T emi R omana n° 4 2014

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T emi R omana n° 4 2014
2014
n° 4
Temi Romana
n° 4
Rassegna di dottrina
e giurisprudenza
a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma
ANNO LXII
OTTOBRE – DICEMBRE 2014
Passeggiata in libreria
n° 4
Rassegna di dottrina
e giurisprudenza
a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma
“I DIRITTI DEI MINORI”
Matteo Santini e Pompilia Rossi (a cura di)
Testi di: Francesca Beccaria, Emilia Casali, Francesca Cimatti,
Ileana Iandolo, Sara Menichetti, Maria Paola Rosapepe,
Alessandra Sarri, Silvia Veneziano
NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA
pp. 312, euro 20,00
Il presente volume costituisce un vademecum che sarà di grande ausilio per gli operatori
del diritto minorile e per coloro che necessitino di un primo orientamento nella materia.
È un testo aggiornatissimo, all’interno del quale è contenuta tutta la normativa nazionale ed
internazionale attinente ai minori, suddivisa per argomenti. Per renderlo più completo e
fruibile nella pratica, per chi quotidianamente lavora nel settore, all’interno del volume è
stata inserita anche la giurisprudenza sia nazionale che internazionale, anch’essa suddivisa
per argomenti. I diritti dei minori ivi trattati sono stati affrontati in modo esaustivo: nel testo
infatti si rinvengono leggi e sentenze di diritto civile ma anche di diritto penale, al fine di
consentire un compiuto inquadramento della materia.
Direttore Responsabile: Mauro VAGLIO
Direttore Scientifico: Alessandro CASSIANI
Capo Redattore: Samantha LUPONIO
Comitato Scientifico:
Paola BALDUCCI, Antonio BRIGUGLIO, Luigi CANCRINI,
Pierpaolo DELL’ANNO, Antonio FIORELLA, Giovanni Maria FLICK
Giorgio LOMBARDI, Carlo MARTUCCELLI, Ugo PETRONIO
Eugenio PICOZZA, Giulio PROSPERETTI, Giorgio SPANGHER
Alfonso STILE, Federico TEDESCHINI, Roberta TISCINI,
Giancarlo UMANI RONCHI, Romano VACCARELLA
Comitato di Redazione:
Mauro VAGLIO, Pietro DI TOSTO, Antonino GALLETTI
Riccardo BOLOGNESI, Fabrizio BRUNI
Alessandro CASSIANI, Domenico CONDELLO, Antonio CONTE
Mauro MAZZONI, Aldo MINGHELLI, Roberto NICODEMI, Livia ROSSI
Matteo SANTINI, Mario SCIALLA, Isabella Maria STOPPANI
Coordinatori:
Antonio ANDREOZZI, Andrea BARONE, Camilla BENEDUCE
Domenico BENINCASA, Marina BINDA, Ersi BOZEKHU
Francesco CASALE, Francesco CIANI, Benedetto CIMINO, Irma CONTI
Antonio CORDASCO, Alessandro CRASTA, Carmelita DE FINIS
Annalisa DI GIOVANNI, Ruggero FRASCAROLI, Maria Vittoria FERRONI
Fabrizio GALLUZZO, Alessandro GENTILONI SILVERI, Mario LANA
Paola LICCI, Andrea LONGO, Giuseppe MARAZZITA, Franco MARCONI
Alessandra MARI, Gabriella MAZZEI, Arturo MEGLIO, Chiara PACIFICI
Ginevra PAOLETTI, Chiara PETRILLO, Tommaso PIETROCARLO
Aurelio RICHICHI, Sabrina RONDINELLI, Serafino RUSCICA
Marco Valerio SANTONOCITO, Massimiliano SILVETTI, Luciano TAMBURRO
Federico TELA, Antonio TESTA, Federica UMANI RONCHI, Clara VENETO
Segretario di redazione: Natale ESPOSITO
Progetto grafico: Alessandra GUGLIELMETTI
Disegno di copertina: Rodrigo UGARTE
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Temi Romana - Autorizzazione Tribunale di Roma n. 320 del 17 luglio 2001 - Direzione, Redazione: P.zza Cavour - Palazzo di Giustizia - 00193 Roma
Impaginazione e stampa: Infocarcere scrl - Via C. T. Masala, 42 - 00148 Roma
“IL FALLIMENTO E LE ALTRE PROCEDURE CONCORSUALI”
Antonio Caiafa DISCENDO AGITUR, ROMA
pp. 526, euro 46,00
La difficoltà di conciliare una adeguata trattazione dei fondamenti della materia, in
conseguenza dei continui successivi interventi integrativi della legge di riforma delle
procedure concorsuali, e al tempo stesso, la sentita esigenza di offrire agli studenti uno
strumento di studio ed approfondimento, sì da consentire loro di aderire liberamente ad una
tesi ricostruttiva sistemica piuttosto che ad un’altra, hanno suggerito una esposizione
essenziale e semplice al fine di permettere l’esercizio di una consapevole riflessione su
varie tematiche. Il volume fornisce un quadro completo ed approfondito delle nuove regole
del concorso, che ricostruisce con particolare attenzione alle problematiche
interdisciplinari, allo scopo di individuare il corretto equilibrio fra la tutela delle ragioni
creditorie e la salvaguardia delle risorse dell’impresa, cui la legge di riforma ha inteso
garantire continuità mediante recupero delle capacità produttive.
“LE 50 PAROLE DELLA DIGITAL FORENSICS PIÙ UTILIZZATE
NELLE AULE DI GIUSTIZIA”
Marco Zonaro NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA
pp. 48, euro 5,00
Un piccolo vademecum che, senza grandi pretese, vuole essere uno strumento di
sensibilizzazione all’utilizzo, in campo scientifico forense, di un linguaggio semplice e
pulito, scevro di terminologie astruse e indecifrabili, proprie di chi invece con la scienza si
confronta quotidianamente.
