: con i lavori preparatori, la più recente giurisprudenza, i confronti tra il vecchio e il nuovo codice, le norme di attuazione, a cura di Nicola Stolfi, Francesco Stolfi, Napoli, Jovene, 1939-1956. 17 Cass. 24 ottobre 2002, n. 42519, in Rep. Foro it. 2003, p. 1170. Secondo Cass. pen., 12 ottobre 2011, n. 43679: “Non integra il reato di esercizio di gioco d’azzardo l’organizzazione di tornei di poker texano (cosiddetto Texas Hold’Em) in quanto i giochi di carte organizzati in forma di torneo, ove la posta in gioco sia costituita esclusivamente dalla sola quota d’iscrizione, sono considerati giochi di abilità e non d’azzardo”. 18 Cfr. M.A. C IOCIA , L’obbligazione naturale: evoluzione normativa e prassi giurisprudenziale, Milano, Giuffrè, 2000, p. 107. Temi Romana Saggi 19 “Il gioco e la scommessa sono contratti aleatori, a titolo oneroso, caratterizzati dalla artificiale creazione del rischio, e che presentano, a seconda dei casi, la struttura bilaterale o plurilaterale” secondo BUTTARO, in Del giuoco e della scommessa, in Comm. Scialoja-Branca, cit., p. 57. La natura contrattuale è concordemente ammessa per i giochi e le scommesse fornite di piena tutela giuridica (giochi e scommesse autorizzati), dubbi sussistono per i giochi vietati. 20 L’incidenza del rischio intesa come “il variare l’entità di una o di entrambe le prestazioni a seconda del verificarsi o meno di un evento futuro e incerto” è l’elemento caratterizzante i contratti aleatori, secondo BUTTARO, in Del giuoco e della scommessa, cit., p. 71. 21 Cfr. BUTTARO, Gioco, I, Gioco e scommessa, dir. civ., cit.; ID., In tema di gioco, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1952, p. 408 ss. 22 Cfr. BUTTARO, In tema di gioco, cit. 23 Cfr. G. B. FERRI, La neutralità del gioco, in Riv. Dir. Comm. e gen. delle obbl., 1974, I, 46; P. RESCIGNO, L’abuso del diritto, Bologna, il Mulino, 1998, p. 145. 24 Nel dibattito sul fondamento, se adempimento di un’obbligazione naturale o esecuzione di prestazione ob turpem causam, della sanzione di cui la norma fornisce il debito di gioco, una dottrina (PINO, Il gioco e scommessa e il contratto aleatorio, cit., p. 791) suggerisce una diversa soluzione: il gioco e la scommessa concretano la linea di confine tra validità e nullità del negozio; in essi non si ravvisa infatti né illiceità, né immoralità, ma manca l’utilità sociale. L’intento ludico si viene così a sistemare, proprio perché volto a realizzare una funzione frivola, tra l’illiceità cui l’ordinamento appronta la sanzione della nullità e la piena meritevolezza. 25 La irripetibilità è esclusa nell’ipotesi in cui il perdente sia un soggetto incapace, ove è sempre ammessa l’azione per ottenere la ripetizione della somma giocata e persa. 26 Secondo la Corte Cost., 23 maggio 1985, n. 152: “La circostanza che altri comuni o regioni si trovino o potrebbero trovarsi in condizioni analoghe a quelle dei comuni o della regione a statuto speciale finora considerati dal legislatore non concreta di per sé sola e hic et nunc lesione dell’art. 3 Cost. E ciò tanto più in quanto Temi Romana dalla lamentata circostanza (cioè dalla censurata omissione del legislatore) non possono trarsi conseguenze di automatica estensione”. La Corte Costituzionale conclude, quindi, per la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., delle leggi 3 novembre 1954, n. 1042, 29 novembre 1955, n. 1179, 18 febbraio 1963, n. 67, 6 dicembre 1971, n. 1065 e 26 novembre 1981, n. 690, per le parti e nel senso in cui prevedono la liceità del gioco d’azzardo nel Casinò di Saint Vincent. La sentenza è edita in CED Cassazione, 1985 o sul sito www.giurcost.it. 27 Così Corte Cost., 23 maggio 1985, n. 152, cit. 28 Secondo quanto affermato dalla Corte Cost., 23 maggio 1985, n. 152, cit. 29 Profilo evidenziato da Corte Cost., 30 ottobre 1975, n. 237, in Foro it., 1976, I, p. 14. 30 Cfr. BUTTARO, Giuoco, I, Giuoco e scommessa, dir. civ., cit., p. 6. 31 Cfr. E. BRIGANTI, La disciplina dei debiti di giuoco, in Rivista del Notariato, 1994, p. 251. 32 Cfr. E. VALSECCHI, Giuoco e scommessa, in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano, Giuffrè, 1970, p. 49 ss. 33 Sul tema si rinvia a G. POLI, Lotterie istantanee: la speranza delusa non è risarcibile, in Giur. It, 2008, p. 10. 34 Il Decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. Decreto Bersani-Visco), “Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale” (in G.U. n. 153 del 4 luglio 2006, conv. in L. 4 agosto 2006, n. 248, in G.U. 11 agosto 2006, n. 186), all’art. 38, inoltre, ha disposto Misure di contrasto del gioco illegale, “legalizzando due tipologie di gioco” (P. CIPOLLA, Social network, furto d’identità e reati contro il patrimonio, in Giur. Mer., 2012, 12, p. 2672 B) le scommesse a distanza a quota fissa con modalità di interazione diretta tra i singoli giocatori e i giochi di abilità a distanza con vincita in denaro, nei quali il risultato dipende, in misura prevalente rispetto all’elemento aleatorio, dall’abilità dei giocatori. La legge di conversione ha confermato la legalità dei c.d. skills games ossia “l’esercizio dei giochi di 45 abilità a distanza con vincita in denaro nei quali il risultato dipende, in misura prevalente rispetto all’elemento aleatorio, dall’abilità dei giocatori” (art. 1). 35 Con il termine “Dependence” si indica la dipendenza fisica e chimica, ossia la condizione in cui si verifica un’alterazione del comportamento che determina una ricerca patologica del piacere. Cfr. G. SERPELLONI, Il gioco d’azzardo patologico in Italia, in The Italian journal on addiction, vol. 2, n. 3-4, 2012 (numero monografico). 36 In questo senso C.A. COLOMBO - I. MERZAGORA BETSOS, Tentare nuoce: il gioco d’azzardo in criminologia e psicopatologia forense, in Riv. it. Medicina legale, 2002, 06, p. 1361. 37 Cfr. H.R. LESIEUR - R. J. ROSENTHAL, Pathologic Gambling: a review of a literature, prepared for the American Psichiatric Task Force of DSM – IV Committee on Desorders of Impulse Control Not Elsewhere Classified, in Gambling Studies, 1991; R.L., CUSTER, Pathological gambling, in A. WHITFIELD (a cura di), Patients with Alcoholism and other Drug Problems, New York, Year Book Publication, 1984; C. GUERRESCHI, Il gioco patologico, Roma, Edizioni Kappa, 2003. 38 Cfr. M. FIASCO, Aspetti sociologici, economici e rischio criminalità, in AA.VV. Il gioco e l’azzardo, Milano, Franco Angeli, 2002. 39 Cfr. E. L. GRINOLS - D. B. MUSTARD, Business profitability vs. social profitability: Evaluating the social contribution of Industries with externalities and the case of the casino industry, in Managerial and Decision Economics, 2001, n. 22, p. 143. 40 Cfr. Diagnostic Statistic Manual, ossia il sistema, riconosciuto in ambito internazionale, di classificazione delle condizioni patologiche riconosciute dalla comunità scientifica internazionale. American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (ed. 4, Washington DC., 1994), Milano, Masson, 1995. 41 Il decreto Balduzzi è stato pubblicato in G.U. 10 novembre 2012, n. 263. 42 Su proposta del Ministro della salute di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano. Saggi 43 A. TORRENTE - P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2013, p. 82. 44 Cass., 4 luglio 1985, n. 4028, in Giust. Civ. Mass., 1985, f. 7. 45 Cass., 13 marzo 1980, n. 1680, in Giust. Civ. Mass., 1980, f. 3. 46 Trib. L’Aquila, 7 maggio 2008, in banca data elettronica Pluris – Utet Cedam. 47 La Legge n. 6/2004, modificativa del Codice Civile, ha introdotto l’istituto dell’amministrazione di sostegno. La ratio della riforma consiste nel “tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente” (art.1). 48 Cfr. inter alios decreto del Tribunale di Monza del 15 dicembre 2010, inedito. 49 Si distinguono tre forme di AdS: amministrazione rappresentativa, ove il giudice individua espressamente quali atti l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario, sostituendosi a quest’ultimo nella qualità di rappresentante legale; amministrazione di assistenza, ove il giudice stabilisce quali atti il beneficiario può compiere con la mera assistenza dell’amministratore di sostegno; estensione della disciplina dell’interdizione o inabilitazione, ove il giudice tutelare (ex art. 411, ult. comma, c.c.) sceglie di applicare al beneficiario dell’AdS le stesse preclusioni stabilite per gli interdetti o quelle prescritte per gli inabilitati. 50 Si precisa che, il terzo comma dell’art. 406 c.c. prevede l’obbligo per i “responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno” di proporre al giudice tutelare il ricorso per l’amministrazione di sostegno o di informarne il pubblico ministero. Dalla norma non si evince quali soggetti siano destinatari dell’obbligo di proporre il ricorso, ossia se l’obbligo riguardi i soggetti apicali delle strutture o anche gli operatori delle stesse. La prima interpretazione propende per una lettura verticistica e assicura maggior attenzione per gli interessi del paziente. La seconda lettura è conforme al principio di non burocratizzazione e semplificazione del procedimento e potrebbe essere confortata dal fatto che si parla di servizi (evidenziando l’elemento funzionale) e non di struttura. Sembra preferibile una lettura intermedia e considerare quale responsabile del servizio chi ha responsabilità di indirizzo della terapia specifica richiesta al servizio. minare il risarcimento del danno patrimoniale, quali quelle previste dall’art. 217 c.c. La citata disposizione al secondo comma stabilisce che ove uno dei coniugi abbia amministrato i beni dell’altro, munito di procura ma senza un espresso obbligo di rendiconto, il coniuge o i suoi eredi possono domandare la consegna dei frutti esistenti, ma non si risponde per i frutti già consumati. Il terzo comma dell’art. 217 c.c. prevede che se uno dei coniugi, “nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti”. In questa seconda ipotesi il legislatore espressamente consente al coniuge danneggiato che ha provato ad impedire il depauperamento del patrimonio senza riuscirvi la facoltà di domandare il risarcimento dei danni subiti. 51 Sussiste un grave pregiudizio ove l’atto abbia causato all’attore una perdita economica o sia ravvisabile un’alterazione dell’equilibrio negoziale a causa dell’assunzione di obblighi ingiustificati o eccessivamente onerosi. La giurisprudenza ha precisato che per l’annullamento degli atti unilaterali è necessaria la prova del grave pregiudizio subito dall’attore, mentre l’annullamento di contratti è subordinato all’accertamento del requisito della mala fede dell’altro contraente, “rispetto alla quale il pregiudizio all’incapace si pone soltanto quale uno dei possibili elementi rilevatori” (Cass. 8 novembre 1966, n. 2732, in Giur. It. 1967, p. 1140). 56 Cfr. DI MARZIO, Scommesse, vizi, cavalli, depauperamento patrimoniale, cit., p. 1608, secondo l’Autore in questo caso l’altro coniuge dovrebbe altresì rispettare il dovere di assistenza sancito dall’art. 143 c.c. 52 V. Tribunale Civile di La Spezia, con una sentenza del gennaio 2013, inedita. 53 Cass. 1 ottobre 2012, n. 16670, in CED Cassazione, 2012. 54 In alcune ipotesi, è il legislatore stesso a disciplinare fattispecie che possono deter- 46 55 Cfr. M. DI MARZIO, Scommesse, vizi, cavalli, depauperamento patrimoniale, in Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, a cura di P. CENDON, II, Padova, CEDAM, 2004, pp. 1605-1609. 57 Cass., 18 novembre 2013, n. 25843, in CED Cassazione. Sembra anche utile ricordare che il Tribunale di Varese, con decreto 3 ottobre 2012 in www.altalex.it, ha concesso l’amministrazione di sostegno a una donna affetta dalla sindrome da “shopping compulsivo”, poiché dall’istruttoria è risultata evidente la difficoltà della donna di “contenere la propensione al consumo irrazionale di denaro” e la necessità di farle “riacquistare la capacità di risparmio e gestione efficiente del reddito”. Temi Romana Osservatorio legislativo Accesso civico e accesso disciplinato dalla legge n. 241 del 1990 Marina Binda Avvocato del Foro di Roma, iscritto nell'elenco speciale di un ente pubblico I ra davvero singolare. Si consideri, al riguardo, che il comma primo dell’art. 5 D.Lgs. n. 33/2013 statuisce che “L’obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”. Dalla formulazione normativa appare subito chiaro che il diritto di accesso civico è correlato all’obbligo di pubblicazione; discende direttamente da quello, alla stregua di una sorta di obbligazione civilistica4 tra ente pubblico ed utente, in virtù della quale l’ente è obbligato nei confronti dell’utente ad un facere consistente nella pubblicazione dei dati, mentre l’utente è il creditore al corretto adempimento della prestazione. Il diritto di richiedere la conoscenza dei dati previsti dalla legge e di pretenderne la pubblicazione è attribuito a “chiunque”, ossia a qualsiasi soggetto, che sia una persona fisica o giuridica, indipendentemente dalla natura o dallo status che caratterizza il richiedente. L’accesso civico è invero costruito come un diritto soggettivo libero, senza barriere di ingresso e senza ostacoli nella realizzazione degli scopi ai quali è preordinato, atteso che non è necessario, per colui che intende esercitarlo, dimostrare né la legittimazione né l’interesse specifico all’acquisizione del dato. Sicché il diritto all’ostensione, disciplinato dal D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, è a “legittimazione assoluta” piuttosto che a “legittimazione particolare”, come è concepito l’accesso agli atti nella legge n. 241/1990, e in ciò l’istituto del c.d. accesso civico, disciplinato dal citato decreto n. 33, si trova in un rapporto di “reciproca esclusione”5 con il valore della trasparenza regolato dal titolo V della legge breve sul procedimento amministrativo. È stato notato6 che non sussiste un’incompatibilità tra l’accesso della legge n. 241 e l’accesso del decreto 33: i due istituiti, all’opposto, convivono nell’ordinamento senza interferenze ed invasioni di campo, in quanto l’uno è destinato a regolare fattispecie non contempla- l decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, acclamato come testo unico sulla trasparenza amministrativa, esprime, in primo luogo, il totale capovolgimento del rapporto tra segretezza e pubblicità dei dati afferenti all’azione amministrativa: fatta eccezione per alcune limitate ipotesi individuate nell’articolo 4, il citato provvedimento legislativo ha generalizzato l’obbligo di pubblicare dati ed informazioni che il legislatore ha prioritariamente ritenuto di rendere disponibili, elencandoli puntualmente ed analiticamente. La trasparenza, definita nel decreto come accessibilità totale delle informazioni concernenti la pubblica amministrazione, nell’ottica del legislatore risulta essere espressamente rivolta a tre scopi fondamentali: a) l’incoraggiamento di “forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”; b) l’attuazione del “principio democratico e dei principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione”; c) la garanzia “delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali” che “integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino” (art. 1)1. Il decreto reca l’introduzione dell’innovativa figura dell’accesso civico, disciplinato nell’art. 5, le cui caratteristiche risultano tanto peculiari da far subito comprendere che ci troviamo dinanzi a un meccanismo finora conosciuto nel nostro ordinamento soltanto in rarissimi casi2. Il tema L’accesso civico attribuisce un vero e proprio diritto soggettivo in capo a chiunque intenda riscontrare il rispetto da parte dell’amministrazione dell’obbligo di pubblicazione dei dati, resi accessibili per legge3. A ciò si aggiunga che il dovere di pubblicazione dei dati, come concepito dal legislatore, riveste una struttuTemi Romana 47 Osservatorio legislativo te dall’altro. L’accesso contemplato dalla legge n. 241, infatti, presuppone che il documento non sia sottoposto al regime di pubblicazione di cui al D.Lgs. n. 33, la cui ratio è invece il c.d. right to know, a prescindere da uno specifico interesse in capo al richiedente. Accessibilità a chiunque di determinate informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle p.a. al fine di consentire forme diffuse di controllo democratico sull’operato della p.a. (art. 1). Informazioni, peraltro, già elencate nel decreto legislativo n. 33/2013: sono tipizzate, previste dal legislatore sulla base di nome puntuali. Si tratta di una serie numerosa di informazioni, tracciabili nei motori di ricerca perché pubblicate sui siti, a prescindere dalle eventuali richieste di accesso civico. Di conseguenza, nel citato decreto n. 33 c’è una selezione ex ante, operata dal legislatore, delle informazioni da pubblicare, poste a disposizione di tutti; indipendentemente dalle iniziative dei privati. Quali sono le informazioni oggetto di pubblicazione obbligatoria? Sono quelle elencate nel decreto, e precisamente: gli atti di carattere normativo e amministrativo (art. 12); l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni (art. 13); i componenti degli organi di indirizzo politico (art. 14); i titolari di incarichi dirigenziali e di collaborazione o consulenza (art. 15); la dotazione organica e il costo del personale con rapporto di lavoro a tempo determinato (art. 16); i dati relativi al personale non a tempo determinato (art. 17); gli incarichi conferiti ai dipendenti pubblici (art. 18); i bandi di concorso (art. 19); i dati relativi alla performance e alla distribuzione dei premi al personale (art. 20); i dati sulla contrattazione collettiva (art. 21); i dati relativi agli enti pubblici vigilati, e agli enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in società di diritto privato (art. 22); i provvedimenti amministrativi (art. 23); i dati aggregati relativi all’attività amministrativa (art. 24); i controlli sulle imprese (art. 25); gli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici a persone fisiche ed enti pubblici e privati (art. 26) e l’elenco dei soggetti beneficiari (art. 27); i rendiconti dei gruppi consiliari, regionali e provinciali (art. 28); il bilancio, preventivo e consuntivo, e il piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio, nonché i dati concernenti il monitoraggio degli obbiettivi (art. 29); i beni immobili e la gestione del patrimonio (art. 30); i dati relativi ai controlli sull’organizzazione e sull’attività dell’amministrazione (art. 31); i servizi erogati (art. 32); i tempi di pagamento dell’amministrazione (art. 33); i procedimenti amministrativi e i controlli sulle dichiarazioni sostitutive e l’acquisizione d’ufficio dei dati (art. 35); le informazioni necessarie per i pagamenti informatici (art. 36); i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (art. 37); i processi di pianificazione, realizzazione e sovvenzione delle opere pubbliche (art. 38); l’attività di pianificazione e governo del territorio (art. 39); le informazioni ambientali (art. 40); i dati specifici relativi al Servizio Sanitario Nazionale (art. 41); gli interventi straordinari in caso di calamità naturali o altre emergenze, che comportano deroghe alla legislazione vigente (art. 42). Si tratta di un elenco standardizzato ma non chiuso. Basti considerare, al riguardo, che l’articolo 4 comma 4, del decreto n. 33/2013 prevede che “nei casi in cui norme di legge o di regolamento prevedano la pubblicazione di atti o documenti, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti…”. Appare chiaro che i “casi in cui norme di legge o di regolamento prevedano la pubblicazione di atti o documenti” non sono quelli del decreto trasparenza: si tratta di casi differenti, anche futuri, in cui il legislatore potrà prevedere nuovi obblighi di pubblicazione. Qui vi sarà la possibilità di selezionare, di rendere non intellegibili i dati non pertinenti; ciò non è possibile, invece, nei casi già tipizzati dal decreto n. 33, ove prevale sempre la trasparenza sulla riservatezza, in quanto la selezione è già operata a monte dal legislatore. L’accesso civico e l’accesso della legge n. 241/1990. Differenze a) Il bene giuridico tutelato. La disciplina dell’accesso contenuta nella legge 7 agosto 1990 n. 241 non attribuisce un diritto generalizzato alla trasparenza amministrativa: il diritto all’ostensione, nella logica della legge n. 241, è sempre distinto rispetto al diritto all’informazione. L’accesso è concepito come mezzo per perseguire la trasparenza, in un’ottica, però, strumentale; la trasparenza, nella legge n. 241, viene tutelata non come bene in sé, ma come mezzo funzionale per il soddisfacimento di un interesse corrispondente ad una situazio- 48 Temi Romana Osservatorio legislativo dei consociati: affinché possano ricorrere i requisiti dell’attualità e della concretezza15, deve sussistere un collegamento tra la documentazione di cui si chiede l’ostensione e la posizione sostanziale dell’istante, il cui soddisfacimento è limitato o impedito16. Ciò non accade nell’accesso civico disciplinato dall’art. 5 del decreto trasparenza ove non è necessario, per colui che intende esercitarlo, dimostrare né la legittimazione né l’interesse all’acquisizione, tramite la consultazione nel sito web del singolo dato o documento, del quale “chiunque” è abilitato a pretendere di ottenere la pronta disponibilità. c) La motivazione. La richiesta di accesso agli atti e documenti di cui alla legge n. 