50 parole, tra le più utilizzate nelle Aule di Giustizia, che parlano di informatica forense,
cercando di offrire una spiegazione breve e chiara di concetti tecnici ormai entrati a far
parte della nostra quotidianità professionale.
“GESTIONE DELLE CRISI BANCARIE TRANSFRONTALIERE”
Marta Mariolina Mollicone NUOVA EDITRICE UNIVERSITARIA, ROMA
pp. 128, euro 15,00
La crisi finanziaria che dal 2008 ha riguardato gli Stati Uniti e si è velocemente espansa in
Europa, con modalità domino, ha sottolineato l’inadeguatezza del sistema bancario sotto il
profilo dell’assunzione del rischio, di prevenzione degli effetti collaterali e della
composizione della crisi. L’Europa, al fine di evitare ulteriori crisi sistematiche e con
l’obbiettivo di esonerare i contribuenti dai costi di un dissesto generato da scelte
manageriali sbagliate, ha creato la Unione Bancaria. Vigilanza, risoluzione e garanzia dei
depositi delle banche cross-border vengono, dunque, tutti investiti da un più profondo
processo di armonizzazione e vengono collocati ad un nuovo e unico livello, quello
europeo, dove la BCE assume il ruolo di protagonista. L’opera si concentra sul nuovo
Meccanismo Unico di Risoluzione delle crisi bancarie transfrontaliere (Single Resolution
Mechanism, SRM), che vede la sua disciplina nel Regolamento (UE) N. 806/2014 del
Parlamento europeo e del Consiglio e sulla Direttiva Banking Recovery and Resolution N.
59/2014/EU, la quale mette a disposizione sia della nuova Authority europea di risoluzione
(Resolution Board), sia delle Autorità Nazionali, strumenti per la prevenzione, per
l’intervento precoce e per la risoluzione delle crisi bancarie. L’autore ha inteso delineare un
quadro delle nuovissime disposizioni europee in materia bancaria che a breve entreranno in
vigore, cercando di esprimere con semplicità espositiva un sistema contorto ed incompleto,
nell’ottica di stimolare riflessioni e facilitare il suo recepimento nell’ordinamento italiano.
Sommario
n° 4
Rassegna di dottrina
e giurisprudenza
a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma
2
ENRICO DE NICOLA: LA STORIA
4
SAGGI
A cura di Eleonora Senese
Profili problematici circa una innovativa causa di esclusione della responsabilità
penale per colpa lieve
Sergio De Dominicis
9
La differenziazione trattamentale per ragioni di sicurezza e i circuiti penitenziari
Iole Falco
12
La truffa aggravata: profili processuali, giurisprudenziali e rapporto con reati aventi
struttura analoga
Roberta Mencarelli
19
Profili generali relativi alla tutela del consumatore ed azione di classe – Parte II
Alessandro Nicodemi
34
Il concorso del professionista nei reati connessi alla crisi d’impresa
Tommaso Pietrocarlo
38
Gioco d’azzardo patologico: nuove esigenze di tutele e vecchie regole di contesto
Rita Tuccillo
47 OSSERVATORIO LEGISLATIVO
Accesso civico e accesso disciplinato dalla legge n. 241 del 1990
Marina Binda
57 NOTE A SENTENZA
Lavoro (Rapporto di) – Licenziamento individuale – Successiva revoca del provvedimento –
Reintegra nel posto di lavoro – Decorrenza ex tunc degli effetti dalla data di decorrenza
originaria del rapporto di lavoro – Retribuzioni medio tempore maturate
Carlotta Maria Manni
64
La destinazione urbanistica a verde privato come vincolo meramente conformativo
della proprietà rispetto alla tutela ambientale
Lorenzo Maria Pelusi
75 CRONACHE E ATTUALITÀ
Il Trust dopo di noi!
Matteo Santini
77 Dissesto degli enti locali e posizione dei creditori: l’intervento della Corte Europea
dei diritti dell’Uomo con le sentenze De Luca e Pennino c. Italia
Francesca Sbarra
Temi Romana
1
Enrico De Nicola: la storia
La riconoscenza è il sentimento della vigilia
A cura di Eleonora Senese
E
nrico De Nicola nasce a Napoli il 9 novembre
1877 da una famiglia che gli consente di effettuare gli studi che culmineranno nella laurea in
Giurisprudenza, conseguita nel 1896 presso l’Università degli Studi di Napoli. L’anno precedente lavora per
la rubrica quotidiana di ambito giudiziario del “Don
Marzio” e, nel 1909, viene per la prima volta eletto
deputato nel Collegio di Afragola. Nominato
Sottosegretario di Stato per le Colonie tra il 1913 e il
1914, durante il quarto governo Giolitti, si ritrova nel
corso della Prima Guerra Mondiale ad assumere una
posizione interventista per poi ricoprire la carica di sottosegretario di Stato per il Tesoro nel 1919.
All’epoca della marcia su Roma del 1922, è garante del
patto nazionale di pacificazione tra fascisti e socialisti
– che poi non ebbe più seguito – ma si ritrova ad
appoggiare il Regime Fascista, pur mantenendo la carica di presidente della Camera fino al 1924, quando non
presta, tuttavia, il giuramento. Cinque anni dopo, diviene Senatore del Regno, seppur ricoprendo la carica solo
per alcune commissioni giuridiche.
Alla caduta del regime, nonostante si sia ritirato a vita
privata, interviene, sotto richiesta, per mediare fra gli
Alleati e la Corona, evitando addirittura l’abdicazione
di Vittorio Emanuele III e proponendo l’istituzione
della figura di Luogotenente da affidare all’erede al
trono Umberto, così da attenuare il peso della sconfitta
della corona.
Dopo un lavoro diplomatico tra i vari partiti politici,
nel 1946 diventa capo provvisorio dello Stato dopo la
contrapposizione tra la candidatura di Vittorio
Emanuele Orlando, da parte della DC e delle destre, e
quella di Benedetto Croce da parte, invece, delle sinistre e dei laici.
Durante la prima adunanza dell’Assemblea costituente
di quell’anno sono queste le sue parole: “Dobbiamo
avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo:
della nostra infrangibile unione”, alludendo anche alle
condizioni in cui l’Italia verte in quel periodo.
È il 1947 quando viene emessa l’ultima condanna a
morte in Italia: gli autori della strage di Villarbasse
chiedono una grazia che De Nicola non accetta a causa
della gravità del delitto commesso.
L’anno dopo entra in vigore la Costituzione della
Repubblica Italiana ed egli assume il titolo di
Presidente in ruolo transitorio, prima che la maggioranza elegga il nuovo presidente: il liberale Luigi Einaudi.
Di conseguenza diviene Senatore a vita e Presidente del
Senato della Repubblica dal 28 aprile del 1951 al 24
giugno 1952 durante la prima Legislatura, fino alle sue
dimissioni in occasione di quella che viene ricordata
come “legge truffa”.
Dopo una sospensione dalla carica in Senato nel 1955
in quanto nominato Giudice della Corte Costituzionale,
riassume le funzioni di Senatore nel 1957, ma due anni
dopo, il primo ottobre, muore all’età di 81 anni nella
sua casa di Torre del Greco.
Enrico De Nicola viene ricordato come una persona
umile (rinunciò all’indennità prevista per il capo dello
Stato che allora ammontava a 12 milioni di lire), onesta e soprattutto dedita al suo mestiere.
Infatti era particolarmente stimato proprio per l’onestà,
l’umiltà e l’austerità dei costumi. Esempio di rigore,
distingueva il pubblico dal privato: il giorno della sua
nomina a Presidente della Repubblica, giunse discretamente a bordo della sua auto privata a Roma dalla sua
Torre del Greco; metteva i soldi per i francobolli della
corrispondenza privata che partiva da un ufficio pubblico; si muoveva con mezzi propri, si fece rivoltare il cappotto dal sarto, indumento che divenne “dignitosissimo
co-protagonista di numerosissime occasioni ufficiali”.
Considerando la provvisorietà della sua carica, ritenne
improprio stabilirsi al Quirinale, optando per Palazzo
Giustiniani; durante la sua presidenza, ostentava
un’agendina nella quale, asseriva, andava prendendo
appunti sul corretto modo di esercitare la funzione presidenziale, quasi una sorta di codice deontologico per
capi di Stato. Il suo successore, Luigi Einaudi, fra le
prime cose che fece da presidente fu quella di ricercare
quest’agendina ma, sostiene Giulio Andreotti, la trovò
incredibilmente vuota, senza che De Nicola vi avesse
scritto alcunché. Per tali motivi rappresenta ancora oggi
2
Temi Romana
Enrico De Nicola: la storia
un esempio di trasparenza e onestà intellettuale.
In materia giudiziaria è da attribuirgli il perfezionamento di uditori giudiziari, la modifica della legge della professione forense, l’abolizione del domicilio coatto.
Il lavoro parlamentare di De Nicola concerne anche un
apporto alle istituzioni finanziarie come la gestione
delle Casse provinciali del Credito agrario o del monopolio per le assicurazione sulla vita.
Di ancora maggior rilievo sono le riforme sulla struttura degli organi interni della Camera come quelle dei
gruppi parlamentari e le commissioni legislative permanenti (nove) che rimangono l’ammodernamento più
importante apportato in epoca liberale.
A lui sono state dedicate strade, piazze e Istituti scolastici di ogni ordine e grado. Nel 2009, Andrea Jelardi
scrive Il Presidente galantuomo (Napoli, Kairòs
Editore), vera e propria biografia di un personaggio che
è stato l’ultimo notabile di un’Italia liberale, che ha
visto la fine della Monarchia e dei Savoia e il primo
Capo provvisorio di una Repubblica appena nata.
avanzata dai 3 condannati (in quanto il quarto, l’organizzatore del colpo, era già morto ucciso in un regolamento dei conti), fu inevitabilmente respinta dal presidente della Repubblica. L’evento è considerato di particolare rilevanza nella storia della penalistica. Tra i
giornalisti accreditati a cui toccò il compito di raccontare gli ultimi atti di vita degli assassini, vi era un
ragazzo poco più che ventenne, Giorgio Bocca, redattore della Gazzetta del Popolo di Torino.
La legge truffa
Con tale termine si identifica la Legge elettorale italiana maggioritaria voluta dalla Democrazia Cristiana e
dai suoi alleati (Psdi, Pli, Pri, Partito sardo d’azione,
Svp) per ottenere il controllo certo della Camera dei
Deputati. Fu così definita dalle opposizioni di sinistra in
quanto prevedeva che alla lista o all’insieme delle liste
che, essendosi “apparentate” tra loro, avessero ottenuto
più del 50% dei voti toccasse il 65% dei seggi. Fallì per
poche migliaia di voti, fu subito revocata, ma lasciò uno
strascico di grave instabilità politica. La legge, promulgata il 31 marzo 1953 (n. 148) ed in vigore per le elezioni politiche del 3 giugno di quello stesso anno (sia
pure senza che desse effetti), venne abrogata con la
legge 615 del 31 luglio 1954. Infatti la Dc e i partiti
satelliti si fermarono al 49,8%: per 54.968 voti il premio
di maggioranza andò in fumo. Un fallimento che sancì
la fine dell’era De Gasperi.