241/1990 deve essere motivata (art. 25, comma 2) in quanto devono essere dimostrati, in capo all’accedente, la legittimazione e l’interesse, nonché la connessione tra il documento richiesto e l’obbiettivo di tutela della posizione soggettiva vantata. L’accesso civico di cui al decreto n. 33/2013 non necessita di motivazione in quanto il diritto soggettivo alla visione dei dati discende direttamente dall’obbligo di pubblicazione imposto dal legislatore alla pubblica amministrazione. d) L’esercizio. Il diritto di accesso della legge n. 241/90 si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi; le modalità di esercizio sono disciplinate dal D.P.R. 12 Aprile 2006, n. 184 che distingue, tra l’altro, la procedura di accesso informale da quella di accesso formale. Con riferimento ai costi, l’art. 25 della legge n. 241 statuisce che l’esame dei documenti è gratuito ma il rilascio di copia è subordinato al rimborso delle spese di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo nonché i diritti di ricerca e di visura. Ugualmente l’art. 7 del D.P.R. 184/2006 statuisce che la copia dei documenti è rilasciata subordinatamente al pagamento degli importi dovuti ai sensi dell’art. 25, secondo le modalità determinate dalle singole amministrazioni. Ciò significa che le copie non vengono rilasciate se l’istante non provvede a versare le somme dovute per i costi di riproduzione. Sicché può concludersi che l’accesso ai documenti amministrativi è tutt’ora sostanzialmente oneroso per l’istante, il quale può certamente esaminare la documentazione di cui ha richiesto l’ostensione, ma non può riceverne copia laddove non ne giuridicamente tutelata di cui deve essere titolare il soggetto che pretende l’accesso7. Di conseguenza, come risulta anche dall’art. 24, comma 3, della citata legge n. 241 introdotto dalla novella n. 15/20058, l’accesso non può tramutarsi in un’azione popolare diretta al controllo generalizzato dell’attività amministrativa, al fine di verificare se la stessa risulti conformata ai canoni della correttezza, trasparenza e legittimità. Nel caso di accesso civico, all’opposto, è sufficiente richiamare il testo dell’art. 59, per comprendere immediatamente che ci troviamo dinanzi ad un obbligo generalizzato di pubblicare le informazioni predeterminate dal legislatore, finalizzato a favorire forme diffuse di controllo sull’utilizzo delle risorse pubbliche e sul perseguimento degli scopi istituzionali delle amministrazioni. b) La legittimazione e l’interesse all’accesso. Il diritto di accesso agli atti, disciplinato dalla legge n. 241/1990 può essere esercitato da soggetti “interessati” e cioè “portatori di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso” (art. 22 comma 1, lett. b). La giurisprudenza maggioritaria10 ha sempre valorizzato il collegamento dell’accesso con una diversa “situazione giuridicamente tutelata”, (diritto soggettivo o interesse legittimo, e, nei casi ammessi, esponenzialità di interessi collettivi o diffusi) che abbia, in connessione a quest’ultima, un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire, mediante l’accesso, uno o più documenti amministrativi. Ciò in quanto nella legge n. 241 l’inerenza del documento alla posizione giuridica sostanziale preesistente fonda l’interesse concreto e differenziato della parte che richiede i documenti11. Poiché la formula utilizzata dal legislatore “interessi giuridicamente rilevanti” nell’art. 22 è piuttosto ampia, la giurisprudenza12 e la dottrina13 hanno chiarito che la posizione soggettiva cui la legge ricollega l’accesso non deve avere la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, essendo sufficiente che l’istante versi, al momento, in una posizione giuridica soggettiva, anche meramente potenziale14, collegata cioè ad eventi ancora non verificatisi. Peraltro, l’interesse all’accesso della legge n. 241, pur nell’ampia accezione testé chiarita, deve rivestire i caratteri della differenziazione rispetto alla generalità Temi Romana 49 Osservatorio legislativo cedimento di accesso ai documenti amministrativi di cui alla legge n. 241/1990. Basti aver riguardo alle modalità di esercizio dell’accesso civico, come fissate nell’art. 5, commi 2, 3, e 4 del decreto trasparenza. “2. La richiesta di accesso civico …. va presentata al responsabile della trasparenza dell’amministrazione obbligata alla pubblicazione di cui al comma 1, che si pronuncia sulla stessa. 3. L’amministrazione, entro trenta giorni, procede alla pubblicazione nel sito del documento, dell’informazione o del dato richiesto e lo trasmette contestualmente al richiedente, ovvero comunica al medesimo l’avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale a quanto richiesto. Se il documento, l’informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa vigente, l’amministrazione indica al richiedente il relativo collegamento ipertestuale. 4. Nei casi di ritardo o mancata risposta il richiedente può ricorrere al titolare del potere sostitutivo di cui all’articolo 2, comma 9 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, che, verificata la sussistenza dell’obbligo di pubblicazione, nei termini di cui al comma 9 ter del medesimo articolo, provvede ai sensi del comma 3”. Dalla lettura dell’articolo 5, appare subito chiaro che il decreto trasparenza prospetta gli stessi passaggi procedimentali disegnati nel capo V della legge n. 241/1990, fissando per la conclusione dell’istruttoria, avviata con la presentazione della domanda di accesso civico, lo stesso termine di trenta giorni stabilito dall’articolo 25, comma 4, della citata legge n. 241 nonché tratteggiando i meccanismi remediali in caso di inerzia da parte dell’ente tenuto alla pubblicazione del dato. b) L’inerzia. Il mancato adempimento dell’ente che ha ricevuto l’istanza all’obbligo di pubblicazione dei dati nel termine di trenta giorni dall’istanza (art. 5, comma 3) consente a chi richiede la pubblicazione, prima di rivolgersi subito alla onerosa tutela giurisdizionale (che, in ogni caso, comporta il versamento del contributo unificato, sebbene in primo grado non sia necessario ricorrere al patrocinio di un avvocato, ai sensi dell’articolo 23, comma 1, c.p.a. come integrato dall’articolo 52, comma 4, lettera a) provveda all’esborso dei relativi costi. L’accesso civico, invece, si realizza mediante la pubblicazione sul sito istituzionale del dato richiesto con contestuale trasmissione al richiedente ovvero comunicazione dell’avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale (art. 5, comma 3). Di conseguenza può comprendersi che la relativa istanza sia assolutamente gratuita (art. 5, comma 2), visto che l’accesso si esplica tramite un’operazione che non comporta costi per l’amministrazione: la pubblicazione. Al più sono ipotizzabili i costi che la p.a. può sostenere per informare la parte istante di aver provveduto alla pubblicazione, ma si ritiene che ciò possa avvenire anche tramite e-mail, in un’epoca ove la modalità telematica è destinata ad essere la principale (se non l’unica) forma di interlocuzione tra privati e pubbliche amministrazioni, sia in campo amministrativo che in campo giudiziario. e) La ratio. Poiché l’accesso civico può realizzarsi in un momento anche temporalmente distante rispetto all’esercizio della funzione amministrativa17, è evidente che il legislatore, per talune categorie di informazioni, ha ammesso una pubblicazione differita del dato rispetto al momento di esercizio della funzione pubblica: si pensi a quelle di cui all’articolo 26, che vedono sorgere l’obbligo di pubblicazione al momento della erogazione del beneficio economico, ovvero ai dati relativi ai contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, all’esito delle procedure di gara. Ciò significa che in concreto l’esercizio del diritto di accesso civico potrebbe risultare intempestivo rispetto alle necessità di avvio di un contenzioso giurisdizionale nei confronti di chi detiene il dato. Se ne deduce che il diritto di accesso civico non risponde all’esigenza di deflazione del contenzioso, fine che resta ancorato all’istituto dell’accesso documentale18, ma persegue l’obiettivo del rispetto e della lealtà verso i destinatari dell’esercizio della funzione amministrativa, propri di un moderno e più consapevole rapporto tra cittadini e istituzioni. Sintonie a) La struttura. Il diritto di accesso civico è condizionato alla presentazione di una vera e propria istanza, dalla quale scaturisce un procedimento amministrativo, disegnato in completa armonia con il pro- 50 Temi Romana Osservatorio legislativo del decreto n. 33/2013), di rivolgersi al titolare del potere sostitutivo di cui all’art. 2 comma 9 bis della legge n. 241/1990, soggetto presente in ogni ente, in quanto istituita per legge19, sostituto che provvederà in luogo del dipendente rimasto inerte nei termini di cui al comma 9 ter dell’art. 2 legge n. 241/1990 (metà del tempo previsto). c) La giurisdizione. Le controversie provocate dalla mancata risposta all’istanza di accesso civico vengono attribuite dal legislatore alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133 lett. a) n. 6 come modificato dall’art. 52 lett. e) decreto n. 33/2013) al pari di quel che avviene per la tutela del diritto di accesso ai documenti amministrativi. Il legislatore, dunque, estendendo la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alla pretesa di accesso civico (ma anche a tutte le “controversie relative agli obblighi di trasparenza previsti dalla normativa vigente”, ex art. 50 del decreto n. 33/2013) ha costruito un sistema giurisdizionale identico per entrambe le figure: l’accesso civico e l’accesso ai documenti amministrativi. Di conseguenza, il ricorso al giudice amministrativo va proposto entro 30 giorni dalla conoscenza del diniego o dalla formazione del silenzio (articolo 116, comma 1, c.p.a.); la pubblica amministrazione può stare in giudizio a mezzo di un dipendente (116 comma 3, c.p.a.); la parte ricorrente non necessita del patrocinio di un difensore in primo grado (art. 23 c.p.a. ); i termini processuali sono dimezzati (art. 87, comma 3, c.p.a.); la sentenza viene resa in forma semplificata in camera di consiglio (art. 87, comma 3, c.p.a.), e può ordinare la pubblicazione dei documenti richiesti, entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni, dettando, ove occorra, le relative modalità (art. 116, comma 4, c.p.a.). della legge 6 novembre 2012, n.190. L’art. 43 statuisce, inoltre, che il responsabile per la trasparenza ha l’obbligo di segnalare all’indirizzo politico, all’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV), all’Autorità anticorruzione e, nei casi più gravi, all’ufficio di disciplina, i casi di mancato o ritardato adempimento degli obblighi di pubblicazione. Il comma 5 del citato art. 43 dispone, inoltre, che “In relazione alla loro gravità, il responsabile segnala i casi di inadempimento o di adempimento parziale degli obblighi in materia di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, all’ufficio di disciplina, ai fini dell’eventuale attivazione del procedimento disciplinare. Il responsabile segnala altresì gli inadempimenti al vertice politico dell’amministrazione, all’OIV ai fini dell’attivazione delle altre forme di responsabilità”. Tanto premesso, si noti che l’art. 5 statuisce che l’istanza di accesso civico deve essere presentata al responsabile della trasparenza il quale è tenuto, in caso di inerzia, ad effettuare la segnalazione di cui all’articolo 43, comma 5. Ebbene, poiché la figura del responsabile per la trasparenza di norma coincide con quella del responsabile dell’anticorruzione, ed in entrambi i casi si tratta di un dirigente posto al massimo livello del complesso gestionale dell’ente, resta difficile immaginare come possa l’inerzia del responsabile per la trasparenza sull’istanza di accesso civico provocare, su richiesta della parte rimasta delusa, l’attribuzione della competenza a rispondere, in via sostitutiva, ad altro organo dell’ente collocato in posizione sovraordinata rispetto a quello che avrebbe dovuto procedere. Sicché, sembra sussistere una sorta di contraddizione tra la prescrizione recata dall’articolo 5 D.Lgs. n. 33/2013 e l’art. 43 stessa legge: sarebbe stato preferibile lasciare alla pubblica amministrazione la libertà di individuare autonomamente al proprio interno la figura organizzativa alla quale affidare il ruolo di responsabile per la trasparenza. Il rischio più concreto è quello di un addossamento in un’unica figura di più ruoli, che possono sovrapporsi facendo coincidere la figura del responsabile trasparenza con quella del sostituto ex art. 2 comma 9 bis, legge n. 241/1990 (che è poi lo stesso responsabile che dovrebbe sostituire e provvedere a segnalare della sua inerzia) con il concreto rischio di conflitti di interesse. L’unica soluzione ermeneutica alla rilevata criticità Il responsabile della trasparenza Va premesso che l’art. 43 del D.Lgs. n. 33/2013 attribuisce al responsabile per la trasparenza il ruolo di svolgere, stabilmente, un’attività di controllo sull’adempimento degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, assicurando la completezza, la chiarezza e l’aggiornamento delle informazioni pubblicate. La disposizione fa preferenzialmente coincidereil responsabile per la trasparenza con il responsabile per la lotta alla corruzione di cui all’articolo 1, comma 7, Temi Romana 51 Osservatorio legislativo sembra essere la seguente: 1) l’articolo 5, comma 2, afferma soltanto che “La richiesta di accesso civico... va presentata al Responsabile della trasparenza..., che si pronuncia sulla stessa”; 2) il responsabile costituisce il destinatario naturale della domanda e l’organo competente a rispondere all’istante, ma ciò non significa che gli sia altresì attribuito legislativamente il compito di istruire il procedimento scaturente da tale istanza; 3) in caso d’inerzia del dirigente dell’ufficio competente protrattasi oltre i 30 giorni dalla richiesta, provvederà direttamente (entro i successivi 15 giorni a partire dalla reiterazione della domanda da parte dell’interessato) il responsabile per la trasparenza, in qualità di titolare del potere sostitutivo ai sensi dell’articolo 2, comma 9 bis, della legge n. 241/1990. civico”, consistente in una richiesta – che non deve essere motivata – di effettuare tale adempimento. L’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della n. 241/1990 è riferito, invece, al diritto degli interessati – che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso – di prendere visione ed estrarre copia di documenti. In funzione di tale interesse la domanda di accesso deve essere opportunamente motivata20. Va poi segnalata la sentenza del Consiglio di Stato, n. 3014 del 19 marzo 2014, ove viene rilevato che “con l’accesso civico si è introdotto il potere di cittadini ed enti di controllare democraticamente se una amministrazione pubblica abbia adempiuto agli obblighi di trasparenza previsti dalla legge”. Chiarisce al riguardo il Cons. Stato, che «Un’amministrazione può respingere una istanza di accesso civico esclusivamente contestando la ricorrenza del presupposto normativo, ovvero che l’istanza di accesso nella specie concerne documenti, informazioni o dati per i quali “la normativa vigente” non prevede un obbligo di pubblicazione in capo all’amministrazione stessa». Quanto alla legittimità del diniego in caso di pubblicazione già avvenuta, il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, precisa che “se l’obbligo sussiste, ma l’amministrazione vi avesse già adempiuto, non può solo per questo opporsi un diniego di accesso all’istante, giacché l’amministrazione è comunque tenuta ad indicare a quest’ultimo il collegamento ipertestuale necessario per la compiuta conoscenza del documento, informazione o dato”. Si segnala, infine, una sentenza del T.A.R. Campania – Salerno, n. 680 del 4 aprile 2014 in materia di accesso dei consiglieri comunali e provinciali. Qui si legge testualmente: “Il recente D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, nell’introdurre una disciplina organica relativa agli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, intercetta, di certo, un piano diverso rispetto a quello interessato dall’istituto dell’accesso, di cui al D.Lgs. n. 241/1990 e, relativamente ai Consiglieri comunali e provinciali, di cui all’art. 43 D.Lgs. n. 267/2000. Nonostante queste differenze ontologiche tra accesso e trasparenza, tuttavia, i due istituti finiscono irrimedia- La giurisprudenza L’accesso civico ha già interessato la giurisprudenza amministrativa, pur trattandosi di istituto introdotto nell’ordinamento solo di recente. Va anzitutto segnalata la sentenza del Consiglio di Stato n. 5515 del 20 novembre 2013, che traccia la distinzione tra accesso civico e accesso ai documenti amministrativi. Il Cons. Stato precisa che con il decreto legislativo n. 33/2013 il legislatore ha inteso procedere al riordino della disciplina volta ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare “il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche”, nonché per la “realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del cittadino”. La normativa, secondo il Consiglio di Stato, riveste dichiarate finalità di contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione ed intende anche attuare la funzione di “coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera r) della Costituzione”. Solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5 del citato D.Lgs. n. 33/2013, il cosiddetto “accesso 52 Temi Romana Osservatorio legislativo giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo24) bensì in materia di dati e informazioni, più vicini alla tematica di accesso e riservatezza dei dati personali attribuiti alla cognizione “piena” del giudice ordinario dal codice della privacy25, attesa la posizione soggettiva di diritto riferibile all’accedente, analoga a quella propria di colui che vanta il diritto di accesso civico. Al riguardo, ci si permette di rilevare che non sembrano rinvenibili particolari similitudini tra l’art. 5 del decreto trasparenza e l’art. 7 del codice della privacy. La struttura dell’accesso civico, pur nella siderale differenza quanto a finalità, legittimazione, interesse e bene giuridicamente tutelato, appare più simile a quella del diritto di accesso ai documenti amministrativi: entrambi gli istituti presuppongono un’istanza del privato che dà il via ad un vero e proprio procedimento amministrativo, come risulta palese, del resto, dal richiamo, contenuto nell’articolo 5 D.Lgs. n. 33/2013, all’art. 2, commi 9 bis e 9 ter, L. n. 241/1990, nonché alla disciplina del termine, identica a quella prevista dalla citata legge n. 241. E pur qualificando la posizione giuridica soggettiva in capo all’utente che richiede l’accesso civico come quella di un diritto soggettivo, non pare scorretta l’attribuzione della materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Ciò in quanto anche nell’ipotesi di diritto di accesso ai documenti amministrativi si è a lungo discusso sulla situazione soggettiva del richiedente. Come è noto, in materia si sono storicamente fronteggiati, da un lato l’orientamento che afferma la natura di interesse legittimo e che concepisce l’atto adottato dall’amministrazione come provvedimento autoritativo, dall’altro quello che configura la situazione stessa come diritto soggettivo. In dottrina è emersa anche una terza posizione, secondo cui la natura della pretesa di accesso non sarebbe identica, ma influenzabile dalle circostanze della fattispecie concreta e, in particolare, dalla natura vincolata o discrezionale del potere esercitato dall’amministrazione. La tematica, articolata e complessa, sulla quale si sono pronunciate importanti plenarie26, ci porterebbe lontano, fuori tema. Qui pare utile solo accennare che la posizione della giurisprudenza dominante, ormai, sembra essere attestata sulla riconducibilità della posizione giuridica in capo all’accedente ai documenti amministrativi al diritto soggettivo, piuttosto che bilmente per sovrapporsi; ciò significa che, se da un lato, il principio di trasparenza tenderà sempre più ad occupare spazi sin’ora appartenenti al dominio dell’accesso alla documentazione amministrativa, la portata di quest’ultimo non potrà che trarre giovamento da un ampliamento diffuso degli obblighi di ostensione del proprio operato da parte dell’Amministrazione”. Le criticità Inizialmente la dottrina21 ha segnalato dubbi di costituzionalità in relazione ad un eccesso di delega rispetto al testo dell’art. 1 comma 35 della legge 6 novembre 2012 n. 190. Non vi sarebbe traccia, nella legge delega, dell’attribuzione del potere di introdurre una nuova figura di accesso alla conoscenza delle informazioni pubbliche quale strumento per una diffusa verifica circa la tempestiva pubblicazione dei dati delle amministrazioni e dei soggetti tenuti a farlo. Si è anche detto22 che nell’articolo art. 152 D.Lgs. 30 giugno 2003, n.196 si annida l’introduzione di una sorta di azione popolare, analogamente a quanto previsto dall’art. 9 del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 con caratteri analoghi alle previsioni in materia di ricorsi elettorali (art. 130, comma 1, c.p.a.) ovvero dell’articolo 3 del D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 195, in materia di accesso alle informazioni ambientali. In realtà, trattasi di preoccupazioni forse eccessive, atteso che l’accesso civico riguarda atti individuati ex ante dal legislatore soggetti a pubblicazione obbligatoria: l’ostensione sul sito istituzionale è obbligo già gravante ex lege sulla p.a. cosa che l’accesso civico altro non fa che sollecitare. Forse è il caso di ridimensionare tali preoccupazioni considerato che la pubblicazione delle informazioni è attività doverosa, per l’amministrazione, in quanto discendente direttamente dalla legge. Ulteriori dubbi di costituzionalità sono stati poi rilevati23 con riferimento all’introduzione di una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Si è osservato che, al di là degli stretti profili di eccesso di delega, la scelta del legislatore delegato di affidare al giudice amministrativo la cognizione delle controversie in materia di inadempimento agli obblighi di pubblicità sarebbe impropria in quanto nella specie, non si verterebbe affatto in tema di accesso ai documenti amministrativi (materia rispetto alla quale vige la Temi Romana 53 Osservatorio legislativo all’interesse legittimo. Del resto, l’utilità pratica presa di posizione in ordine alla situazione giuridica soggettiva in capo all’accedente ex L. n. 241/1990 appare poco conferente ove si consideri che vi è giurisdizione esclusiva in capo al giudice amministrativo e che l’istanza non risulta reiterabile. A ciò si aggiunga che, come ha ben chiarito la dottrina27, oggetto della cognizione del giudice è la fondatezza della pretesa all’ostensione. Nel giudizio sul diritto di accesso ai documenti amministrativi, il giudice valuta la fondatezza della pretesa sostanziale, i presupposti dell’istanza. Tanto si giustifica in quanto il giudizio ex art. 116 c.p.a. non ha come epilogo l’annullamento o meno del diniego di accesso, ma un provvedimento giurisdizionale sull’esistenza o meno della pretesa sostanziale dell’accedente. Tant’è che la sentenza può consistere in una condanna ad un facere. Si è detto, al riguardo28 che il giudice può decidere sull’istanza di accesso anche prescindendo dai motivi di ricorso, accogliere o respingere la domanda per motivi diversi e non dedotti in giudizio: ciò in quanto il giudizio sull’accesso della n. 241 ha ad oggetto la verifica delle basi a fondamento dell’istanza di ostensione, piuttosto che la legittimità del diniego. Ebbene, a fronte di un giudizio sull’accesso della legge n. 241 avente le descritte incisive caratteristiche, non pare davvero irragionevole l’attribuzione della giurisdizione esclusiva al G.A. in tema di accesso civico; l’assunto che la posizione giuridica dell’accedente nell’accesso civico è di diritto soggettivo, non sembra proprio costituire motivo per ritenere preferibile la cognizione del G.O., sul rilievo che lo stesso sarebbe il giudice naturale deputato a condannare o meno la P.A. ad un facere. Ma ciò accade ormai comunemente anche nel processo amministrativo e proprio nel giudizio sull’accesso della legge n. 241. Ed a tale istituto l’accesso civico, pur nella diversità, appare assimilabile quanto a struttura procedimentale, e sembra in definitiva assai più vicino rispetto, ad esempio, all’istituto dell’accesso disciplinato dal codice della privacy. Del resto, a ben vedere, anche nell’accesso regolato dalla legge n. 241/90 non viene in considerazione una tradizionale funzione amministrativa in senso classico: basti pensare alla funzione regolatoria di interessi contrastanti che è chiamata a svolgere la P.A. nel caso in cui occorrano eventuali istanze di controinteressati ex art. 22. Conclusioni Nella relazione illustrativa al decreto trasparenza, viene affermato che l’accesso civico “rappresenta un ampliamento del potere di controllo dei cittadini sull’operato delle pubbliche amministrazioni, un potere introdotto originariamente dalla legge 241/1990, la quale aveva previsto la pubblicità come regola e il segreto come eccezione” e mira “ad alimentare il rapporto di fiducia intercorrente tra la collettività e le pubbliche amministrazioni e a promuovere la cultura della legalità, nonché la prevenzione di fenomeni corruttivi”. L’istituto, frutto di un’indubbia trasformazione culturale del rapporto intercorrente tra ente che esercita la funzione pubblica e cittadinanza, va inteso con equilibrio ed applicato nelle giuste dimensioni, volute dal legislatore: non quale mezzo di futuri conflitti tra amministrazione e cittadini, bensì strumento di utile collaborazione tra le istituzioni e popolazione, alla quale non sono attribuiti indefiniti poteri punitivi, ma un giusto diritto alla conoscenza dei dati di cui (sempre e solo) la legge impone la pubblicazione. _________________ 1 Il decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, rappresenta il culmine di una serie di interventi normativi, non coordinati tra loro, tutti indirizzati alla massima trasparenza delle informazioni, quali: - gli artt. 2, 12 e 50 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (codice dell’amministrazione digitale); nonché l’art. 50, comma 1 bis, del medesimo decreto, introdotto dal terzo correttivo (decreto legislativo 30 dicembre 2010, n. 235), che contengono sia definizioni, sia obblighi di pubblicazione, ripresi dal D.Lgs. n. 33/2013; - l’art. 2 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, che indica la trasparenza tra i principi generali della disciplina dei contratti pubblici; - l’art. 21 della legge 18 giugno 2009, n. 69, che obbliga le pp.aa. a pubblicare sul sito internet “le retribuzioni annuali, i curricula vitae, gli indirizzi di posta elet- 54 tronica e i numeri telefonici dei dirigenti e dei segretari comunali e provinciali nonché di rendere pubblici, con lo stesso mezzo, i tassi di assenza e di maggiore presenza del personale, distinti per uffici di livello dirigenziale”; nonché, a rendere pubblico: a) un indicatore dei propri tempi medi di pagamento relativi agli acquisti di beni, servizi e forniture, denominato “indicatore di tempestività dei pagamenti”; b) i tempi medi di definizio- Temi Romana Osservatorio legislativo - - - - ne dei procedimenti e di erogazione dei servizi con riferimento all’esercizio finanziario precedente; l’art. 11 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (c.d. decreto “Brunetta”), che ha fornito una definizione di “trasparenza”, intesa già in quella sede come “accessibilità totale”, attraverso lo strumento della pubblicazione nei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni di tutte le informazioni relative all’organizzazione e all’utilizzazione delle risorse per l’espletamento delle funzioni istituzionali; l’art. 18 del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, “Misure Urgenti per la crescita paese”, convertito con modificazioni dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, il quale, “in deroga ad ogni diversa disposizione di legge o regolamento” – e, quindi, anche al Codice Privacy – ha previsto l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di pubblicare, sui rispettivi siti internet istituzionali, il “nome dell’impresa o altro soggetto beneficiario ed i suoi dati fiscali; l’importo; la norma o il titolo a base dell’attribuzione; l’ufficio e il funzionario o dirigente responsabile del relativo procedimento amministrativo; la modalità seguita per l’individuazione del beneficiario; il link al progetto selezionato, al curriculum del soggetto incaricato, nonché al contratto e capitolato della prestazione, fornitura o servizio; l’art. 9 del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, “Ulteriori misure urgenti per la crescita del paese”, recanti ulteriori obblighi di pubblicazione sui siti web istituzionali; l’art. 1, commi 15, 16 e 29, della legge 6 novembre 2012, n. 190. 2 Ci si riferisce, ad esempio, al potere di accesso alle informazioni ambientali da parte dei cittadini ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. 19 agosto 2005, n.195; al potere di accesso alle informazioni detenute dagli enti locali da parte dei consiglieri comunali e provinciali ai sensi dell’art. 43 D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267. 3 Come emerge dalla relazione illustrativa allo schema di decreto, il modello cui si è ispirata la disposizione è quello statunitense dei Freedom of Information Acts (FOIA) “atto per la libertà di informazione” – emanata il 4 luglio 1966 – che, tuttavia, a differenza del nostro sistema, assicura, a chiun- Temi Romana que lo richieda, la conoscenza di qualsiasi informazione inerente l’attività di una amministrazione pubblica, e non solo di quelle oggetto di pubblicazione; mentre, nel sistema delineato dal D.Lgs. n. 33/2013, affinché possa essere esercitato il c.d. diritto di accesso civico, deve preesistere un obbligo normativo di pubblicazione. 4 Come risulta testualmente dalla disposizione in commento: “l’obbligo… di pubblicare… comporta il diritto di …richiedere”. 5 Così testualmente: R. GIOVAGNOLI, “rapporti tra accesso c.d. difensivo e documenti coperti dal segreto” 2014. 6 Cfr. R. GIOVAGNOLI (nt. 5). 7 In questo senso, già nel 2006, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (18 aprile 2006 n. 6), qualificava il diritto di accesso come una situazione soggettiva che, più che fornire utilità finali risulta caratterizzata per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritto o interesse). 8 L’assunto era già assodato in via giurisprudenziale. Cfr. ad es. Cons. Stato, Sez. V, 20 Ottobre 2004, n. 6879 e 7 aprile 2004, n. 1969, secondo cui, anche in materia di enti locali, il diritto di accesso, per essere esercitato, deve estrinsecarsi attraverso un interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti. Nello stesso senso: Cons. Stato, 28 maggio 2001, n. 2889. 9 In particolare il comma 2: “La richiesta di accesso civico non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente non deve essere motivata, è gratuita e va presentata al responsabile della trasparenza dell’amministrazione obbligata alla pubblicazione di cui al comma 1, che si pronuncia sulla stessa”. 10 Ex multis: Cons. Stato, 22 maggio 2012, n. 2974. 11 Ma va registrata una posizione contraria che dà rilievo all’autonomia dell’interesse all’accesso rispetto alla situazione giuridica sottostante cui l’accesso è preordinata. In questo senso: T.A.R. Campania, Napoli, 23 novembre 2012, n. 4200. 12 Cfr.: Cons. Stato, 13 aprile 2006, n. 2068; T.A.R. Puglia, Bari, 7 maggio 2007, n. 1263; T.A.R. Puglia, Lecce, 6 maggio 55 2008, n. 1278; id., 28 maggio 2008, n. 1609; id., 9 luglio 2008, n. 2087. 13 Cfr. S. MEZZACAPO, Entrata in vigore solo dopo il regolamento, in Guida al Diritto n. 10 del 12 marzo 2005; S. RUSSO, Oggetto e funzione dell’accesso agli atti dei pubblici poteri nella l. 15/2005, suoi limiti, sua reclamabilità, in Giust.Amm.it, 2005, n. 7; V. CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90, in Giustamm.it, 2005, n. 3; G. BACOSI, La legge n. 15 del 2005: ecco il nuovo volto della “241”, in Giustamm.it, 2005, n. 4. 14 Già, in tal senso, prima della novella del 2005, Cons. Stato, 7 settembre 2004, n. 5873; successivamente alla novella, Cons. Stato, 27 ottobre 2006, n. 6440. 15 Art. 22 comma 1 lett. b) legge n.241/1990 e art. 2 D.P.R. 12 aprile 2006 n. 184. 16 In questo senso T.A.R. Campania, (nt. 9). 17 L’art. 8 del decreto legislativo n. 33/2013 stabilisce che “I dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono pubblicati per un periodo di 5 anni, decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione, e comunque fino a che gli atti pubblicati producono i loro effetti, fatti salvi i diversi termini previsti dalla normativa in materia di trattamento dei dati personali”. 18 La deflazione del contenzioso è da annoverare tra le finalità sottese al diritto di accesso ai documenti amministrativi, in quanto a seguito della visione dei documenti la parte istante potrebbe convincersi della correttezza dell’operato dell’amministrazione e rinunciare al ricorso (in questo senso di veda: T.A.R. Campania, Napoli, 9 aprile 2009, n. 1968). 19 Art. 1, comma 1, D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito in l. 4 aprile 2012, n. 35. 20 Il caso valutato dal Consiglio di Stato riguardava un’istanza di accesso di un dottore di ricerca, successiva ad altre cinque istanze, ma l’istante chiedeva ulteriormente l’ostensione “del decreto rettorale n. 9737 del 15.3.2012”, nonché di “tutti gli atti delle procedure di valutazione di tutti i dottorandi di ricerca, il cui relativo titolo di dottore di ricerca è stato o non è stato rilasciato dal Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore dal giorno 1 gennaio 2005 Osservatorio legislativo ad oggi”. “L’accesso civico”, in Treccani.it, 2014. 24 Art. 133 comma 1, lettera a) n. 6) c.p.a. 21 Cfr. S. TOSCHEI, Accesso civico e accesso ai documenti amministrativi, due volti del nuovo sistema amministrativo Italia, Intervento al convegno “Anticorruzione e trasparenza: analisi dell’impatto normativo nell’ente locale”, Frascati, 15 luglio 2013; C. COLAPIETRO - C. SANTARELLI, 22 Cfr. V. TORANO, Il diritto di accesso civico, Intervento al convegno “Anticorruzione e trasparenza: analisi dell’impatto normativo nell’ente locale”, Frascati, 15 luglio 2013. 25 Art. 152 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196. 23 Cfr. TOSCHEI (nt. 22). 28 Cfr. GIOVAGNOLI (nt. 5). 56 26 Ad. Plen. Consiglio di Stato 18 aprile 2006, n. 6 e Ad. Plen. 24 aprile 2012, n. 7. 27 Cfr. GIOVAGNOLI (nt. 5). Temi Romana Note a sentenza Lavoro (Rapporto di) - Licenziamento individuale Successiva revoca del provvedimento - Reintegra nel posto di lavoro - Decorrenza ex tunc degli effetti dalla data di decorrenza originaria del rapporto di lavoro - Retribuzioni medio tempore maturate Trib. Roma – Sez. Lavoro – 10 Gennaio 2013, n. 245 – G.U. dr. Nunziata – ric.: D.M. (avv. F.d.A.); res.: B.N. ora B.S. (avv. F.M. e N.P.) Carlotta Maria Manni Praticante Abilitato Il licenziamento, una volta comunicato alla controparte, è unilateralmente irrevocabile. È tuttavia consentita l’accettazione della revoca da parte del lavoratore (Cass. 11664-06). Tale revoca implica l’invito del datore a riprendere il lavoro e la sua volontà di considerare il rapporto come mai risolto “de iure”. E pertanto, ove accettata, essa ripristina il rapporto di lavoro con effetto dalla data del recesso, con la conseguenza che da tale data il lavoratore ha diritto alle retribuzioni “medio tempore” maturate, essendo il mancato svolgimento della prestazione lavorativa imputabile esclusivamente alla condotta datoriale e potendo la tempestiva impugnativa del licenziamento, valutarsi come implicita offerta delle energie lavorative da parte del lavoratore (Cass. 5638-09). F atto e diritto – La parte ricorrente, all’odierna udienza, ha dichiarato a fronte dell’avvenuta ripresa del servizio in data 16.3.2012, di abbandonare la domanda per la parte inerente alla validità del licenziamento ed al risarcimento dei danni. Nel rito del lavoro il contenuto della domanda proposta dal ricorrente e della memoria difensiva del resistente fissano il thema decidendum, che non può più essere alterato con l’introduzione di nuovi elementi, tali da modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate nei termini di cui all’art. 420 c.p.c.; tale regola processuale, però, non esclude che l’attore abbandoni alcuni capi della domanda ovvero che il convenuto rinunci a talune eccezioni, trattandosi di una condotta processuale che rientra nella piena disponibilità delle parti (Cass. 7035-86). Non si verte invece in materia di rinuncia agli atti del giudizio, con conseguente necessità delle formalità richieste dall’art. 306 c.p.c., atteso che tale istituto comporta l’estinzione del giudizio, laddove nel caso in esame il giudizio permane, in quanto restano fermi i residui capi della domanda. Temi Romana Il lavoratore ha insistito per l’accoglimento della residua parte della domanda con condanna del datore di lavoro alla corresponsione delle retribuzioni dal licenziamento alla ripresa del servizio con declaratoria della continuazione del rapporto di lavoro dalla originaria assunzione. La domanda è parzialmente fondata nei termini di seguito esposti. Quanto al primo profilo, il lavoratore è stato licenziato in data 16.3.2011 e collocato in mobilità ai sensi della L. 223/91. È pacifico tra le parti che successivamente, in sede di trattative sindacali, il licenziamento è stato revocato (v. anche accordo aziendale 7.4.2011) e che tale revoca è stata accettata dal lavoratore al più tardi con la notifica del ricorso introduttivo del giudizio. Il giudice è chiamato a pronunciarsi su fatti che siano sostanzialmente controversi tra le parti; ed anzi deve porre a fondamento della decisione, oltre alle prove raggiunte dalle parti, i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita (art. 115 c.p.c.; Cass. 14623-09). Il licenziamento, una volta comunicato alla controparte, è unilateralmente irrevocabile. È tuttavia consentita 57 Note a sentenza l’accettazione della revoca da parte del lavoratore (Cass. 11664-06). Tale revoca implica l’invito del datore a riprendere il lavoro e la sua volontà di considerare il rapporto come mai risolto “de iure”. E pertanto, ove accettata, essa ripristina il rapporto di lavoro con effetto dalla data del recesso, con la conseguenza che da tale data il lavoratore ha diritto alle retribuzioni “medio tempore” maturate, essendo il mancato svolgimento della prestazione lavorativa imputabile esclusivamente alla condotta datoriale e potendo la tempestiva impugnativa del licenziamento, valutarsi come implicita offerta delle energie lavorative da parte del lavoratore (Cass. 5638-09). Quanto sopra esposto trova conferma nel comportamento processuale della società la quale, in comparsa di risposta, ha dichiarato: 1) di aderire alla proposta del D. di ricostituire il rapporto “fin dalla data del licenziamento”; 2) che, entro qualche giorno, il lavoratore avrebbe ricevuto lettera di accettazione di tale proposta, “mettendo nel nulla il precedente effetto risolutivo”; 3) che, in tal modo, “il rapporto è costituito fin dall’origine”. La revoca del recesso, in una con l’invito a riprendere servizio, deve essere portata a conoscenza del lavoratore, al quale deve essere comunicata. Nel caso in esame il datore di lavoro ha ottemperato a tale onere soltanto in corso di causa, con lettera del 12.3.2012, dopo che il lavoratore ha accettato la revoca per averne avuto conoscenza “aliunde”. Alla luce delle considerazioni esposte la società deve essere condannata a pagare al lavoratore le retribuzioni dal momento del licenziamento (16.3.2011) a quello della instaurazione del presente giudizio (7.12.2011) in osservanza del principio generale secondo cui, salva diversa disposizione di legge, la materia del contendere si cristallizza al momento della instaurazione del giudizio e quindi non possono essere prese in considerazione pretese fondate su fatti non dedotti nel ricorso introduttivo e successivi allo stesso. Quanto al secondo profilo, la domanda di declaratoria della inefficacia od invalidità di licenziamento collettivo contiene necessariamente quella di accertamento della continuazione del rapporto di lavoro, conseguendo necessariamente la reintegra nel posto di lavoro (v. art. 5 comma 3 L. 223/91 e art. 18 Stat. Lav. nel testo vigente “ratione temporis”). Consegue che tale ultima domanda non può essere considerata né nuova né tardiva, purché sussista l’interesse a proporla al momento della decisione (art. 100 c.p.c.). Tale interesse sussiste a fronte della opposizione manifestata dal difensore della società alla odierna udienza. La data di assunzione originaria va individuata, secondo le risultanze dello statino-paga di febbraio 2011, al 20.11.1989. D’altro canto lo stesso lavoratore dà atto in ricorso di essere stato licenziato e riassunto nel novembre 1989. Alla luce delle considerazioni esposte deve dichiararsi la continuazione del rapporto di lavoro fin dalla data del 20.11.1989. L’esito complessivo del giudizio ed il perfezionamento della revoca del licenziamento con ripresa del servizio in corso di causa giustifica la declaratoria di compensazione delle spese processuali. (Omissis) Revoca del licenziamento: tra margini di incertezza e soluzioni normative La sentenza in commento concerne un aspetto controverso del diritto di lavoro: la revoca del licenziamento. Prima della nota Riforma Fornero1 – di cui si avrà modo di discorrere nel prosieguo di questo lavoro – le Parti sociali rinviavano l’argomento ai principi generali di diritto civile concernenti i negozi giuridici, lasciando in tal modo ampi margini a interpretazioni talora discordanti. Il tema ha sollevato numerose perplessità alimentando frequenti dibattiti. La giurisprudenza, sovente, è intervenuta per trovare una disciplina applicabile ad un istituto che sembrava dimenticato dal Legislatore. 