La strage di Villarbasse
Si trattò di un orribile delitto che scosse l’opinione pubblica del Paese: il fatto si svolse il 20 novembre del
1945 alla cascina Simonetto di Villarbasse, a una ventina di chilometri da Torino, nel corso di una rapina
compiuta da quattro uomini, dieci persone vengono
massacrate a colpi di bastone e gettate ancora vive in
una cisterna, dove morirono dopo una lunga ed atroce
agonia. La rapina fruttò la somma di 100mila lire, qualche gioiello e dei salami. I responsabili del crimine
vennero arrestati dai Carabinieri e condannati a morte.
La pena venne eseguita all’alba del 4 marzo 1947 a
Torino alle Basse di Stura. Fu l’ultima condanna capitale della storia italiana. La pena di morte infatti sarà
definitivamente cancellata dalla Costituzione che
entrerà in vigore il 1° gennaio dell’anno dopo. Proprio
in previsione di questa scadenza, nel corso del 1947
tutte le condanne a morte erano state sospese, ad eccezione di questa in quanto il gesto criminale compiuto
era stato troppo orribile, tanto che la domanda di grazia
Temi Romana
L’Avvocato nel cuore
De Nicola era un “Avvocato” e tale rimase nel cuore. Il
suo studio a Napoli era il suo vero regno: là cercò sempre di tornare. Come avvocato De Nicola fu brillantissimo a cominciare dal processo che vide coinvolto il
sindaco di Napoli Celestino Summonte. Aveva un’oratoria forte ed equilibrata che si può riassumere nella
frase “Colui che dice bene il maggior numero di cose
col minor numero di parole”. Un parlare pubblico che
era più secco nei discorsi politici; più ornato nelle aule
di giustizia. Viene considerato come uno dei maggiori
avvocati penalisti italiani.
3
Saggi
Profili problematici circa una innovativa causa
di esclusione della responsabilità penale per colpa lieve
Sergio De Dominicis
Avvocato del Foro di Salerno
L
a disciplina di diritto processuale recata con il
decreto legge 13 settembre 2012 n. 158, convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre
2012 n. 189, sembra avere introdotto una originale e
innovativa causa di esclusione soggettiva della responsabilità penale per colpa lieve, lasciando tuttavia intatto il sistema risarcitorio innanzi al Giudice civile.
Agli operatori del diritto penale – Avvocati e Medici
legali – non resterà che dimostrare, nel processo penale, che il fatto penalmente illecito, cagionante, a causa
di una malpractice sanitaria, valutabile per le circostanze di fatto in cui si è verificato, un danno alla salute della persona non può che avere i connotati della
colpa lieve ossia il grado della colpa media; per poi
reclamare l’esenzione della responsabilità penale, ai
sensi dell’art. 3 del predetto decreto del 2012.
L’illecito astrattamente rilevante sul piano penale,
ancorché produttivo di un evento lesivo per la salute
della persona, non potrà implicare un verdetto di condanna ove si dimostri, in sede dibattimentale, che il
medico o l’equipe medica abbiano tenuto nella vicenda
dannosa un comportamento conforme alle c.d. linee
guida ed alle buone pratiche sanitarie, come accreditate dalla comunità scientifica ed omologate dal
Ministero della Salute1.
Com’è noto, le c.d. norme Balduzzi, introduttive dell’esonero della responsabilità sanitaria per culpa levis,
non sono state accolte favorevolmente dagli operatori
del diritto penale.
Infatti, ai sensi dell’art. 61, n. 3 e dell’art. 133 c.p. la
graduazione della colpa incide già “ordinariamente”
sull’erogazione della pena e sulla determinazione del
quantum punitivo.
Non è il caso di passare qui in rassegna i numerosi quid
problematici, versati da medici ed avvocati, al fine di
risolvere la questione che assume certamente rilievo
sul piano sistematico.
Basterà ricordare come, ad avviso dei primi commenta-
tori, la disciplina salvifica discendente dal decreto
Balduzzi era affetta da numerosi vizi ed errori tecnici,
di tale portata da farla considerare inapplicabile.
La soluzione è arrivata, molto opportunamente, dalla
giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione.
Con la sentenza n. 16237/013, della Quarta Sezione
penale (udienza del 29 gennaio 2013, Pres. Brusco,
Rel. Blaiotta) la Cassazione, a proposito della responsabilità medica modificata in tema di colpa lieve dalla
c.d. legge Balduzzi, ha affermato che «l’esercente la
professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida ed alle buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica non
risponde penalmente per colpa lieve».
Secondo la Suprema Corte, ai sensi dell’art. 3, comma
1, del D.L. 13.9.2012 n. 158, convertito, con modificazioni, nella legge 8.11.2012 n. 189, solo con la dimostrazione della colpa grave, sarebbe quindi sanzionabile l’illecito penale colposo.
Al di là delle considerazioni versate, in prima battuta,
da autorevoli studiosi2 va detto che la c.d. legge
Balduzzi conferisce agli operatori del processo penale
(Pubblici Ministeri, Avvocati e Medici legali), straordinarie occasioni di analisi e di confronto sulle singole
fattispecie penalistiche concernenti la responsabilità
medica.
Emerge, pertanto, il ruolo centrale del processo penale,
entro il quale i protagonisti avranno il dovere di confrontarsi fino in fondo.
Tanto più che la Corte Costituzionale, con ordinanza n.
295 del 2 dicembre 2013, ha dichiarato la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del predetto art. 3 “per non sussistenza della
rilevanza della questione”.
Va detto, incidentalmente, che la citata sentenza n.