1. Effetti della revoca sul rapporto di lavoro Il quesito centrale, attorno a cui ruota la vexata quaestio del giudizio, concerne gli effetti della revoca del licenziamento; ossia, per meglio dire, se questa determini la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, ovvero se da essa derivi una mera prosecuzione del rapporto instaurato in precedenza. Nel caso di specie, il ricorrente era stato licenziato e collocato in mobilità dalla Società presso cui aveva prestato per anni la propria attività lavorativa. Successivamente, impugnava il licenziamento medesi- 58 Temi Romana Note a sentenza Tuttavia, tale orientamento non convince; una simile previsione, mentre da un lato favorisce ampiamente il datore di lavoro che, mediante una variazione contrattuale, può decidere se corrispondere o meno le somme medio tempore dovute, d’altro canto rende il lavoratore sottoposto alla discrezionalità del datore. Né può giovare, in tal senso, la libertà a contrarre del lavoratore, che spesso per esigenze meramente economiche si trova costretto ad accettare condizioni dettate da parte datoriale. mo innanzi al Tribunale di Roma (Sez. lavoro). A seguito di trattative concluse in sede sindacale, la Società revocava – nelle more del giudizio – il provvedimento impugnato. La suddetta revoca veniva accettata dal ricorrente entro i termini e nelle modalità previste ex lege. Nel frattempo il giudizio proseguiva per i residui capi di domanda relativi all’accertamento del diritto del ricorrente alla retribuzione per il periodo compreso tra la data del licenziamento e la data della riassunzione. Sebbene la Cassazione abbia mostrato segnali di costante oscillazione, l’orientamento maggioritario2 ha assunto il convincimento secondo cui a seguito della revoca del licenziamento si realizza la prosecuzione dell’originario rapporto di lavoro. Ne consegue il diritto del lavoratore a vedersi corrispondere la retribuzione maturata medio tempore: ossia nel periodo intercorso dalla data del licenziamento sino al momento della revoca sopravvenuta. La ratio di un simile orientamento risiede nella considerazione per cui il mancato svolgimento della prestazione è imputabile al datore, che di fatto ha licenziato il proprio dipendente. Di converso, l’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore si configura come espressione dell’intenzione di svolgere prestazioni lavorative3. Per usare le parole della Suprema Corte, il comportamento del lavoratore esprime una “offerta delle energie lavorative”. Per esigenze di completezza, giova qui richiamare un orientamento minoritario secondo cui l’elemento di discernimento, tra la riassunzione e la reintegrazione, risiede nella dichiarazione del datore – contenuta nel nuovo contratto di lavoro individuale – in cui il rapporto di lavoro viene considerato come “mai risolto de iure”. Se ne deduce che, ove il datore di lavoro esprima la volontà di riassumere il lavoratore a condizioni differenti rispetto all’originario rapporto, e, quindi, con elementi essenziali differenti, si realizzerà la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro cui, necessariamente, dovrà precedere l’accettazione del lavoratore, con la conseguenza che il lavoratore non avrà diritto alla corresponsione delle somme maturate medio tempore. Pertanto, nella valutazione complessiva, il giudice dovrà tenere in particolare considerazione il tenore letterale della proposta formulata dal datore medesimo4. Temi Romana 2. Accettazione della revoca: elemento necessario? La natura giuridica della revoca presenta ulteriori spunti di analisi e di riflessione. Come accennato, l’orientamento dominante della Suprema Corte rifiuta la soluzione di continuità tra i due rapporti di lavoro, considerandoli piuttosto un unicum. Ne consegue l’assoluta irrilevanza dell’accettazione della revoca da parte del lavoratore5. Questa considerazione muove dalla presunzione che l’impugnazione del licenziamento si traduca in una volontà a proseguire il rapporto di lavoro. In siffatta maniera, il lavoratore avrebbe già espresso una conferma – seppure tacita e presunta – da ricercare in una fase anteriore rispetto alla revoca. A sostegno di questo orientamento, vi è il principio della presunzione di conoscenza (peraltro previsto dall’art. 1335 del Codice civile), secondo cui la revoca si ritiene conosciuta, e quindi efficace, nel momento in cui la stessa giunga all’indirizzo del destinatario, avendo chiaramente riguardo alle particolari modalità della sua comunicazione. In tale circostanza, spetta al giudice di merito accertare se il lavoratore-destinatario possa averne avuta conoscenza utilizzando la normale diligenza. Tuttavia la Suprema Corte6, pur confermando il principio di continuità dei rapporti, ha mostrato numerose reticenze nel seguire il dettato codicistico. Anzi da esso ha tratto (e trae tuttora) spunto con una interpretazione innovativa. La revoca viene configurata come una proposta contrattuale di reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro e non più come revoca in senso stretto. Pertanto, affinché si possa perfezionare l’accordo, il lavoratore dovrà accettare la proposta dichiarando di voler proseguire il rapporto di lavoro. Mediante questo diverso inquadramento giuridico, la 59 Note a sentenza fatti noti convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza11. stessa Corte ha rifiutato l’idea di una “irrilevanza dell’accettazione”, che di fatto mina la sfera giuridica del lavoratore, sottoponendolo al potere decisionale del datore, il quale diviene unico dominus del rapporto contrattuale. In definitiva la revoca del licenziamento deve considerarsi come un atto al quale deve seguire, necessariamente, una accettazione – espressa o tacita – da parte del lavoratore, per l’espletamento degli effetti ad essa connessi7. Per quanto concerne la forma dell’accettazione non sembra, invece, porsi alcun limite. Viene escluso l’obbligo della forma scritta, in quanto gli atti risolutori degli effetti prodotti da atti scritti non sono assoggettati al medesimo requisito formale; ciò in ossequio al principio secondo cui la forma degli atti è libera se la legge non richiede espressamente una forma determinata8. Non essendovi alcun limite, l’accettazione della revoca può avvenire in forma espressa, tacita o presunta sulla base di comportamenti concludenti del lavoratore, siano essi commissivi che omissivi. Ne consegue, logicamente, che la mera presentazione sul luogo di lavoro e il successivo svolgimento delle proprie mansioni assumono il significato di accettazione alla prosecuzione del rapporto, in quanto palesemente contrastante con la volontà di interruzione del rapporto di lavoro medesimo9. Spetta al giudice adito procedere alla ricostruzione della volontà del lavoratore medesimo di rinunziare ad un proprio diritto, il quale, una volta valutati tutti gli elementi di prova, potrà accertare la sussistenza o meno della volontà abdicativa del lavoratore10. Chiaramente le presunzioni dovranno presentare i requisiti di gravità, precisione e concordanza definiti dalla giurisprudenza e che di seguito si riporta per mero scrupolo chiarificatore a vantaggio del lettore. Il requisito della gravità si configura come “il grado di convincimento che ciascuno di essi (elementi indiziari) è idoneo a produrre” tale che possa determinare una “ragionevole certezza”. Il requisito della precisione impone che l’iter logico che ha guidato il giudice nel ragionamento non sia vago, ma definito in maniera inequivoca, chiara ed esaustiva. Da ultimo il requisito della concordanza richiede che il fatto ignoto – nel caso di specie la volontà abdicativa – desunto dal giudice di merito, sia il risultato di una pluralità di 3. Coesistenze incerte e percorsi alternativi Il legislatore individua numerosi strumenti a tutela del lavoratore che sia destinatario di un licenziamento successivamente revocato. Spetta a questo ultimo scegliere il percorso più efficace ed idoneo per difendere i propri interessi. Tuttavia, sovente, la coesistenza tra gli strumenti medesimi rischia di divenire inconciliabile se non addirittura contrastante. 3.1. Tutela reintegratoria e tutela risarcitoria In merito alla eventuale coesistenza tra la tutela reintegratoria e la tutela risarcitoria, rileva verificare se il datore abbia reintegrato il lavoratore, non solo nella propria posizione lavorativa, ma altresì, abbia provveduto a ripristinare tutti i diritti, sì da eliminare tutti gli effetti pregiudizievoli e dannosi del licenziamento. In questo caso la prosecuzione del rapporto – seppure formale – fa venire meno il fatto generatore del danno12. Ne consegue, pertanto, che al lavoratore non spetta alcun diritto al risarcimento. Altresì rileva la peculiare ipotesi in cui il datore di lavoro abbia revocato il licenziamento in un momento immediatamente successivo, prima che il lavoratore ne possa avere conoscenza, sicché lo stesso licenziamento non spiega i propri effetti nel mondo giuridico, tale da potersi definire sostanzialmente inesistente13. Non si applica, di conseguenza, la previsione normativa di cui l’art. 8 della legge n. 604/1966, salvo il diritto al risarcimento dei danni di cui l’art. 1218 Cod. civ. Rientrano in siffatta previsione normativa i danni per retribuzione ritardata o inferiore al dovuto, per il carattere ingiurioso del licenziamento o per il nocumento alla salute del lavoratore per il quale sia provato il nesso eziologico14. A contrariis, qualora il rapporto di lavoro sia stato interrotto dal licenziamento, il risarcimento è dovuto nella misura in cui il fatto dannoso verificatosi ha spiegato i suoi effetti. In tale contesto la successiva revoca, benché non incida sulla tutela risarcitoria, può variarne in minima parte l’entità e la natura15. Tale soluzione, certamente, non è stata accolta all’unanimità da quell’indirizzo minoritario della giurisprudenza che definiva il diritto al risarcimento 60 Temi Romana Note a sentenza minimo delle 5 mensilità. Diversa è la disciplina per le altre forme viziate di licenziamento. Ove il fatto non sussista, ovvero il medesimo rientri in una fattispecie punibile con sanzione conservativa, il giudice ordina la reintegrazione e il pagamento dell’indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità19. In tutti gli altri casi in cui non ricorrano i presupposti per la comminazione del licenziamento, al lavoratore spetta una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità20. “connesso in via diretta ed immediata” al licenziamento illegittimo. Ragion per cui neanche il ripristino ex tunc del rapporto lavorativo avrebbe potuto ostacolare la costituzione della tutela risarcitoria in capo al lavoratore. La stessa stesura dell’art. 18 Stat. Lav. (ante Riforma Fornero) non prevedeva alcun rimedio per impedire l’insorgere del medesimo diritto, fissato nella misura non inferiore a cinque mensilità16. Una simile previsione sussiste indipendentemente dalla sopravvenuta reintegra o dalla accettazione o meno della revoca. Ne discende che il lavoratore, che abbia accettato la revoca del licenziamento, ha comunque diritto di ottenere il risarcimento, salvo che non vi abbia rinunciato attraverso un accordo bilaterale o collettivo con il proprio datore di lavoro. Per quanto concerne la disciplina dell’istituto, occorre evidenziare come la recente riforma Fornero abbia notevolmente modificato la disciplina del risarcimento (come, del resto, anche di altri aspetti connessi al licenziamento). La formula contenuta nell’art. 18 Stat. Lav. ante riforma prevedeva una disciplina unitaria per tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento. Non vi era alcun distinguo. Pertanto il giudice, una volta accertato il vizio del licenziamento comminato, condannava il datore al risarcimento del danno patito dal lavoratore. L’indennità risarcitoria veniva calcolata con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra (comunque non inferiore a 5 mensilità). Il dettato normativo di cui all’art. 18 Stat. Lav. cambia in maniera evidente. Il legislatore diversifica le tutele risarcitorie a seconda della particolare tipologia di licenziamento; a ciascuna di esse segue una particolare tipologia di effetti negativi per il lavoratore, spesso non sufficientemente tutelabile con una previsione normativa omogenea. La recente riforma prevede, in primis, una tutela maggiore per i lavoratori destinatari di un licenziamento discriminatorio17 o di licenziamento comunicato oralmente, laddove indica che il giudice ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore “indipendente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”18. Inoltre l’indennità risarcitoria, pur essendo calcolata nelle medesime modalità, rimane vincolata al limite Temi Romana 3.2. Tutela reintegratoria e indennità sostitutiva Il licenziamento illegittimo comporta la facoltà per il lavoratore/creditore, di optare per una strada alternativa alla reintegra. Questi può decidere di usufruire di una indennità sostitutiva (in seguito anche solo I.S.). Chiaramente, la scelta di uno preclude l’esercizio dell’altro. Il diritto alla I.S. sorge contemporaneamente al diritto concernente la reintegra, configurandosi il primo come una sorta di monetizzazione del secondo in una somma pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto21. Qualora il lavoratore abbia accettato la revoca proposta dal datore di lavoro – e di conseguenza sia stato reintegrato nella posizione lavorativa – viene meno il suo diritto alla indennità. L’attuale disciplina normativa (ex art. 18 co. 3 Stat. Lav.) prevede che il lavoratore possa chiedere una indennità, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, nel termine di 30 giorni con decorrenza “dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio”, ove questo ultimo sia anteriore alla comunicazione. L’indicazione del termine ha lo scopo ben preciso di contenere, in termini ragionevolmente ristretti, la situazione di incertezza giuridica in cui si verrebbe a trovare il datore di lavoro. La ratio alla base di un simile istituto trova fondamento in una duplice considerazione: da un lato il lavoratore potrebbe non avere più interesse alla reintegrazione sul posto di lavoro, d’altro canto il datore non può essere costretto a reintegrare il lavoratore in ragione del principio, costituzionalmente tutelato, della libertà di iniziativa economica. 4. Conclusioni La questione, sottoposta ad esame in questo breve lavo- 61 Note a sentenza ro, torna ad essere oggetto di analisi con le recenti riforme. Il legislatore ridisegna, in concreto, la disciplina conformandosi in toto all’autorevole giurisprudenza ormai consolidatasi nel corso degli anni, quasi a voler cristallizzare un orientamento ormai condiviso e condivisibile22. Il dettato configura la revoca come un potere unilaterale, senza indicare alcun riferimento alla volontà del lavoratore di riprendere o meno la propria attività; vengono completamente abbandonati i riferimenti codicistici che sino ad allora avevano costituito un valido sostegno al vulnus normativo. Unica condizione imposta è la tempestività entro cui deve essere effettuata la revoca, pari a 15 giorni dalla comunicazione al datore dell’impugnazione del licenziamento, a seguito della quale si realizza il ripristino del rapporto di lavoro senza soluzione di continuità. Una siffatta previsione logicamente può far sorgere ragionevolmente il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate medio tempore, poiché il rapporto di lavoro si considera come mai interrotto. Tuttavia non può riconoscersi, nella riforma in questione, un trattamento di favore per il lavoratore, poiché la stessa garantisce al datore di lavoro di sanare l’eventuale vizio del licenziamento mediante revoca, senza alcun bisogno di accettazione da parte del lavoratore. La sentenza in epigrafe non viene minimamente toccata dalla Riforma Fornero per ovvie ragioni, ispirate al principio del “tempus regit actum”. Il giudizio, conclusosi a qualche mese di distanza dall’entrata in vigore della l. 92/2012, ha tuttavia risentito del prevalente orientamento maggioritario giurisprudenziale, già accennato, in perfetta sintonia col nuovo disposto normativo di cui all’art. 18 co. 10, conducendo il Giudice del Tribunale di Roma a concludere che il lavoratore/ricorrente – il cui licenziamento era stato revocato in corso di causa – abbia, non solo il diritto alla reintegra (e non già quello alla riassunzione) ma, altresì, la copertura retributiva e previdenziale del periodo intermedio corrispondente all’arco di tempo compreso tra la data di licenziamento e quella della reintegrazione,nonché il risarcimento del danno. Il rapporto di lavoro si considera come mai interrotto. Pertanto ne consegue, logicamente, che sulla busta paga del lavoratore reintegrato dovrà essere indicata la data di assunzione e non la data di reintegra, come erroneamente avvenuto nel caso di specie. Nelle more del giudizio – la cui sentenza è, qui, oggetto di commento – il datore di lavoro ha cancellato dal ridetto cedolino la data di assunzione originaria sostituendola con la data di rientro in servizio del lavoratore medesimo. Tale precisazione assume un rilievo di notevole importanza laddove si consideri che l’eventuale erronea indicazione arreca danni di carattere economico per il lavoratore medesimo. Si pensi, infatti, agli scatti di anzianità, ossia gli aumenti retributivi che maturano periodicamente in relazione all’attività continuativa o meno presso la medesima azienda. Una posticipata collocazione temporale della data di assunzione, inevitabilmente determina un minus percipiendi a danno del lavoratore e della sua famiglia, il quale, ingiustificatamente e ingiustamente, si vede privato di un diritto contrattualmente stabilito su base nazionale. Tuttavia questo non rappresenta il solo e unico problema che consegue l’erronea indicazione della data sul cedolino. Ad esso si aggiunge poi la questione del tutto ipotetica e niente affatto surreale, ossia l’ipotesi in cui il datore proceda al licenziamento collettivo. Per chiarezza espositiva rileva menzionare la nota L. del 23 luglio 1991, n. 22323 in materia di mobilità. Il testo normativo indica i criteri di scelta dei lavoratori destinati al licenziamento; tali criteri sono indicati talora nel testo dei contratti collettivi stipulati tra le parti sociali24. In mancanza di una espressa previsione contrattuale, sovviene il legislatore il quale dispone che, nel procedere al licenziamento collettivo, il datore di lavoro dovrà tener conto dei carichi familiari, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, con la precisazione che i predetti requisiti debbono concorrere tra loro. Si tratta, in definitiva, di criteri oggettivi che consentono la formazione di una graduatoria dei lavoratori. Tale previsione normativa garantisce la trasparenza della procedura che, in quanto riferita a criteri ben determinati, si sottrae ad eventuali comportamenti dolosi da parte del datore e garantisce il pieno esercizio dei diritti dei lavoratori25. Una simile precisazione non è affatto marginale. Il 62 Temi Romana Note a sentenza comportamento negligente della Società, che aveva indicato nei cedolini dello stipendio la data di reintegra e non già la data di assunzione avrebbe potuto generare problemi ed equivoci in riferimento alla posizione del ricorrente all’interno dell’azienda, sicché questi sarebbe potuto divenire nuovamente destinatario di un futuro eventuale licenziamento collettivo, salvo poi a dover procedere a nuova impugnativa. _________________ 1 Legge 28 giugno 2012, n. 92 “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, in G.U. n. 153 del 3.7.2012, S.O. n. 136. 2 Si vedano, ex multis, Cass. Civ. Sez. Lav. del 2.2.2007, n. 2258; 9.3.2009, n. 5638; 14.8.2012, n. 14493. 3 Cfr. Cass. Civ. Sez. Lav. del 9.3.2009, n. 5638. Tale considerazione si desume, altresì, a contrariis dalla sentenza della Cass. Civ. del 2.2.2007 n. 2258 nella parte in cui dispone che “[…] la mancata accettazione della revoca non è giuridicamente irrilevante, in quanto viene equiparata al rifiuto della prestazione, che, per la sinallagmaticità del rapporto, preclude il sorgere dell’obbligazione datoriale alla corresponsione della retribuzione”. 4 Nel caso di specie il datore di lavoro aveva fatto chiaro riferimento non alla reintegrazione, bensì alla riassunzione del dipendente licenziato. Pertanto il rapporto si intende costituito ex nunc e non piuttosto ex tunc. L’accettazione da parte del lavoratore preclude qualsiasi diritto alle retribuzioni maturate in medio tempore. Cfr. Cass. Civ. Sez. Lav. del 12.7.2004, n. 12867. 5 Si tenga presente il formalismo dell’espressione “…a prescindere dall’accettazione del lavoratore…” (in Cass. Civ. Sez. Lav. del 2.2.2007 n. 2258). 6 Si noti, d’altra parte, l’oscillazione forni- Temi Romana ta dalla Cass. Civ. Sez. Lav. del 3.1.2011, n. 36 secondo cui “…la revoca del recesso non può avere l’effetto di ricostituire il rapporto di lavoro, occorrendo a tal fine una manifestazione di volontà del lavoratore”. Tale principio risulta, peraltro, già espresso nelle precedenti sentenze del 5.10.2007 n. 20901 e del 5.3.2008 n. 5929. 17 A titolo di esempio: il licenziamento intimato in prossimità del matrimonio o durante il periodo di gravidanza della lavoratrice. 7 Cass. Civ. Sez. Lav. del 12.10.1993, n.10085; 5.10.2007, n. 20901; 5.3.2008, n. 5929; 3.1.2011, n. 36; 15.6.2011, n. 13090. 21 Così Cass. Civ. Sez. Lav., 21.12.1995, Cass. n. 13047; Cass. 5.12.1997 n. 12366; Cass. 13.6.2002 n. 8493. 8 Cass. Civ. Sez. Lav. 1.7.2004, n. 12107. 22 Cfr. in particolare l’art. 18 co. 10 Stat. Lav. 9 Cass. Civ. 3.1.2011, n. 36. 23 Pubblicato in G.U. n. 175 del 27.7.1991 – S.O. n. 43 e modificato dall’art. 2 co. 73 della L. 28 giugno 2012, n. 92. 10 Ai fini della suddetta verifica la giurisprudenza opera un costante riferimento normativo al Codice civile – art. 2729 – che disciplina le presunzioni semplici. 11 Cass. Civ. Sez. II, 24.2.2004, n. 3646. 12 “…il recesso non ha spiegato efficacia alcuna sulla continuità del rapporto e sulla ordinaria funzionalità del sinallagma contrattuale”. Cfr. Trib. Torino del 30.9.2002; Appello Milano 1.9.2004; Cass. Civ. 14.8.2012, n. 14493. 13 Cass. Civ. Sez. Lav. 1.7.2004, n.12102. 14 Cass. Civ. Sez. Lav. 12.12.2007, n. 26073. 15 App. Perugia, 22.9.2011. 16 Cass. 12.10.1993 n. 10085; Cass. Civ. Sez. Lav., 21.12.1995, n. 13047 e Cass. 1.7.2004, n. 12102; Trib. Cassino, 6.7.2007. 63 18 Cfr. art. 18 Stat. Lav. comma 1. 19 Cfr. art. 18 Stat. Lav. comma 4. 20 Cfr. art. 18 Stat. Lav. comma 5. 24 A riguardo cfr. l’art. 5 co. 1 – rubricato “Criteri di scelta dei lavoratori ed oneri a carico delle imprese” del testo citato il quale dispone che: “L’individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire in relazione alle esigenze tecnico-produttive, ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’articolo 4, comma 2, ovvero in mancanza di questi contratti nel rispetto dei seguenti criteri in concorso tra loro; a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico produttive ed organizzative”. 25 Cass. Civ. Sez. Lav., 9.6.2011, n. 12544. Note a sentenza La destinazione urbanistica a verde privato come vincolo meramente conformativo della proprietà rispetto alla tutela ambientale Nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21 dicembre 2012, n. 6656 Lorenzo Maria Pelusi Avvocato dello Stato dell’Avvocatura Generale SOMMARIO: 1. Il caso concreto – 2. Vincoli conformativi e vincoli ablatori: termini della questione e inquadramento della destinazione a verde privato – 3. La diversa fattispecie del verde pubblico, fonte di contrasti giurisprudenziali – 4. L’obbligo di motivazione gravante sulla P.A. e la rilevanza dei contrari interessi privati – 5. Il “governo del territorio” in funzione di coordinamento dell’espansione edilizia e della tutela ambientale – 6. I c.d. lotti interclusi – 7. I parametri in base ai quali valutare la coerenza della scelta di zonizzazione operata in concreto – 8. L’abusato appello alla naturale vocazione edificatoria delle aree 1. Il caso concreto La sentenza in commento offre lo spunto per esaminare un consolidato orientamento giurisprudenziale ad avviso del quale la destinazione a verde privato impressa da un piano regolatore generale debba considerarsi frutto dell’attività meramente conformativo-pianificatoria spettante alle amministrazioni locali e non inquadrabile, quindi, nell’ambito dei vincoli sostanzialmente espropriativi, malgrado gli effetti che ne conseguono sul piano sostanziale. Il giudizio prende le mosse dalla decisione del proprietario di un fondo di impugnare, chiedendone l’annullamento, tutti gli atti del procedimento di formazione del PRG del Comune di Monteroni di Lecce, nel cui territorio è ricompreso il fondo stesso, a partire dalle delibere del Consiglio Comunale con cui è stato conferito l’incarico di redazione del piano e con cui è stato poi adottato lo stesso, passando per la delibera della Giunta Regionale di approvazione del piano con prescrizioni e modifiche e per la delibera comunale di recepimento e controdeduzioni in ordine alle prescrizioni e modifiche regionali, per finire con la delibera regionale di approvazione definitiva del PRG. Tale impugnazione s’impernia sulla differente qualificazione riservata all’area di proprietà del ricorrente, tipizzata come zona “B” destinata a edilizia residenziale nel vecchio Programma di Fabbricazione (strumento prescritto dall’art. 34 della legge urbanistica del 17 agosto 1942, n. 1150 per tutti i Comuni sprovvisti di PRG), ma in seguito classificata, nel nuovo piano, come zona a verde privato, che, ai sensi delle relative norme tecniche di attuazione, consente «attività primarie di tipo agricolo, la sistemazione di verde attrezzato, interventi manutentivi e di ristrutturazione dell’edificato esistente, di tipo conservativo». Risulta di tutta evidenza, pertanto, la notevole compressione del diritto dominicale esercitabile dal proprietario, intervenuta con la nuova destinazione urbanistica impressa al fondo in questione, dapprima edificabile, seppur entro limiti predefiniti, poi assoggettato a inedificabilità pressoché assoluta. Va inoltre osservato come, in parallelo al ridimensionamento del contenuto del diritto di proprietà, l’inibizione dello ius aedificandi determini altresì una drastica diminuzione del valore di scambio del bene immobile interessato da siffatto vincolo urbanistico. 2. Vincoli conformativi e vincoli ablatori: termini della questione e inquadramento della destinazione a verde privato Prima ancora di addentrarsi nel percorso argomentativo seguito nel caso in esame dal Supremo Consesso di giustizia amministrativa, è opportuno soffermarsi su una distinzione che fa da sfondo al tema della destinazione a verde privato, incidendo sulla natura giuridica 64 Temi Romana Note a sentenza sce un rischio fisiologico connesso al diritto stesso, al fine di assicurarne la funzione sociale nel perseguimento di obiettivi di interesse generale, ai sensi dell’art. 42, co. 2, Cost. (C. cost., 20 maggio 1999, n. 179)3. Ne consegue che la destinazione a verde privato di un’area, siccome consente al privato sia di fruire del fondo, sia di eseguirvi autonomamente tutti gli interventi edificatori compatibili con tale qualificazione urbanistica, andrebbe intesa come riconducibile al generale potere conformativo della proprietà privata di cui è titolare l’Amministrazione Comunale in sede di pianificazione del territorio e non invece al ben diverso potere di carattere ablatorio previsto dall’art. 25 della legge urbanistica4. Questa ricostruzione dogmatica è stata fatta propria, già in tempi risalenti, dal Consiglio di Stato, il quale ha più volte affermato che la destinazione a verde privato di un’area rientra tra le ipotesi di qualificazione delle zone territoriali omogenee di cui lo strumento urbanistico primario si compone e, anche se pone preclusione all’edificazione implicando l’esclusione della possibilità di realizzare qualsiasi opera edilizia incidente sulla destinazione a verde (così, ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 5 ottobre 1995, n. 781; Id., 14 dicembre 1993, n. 1068), rimane comunque espressione delle funzioni di ripartizione in zone del territorio, senza determinare vincoli tali da escludere potenzialmente il diritto di proprietà nella sua interezza (così Cons. St., Sez. IV, 24 luglio 1985, n. 290). Va quindi segnalato come un indirizzo giurisprudenziale consolidato e univoco, riconfermato anche dalla pronuncia in commento, quello a mente del quale la destinazione a verde privato non è ascrivibile ai vincoli ablatori, atteso che essa non è prodromica all’espropriazione e non è ostativa alla fruizione del fondo da parte del proprietario, il quale vedrà limitata esclusivamente la propria facoltà di godimento dello stesso. Pertanto, la destinazione in questione non sostanzia alcun vincolo sussumibile nel regime di decadenza conseguente all’inutile decorso del termine quinquennale contemplato per i vincoli ablatori dall’art. 9 del T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 327 (come modificato dall’art. 1 del D.Lgs. 27 dicembre 2002, n. 352), regime che altrimenti implicherebbe l’insorgere in capo al Comune, da un lato, dell’obbligo di procedere alla riqualificazione urbanistica delle aree stesse dopo la scadenza del vincolo (cfr. sul punto, ad es., di quest’ultima. La questione in argomento, infatti, investe apertamente la summa divisio fra vincoli meramente conformativi e vincoli ablatori1. Per vincoli aventi carattere sostanzialmente espropriativo debbono intendersi, alla luce della celeberrima sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 20 maggio 1999, quei vincoli che abbiano in concreto l’effetto di svuotare incisivamente il contenuto del diritto di proprietà, mediante l’imposizione immediatamente operativa di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta. In quell’occasione la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (d’ora in poi: legge urbanistica), e dell’art. 2, primo comma, della legge 19 novembre 1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), nella parte in cui consentiva all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o comportanti l’inedificabilità, senza la previsione di alcun indennizzo. La Consulta, peraltro, ebbe modo di puntualizzare che non possono considerarsi alla stregua di vincoli sostanzialmente espropriativi quelli che, pur avendo contenuto specifico e operando a titolo particolare, impongono a determinati fondi una destinazione realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata e che quindi non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica (ad es. parcheggi, mercati o impianti sportivi). Non si pone, pertanto, un problema di indennizzo per i vincoli che non preludano all’esecuzione di opere pubbliche in senso stretto, in quanto connesse all’iniziativa anche concorrente dei privati. Parimenti non sono assoggettati al regime dei vincoli espropriativi quelli che, pur comprimendo l’edificabilità, dispongono tale restrizione in ragione delle caratteristiche intrinseche del fondo, imponendo modi e limiti, in via generale ed astratta, a tutti i consociati in maniera oggettiva (si pensi ai vincoli ambientali paesistici). D’altra parte la zonizzazione del territorio2, con i connessi vincoli che incidono con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni, è connaturata alla pianificazione urbanistica e non può essere ex se considerata un’azione ablatoria, in quanto la possibilità che il diritto di proprietà subisca limitazioni costitui- Temi Romana 65 Note a sentenza Cons. St., Sez. IV, 14 dicembre 1993, n. 1068), dall’altro, dell’obbligo di indennizzo a favore del privato (Cons. St., Sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2919)5. parte dei proprietari, ma ne prescrive soltanto le modalità di utilizzo, da realizzarsi anche ad iniziativa degli stessi proprietari (Cons. St., Sez. V, 13 aprile 2012, n. 2116; Sez. IV, 12 maggio 2010, n. 2843; Sez. VI, 19 marzo 2008, n. 1201). Tuttavia il massimo organo della giustizia amministrativa siciliana si è di recente espresso in senso contrario, stabilendo che, diversamente da altre solo in apparenza simili destinazioni urbanistiche (tra cui quelle a verde privato o verde agricolo) – che effettivamente conformano il diritto dominicale dei proprietari dei fondi interessati, senza però sopprimerlo in toto – la destinazione a verde pubblico attrezzato, al pari di quella a verde pubblico, sia radicalmente incompatibile con la permanenza del fondo in proprietà privata. La ragione di tale indirizzo interpretativo poggia sulla ravvisata necessità di ritenere sussistente «un vincolo preordinato all’espropriazione tutte le volte in cui la destinazione dell’area permetta la realizzazione di opere destinate esclusivamente alla fruizione soggettivamente pubblica», a prescindere quindi dalla concessione al privato sia della realizzazione dell’opera, sia di un margine di sfruttabilità economica del bene, non più in termini di fruizione personale, bensì di disposizione onerosa a favore di terzi (Cons. Giust. Amm., Sez. giur., 27 febbraio 2012, n. 212; Id., 25 gennaio 2011, n. 95). In quest’ottica, ove ci si trovi innanzi ad una potestà conformativa che impedisca sine die la realizzazione di un opus suscettibile di valutazione economica pienamente assoggettato alla disponibilità del privato, ne consegue, di fatto, l’ablazione di una precipua facoltà produttiva inerente al diritto di proprietà, tale da incidere significativamente sul contenuto minimo essenziale di quest’ultimo, con l’effetto di svuotarlo per intero del suo contenuto, piuttosto che di plasmarlo secondo lo schema conformativo. Ciò perché lo sfruttamento delle potenzialità edificatorie rappresenta la naturale destinazione di ogni area di proprietà privata, anche qualora si tratti di zone agricole, contraddistinte da un basso indice di edificabilità7. Tale qualificazione sostanzialmente espropriativa della destinazione a verde pubblico comporta che, decorso il quinquennio di cui all’art. 9 del D.P.R. n. 327 del 2001 senza che sia stata dichiarata la pubblica utilità dell’opera, la reiterazione del vincolo, in costanza di ulteriore inerzia in ordine agli atti consequenzia- 3. La diversa fattispecie del verde pubblico, fonte di contrasti giurisprudenziali In tempi più recenti si è statuito che persino la destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l’imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, il quale è funzionale all’interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell’edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale (Cons. St., Sez. IV, 3 dicembre 2010, n. 8531). Anche in questi casi, peraltro, può rinvenirsi traccia dell’insegnamento della Corte costituzionale secondo cui non si è alla presenza del paradigma ablatorio tutte le volte in cui le iniziative di realizzazione dell’opera siano suscettibili di operare in regime di libero mercato. Ne rappresenta applicazione diretta, infatti, quell’orientamento che subordina il riconoscimento della natura conformativa del vincolo al ricorrere della possibilità conferita al privato di far luogo alla costruzione delle attrezzature previste dallo stesso strumento urbanistico, per mezzo di iniziative totalmente private o in forme di partenariato misto pubblico-privato (Cons. St., Sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 244)6. Di contro, nel caso in cui la disciplina urbanistica escluda in modo assoluto che nelle zone destinate a verde pubblico siano possibili, anche parzialmente, iniziative da parte del privato proprietario dell’area, detto vincolo potrà essere qualificato come preordinato all’espropriazione (Cons. St., Sez. IV, 25 maggio 2005, n. 2718; Id., 24 febbraio 2004, n. 745). Contrapposta all’impostazione maggioritaria appena descritta, va inoltre menzionata la posizione assunta dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia sul punto. Secondo la tesi che ad oggi appare dominante, come già detto, una destinazione a verde pubblico disposta da un piano regolatore, quindi di durata indeterminata, sarebbe pur sempre espressione della potestà conformativa del pianificatore, dal momento che non inibisce l’utilizzazione del fondo da 66 Temi Romana Note a sentenza li, si configura come patologica cristallizzazione di un vincolo di inedificabilità assoluta, che tende a connotarsi come illegittima espropriazione di fatto. Analoghe osservazioni non valgono, invece, per la zona destinata a verde privato, poiché essa mantiene determinate capacità edificatorie e potenzialità di sfruttamento a fini economici (T.A.R. Lazio – Roma, Sez. II, 19 luglio 2011, n. 6442). ci, le ragioni specifiche della singola scelta operata dall’amministrazione, poiché il sistema non richiede una giustificazione analitica delle singole scelte operate, ma solo delle ragioni d’insieme che hanno portato alle complessive scelte di pianificazione. Non potrà invocarsi, pertanto, il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa ad immobili adiacenti (Cons. St., Sez. IV, 13 febbraio 2009, n. 811; Id., 9 giugno 2008, n. 2837). Va ricordato, d’altra parte, che in sede di elaborazione e approvazione dei PRG viene in rilievo un agire pubblico che è esclusivamente inteso a predisporre un ordinato assetto del territorio comunale e che quindi è tenuto a prescindere dalle posizioni particolari dei titolari di diritti reali, nonché dai vantaggi o svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione stessa (Cons. St., Sez. IV, 22 febbraio 2013, n. 1097). Sulla scorta di tale premessa, viene poi ribadito che le scelte operate attraverso lo strumento pianificatorio generale, circa la destinazione di singole aree, sono congruamente motivate facendo riferimento alle ragioni evincibili dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano regolatore, mentre deve escludersi un obbligo di specifica motivazione, giacché in subiecta materia trova applicazione l’art. 3, comma 2, della legge 241 del 1990, che esonera l’Amministrazione dall’obbligo motivazionale in caso di adozione di atti normativi e a contenuto generale (tra cui rientrano appunto i PRG e le relative varianti generali). Pertanto è ritenuto sufficiente l’espresso riferimento alla relazione illustrativa del piano regolatore, oppure alla relazione di accompagnamento al progetto di modifica del piano stesso8, salvo il ricorrere di casi particolari in cui si configuri uno specifico obbligo motivazionale a carico dell’Amministrazione (Cons. St., Sez. IV, 5 gennaio 2011, n. 24; Id., 13 ottobre 2010, n. 7492; Id., 26 aprile 2009, n. 2293). Tale necessità di più incisivi profili motivazionali può essere rinvenuta solo nei casi in cui preesistano particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti qualificati sulla destinazione dell’area, dando luogo a posizioni differenziate rispetto alla generalità degli interessati, e che quindi debbano ricevere una più compiuta valutazione, in ragione della sussistenza di posizioni soggettive meritevoli di specifica considerazione9. In particolare, dette evenienze sono date: dal 4. L’obbligo di motivazione gravante sulla P.A. e la rilevanza dei contrari interessi privati Venendo, a questo punto, all’esame dei singoli passaggi che compongono la motivazione della sentenza in commento, va brevemente dato conto delle doglianze sottoposte alla cognizione dei giudici. In primo grado il T.A.R. aveva respinto il ricorso; veniva pertanto richiesta la riforma della relativa sentenza innanzi al Consiglio di Stato. I ricorsi di primo e di secondo grado possono considerarsi sostanzialmente coincidenti e il motivo principale cui entrambi risultano affidati consiste nella censura del potere pianificatorio esercitato, in forza dei vizi di: eccesso di potere, violazione del principio della tendenziale stabilità delle previsioni urbanistiche, violazione del principio di ponderazione degli interessi privati da sacrificare in relazione all’interesse pubblico perseguito e carenza motivazionale. Quest’ultima, in particolare, sarebbe da riscontrare nell’assenza di alcuna specifica motivazione in merito a una scelta così penalizzante per il ricorrente, posto che la nuova destinazione rende di fatto l’area inedificabile. Nel respingere tali censure, i giudici amministrativi richiamano il pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui le scelte urbanistiche costituiscono apprezzamenti di merito, risultando quindi sottratte al sindacato di legittimità con l’eccezione di quelle inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità (Cons. St., Sez. IV, 30 luglio 2012, n. 4319; Id., Ad. Plen., 22 dicembre 1999, n. 24). Le scelte inerenti alla disciplina del territorio possono quindi formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei soli casi di arbitrarietà, irragionevolezza o di palese travisamento dei fatti, che costituiscono i limiti della discrezionalità amministrativa. Ne consegue che il privato che si ritenga leso da una scelta di piano non favorevole ai suoi interessi in ordine alla destinazione data ad una certa area di sua proprietà, non può censurare, se non per evidenti vizi logi- Temi Romana 67 Note a sentenza superamento, imposto dall’Amministrazione, degli standard urbanistici minimi di cui al D.M. n. 1444 del 1968 (con la precisazione che, in tal caso, la motivazione dovrà indicare le ragioni che hanno comportato il “sovradimensionamento” e non quelle che hanno portato ad assegnare una specifica destinazione di zona a una certa area); dalla lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione o da accordi ex art. 11 l. n. 241 del 1990 intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree (e già oggetto di stipula); dalla lesione di aspettative nascenti da un giudicato di annullamento di dinieghi di titoli abilitativi edilizi o di accertamento dell’illegittimità del silenzio rifiuto su una domanda di titolo abilitativo (Cons. St., Sez. IV, 11 settembre 2012 n. 4806); o, più in generale, dalla lesione di aspettative collegate a situazioni di diverso regime urbanistico accertate da sentenze passate in giudicato (Cons. St., sez. IV, 16 febbraio 2010, n. 1015); nonché, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi legittimamente edificati (Cons. St., sez. IV, 16 novembre 2011 n. 6049; Id., 13 ottobre 2010, n. 7492). Ogniqualvolta l’esercizio dello jus variandi vada ad incidere in senso peggiorativo su una di queste aspettative assistite da una peculiare tutela o da uno speciale affidamento, l’Amministrazione è tenuta ad operare una valutazione comparativa tra l’interesse pubblico e la posizione privata qualificata, corredando il provvedimento di una puntuale motivazione che dia altresì conto della concreta impossibilità di conseguire l’obiettivo di pubblico interesse con soluzioni alternative, capaci di escludere o di contenere la vulnerazione dell’affidamento insorto in capo al privato. Al di fuori di queste fattispecie tipizzate in via pretoria, invece, può ravvisarsi in capo all’interessato unicamente una generica aspettativa ad una non reformatio in peius delle destinazioni di zona, tale da non giustificare né una particolare tutela, né un obbligo di più puntuale motivazione. Non può infatti ritenersi qualificato l’interesse del privato meramente correlato ad una precedente previsione urbanistica che consentiva un più proficuo utilizzo dell’area, quale è l’interesse che viene in rilievo nel caso di cui trattasi. Siffatta aspettativa, pertanto, risulta cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica, per ragioni analoghe a quelle per cui il divieto della reformatio in peius è un criterio del tutto inidoneo, atteso il difetto di qualsivoglia copertura costituzionale, a vincolare il legislatore (Cons. St., Ad. Plen., 22 dicembre 1999, n. 24). 