16237 della IV Sez. penale della Cassazione costituisce
una pietra miliare in tema di responsabilità sanitaria,
anche per la magnifica ricostruzione storica della giuri4
Temi Romana
Saggi
sprudenza in materia.
E, tuttavia, la linea di demarcazione tra la colpa normale e la colpa professionale, ovverossia tra la culpa levis
e la culpa lata non è facile da ritrovare, siccome tutte le
possibili differenziazioni sembrano messe in crisi da
due norme del codice civile.
Innanzitutto dal secondo comma dell’articolo 1176,
che recita: “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività
esercitata”.
L’altra norma civilistica, che integra la nozione di colpa
grave, è offerta dall’articolo 2236, il quale stabilisce
che «se la prestazione implica la soluzione di problemi
tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non
risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa
grave».
Si pone, invero, il problema di definire la colpa grave e
di differenziarla dalla colpa lieve, almeno in via astratta e generale.
Ed infatti, è proprio il predetto articolo 2236 del Codice
Civile che, nel fare riferimento esplicito ad attività professionali di elevata complessità pone l’esigenza di
ricavare la nozione di colpa grave, quale genus della
colpa professionale e di rapportarla alla natura della
concreta prestazione ed alla particolare complessità
della stessa.
Può dirsi subito che per le prestazioni professionali di
carattere tecnico-scientifico, come quelle mediche, ai
sensi degli articoli 1176 e 2236 c.c., non sembra esserci molto spazio per la colpa media ma solo per la colpa
grave. Una colpa media in se è irrilevante: non solo
perché è facilmente coperta da polizza di assicurazione
ma perché, come proclama il decreto Balduzzi, può
costituire una esimente sul piano penale.
È la colpa grave quella che scatena le giuste preoccupazioni dei medici.
Peraltro, come noto, ai sensi dell’articolo 42 c.p., l’illecito penale colposo viene caratterizzato da due proposizioni esplicative della “colpa generica” e della
“colpa specifica”.
Difatti nella norma si afferma che il delitto è colposo
quando l’evento, anche se previsto, non è voluto e si
verifica a causa di negligenza, imprudenza ed imperizia (colpa generica) ovvero per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini e discipline (colpa specifica).
Temi Romana
Ed ancorché i reati colposi contro la persona siano molteplici – fatta ovviamente esclusione per le contravvenzioni ove la colpa costituisce la regola base – appare
opportuno rammentare che il codice penale prevede,
specificatamente, le fattispecie tipiche dell’omicidio
colposo (art. 589 c.p.) e delle lesioni personali colpose
(art. 590 c.p.), cui devono aggiungersi le altre ipotesi
specifiche di lesioni alla persona, disciplinate dall’art.
582 c.p., cioè quelle lievi, se la malattia ha durata non
superiore a 20 giorni, e quelle gravissime, se la malattia ha durata permanente, ai sensi dell’art. 583 c.p..
Si ricorda come, con la legge n. 24 del 1963 venne
riformato l’art. 582 c.p. e scomparvero le c.d. lesioni
gravi, cioè quelle con prognosi non superiori a 40
giorni.
Orbene, sia nell’omicidio colposo sia nei reati per
lesioni colpose l’evento è disvoluto e si verifica per una
delle cause previste dal suindicato articolo 42 c.p.; nel
senso, cioè, che l’evento lesivo è contro l’intenzione,
ancorché prevedibile ed, altresì, evitabile (ipotesi della
colpa cosciente).
Se, quindi, questa breve rassegna introduttiva viene
calata nella problematica della responsabilità medica e
si affronta, altresì, il thema della esenzione della
responsabilità penale, in virtù dell’art. 3 del decreto
Balduzzi, emerge, per altri profili, un dato di grande
importanza scientifica e pratica: la colpa civilistica
attribuibile al medico dagli articoli 1176 e 2236 c.c. è
esclusivamente colpa grave; cioè, colpa non solo
cosciente, ma colpa in concreto, contraria alle linee
guida ed alle buone regole della professione sanitaria,
che si ritengono esigibili nel caso di una infermità
oggetto di trattamento medico-chirurgico in ambito
ospedaliero.
Inserendo il quadrante della responsabilità per colpa
grave dentro il sistema penale, emerge che il tasso di
colpevolezza (colpa lieve, grave, gravissima, cosciente
o incosciente) attiene alla misura della punibilità del
reo e, quindi, all’applicazione della pena in relazione
al particolare comportamento dell’imputato, come può
dedursi dall’articolo 133 c.p. e dall’art. 61 n. 3 c.p..
In altri termini, nel processo penale il grado o la gravità della colpa è funzionale alla erogazione della pena e
alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato.
Mentre nel diritto civile il medico andrebbe esente da
responsabilità se non abbia agito con colpa grave, nel
5
Saggi
Ci si chiede se queste aperture della giurisprudenza di
legittimità siano da preludio ad un indirizzo consolidato sulla responsabilità medica, in modo da affermare la
gradualità della colpa nelle fattispecie penali, ancorché
caratterizzate sul piano positivo da un unico grado di
colpa.
Si tratterà di riconoscere se la colpa professionale
possa integrare una fattispecie penale il cui precetto
sia in bianco, ed ove l’integrazione offerta dal contributo della medicina legale possa rappresentare una
sorta di “colpa multigraduale”; cioè, una colpa media,
o in concreto, che sia l’unica esigibile nella particolare
circostanza in cui si è verificata e che sia accertabile
dentro il processo penale.
Il nodo da sciogliere sta, quindi, nell’offrire una visione dinamica della colpa lieve i cui confini con la colpa
grave dovrebbero essere individuati in concreto, rappresentando una colpa medica unitaria concreta e non
astratta e, comunque, vicina alla verità storica dei fatti
illeciti portati in contestazione.
Bisognerà misurarsi nel processo penale, allora, e valutare la fattispecie illecita dentro il contesto organizzativo e, quindi, fare emergere la giusta valutazione sul
tasso di colpevolezza.
Il criterio rilevante sul piano dell’esonero della responsabilità penale per illecito colposo risiede, a nostro
avviso, nella rappresentazione di una colpa unitaria e
“multigraduale”, ove la misura della gravità emerga
dall’analisi della fattispecie in concreto e dal riscontro
del comportamento effettivamente tenuto dal medico.
Ed, invero, se si volesse passare in rassegna la più
recente giurisprudenza della Cassazione in tema di
responsabilità medica verrà ad emersione un dato, forse
inaspettato, ma assolutamente oggettivo: risulta impossibile una definizione teoretica della colpa specifica
del medico. Occorrerà, perciò, partire dal concetto di
colpa media o multigraduale per costruire quella fattispecie di esonero della responsabilità penale disciplinata dal decreto Balduzzi.
Del resto, dall’Ordinanza della Corte Costituzionale n.
295/2013 del 2 dicembre 2013, che ha dichiarato la
manifesta inammissibilità della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 3 del D.L. 13 settembre 2012 n.
158 si vedrà che la Corte, in qualità di Giudice delle
leggi e della loro conformità a Costituzione, ha respinto la problematica devolutagli dal Tribunale di Milano
diritto penale la stessa colpa, se lieve, opererebbe come
scriminante soggettiva e, quindi, come causa di esclusione della responsabilità penale3.
C’è, pertanto, una asincronia tra sistema civile e sistema penale, ancorché, il problema della colposità dell’illecito sanitario sia unitario.
Tutti gli studi sull’illecito colposo, riguardanti la
responsabilità medica, concordano nell’affermare che
non esiste un unico modello di colpa, ma che esso vada
rapportato alla fattispecie illecita ed al rapporto di causalità tra prestazione medica ed evento lesivo. La colpa
in concreto, richiamando comportamenti negligenti
ossia prestazioni connotate da imperizia o imprudenza,
risulta rappresentare il concreto riferimento alla complessità della malattia del paziente e, quindi, ad argomentazioni al di fuori della dialettica specificamente
penalistica, ed in quanto tali flessibili.
Ma andiamo con ordine.
La disposizione affermativa dell’esonero della responsabilità medica in sede penale delimita la scriminante
soggettiva all’ipotesi della colpa lieve, fermo restando
il rispetto delle linee guida, accreditate dal mondo
scientifico ed omologate presso l’Autorità Ministeriale,
nonché delle buone pratiche medico-chirurgiche generalmente accettate dalla comunità scientifica.
Orbene, la proposizione contenuta nel D.L. n. 158 del
2012 faceva esplicito riferimento agli articoli 1176 e
2236 c.c., mentre nella legge di conversione il quadro è
stato cambiato.
Secondo alcuni si è trattato di un travisamento del concetto di colpa medica nella fase di conversione del
decreto Balduzzi, considerando che la gravità della
colpa nel processo penale incide sulla misura della sanzione, ai sensi dell’art. 61 n. 3 c.p. e dell’art. 133 c.p..
Secondo altri autori, si è voluto affidare al Giudice un
ambito evolutivo e creativo più ampio ed elastico nel
sistema del c.d. diritto vivente?
In passato non sono mancate nella giurisprudenza della
Corte di Cassazione aperture verso soluzioni empiriche
ed evolutive, a condizione che fossero comunque
rispettate le c.d. linee guida (Cass. n. 4391 del 2011).
Di recente, la IV Sezione Penale della Corte di
Cassazione ha dichiarato l’abolitio criminis per la
colpa lieve del medico, ai sensi dell’art. 3 della legge
Balduzzi n. 189 del 2012, con motivazioni prudenziali
e di notevole spessore creativo4.
6
Temi Romana
Saggi
Secondo la Corte di Cassazione (Sezioni penali) la
norma civilistica indicata all’art. 2236 c.c. può, dunque, essere presa in considerazione, anche nel processo
penale, quando ricorrono le condizioni per affermare
che il medico si sia trovato ad affrontare prestazioni
professionali in condizioni di emergenza e con problemi di particolare difficoltà tecnica.
Si tratterebbe, dunque, dell’applicazione nel processo
penale di una norma extrapenale perché ricorrono le
condizioni dell’integrazione tipiche della c.d. norma
penale in bianco (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n.
166 del 28 novembre 1973; Corte di Cassazione, Sez.
IV Penale, n. 39592 del 21 giugno 2007; Cass. Sez. IV
Pen. n. 16328 del 5 aprile 2011; idem, n. 4391 del 22
novembre 2011: ex amplius, Cass. Sez. IV Pen. n.
16237 del 29 gennaio 2013).
Conclusivamente si può dire che si riscontra nella giurisprudenza penale di legittimità un importante filone
d’indirizzo orientato ad applicare nel processo l’art.
2236 c.c., a condizione che ricorrano, de facto, quelle
condizioni di imprevedibilità ed inevitabilità specifiche
dell’emergenza medica e che sussistano tutti gli altri
presupposti che tendano a legittimare l’applicazione
della scriminante prevista dal decreto Balduzzi.
Il concetto di colpa lieve va, quindi, calato nel processo e nei suoi complessi profili scientifici, che solo
un’autorevole consulenza medico-legale è in grado di
svelare e porre in evidenza.
Proprio la più recente giurisprudenza della Cassazione
penale ha posto in nuova luce le linee guida accreditate ed omologate, rapportandole alla teoria dell’esigibilità e della colpa in concreto nel giudizio di responsabilità penale.