5. Il “governo del territorio” in funzione di coordinamento dell’espansione edilizia e della tutela ambientale In secondo luogo, la sentenza in commento si dichiara fedele a quella giurisprudenza che ha evidenziato come all’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi. Si è affermato, in proposito, che il potere di pianificazione del territorio – attribuito dalla Carta costituzionale alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente rimesso, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune – non è limitato alla classificazione delle zone del territorio comunale e, in particolare, alla delimitazione delle potenzialità edificatorie delle stesse (Cons. St., Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710). Al contrario, tale potere di pianificazione è da ricondursi ad un concetto di urbanistica che non può essere minimale, ovvero limitato alla sola disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma che invece deve essere ampio, tale da consentire che si possa dare attuazione, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, anche a finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto, bensì in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati, come quelli di cui agli artt. 9, comma secondo, 32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost. (Cons. St., Sez. IV, 13 giugno 2013, n. 3262). Tra le esigenze fondamentali della comunità territoriale, vanno indubbiamente ricomprese sia le esigenze di tutela della salute, la quale richiede che agli abitanti sia garantito un ambiente salubre in cui vivere, sia l’aspirazione dell’individuo alla casa di abitazione, da porre necessariamente in relazione alle effettive esigenze abitative della comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi. Anche 68 Temi Romana Note a sentenza (Cons. St., Sez. IV, 19 gennaio 2000, n. 245)16. In particolare, si è sostenuta la chiara valenza conservativa dei valori naturalistici propria della destinazione a verde privato, in considerazione del fatto che essa, salvaguardando «il polmone dell’insediamento urbano», assume per tale via «la funzione decongestionante e di contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano» (Cons. St., Sez. IV, 1° febbraio 2001, n. 420). Nel medesimo solco si muove quella giurisprudenza che riconosce, in ragione della necessità di non consentire la totale consumazione del suolo nazionale, la possibilità che gli strumenti urbanistici non siano sostenuti dalle tradizionali linee guida di espansione demografica o edilizia ma, al contrario, da linee guida esclusivamente rivolte al recupero ed alla razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente (Cons. St., Sez. IV, 8 maggio 2000, n. 2639). siffatti interessi devono pertanto essere contemperati in sede di configurazione del «modello di sviluppo che s’intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per autorappresentazione ed autodeterminazione dalla comunità medesima, con le decisioni dei propri organi elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio» (Cons. St., Sez. IV, 21 dicembre 2012, n. 6656). Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 Cost., per il tramite della legge cost. n. 3 del 2001, ha sostituito il termine «urbanistica» con l’onnicomprensiva espressione di «governo del territorio»10, materia che risulta pertanto affidata alle Regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali11. Secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, i due concetti non sono perfettamente coincidenti, poiché l’urbanistica si esaurirebbe nel governo del territorio, ma non sarebbe vero il contrario12. Questa posizione, peraltro, risulta la medesima assunta dalla dottrina dominante13. Alcuni hanno inteso paragonare questa distinzione a due cerchi concentrici: il più ristretto, rappresentato dall’urbanistica, a sua volta costituita dalla pianificazione territoriale e urbanistica, e il più ampio, comprendente le ulteriori funzioni identificabili nel governo del territorio, ovvero quell’insieme composito di attività svolte da soggetti pubblici di varia natura che incidono fortemente nella definizione di un determinato assetto territoriale (ad es., servizi pubblici a rete e approntamenti infrastrutturali)14. Non è tuttavia mancata una tesi minoritaria tendente a ravvisare, nella riforma costituzionale, nulla più che una mera interpolazione lessicale, volta ad adeguare la terminologia dell’art. 117 al suo mutato «significato di disciplina avente ad oggetto l’intero territorio, indipendentemente dal grado della sua urbanizzazione»15. Proprio in ossequio alla rinnovata estensione delle finalità che l’Amministrazione è chiamata a perseguire in sede pianificatoria, la giurisprudenza ha avvertito che le scelte urbanistiche destinate a tutelare l’ambiente, anche quando consistono nell’imprimere ad un’area il connotato di zona agricola o di verde privato, non richiedono una diffusa analisi argomentativa con riguardo al valore dell’ambiente, stante la sua copertura di rango costituzionale, offerta dall’art. 9 Cost. Temi Romana 6. I c.d. lotti interclusi Il Consiglio di Stato si sofferma, poi, sul concetto di “lotto intercluso”, escludendone l’applicabilità nel caso concreto. Tale fattispecie altro non è che una peculiare situazione di fatto che si realizza, secondo una più rigorosa impostazione, allorquando l’area edificabile di proprietà del richiedente: sia l’unica a non essere stata ancora edificata; si trovi in una zona integralmente interessata da costruzioni; sia dotata di tutte le opere di urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli strumenti urbanistici; sia infine valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al PRG (Cons. St., Sez. IV, 10 giugno 2010, n. 3699). In presenza di questi presupposti, anche nel caso in cui lo strumento urbanistico generale preveda che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, si consente l’intervento costruttivo diretto, ovvero in mancanza di un titolo edilizio rilasciato dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace. Purché si accerti la sussistenza di una situazione di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo, viene pertanto consentito l’esercizio diretto dello ius aedificandi, allo scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l’ente pubblico (Cons. St., Sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 268; Id., Sez. V, 3 marzo 2004, n. 1013). Tale esonero dal piano di lottizzazione previsto dal 69 Note a sentenza PRG trova il suo necessario presupposto in uno stato di fatto che consenta di prescindere dalla predisposizione dello strumento attuativo, in quanto lo stesso risulta non più necessario perché lo scopo cui sarebbe destinato è già stato raggiunto. Ciò risulta in tutta la sua evidenza nell’ipotesi appena descritta di lotto intercluso, nella quale nessuno spazio potrebbe rinvenirsi per un’ulteriore pianificazione. Non è a questo assimilabile, invece, il caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto, al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo (Cons. St., Sez. V, 5 ottobre 2011 n. 5450; Id., Sez. IV, 13 ottobre 2010 n. 7486; Id., Sez. V, 1° dicembre 2003, n. 7799). Tale essendo la ratio della regola sottesa alla fattispecie di lotto intercluso, il Consiglio di Stato ne esclude la ravvisabilità nel caso di specie, dal momento che l’area oggetto del contenzioso, affacciando su due diverse strade (non risultando quindi interclusa su tutti i lati) e trovandosi in una zona non completamente urbanizzata, non può affatto ricadere nell’ambito di applicazione dei principi che regolano suddetta tipologia di area, poiché questi principi, data la loro natura eccezionale, non sono suscettibili di estensione analogica. razione della sua ampia portata in relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione dare conto, sia pure con motivazione di carattere generale, degli obiettivi che essa, attraverso lo strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi, della coerenza delle scelte in concreto effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti (Cons. St., Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710). Ebbene, nel caso di cui ci si occupa, viene riscontrata una puntuale motivazione di carattere urbanisticoambientale della scelta laddove, nella relazione illustrativa, si esprime la volontà di «ritrovare un equilibrio nuovo dotando il centro esistente delle infrastrutture e delle aree per verde e servizi necessari», «operazioni per favorire spazi di sosta, per servizi e verde». Anche il giudice di prime cure, del resto, rigettava la censura a mezzo della quale si lamentava la contraddittorietà della nuova destinazione con la delibera di intenti, dal momento che, a ben vedere, in tale provvedimento di indirizzo, tra gli obiettivi generali, il Comune introduceva anche quello «di ricucire il tessuto urbano esistente, recuperando tutti i possibili spazi da destinare a servizi, con priorità per il verde», nonché «di salvaguardare il patrimonio edilizio privato di carattere ambientale e artistico». Questi obiettivi prioritari, ad avviso dei giudici amministrativi di entrambi i gradi di giudizio, sono ritenuti non contraddetti, bensì confermati dalla destinazione impressa in sede di attuazione del piano17. È opportuno sottolineare che nel sistema pianificatorio appena delineato emerge un atto, la relazione illustrativa del PRG, che, sebbene non fosse nemmeno previsto dalla legge urbanistica, svolge un ruolo fondamentale tanto sul piano istruttorio quanto su quello motivazionale, rivelandosi un parametro essenziale, se non l’unico, ai fini dell’accertamento della coerenza interna fra le risultanze istruttorie e la concreta decisione adottata in sede di pianificazione18. Venendo poi alla denunciata violazione del principio di tipicità degli atti amministrativi, essa riceve confutazione più esplicita nella sentenza di primo grado, laddove si esclude l’atipicità della zona “verde privato”, che viene qualificata come una sottospecie della zona agricola di cui alla lett. E), art. 2, D.M. 1444 del 1968. 7. I parametri in base ai quali valutare la coerenza della scelta di zonizzazione operata in concreto Con ulteriore motivo di diritto, il ricorrente lamenta inoltre la mancata considerazione della fissazione dei criteri di formazione e indirizzo del piano, con particolare riguardo alla necessità di ricucire il tessuto urbano esistente attraverso il recupero degli spazi destinabili a servizi: tale criterio risulterebbe leso dalla tipizzazione a verde dell’area, precedentemente qualificata come zona di completamento e destinata ad edilizia residenziale. Altro gravame si appunta, invece, sulla violazione del principio di tipicità degli atti amministrativi, posto che la destinazione a verde privato non rientra tra le destinazioni espressamente previste dall’art. 2 del D.M. n. 1444 del 1968. Preme innanzitutto porre in risalto un caposaldo formulato dalla giurisprudenza maggioritaria: il potere di pianificazione urbanistica, a maggior ragione in conside- 70 Temi Romana Note a sentenza Si aggiunge, tuttavia, che la destinazione a verde privato di un’area «non postula necessariamente l’esistenza della effettiva vocazione agricola della stessa, dato che siffatta classificazione ha una più generale finalità di provvedere – mediante il divieto di edificazione ovvero la possibilità di edificazione in termini estremamente limitati – ad orientare gli insediamenti urbani e produttivi in determinate direzioni, ovvero di salvaguardare precisi equilibri dell’assetto territoriale» (T.A.R. Puglia – Lecce, Sez. I, 28 settembre 2005, n. 4374). Non è dato quindi riscontrare alcuna tipizzazione abnorme o extra ordinem, atteso che il verde privato viene a svolgere una funzione di riequilibrio del tessuto urbano, conservando adeguati spazi liberi da edificazione, senza sottrarre al proprietario l’utilizzo del bene, funzione del tutto compresa nelle potestà pianificatorie dell’ente comunale. indubbiamente, quelli di proprietà del ricorrente)». Giova rammentare, inoltre, che la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di chiarire che la censura con cui si lamenta la pretermissione della vocazione edificatoria di un’area sconta una configurazione di tale vocazione di tipo strettamente “edilizio”, nel senso di offrirne una lettura limitata al solo aspetto dello “sviluppo edilizio” e in contraddizione con la più ampia gamma di finalità pubblicistiche cui invece risponde il potere conformativo della proprietà privata (Cons. St., Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710). D’altra parte, si è altresì precisato che «il proprietario terriero non può lamentarsi del fatto che in aree limitrofe alla propria sono state autorizzate costruzioni sotto il vigore di precedenti strumenti urbanistici, in quanto il piano regolatore può rallentare l’utilizzazione edilizia delle aree mediante l’imposizione di vincoli di inedificabilità su aree libere, attraverso la creazione di aree verdi. Tale potestà trova il limite della macroscopica irragionevolezza delle scelte effettuate che sussiste quando il contrasto tra lo stato di fatto e la destinazione urbanistica a verde sia, per l’area interessata, di assoluta ed indiscutibile evidenza, […] come si verificherebbe se ci trovassimo di fronte ad una zona industriale ad alta densità abitativa o caratterizzata da infrastrutture ad alto impatto ambientale. A ciò si aggiunge che l’intento di salvaguardare le pregevoli qualità paesaggistiche ed ambientali di un’area mediante la creazione di un vincolo a verde secondo la giurisprudenza non può essere vanificato dall’affermazione che gran parte delle aree limitrofe siano state edificate, poiché l’avvenuta parziale compromissione del sito rende ancor più giustificata la cristallizzazione delle potenzialità edificatorie nelle aree residue edificate e non» (T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. IV, 9 settembre 2011, n. 2199). 8. L’abusato appello alla naturale vocazione edificatoria delle aree Viene censurata dal proprietario dell’area in questione, infine, la mancata considerazione della naturale vocazione edificatoria della stessa, in quanto avente le caratteristiche di cui alle zone B disciplinate dall’art. 2 del D.M. n. 1444 del 1968. A tal riguardo i giudici amministrativi contestano, in primo luogo, l’impiego nel caso de quo della nozione di naturale vocazione edificatoria, poiché essa postula la preesistenza di un’edificabilità di fatto ed è quindi concetto proprio alle sole vicende espropriative. In secondo luogo, viene rilevato come le caratteristiche dell’area risultino del tutto chiare nella relazione illustrativa del PRG impugnato, contenente, come già affermato in primo grado, «dati puntuali circa la tipologia della zona, caratterizzata dall’esistenza di numerose ville e giardini con valenza architettonica e/o ambientale rilevante (come, _________________ 1 Per una puntuale classificazione dei vincoli urbanistici si rinvia a G. PAGLIARI, La pianificazione e la proprietà edilizia, in A. GAMBARO - U. MORELLO, Trattato dei diritti reali. Volume IV – Proprietà e pianificazione del territorio, Milano, Giuffrè, 2012, p. 53 s., il quale distingue fra vincoli preor- Temi Romana dinati all’espropriazione, vincoli di inedificabilità assoluta e vincoli procedimentali: i primi volti alla localizzazione di opere pubbliche per la cui realizzazione risulti imprescindibile l’espropriazione per pubblica utilità, i secondi finalizzati a riservare determinate aree all’uso pubblico con la conse- 71 guente e automatica inutilizzabilità privata delle stesse, i terzi invece caratterizzati dall’imposizione dell’obbligo di preventiva adozione di un piano particolareggiato di attuazione. 2 Per zonizzazione s’intende, è il caso di Note a sentenza ricordarlo, la divisione del territorio comunale in zone territoriali omogenee, con la precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona. Tali zone sono disciplinate dall’art. 2 del D.M. n. 1444 del 1968 e ognuna di esse rappresenta l’insieme delle parti del territorio comunale che hanno ricevuto la medesima destinazione urbanistica. Contrapposta alla zonizzazione è l’attività di localizzazione, ovvero quell’attività tramite la quale il pianificatore individua le aree destinate a formare spazi di uso pubblico e le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale. 3 In proposito sia consentito richiamare un’altra fondamentale pronuncia della Corte Costituzionale la quale, con sent. 9 maggio 1968, n. 55, ha affermato che «senza dubbio la garanzia della proprietà privata è condizionata, nel sistema della Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di funzione sociale, ora di equi rapporti sociali, ora di interesse ed utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto è stabilito dagli artt. 832 e 845 del Codice civile, i quali, per il contenuto del diritto di proprietà fondiaria in particolare, richiamano, rispettivamente, i limiti e gli obblighi stabiliti “dall’ordinamento giuridico” e le regole particolari per scopi di pubblico interesse […]. Secondo i concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di proprietà possa venire inteso come dominio assoluto ed illimitato sui beni propri, dovendosi invece ritenerlo caratterizzato dall’attitudine di essere sottoposto nel suo contenuto, ad un regime che la Costituzione lascia al legislatore di determinare». 4 L’art. 25 della legge urbanistica dispone, infatti, che «le aree libere sistemate a giardini privati adiacenti a fabbricati possono essere sottoposte al vincolo dell’inedificabilità anche per una superficie superiore a quella di prescrizione secondo la destinazione della zona», con la precisazione che «in tal caso, e sempre che non si tratti di aree sottoposte ad analogo vincolo in forza di leggi speciali, il Comune è tenuto al pagamento di un’indennità per il vincolo imposto oltre il limite delle prescrizioni di zona». 5 I vincoli di piano regolatore ai quali inve- ce si applica il principio della decadenza quinquennale sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, assoggettandoli a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che ne comportano l’inedificabilità assoluta e dunque svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale (Cons. St., Sez. IV, 22 gennaio 2010, n. 216). 6 «Non si pone, pertanto, un problema di indennizzo per i vincoli che non preludano all’esecuzione di opere pubbliche in senso stretto, in quanto connesse all’iniziativa anche concorrente dei privati. Del pari non è indennizzabile la reiterazione del vincolo per destinazione a parco pubblico, a verde pubblico ovvero a zona di pregio agricolo con valenza di tutela ambientale, in considerazione che non tutti i vincoli di inedificabilità assoluta hanno carattere espropriativo e che se anche si prevede la realizzazione di un parco pubblico, il vincolo imposto assolve la funzione primaria di conformare la proprietà a tutela dell’ambiente e solo in via indiretta quella di condurre ad una espropriazione, sicché la nascita dell’effettivo vincolo di esproprio sarebbe ritardata al momento della successiva dichiarazione di pubblica utilità» (Cons. St., Sez. IV, 15 giugno 2004, n. 4010). 7 Rispetto alle istanze di cui si fa promotrice l’attività di zonizzazione, infatti, l’area agricola non rileva tanto per l’attività agricola che vi si può svolgere, quanto più semplicemente per i limiti “quantitativi” alla sua trasformazione edilizia, restando così inattuato quel principio costituzionale, contenuto nell’art. 44 Cost., che assegna alla legge il compito di perseguire il razionale sfruttamento del suolo. Per tali considerazioni, cfr. P. URBANI, La disciplina urbanistica delle aree agricole, in www.giustamm.it. 8 Ciò perché sia i provvedimenti comunali di pianificazione urbanistica sia le varianti di piano regolatore hanno natura discrezionale e possono incidere su precedenti, difformi, destinazioni di zona, comportare modifiche radicali al piano vigente e rettificare direttive urbanistiche pregresse, al fine di realizzare un processo di adeguamento e modernizzazione delle strutture al servizio del territorio (Cons. St., Sez. IV, 25 novembre 2003, n. 7782). In sede di pianificazione generale o di variante generale, infatti, il Comune ha la 72 facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni e non è tenuto a dettare una motivazione specifica per le singole zone o aree a destinazione innovata (Cons. St., Sez. IV, 1° marzo 2010, n. 1182; Id., 13 maggio 1992, n. 511). Quanto appena detto, tuttavia, incontra una deroga nell’ipotesi in cui la variante non abbia portata generale, bensì abbia finalità particolari e oggetto circoscritto (come ad esempio quando essa intervenga a disciplina di un unico terreno): in tal caso, come nel caso in cui la variante incida su aspettative assistite da speciale tutela, si rende necessaria una puntuale motivazione (Trib. Reg. Giust. Amm., Bolzano, 12 gennaio 2012, n. 9; Cons. St., Sez. IV, 5 marzo 2008, n. 933; Id., 28 dicembre 2006, n. 8050). 9 Da notarsi, per inciso, come il principio dell’inesistenza di un obbligo specifico di motivazione delle scelte urbanistiche venga applicato anche alle osservazioni al piano formulate dai proprietari interessati, in quanto ritenute inidonee a determinare l’insorgere di aspettative qualificate. Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, infatti, le osservazioni proposte dai cittadini nei confronti degli atti di pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi alla formazione degli strumenti urbanistici e tanto il loro rigetto quanto il loro accoglimento non richiedono, pertanto, una puntuale controdeduzione sorretta da motivazione analitica, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali dello strumento pianificatorio (Cons. St., Sez. IV, 18 giugno 2009, n. 4024; Id., 19 marzo 2009, n. 1652). 10 Per una panoramica sui dubbi e le perplessità che l’intervento legislativo ha suscitato, si rinvia ai contributi della dottrina: T. BONETTI, Il diritto del “governo del territorio” in trasformazione, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, p. 5 ss.; M. A. CABIDDU, Diritto del governo del territorio, Torino, Giappichelli, 2010, p. 7 ss.; N. ASSINI - P. MANTINI, Manuale di diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 2007, p. 16 ss.; P. STELLA RICHTER, La nozione di «governo del territorio» dopo la riforma dell’art. 117 cost., in Giust. civ., 2003, p. 107 ss.; S. AMOROSINO, Il “governo del territorio” tra Stato, regioni ed enti locali, in Riv. giur. edil., 2003, p. 77 ss.; V. CERULLI IRELLI, Il “governo del Temi Romana Note a sentenza territorio” nel nuovo assetto istituzionale, in S. CIVITARESE MATTEUCCI, E. FERRARI, P. URBANI (a cura di), Il governo del territorio, Milano, Giuffrè, 2003, p. 499 ss.; P. URBANI, Il governo del territorio nel Titolo V della Costituzione, in Riv. giur. urb., 2003, p. 50 ss.; M. A. SANDULLI, Effettività e semplificazioni nel governo del territorio: spunti problematici, in Dir. amm., 2003, p. 507 ss.; P. L. PORTALURI, Riflessioni sul “governo del territorio” dopo la riforma del Titolo V, in Riv. giur. edil., 2002, p. 357 ss. 11 Va ricordato che l’art. 1, comma 3, della legge n. 131 del 2003 di attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione, prevede che «nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente le Regioni esercitano la potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti». 12 La Consulta, infatti, ha avuto modo in più occasioni di chiarire l’esatta portata del mutamento testuale operato nel 2001: C. cost., 25 settembre 2003, n. 303, in Giur. cost., 2003, p. 2675 ss. con osservazioni di A. D’ATENA, p. 2776 ss.; C. cost., 28 giugno 2004, n. 196, in Giur. cost., 2004, p. 1930 ss., con osservazioni di P. STELLA RICHTER, p. 2015 ss.; nonché, da ultimo, con particolare riferimento ai rapporti fra materia urbanistica e tutela paesisticoambientale: C. cost., 10 febbraio 2006, n. 51, in Giur. cost., 2006, 469 ss., con osservazioni di S. MANGIAMELI, 485 ss.; C. cost., 5 maggio 2006, n. 182, in Giur. cost., 2006, 1841 ss., con osservazioni di D. TRAINA, 1856 ss. In tale prospettiva, viene in rilievo il confluire ineluttabile, nella materia del governo del territorio, delle esigenze di salvaguardia di valori costituzionali assoluti e non comprimibili quali il paesaggio, l’ambiente ed i beni culturali (cfr. da ultimo, Cons. St., Sez. IV, 12 marzo 2010, n. 1461; Id., 12 giugno 2009, n. 3770; C. cost., 7 novembre 2007, n. 367). 13 Ex plurimis, S. AMOROSINO, Il “governo del territorio” tra Stato, regioni ed enti locali, in S. CIVITARESE MATTEUCCI, E. FERRARI, P. URBANI (a cura di), Il governo del territorio, Milano, Giuffrè, 2003, p. 139 ss.; P. L. PORTALURI, Poteri urbanistici e principio di pianificazione, Napoli, Jovene, 2003, p. 200 ss. 14 Così BONETTI, Il diritto del “governo del Temi Romana territorio” in trasformazione, cit., 10. 15 Tale impostazione, per cui urbanistica e governo del territorio sarebbero da ritenersi concetti del tutto equivalenti, è riconducibile a P. STELLA RICHTER, I principi del diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 2006, p. 6 ss. 16 Come chiarito dalla Corte costituzionale, infatti, i principi generali in materia ambientale e paesaggistica non possono esser disgiunti dagli artt. 9 e 117 della Costituzione, per cui deve essere data la prevalenza alla tutela del paesaggio non nel significato, meramente estetico, di “bellezza naturale”, ma come complesso dei valori inerenti il territorio naturale (cfr. C. Cost., 7 novembre 1994, n. 379), che è un bene “primario” ed “assoluto” (C. cost., 5 maggio 2006, nn. 182 e 183) e comunque una risorsa assolutamente limitata ed in via di esaurimento. Si aggiunga che «il piano regolatore generale, nell’indicare, tra l’altro, i limiti da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi indipendentemente da quelli introdotti dalle amministrazioni competenti nel perseguimento della salvaguardia di cose di interesse storico, artistico e paesaggistico» (Cons. St., Sez. IV, 5 ottobre 1995, n. 781, in Riv. giur. edil., 1996, I, 341), e quindi «in sede di pianificazione urbanistica è consentita sia la ricognizione dei vincoli imposti in virtù di leggi speciali sia la costituzione di vincoli autonomi per la tutela di valori ambientali e paesaggistici considerati in una prospettiva specificatamente urbanistica» (Cons. St., Sez. IV, 14 maggio 2001, n. 2653, in Guida al dir., 2001, fasc. 30, 83). In altre pronunce si rinviene poi un’enunciazione del primato del valore ambientale e paesaggistico, rispetto al quale la stessa pianificazione urbanistica risulta recessiva; ne derivano alcuni corollari: «a) la tutela del paesaggio non è riducibile a quella dell’urbanistica, né può essere considerato vizio della funzione preposta alla tutela del paesaggio il mancato accertamento dell’esistenza, nel territorio oggetto dell’intervento paesaggistico, di eventuali prescrizioni urbanistiche che, rispondendo ad esigenze diverse, in ogni caso non si inquadrano in una considerazione globale del territorio sotto il profilo dell’attuazione del primario valore paesaggistico; b) l’avvenuta edificazione di 73 un’area immobiliare o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici o culturali ad essa legati, poiché l’imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l’imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell’integrità dello stesso; c) l’ambiente rileva non solo come paesaggio ma anche come assetto del territorio, comprensivo financo degli aspetti scientifico-naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona» (Cons. St., Sez. IV, 5 luglio 2010, n. 4246). A ulteriore conferma della prevalenza gerarchica della tutela del paesaggio rispetto al governo del territorio, sovvengono altresì gli artt. 143 ss. del D.Lgs. 42 del 2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio, a norma dei quali gli strumenti urbanistici sono tenuti a rispettare, a pena di illegittimità, quanto previsto dalla pianificazione paesistica. In tal senso, cfr. anche G. SEVERINI, La tutela costituzionale del paesaggio (art. 9 Cost.), in S. BETTINI, L. CASINI, G. VESPERINI, C. VITALE, Codice di edilizia e urbanistica, Torino, UTET, 2013, p. 34. 17 A tal riguardo, si ravvisa l’utilità di indicare, a titolo esemplificativo, alcune fattispecie emblematiche di motivazione della zonizzazione agricola o a verde privato che hanno superato il vaglio di legittimità del giudice amministrativo. In una recente pronuncia si è ritenuta puntuale ed esaustiva la motivazione della destinazione agricola impressa, come stabilito nella Relazione illustrativa della Variante, al fine di «assicurare maggiore continuità con l’edificato esistente e minori costi per nuove opere di urbanizzazione, evitando la formazione di aree residuali tra gli insediamenti residenziali, di incerta vocazione» (Cons. St., Sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5665). In altra pronuncia viene in evidenza una fattispecie in cui un Consiglio comunale ha mantenuto per l’area di un privato la destinazione a verde privato vincolato, rigettando l’osservazione da questo proposta, considerando che era «rilevante il mantenimento di una pregevole area a servizio di un edificio già esistente»: tale valutazione effettuata dall’ente locale è stata in giudizio ritenuta non Note a sentenza affetta da irragionevolezza, né da errore di fatto, in quanto effettivamente l’area risultava non edificata e prospiciente ad un edificio di proprietà privata, configurandosi pertanto la possibilità di ravvisare un rapporto di pertinenzialità dell’area stessa rispetto agli edifici attigui (Cons. St., Sez. IV, 13 giugno 2013, n. 3262). Con riferimento invece alla legittimità della scelta di contenere l’espansione edilizia, scelta rientrante nella sfera di libera determinazione dell’ente locale il quale è istituzionalmente rappresentativo di tutti gli appartenenti alla comunità, ivi compresi i non proprietari di terreni, si è stabilito che, «anche sul piano logico-funzionale e del senso comune, la determinazione di cui sopra appare del tutto ragionevole e legittima al fine di prevenire che, come è capitato ad altri Comuni turistici, l’eccessiva antropizzazione del territorio – facendo venir progressivamente meno l’attrattiva paesaggistico-ambientale della località – finisca per nullificare l’interesse dei villeggianti e, di conseguenza, innescare una irrimediabile crisi del relativo settore» (Cons. St., Sez. IV, 13 luglio 2011, n. 4242). Un altro caso in cui della pianificazione urbanistica è venuta in rilievo non tanto la sua funzione di regolare l’assetto e l’utilizzazione del territorio, quanto piuttosto quella di indirizzare lo sviluppo dell’economia locale, è rappresentato dalla «scelta di escludere in via generale una nuova edificazione residenziale nel territorio del Comune di Cortina d’Ampezzo, salvo la circoscritta deroga per nuove edificazioni da eseguirsi sulle sole aree di proprietà comunale e regoliera e destinate ad abitazione per i residenti». Ad avviso del Supremo Consesso di giustizia amministrativa, «lo strumento urbanistico è stato, dunque, utilizzato dal Comune – così come condivisibilmente chiarito dal I giudice – al fine di definire, per un verso, il modello di sviluppo del proprio territorio, negandone una ulteriore “terziarizzazione” o utilizzazione per c.d. “seconde case”; per altro verso, al fine di risolvere il problema abitativo dei cittadini residenti», finalità ritenute entrambe riconducibili al potere pianificatorio, in concreto esercitato secondo un modello di zonizzazione non «ancorato a 74 rigide individuazioni territoriali e/o per direttrici di sviluppo», bensì mirato a «individuare diversamente le “zone omogenee”», limitando lo specifico sviluppo edilizio voluto alle sole aree il cui regime di proprietà ne sia garanzia di realizzazione (Cons. St., Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710). Si segnala infine un’altra scelta urbanistica, volta a privilegiare l’espansione edilizia in zone già urbanizzate ma non immediatamente centrali, anch’essa considerata immune da alcun profilo di irrazionalità, in quanto coerente con i criteri tecnico-urbanistici assunti per la redazione del Progetto di PRG e con il prefissato intento di attuare la salvaguardia di alcune aree interne al centro storico che costituiscono gli orti e i giardini esistenti, in un’ottica di tutela dei valori ambientali, di recupero di una migliore vivibilità del paese e di decongestionamento della viabilità (Cons. St., Sez. IV, 4 marzo 2003, n. 1191). 18 In tal senso, cfr. B. BOSCHETTI, La discrezionalità delle scelte di pianificazione generale tra fatti e limiti normativi, in Urbanistica e appalti, 11/2011, p. 1360 ss. Temi Romana Cronache e attualità Il Trust dopo di noi! Matteo Santini Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma I l Trust viene introdotto nell’ordinamento italiano tramite la legge 9 ottobre 1989, n. 364 (entrata in vigore il 1° gennaio 1992). La suddetta norma ha recepito la Convenzione dell’Aja del 1985. Molte sono le ragioni che possono indurre una persona fisica alla costituzione di un trust. I più frequenti sono: la riservatezza, la protezione dei beni, la salvaguardia del patrimonio familiare, la tutela dei minori e dei soggetti diversamente abili, la tutela del patrimonio per finalità successorie, la beneficenza. Attraverso il trust si instaura una relazione mediante la quale un soggetto denominato trustee, gestisce un patrimonio (mobiliare e/o immobiliare) che gli è stato trasferito da un altro soggetto, detto disponente (o settlor), per una finalità specifica. I trust più complessi contemplano anche la nomina del cosiddetto guardiano (o protector) che ha il compito specifico di controllare che le azioni del trustee e la gestione del patrimonio siano effettivamente dirette a perseguire le finalità del trust. Nelle operazioni di trust si possono individuare due momenti essenziali. Il primo è rappresentato dall’atto di costituzione ed il secondo dall’atto di conferimento dei beni. Sebbene il conferimento dei beni possa avvenire contestualmente all’atto di costituzione si tratta di due atti ben distinti. Infatti, il disponente potrebbe decidere di istituire un trust con una dotazione minima in denaro rimandando ad un momento successivo il conferimento dei beni necessari al perseguimento delle finalità del trust. La maggior parte delle volte i beni vengono conferiti nel trust attraverso più operazioni nel corso del tempo. Questo accade anche in virtù del fatto che i beni inizialmente conferiti possono essere stati utilizzati ed essersi esauriti proprio per la realizzazione dei fini specifici del trust e che, quindi, si rende necessario provvedere alla “ricostituzione” del patrimonio. Con il conferimento di beni in trust il disponente, si spoglia della proprietà di parte o di tutti i suoi beni, con atto tra vivi o mortis causa e li affida al trustee il quale avrà il dovere di gestirli ed amministrarli nell’interesse del beneficiario per il raggiungimento dei fini specifici Temi Romana del trust così come individuati nell’atto di istituzione dello stesso. Il conferimento dei beni nel trust comporta che questi vengono formalmente intestati al trustee ma allo stesso tempo essi vanno a costituire un patrimonio separato rispetto a quello del disponente e dello stesso trustee. Quest’ultimo ha il dovere di amministrare i beni in trust seguendo le disposizioni inserite nell’atto istitutivo. La segregazione patrimoniale è l’aspetto fondamentale che caratterizza il trust; essa comporta che i beni in trust rappresentino un patrimonio separato rispetto ai beni del disponente e del trustee e, pertanto, qualunque vicenda personale e patrimoniale che riguardi tali soggetti non colpisce i beni in trust. I beni in trust, quindi, non possano essere aggrediti dai creditori personali del trustee, del disponente e dei beneficiari ed il loro eventuale fallimento non vedrà mai ricompresa nella massa attiva fallimentare i beni in trust (opera il cosiddetto vincolo di destinazione e di separazione). Si parla di trust “autodichiarato” quando l’atto istitutivo del trust prevede che il trustee stesso possa essere il beneficiario del trust. Come inizialmente accennano l’istituto del trust entra a far parte del nostro ordinamento a seguito della Convenzione dell’Aja la quale all’articolo 11 sancisce il riconoscimento del trust costituito in conformità ad una legge specifica. L’articolo 13 attribuisce il potere, allo Stato che dovrebbe provvedere al riconoscimento, di rifiutarlo se gli elementi costitutivi del trust, all’infuori della legge regolatrice richiamata, rimandano ad un diverso ordinamento che non conosca l’istituto del trust. Non essendovi, però, in Italia alcuna legge specifica che disciplina l’istituto del trust, la legge regolatrice del trust deve essere necessariamente straniera. Pertanto, al momento della costituzione del trust il disponente dovrà indicare nell’atto istitutivo la legge regolatrice. La limitazione all’esercizio del diritto di proprietà in capo al trustee che pur essendo intestatario dei beni in trust non ne può disporre liberamente ha la sua fonte in un atto di autonomia negoziale ritenuto meritevole di 75 Cronache e attualità tutela nel nostro ordinamento ai sensi dell’articolo 1322 del codice civile. L’articolo 12 della Convenzione dell’Aja consente al trustee di richiedere la trascrizione dei beni in trust nella sua qualità di trustee, a meno che ciò non sia incompatibile con l’ordinamento giuridico. La giurisprudenza di merito ammette quasi all’unanimità tale trascrizione ai sensi dell’articolo 12 della Convenzione dell’Aja. La prassi notarile è nel senso di accompagnare a tale trascrizione (eseguita contro il disponente e a favore del trustee) una seconda trascrizione (contro il trustee), al fine di fare emergere con maggiore chiarezza il vincolo sui beni nascente a seguito dell’istituzione del trust. La Corte di Cassazione con l’ordinanza 19 novembre 2012, n. 20254 ha stabilito che il trust costituito per ragioni familiari non rappresenta un’elusione fiscale. Infatti è contestabile dal fisco solo nel caso in cui l’unico scopo della sua creazione sia l’indebito risparmio d’imposta. La Corte ha accolto il ricorso di una contribuente alla quale era stata contestata dall’amministrazione un’elusione fiscale per aver costituito un trust su un immobile di famiglia. L’abuso del diritto in materia tributaria richiede, infatti, il ricorso di due fattori. Occorre in primo luogo che il contribuente abbia conseguito una vantaggiosa ricaduta fiscale del suo operato. Ma occorre inoltre che tale vantaggio costituisca la ragione determinante dell’operazione, cioè che non ricorrano ragioni e giustificazione economico-sociali di altra natura, o almeno che siano di rilievo inferiore, di guisa che si possa affermare che l’operazione è stata determinata esclusivamente da ragioni fiscali. 76 Temi Romana Cronache e attualità Dissesto degli enti locali e posizione dei creditori: l’intervento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo con le sentenze De Luca e Pennino c. Italia Francesca Sbarra Avvocato del Foro di Roma L’ In questo panorama normativo, finalizzato, come visto, a consentire all’ente locale la prosecuzione della sua attività in una condizione finanziaria sana, si inseriscono in maniera dirompente le due sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 24 settembre 2013, rese nei casi De Luca c. Italia e Pennino c. Italia. Le vicende sottoposte all’attenzione della Corte traggono origine, appunto, dagli effetti derivanti dalla dichiarazione dello stato di dissesto del Comune di Benevento, che hanno impedito la soddisfazione economica dei ricorrenti, sebbene questi fossero titolari, nei confronti dell’amministrazione, di un credito riconosciuto in sentenza. Più nel dettaglio, i ricorrenti avevano ottenuto, in sede giurisdizionale, la condanna del Comune di Benevento al risarcimento dei danni loro arrecati per la mancata corresponsione del canone di locazione di alcuni immobili. Intervenuta, medio tempore, la dichiarazione dello stato di dissesto dell’ente locale, l’organo straordinario di liquidazione proponeva ai ricorrenti la corresponsione di una somma pari all’80% del credito. L’offerta veniva rifiutata. I ricorrenti, si rivolgevano, dunque, alla Corte Europea censurando, in primo luogo, la violazione dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione, lamentando, in particolare, che il delineato impianto normativo, nel rinviare sine die la possibilità di recuperare i crediti riconosciuti in sentenza, costituiva una indebita lesione del diritto di proprietà. A tale doglianza si aggiungeva quella relativa alla violazione degli artt. 6§1 e 13 CEDU, sotto il profilo dei principi del giusto processo e dell’accesso al giudice, consistente nell’impossibilità di portare ad esecuzione la pronuncia ottenuta dinanzi al Tribunale di Benevento e, conseguentemente, di soddisfare le proprie legittime pretese4. La Corte di Strasburgo, investita della questione, richiama brevemente la disciplina relativa al dissesto finanziario, con particolare riguardo ai poteri dell’organo straordinario di liquidazione ed alla situazione dei creditori, alla luce della necessità dell’ente di continua- istituto del dissesto degli enti locali, introdotto in prima battuta dall’art. 25 del decreto legge n. 66 del 1989 ed attualmente disciplinato dagli artt. 244 e ss. del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, mira a regolare quelle situazioni in cui la situazione finanziaria dell’ente è di una gravità tale, da impedirne il regolare svolgimento delle funzioni essenziali1. La normativa, oggetto di ulteriori rimaneggiamenti a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, fornisce la definizione dell’istituto, precisandone le conseguenze e circoscrivendone l’operatività a province e comuni. In particolare, l’art. 244 TUEL stabilisce che si ha dissesto finanziario laddove l’Ente locale non possa garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili, ovvero esistano nei confronti dello stesso crediti di terzi cui non si possa fare validamente fronte, né con il mezzo ordinario del ripristino del riequilibrio del bilancio, né con lo straordinario riconoscimento del debito fuori bilancio. La procedura che segue la dichiarazione di