Ad esempio, le ragioni dell’urgenza, le situazioni complessive della struttura ospedaliera, lo sciopero del personale ed altre concrete condizioni di emergenza potrebbero essere tali da fare emergere la colpa lieve o media
quale scriminante soggettiva negli illeciti colposi.
Invece, si può aggiungere che l’immotivato distacco
delle linee guida potrebbe, altresì, determinare l’emersione della colpa grave.
In conclusione, si può affermare che, qualora il medico
abbia rispettato con diligenza e competenza quelle
linee di buona pratica, potrebbe sostenersi che negli
illeciti colposi venga ad emersione solo la colpa lieve
che costituisce ora esimente e condizione di non puni-
non per motivi sostanziali, bensì per questioni formali.
Infatti, la Corte ha denunciato il vizio della mancanza
di rilevanza della questione, così come enunciata dal
Giudice a quo, reputandola insussistente.
Così facendo, la Corte Costituzionale non ha deciso
sulla questione della non manifesta infondatezza e,
quindi, sull’eventuale contrasto dell’articolo 3 della
legge Balduzzi con varie norme e principi costituzionali, tra cui il principio di tassatività della norma penale,
la finalità rieducativa della pena, la violazione del
principio di ragionevolezza e la disparità di trattamento tra operatori sanitari.
La Corte Costituzionale non ha, cioè, potuto sciogliere
la contraddizione tra l’abolitio criminis per colpa lieve,
come introdotta dall’art. 3 del decreto Balduzzi, ed il
presunto contrasto con i principi di ragionevolezza e di
tassatività della fattispecie penale, siccome è noto che
non esiste una definizione astratta del concetto di colpa
grave, così come non esiste una esposizione teorica
della colpa lieve.
Inoltre, il ruolo giocato dalle linee guida e dalle buone
pratiche accreditate dalla comunità scientifica accresce
l’imprecisione e l’indeterminatezza perché esse contengono soltanto regole di perizia, senza fare alcun
cenno ai comportamenti che potrebbero ritenersi, in via
astratta, negligenti o infondati.
Peraltro, come è stato opportunamente osservato, il
decreto Balduzzi sembra avere spostato l’ambito di
analisi dal tema dell’intensità della colpa lieve o grave,
quale misura per graduare la sanzione ex art. 133 c.p.,
alla linea di discrimine tra esistenza o inesistenza del
reato colposo.
La colpa penale assumerebbe, quindi, una duplice configurazione: di strumento di valutazione della pena da
erogare e, nei casi di osservanza delle linee guida e
delle buone pratiche accreditate, di causa di non punibilità dell’illecito colposo.
Quindi, è possibile affermare che la disposizione abolitiva della responsabilità penale ha molto valorizzato la
portata e l’applicazione delle linee guida accreditate
dalla comunità scientifica.
Ma tutto ciò deve essere provato e dimostrato dentro il
processo a dibattimento pieno!
Ed, invero, prima del decreto Balduzzi la buona pratica
clinica non costituiva il valore scriminante che oggi gli
viene riconosciuto5.
Temi Romana
7
Saggi
bilità penale.
A nostro avviso, tuttavia, sembra indispensabile affrontare l’agone del processo penale dibattimentale attra-
verso il quale sarà possibile provare l’emersione della
colpa lieve ed invocare, quindi, l’abolitio criminis della
legge Balduzzi.
_________________
1 Scritti contenuti nel “Manuale di diritto sanitario” a cura di R. BALDUZZI e G.
CARPANI, Bologna, il Mulino, 2013.
2 Cfr. G.L. GATTA, Diritto penale contemporaneo, 2013, Pres. Sezione Corte
dei Conti, dott. Sergio Auriemma, convegno su Gestione del rischio in anatomia patologica, Roma 25.6.2014.
3 In mancanza di una specifica giurisprudenza in materia si ritiene che
l’articolo 3 della legge Balduzzi n.
189 del 2012 abbia prevalente carattere processuale, siccome la colpa lieve
può emergere solo nel giudizio dibattimentale e non anche nel giudizio
abbreviato o in quello patteggiato ex
8
art. 444 c.p.p..
4 È proprio la giurisprudenza sulla
colpa in concreto che conferma l’orientamento cui aderiamo (cfr. nota n. 3).
5 Scritti nel volume La responsabilità
del medico, a cura di L. D’APOLLO,
Torino, Giappichelli, 2012.
Temi Romana
Saggi
La differenziazione trattamentale per ragioni di sicurezza
e i circuiti penitenziari
Iole Falco
Commissario di Polizia Penitenziaria
N
sospensione delle normali regole trattamentali (sostanzialmente identica alla abrogata disciplina di cui all’art.