dissesto finanziario mira, nell’ottica del risanamento dei conti dell’ente locale, a cristallizzare ad una certa data la situazione creditoria e, soprattutto, debitoria dell’ente, affidandone la gestione ad una commissione esterna all’ente, di modo da consentire allo stesso di ripartire, libero da vincoli e con un bilancio risanato2. La tutela delle ragioni dei creditori dell’ente, dunque, trova un limite importante nella necessità di assicurare la continuità di esercizio dell’amministrazione locale e, con essa, il regolare svolgimento dei servizi essenziali per la comunità3. Tali esigenze sono sottese al dettato di cui al successivo art. 248 Tuel, che introduce il divieto di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti dell’ente per debiti che rientrano nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, prevedendo, altresì, che i pignoramenti eventualmente eseguiti dopo la deliberazione dello stato di dissesto non vincolano l’ente ed il tesoriere. Temi Romana 77 Cronache e attualità § 41). Deve, dunque, constatarsi, secondo la Corte, la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione. Quanto alla seconda censura, relativa alla violazione degli artt. 6§1 e 13 della Convenzione, la consolidata giurisprudenza in materia ritiene che il “diritto ad un Tribunale” non si esaurisca con la decisione promanata da un organo giurisdizionale, ma includa anche la sua esecuzione, affinché non si corra il rischio che una decisione definitiva resti inoperante a detrimento della parte vittoriosa7. Il diritto ad un giusto processo, infatti, resterebbe illusorio se uno Stato permettesse, appunto, ad una parte di non rispondere dei suoi obblighi derivanti da una pronuncia resa da un Giudice8. L’esecuzione di una decisione, anche non definitiva e di qualsiasi autorità giudiziaria si tratti, deve essere, quindi, considerata, alla luce delle coordinate internazionali, come facente parte del processo ai sensi dell’art. 6 CEDU: il rifiuto o la mancata esecuzione della medesima, in assenza di un rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e il fine perseguito, costituisce una violazione del diritto del cittadino ad un giusto processo. Nella specie, la Corte ha rilevato che per i crediti vantati dai ricorrenti non vi era la possibilità di intraprendere alcuna azione esecutiva. Ed invero, il divieto di intraprendere azioni esecutive nei confronti dell’ente, di cui all’art. 248 Tuel, è esteso, in virtù del disposto di cui all’art. 5, co. II della legge 140 del 2004, anche ai crediti – quali quelli degli esponenti – riconosciuti con sentenza successiva alla dichiarazione di dissesto finanziario. Peraltro, siffatte limitazioni della soddisfazione del credito attraverso la procedura esecutiva, previste dal legislatore, non possono dirsi legittime, in quanto sproporzionate rispetto al fine perseguito. Al riguardo, la Corte sottolinea che “il divieto di intraprendere o proseguire procedure esecutive contro il Comune resta in vigore fino all’approvazione, da parte dell’OSL, del rendiconto, dunque fino ad una data futura legata all’attività di una commissione amministrativa indipendente. La celerità della procedura davanti a quest’ultima sfugge dunque completamente al controllo del ricorrente. Il Comune di Benevento si è dichiarato in stato di dissesto nel dicembre 1993 […] e a tutt’oggi la Corte non è stata informata circa un’approvazione dei conti da parte dell’OSL. Il ricorrente, il quale ha ottenuto il riconoscimento del suo credito attraverso una decisione giudiziaria del novembre 2003 e divenuta definitiva in data 9 maggio 2004 […] è stato, dunque, privato del suo diritto di accesso al giudice per un periodo eccessivamente lungo. A parere della Corte, re ad erogare i servizi pubblici essenziali. Ciò detto, tuttavia, tali esigenze di tutela della collettività non possono giustificare, secondo i giudici internazionali, la frustrazione di un diritto di credito – quale quello oggetto delle contestazioni – certo, liquido ed esigibile, in virtù di sentenza passata in giudicato. Ed invero, ricorda la Corte, un “credito” può essere considerato un “bene” ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, se è sufficientemente certo ed esigibile (Stran Raffinerie greche e Stratis Andreadis c. Grecia del 9 dicembre 1994, § 59, serie A n. 301 – B e Burdov c. Russia, n. 59498/00, § 40, CEDU 2002 – III)5. Nel caso di specie, i ricorrenti erano titolari di un credito certo, liquido ed esigibile riconosciuto da una sentenza resa dal Tribunale di Benevento, che aveva condannato il Comune al pagamento di una determinata somma di denaro in loro favore. A seguito della dichiarazione di insolvenza, l’ente locale, tuttavia, non procedeva più al pagamento dei suoi debiti, sebbene questi, in virtù di quanto appena riportato, costituiscano beni ai sensi del disposto convenzionale. Di conseguenza, rilevano i giudici di Strasburgo, la normativa italiana che disciplina la materia dello stato di dissesto degli enti locali viola il diritto al rispetto della proprietà, posto che, anche qualora venga assicurato nel piano di riparto il pagamento parziale del credito, lo Stato è tenuto ad onorare in toto i debiti di ogni sua articolazione centrale o periferica, non potendo la mancanza di risorse finanziarie dell’ente avere rilievo per giustificare l’inadempienza di obblighi derivanti da una sentenza definitiva6. Difatti, sostiene la Corte, “nel lasciare ineseguita la sentenza del Tribunale di Benevento, le autorità nazionali hanno impedito al ricorrente l’effettiva percezione delle somme che egli poteva ragionevolmente aspettarsi di ottenere. Vero è che l’Organo straordinario di liquidazione aveva proposto al ricorrente un accordo transattivo, in virtù del quale sarebbe stata versata una somma corrispondente all’80% del credito […]; ma è pur vero che accettando questa offerta – cosa che egli non fece – il ricorrente avrebbe perso il 20% del suo credito ed avrebbe rinunciato agli interessi legali ed alla rivalutazione, cui avrebbe avuto diritto, e questo a partire dalla data della dichiarazione di insolvenza del Comune”. D’altronde, tale ingerenza nel diritto di proprietà – convenzionalmente inteso – non può trovare giustificazione, come sostenuto dal Governo, nella mancanza di risorse dell’ente: lo stato di insolvenza, difatti, non può giustificare l’inadempimento scaturente da una sentenza definitiva passata in giudicato (Ambruosi c. Italia, n. 31227/96, § 28-34, 19 ottobre 2000 e Burdov c. Russia 78 Temi Romana Cronache e attualità T.A.R. osserva che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo “parrebbe aver affermato principi – di segno diverso – che potrebbero risultare determinanti nella decisione della causa (casi De Luca contro Italia e Pennino contro Italia del 24 settembre 2013). Ritenuto dunque necessario appurare se siffatta pronuncia abbia (o verrà ad avere) carattere di definitività (art. 44 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) e, pertanto, rinviare la procedura ad altra camera di consiglio, dando mandato alle parti di svolgere ogni verifica in tal senso, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione Seconda di Lecce, rinvia la procedura alla camera di consiglio del 30 gennaio 2014, disponendo gli incombenti istruttori di cui in motivazione”10. Le sopra riportate pronunce della Corte Europea dei diritti dell’Uomo sembrerebbero, dunque, preludere a scenari del tutto inediti nelle procedure esecutive avviate o proseguite nell’ambito dello stato di dissesto finanziario della provincia o del comune debitori. Difatti, l’esigenza di addivenire ad una interpretazione c.d. convenzionalmente orientata – secondo l’indirizzo inaugurato dalle note sentenze nn. 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale – della normativa interna, comporterà un ripensamento dell’istituto del dissesto e delle sue conseguenze sui creditori e sulle procedure esecutive alla luce dei parametri internazionali sopra riportati, pena la condanna dello Stato italiano per violazione della Convenzione e l’aggravarsi della già problematica situazione dei conti pubblici. Tale percorso, tuttavia, si profila sin d’ora impervio, stanti la necessità di assicurare la continuità di esercizio delle funzioni dell’ente in stato di dissesto e le ben note difficoltà finanziarie dello Stato e delle amministrazioni locali. Si rende, dunque, auspicabile un intervento del legislatore volto all’individuazione di strumenti idonei, da un lato, a rispettare le esigenze di tutela delle collettività locali sopra evidenziate, dall’altro, a soddisfare la posizione dei creditori nel rispetto dei principi della Convenzione Europea, ponendo, così, lo Stato italiano al riparo da ulteriori condanne della Corte di Strasburgo. ciò ha comportato la violazione del rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e l’obiettivo perseguito”. La Corte ha, così, riconosciuto che i ricorrenti hanno subito un’ingerenza nel loro diritto di “accesso ad un Tribunale”, constatando, così, la violazione dell’art. 6§1 della Convenzione. La constatazione di violazione è stata accompagnata dal riconoscimento di un’equa soddisfazione per i danni materiali e morali. I giudici di Strasburgo, ribadiscono, dunque, con le due pronunce qui in commento, che le carenze finanziarie di una pubblica amministrazione non possono giustificare una pesante compromissione del diritto degli individui a vedersi riconosciuti i propri crediti derivanti da una sentenza passata in giudicato, o meglio, a trovarsi nell’impossibilità di porre in esecuzione una sentenza. Se, tuttavia, tali statuizioni si iscrivono, come visto, in un percorso giurisprudenziale internazionale ormai consolidato con riguardo alla tutela del credito ed all’accesso al giudice, interessanti saranno le reazioni della giurisprudenza italiana all’ennesimo richiamo avanzato da Strasburgo. Al riguardo, si segnala la recentissima ordinanza n. 2210/2013, con la quale il T.A.R. Puglia – Lecce, Sez. II, nel prendere atto delle sopra citate sentenze della Corte di Strasburgo nel corso di un giudizio di ottemperanza, ha ritenuto di rinviare la procedura, al fine di verificare se dette pronunce abbiano acquisito carattere di definitività, ai sensi dell’art. 44 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali9. Nel caso portato all’esame del Collegio, il ricorrente agiva nei confronti del Comune di Taranto, per ottenere l’esecuzione di un giudicato, che riconosceva, in suo favore, un credito nei confronti dell’amministrazione. L’amministrazione resistente, rilevando l’intervenuta dichiarazione di dissesto finanziario, eccepiva l’inammissibilità del ricorso, per essere il credito de quo riferibile alla competenza dell’Organo straordinario di liquidazione, e, dunque, soggetto al regime di cui all’art. 248 Tuel. A fronte di tale situazione, tuttavia, il _________________ 1 Cfr. A.R. DE DOMINICIS, Dissesto degli enti locali. Contenuto, effetti, responsabilità, Milano, Giuffrè, 2000. 2 Cfr. M. MULAZZANI, Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche, Padova, Temi Romana CEDAM, 2001; F. ZITO, Commento agli artt. 242-269 Tuel, in M. BERTOLISSI (a cura di), L’ordinamento degli enti locali, Bologna, il Mulino, 2002. 3 Cfr. M.T. SEMPREVIVA (a cura di), 79 Ordinamento e attività istituzionali del Ministero dell’Interno, Roma, Dike, 2013. 4 De Luca c. Italia, ric. n. 43870/2004, sentenza 24.09.2013; Pennino c. Italia, ric. n. 43892/2004, sentenza 24.09.2013. Cronache e attualità 5 Al riguardo, si ricorda che, nella recente evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo, “il concetto di proprietà è stato esteso […] anche a diritti soggettivi relativi quali i diritti di credito. A tale proposito, nonostante l’affermata autonomia della nozione, la Corte non ha escluso di poter fare riferimento al diritto interno al fine di accertare l’esistenza di un bene ai sensi della Convenzione […] In tali ipotesi, la Corte ha ritenuto necessario accertare se, in considerazione del diritto interno, i crediti dei ricorrenti fossero «... sufficientemente certi per essere esigibili» (Corte, 9 dicembre 1994, Raffineries Grecques Stran cit., par. 59) o se, quantomeno, «i ricorrenti potessero pretendere di avere una legittima aspettativa di concretizzare i loro crediti…conformemente al diritto generale in materia di responsabilità» (Corte, 20 novembre 1995, Pressos Compania Naviera S.A. et autres cit., par. 31”, in S. BARTOLE, B. CONFORTI, G. RAIMONDI, Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, CEDAM, 2001. 6 Cfr. L. SERINO, Lo Stato deve garantire i crediti dei cittadini nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni. Note a margine dei casi De Luca e Pennino c. Italia, in www.duitbase.it. 7 Hornsby c. Grecia, 19.03.1997, §40 e Bordov c. Russia, 15.01.2009, §65. 8 Sul punto, si ricorda che, per costante giurisprudenza internazionale, la verifica circa il rispetto del diritto alla tutela giurisdizionale, peraltro, va estesa anche alla fase esecutiva del giudizio, poiché il diritto di accesso ad un giudice sarebbe illusorio se l’ordine giuridico interno permettesse che una decisione giudiziaria definitiva ed obbligatoria restasse inoperante a detrimento di una delle parti (C.edu, Immobiliare Saffi c. Italia, 28.07.1999, §63). Cfr. S. BARTOLE, P. DE SENA, V. ZAGREBELSKY, Commentario breve alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, Padova, CEDAM, 2012. 9 Ordinanza n. 2210/2013, il T.A.R. Puglia – Lecce, Sez. II, depositata in data 31.10.2013. 10 Con la recente sentenza n. 600/2014, il T.A.R. Puglia – Lecce, Sez. II ha dichiarato 80 il ricorso in ottemperanza sopra richiamato inammissibile. Quanto al rilievo delle sentenze della Corte EDU, il Collegio ha statuito che “tale conclusione non risulta ‘superata’ dalle recenti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei casi ‘De Luca contro Italia’ e ‘Pennino contro Italia’ (del 24 settembre 2013), avendo in quelle fattispecie il giudice di Strasburgo esaminato situazioni in cui il diritto a un equo processo (da intendersi comunque non in senso assoluto, essendo ammesse restrizioni implicite affidate al margine di apprezzamento degli Stati membri e riferibili a motivi imperativi di interesse generale) risultava compresso per un tempo eccezionalmente lungo, in violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza (si dibatteva della posizione di due creditori del Comune di Benevento i quali avevano iniziato, rispettivamente nel 1987 e nel 1992, un’azione risarcitoria, ottenendo due sentenze favorevoli passate in giudicato nel 2003 e nel 2004): nel caso in esame, invece, la sentenza della cui esecuzione di tratta è passata in giudicato solo nel 2012, e dunque da un periodo di tempo non comparabile con quelli appena indicati”. Temi Romana Passeggiata in libreria n° 4 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma “I DIRITTI DEI MINORI” Matteo Santini e Pompilia Rossi (a cura di) Testi di: Francesca Beccaria, Emilia Casali, Francesca Cimatti, Ileana Iandolo, Sara Menichetti, Maria Paola Rosapepe, Alessandra Sarri, Silvia Veneziano NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA pp. 312, euro 20,00 Il presente volume costituisce un vademecum che sarà di grande ausilio per gli operatori del diritto minorile e per coloro che necessitino di un primo orientamento nella materia. È un testo aggiornatissimo, all’interno del quale è contenuta tutta la normativa nazionale ed internazionale attinente ai minori, suddivisa per argomenti. Per renderlo più completo e fruibile nella pratica, per chi quotidianamente lavora nel settore, all’interno del volume è stata inserita anche la giurisprudenza sia nazionale che internazionale, anch’essa suddivisa per argomenti. I diritti dei minori ivi trattati sono stati affrontati in modo esaustivo: nel testo infatti si rinvengono leggi e sentenze di diritto civile ma anche di diritto penale, al fine di consentire un compiuto inquadramento della materia. Direttore Responsabile: Mauro VAGLIO Direttore Scientifico: Alessandro CASSIANI Capo Redattore: Samantha LUPONIO Comitato Scientifico: Paola BALDUCCI, Antonio BRIGUGLIO, Luigi CANCRINI, Pierpaolo DELL’ANNO, Antonio FIORELLA, Giovanni Maria FLICK Giorgio LOMBARDI, Carlo MARTUCCELLI, Ugo PETRONIO Eugenio PICOZZA, Giulio PROSPERETTI, Giorgio SPANGHER Alfonso STILE, Federico TEDESCHINI, Roberta TISCINI, Giancarlo UMANI RONCHI, Romano VACCARELLA Comitato di Redazione: Mauro VAGLIO, Pietro DI TOSTO, Antonino GALLETTI Riccardo BOLOGNESI, Fabrizio BRUNI Alessandro CASSIANI, Domenico CONDELLO, Antonio CONTE Mauro MAZZONI, Aldo MINGHELLI, Roberto NICODEMI, Livia ROSSI Matteo SANTINI, Mario SCIALLA, Isabella Maria STOPPANI Coordinatori: Antonio ANDREOZZI, Andrea BARONE, Camilla BENEDUCE Domenico BENINCASA, Marina BINDA, Ersi BOZEKHU Francesco CASALE, Francesco CIANI, Benedetto CIMINO, Irma CONTI Antonio CORDASCO, Alessandro CRASTA, Carmelita DE FINIS Annalisa DI GIOVANNI, Ruggero FRASCAROLI, Maria Vittoria FERRONI Fabrizio GALLUZZO, Alessandro GENTILONI SILVERI, Mario LANA Paola LICCI, Andrea LONGO, Giuseppe MARAZZITA, Franco MARCONI Alessandra MARI, Gabriella MAZZEI, Arturo MEGLIO, Chiara PACIFICI Ginevra PAOLETTI, Chiara PETRILLO, Tommaso PIETROCARLO Aurelio RICHICHI, Sabrina RONDINELLI, Serafino RUSCICA Marco Valerio SANTONOCITO, Massimiliano SILVETTI, Luciano TAMBURRO Federico TELA, Antonio TESTA, Federica UMANI RONCHI, Clara VENETO Segretario di redazione: Natale ESPOSITO Progetto grafico: Alessandra GUGLIELMETTI Disegno di copertina: Rodrigo UGARTE ____________ Temi Romana - Autorizzazione Tribunale di Roma n. 320 del 17 luglio 2001 - Direzione, Redazione: P.zza Cavour - Palazzo di Giustizia - 00193 Roma Impaginazione e stampa: Infocarcere scrl - Via C. T. Masala, 42 - 00148 Roma “IL FALLIMENTO E LE ALTRE PROCEDURE CONCORSUALI” Antonio Caiafa DISCENDO AGITUR, ROMA pp. 526, euro 46,00 La difficoltà di conciliare una adeguata trattazione dei fondamenti della materia, in conseguenza dei continui successivi interventi integrativi della legge di riforma delle procedure concorsuali, e al tempo stesso, la sentita esigenza di offrire agli studenti uno strumento di studio ed approfondimento, sì da consentire loro di aderire liberamente ad una tesi ricostruttiva sistemica piuttosto che ad un’altra, hanno suggerito una esposizione essenziale e semplice al fine di permettere l’esercizio di una consapevole riflessione su varie tematiche. Il volume fornisce un quadro completo ed approfondito delle nuove regole del concorso, che ricostruisce con particolare attenzione alle problematiche interdisciplinari, allo scopo di individuare il corretto equilibrio fra la tutela delle ragioni creditorie e la salvaguardia delle risorse dell’impresa, cui la legge di riforma ha inteso garantire continuità mediante recupero delle capacità produttive. “LE 50 PAROLE DELLA DIGITAL FORENSICS PIÙ UTILIZZATE NELLE AULE DI GIUSTIZIA” Marco Zonaro NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA pp. 48, euro 5,00 Un piccolo vademecum che, senza grandi pretese, vuole essere uno strumento di sensibilizzazione all’utilizzo, in campo scientifico forense, di un linguaggio semplice e pulito, scevro di terminologie astruse e indecifrabili, proprie di chi invece con la scienza si confronta quotidianamente. 50 parole, tra le più utilizzate nelle Aule di Giustizia, che parlano di informatica forense, cercando di offrire una spiegazione breve e chiara di concetti tecnici ormai entrati a far parte della nostra quotidianità professionale. “GESTIONE DELLE CRISI BANCARIE TRANSFRONTALIERE” Marta Mariolina Mollicone NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA pp. 128, euro 15,00 La crisi finanziaria che dal 2008 ha riguardato gli Stati Uniti e si è velocemente espansa in Europa, con modalità domino, ha sottolineato l’inadeguatezza del sistema bancario sotto il profilo dell’assunzione del rischio, di prevenzione degli effetti collaterali e della composizione della crisi. L’Europa, al fine di evitare ulteriori crisi sistematiche e con l’obbiettivo di esonerare i contribuenti dai costi di un dissesto generato da scelte manageriali sbagliate, ha creato la Unione Bancaria. Vigilanza, risoluzione e garanzia dei depositi delle banche cross-border vengono, dunque, tutti investiti da un più profondo processo di armonizzazione e vengono collocati ad un nuovo e unico livello, quello europeo, dove la BCE assume il ruolo di protagonista. L’opera si concentra sul nuovo Meccanismo Unico di Risoluzione delle crisi bancarie transfrontaliere (Single Resolution Mechanism, SRM), che vede la sua disciplina nel Regolamento (UE) N. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio e sulla Direttiva Banking Recovery and Resolution N. 59/2014/EU, la quale mette a disposizione sia della nuova Authority europea di risoluzione (Resolution Board), sia delle Autorità Nazionali, strumenti per la prevenzione, per l’intervento precoce e per la risoluzione delle crisi bancarie. L’autore ha inteso delineare un quadro delle nuovissime disposizioni europee in materia bancaria che a breve entreranno in vigore, cercando di esprimere con semplicità espositiva un sistema contorto ed incompleto, nell’ottica di stimolare riflessioni e facilitare il suo recepimento nell’ordinamento italiano. 2014 n° 4 Temi Romana n° 4 Rassegna di dottrina e giurisprudenza a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma ANNO LXII OTTOBRE – DICEMBRE 2014