90 O.P). Il provvedimento ministeriale consente l’adozione di misure in deroga al regime ordinario che comportano la sospensione nei confronti dei detenuti o
internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo
del comma 1 dell’art. 4 bis O.P. e in relazione ai quali
vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di
collegamenti con un’organizzazione criminale, terroristica o eversiva, dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. Le modifiche apportate dalla Legge 94/2009 rispondendo
all’intento di spezzare ogni legame tra il carcere ed il
mondo esterno, allo scopo di isolare gli appartenenti ad
organizzazioni criminali per indebolire la loro posizione, hanno inciso in modo particolarmente pesante sul
contenuto del provvedimento sospensivo delle regole
trattamentali delineato nel co. 2 quater dell’art. 41 bis
O.P.. Le limitazioni in esso elencate dirette ad incidere
con forza sui rapporti esterni (riduzione del numero dei
colloqui con i familiari e i difensori, esclusione dei colloqui con terzi, riduzione della corrispondenza telefonica, visto di censura della corrispondenza epistolare)
rappresentano, dunque, uno strumento di politica criminale volto a neutralizzare la pericolosità sociale di
taluni detenuti e ad indurre scelte di rottura con l’organizzazione di appartenenza. Da quanto sopra detto è
palese che le restrizioni prescritte per legge ex art. 4 bis
co. 1 O.P., ovvero adottabili in forza di provvedimento
ministeriale ex art. 41 bis co. 2 O.P., nei confronti di
tale tipologia di detenuti, fuoriescono dalla logica propria delle finalità del trattamento ubbidendo ad una
ratio diversa, cioè quella di evitare il permanere dal
carcere di collegamenti associativi idonei a rappresentare un concreto rischio per la tutela della collettività,
nella particolare prospettiva “dell’ordine e della sicurezza pubblica”. La differenziazione dei regimi detentivi richiede per converso una corrispondente organizzazione degli istituti penitenziari in circuiti. Tale classificazione risponde a due fondamentali esigenze: la
ei primi anni ’90 alla recrudescenza della criminalità organizzata e, in particolare, ad alcuni
feroci attacchi alle istituzioni lo Stato rispose,
in materia penitenziaria, attraverso l’introduzione di un
vero e proprio “doppio binario trattamentale”: da un
lato, i condannati ordinari nei cui confronti continua ad
essere prevalente la finalità specialpreventiva e rieducativa della pena e ai quali, pertanto, è offerto un trattamento penitenziario ed extrapenitenziario funzionale
alla risocializzazione; dall’altro lato, i detenuti per i
delitti di maggiore allarme sociale, in relazione ai quali
appare necessario rafforzare le esigenze di prevenzione
generale e di neutralizzazione.
Dal 1991 in poi, infatti, per quest’ultima categoria di
detenuti, si afferma la necessità di procedere ad un trattamento e ad un regime differenziato, finalizzato a far
prevalere le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica su quelle direttamente connesse alla
sicurezza interna degli istituti. Tale esigenza di tutela si
è fatta strada in due diverse direzioni: da un lato, attraverso l’individuazione di un accesso differenziato ai
benefici e alle misure alternative, secondo le previsioni
introdotte dall’art. 4 bis O.P. e, dall’altro, attraverso la
sospensione in tutto o in parte, per taluni detenuti, delle
regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge
penitenziaria, mediante l’introduzione dell’art. 41 bis
co. 2 ad opera della Legge 356/92. A questa categoria
di detenuti, per i quali vige una presunzione assoluta di
pericolosità criminale o sociale, è preclusa o limitata la
concessione delle misure alternative alla detenzione
(fatta eccezione per la liberazione anticipata), dei permessi premio e del lavoro all’esterno, fruibili solo
mediante l’offerta della “collaborazione con la giustizia” qualificata ex art. 58 ter O.P.. Da qui, la necessità,
secondo il legislatore, di intervenire non solo nel settore delle misure alternative alla detenzione, ma anche in
quello del trattamento penitenziario, restringendo al
massimo le opportunità di contatto dei detenuti ex art.
4 bis O.P. con l’esterno. Per soddisfare tale esigenza, il
legislatore, con legge 356/92, ha introdotto nell’art. 41
bis un 2° comma relativo ad un’ipotesi particolare di
Temi Romana
9
Saggi
ficati A.S. che tiene conto dell’evoluzione del fenomeno criminale mafioso e delle corrispondenti scelte istituzionali di prevenzione e di contrasto (Circ. n. 20 del
9.1.2007). La circolare in parola prevede l’inserimento
nel circuito penitenziario A.S. per le seguenti tipologie
di detenuti:
a) imputati o condannati per i delitti previsti dal primo
comma, primo periodo dell’art. 4 bis O.P. (ad eccezione
di quanti siano detenuti per delitti commessi per finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di
violenza, ovvero per coloro che provengano dal circuito 41 bis O.P., per i quali permane la classificazione
come E.I.V.);
b) soggetti cui sia stata contestata l’aggravante specifica di cui all’art. 7 legge n. 203/91 rappresentata dall’essersi avvalsi delle condizioni previste dall’art. 416 bis
c.p. ovvero dall’avere agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose in esso indicate, i quali – a
differenza di quanto disposto in passato – rientrano a
pieno titolo, da un punto di vista sia normativo che funzionale, nell’ambito descritto dall’art. 4 bis O.P.;
c) soggetti detenuti per altri fatti cui sia stato contestato a piede libero uno o più reati previsti dall’art. 4 bis
O.P., ovvero nei cui confronti sia venuta meno l’ordinanza di custodia cautelare e soggetti imputati dei delitti previsti dall’art. 4 bis O.P. ma per tali reati scarcerati
solo formalmente per decorrenza dei termini di custodia
cautelare;
d) soggetti imputati o condannati per fatti non previsti
dall’articolo 4 bis né interessati dall’aggravante di cui
all’art. 7 legge 203/91.
Successivamente, con la Circolare n. 3619/6069 del
21.4.2009 l’Amministrazione Penitenziaria, per una
più razionale gestione dei detenuti, a vario titolo ritenuti omogenei per l’elevata pericolosità, ha provveduto
ad una rivisitazione dell’attuale assetto attraverso l’eliminazione del circuito E.I.V. e la conseguente adozione di un Nuovo circuito per detenuti Alta Sicurezza,
destinato ai detenuti e internati appartenenti ad organizzazioni criminali, siano esse di tipo mafioso o terroristico. La ratio del nuovo circuito A.S. rimane quella di
operare una separazione, all’interno degli istituti penitenziari, tra i detenuti comuni e quelli appartenenti a
consorterie di tipo mafioso o terroristico, in modo da
evitare ed impedire il verificarsi di fenomeni di assoggettamento, di reclutamento criminale o di strumentalizzazione a fini di turbamento della sicurezza degli
istituti. Pertanto, il nuovo circuito A.S. continua a svolgere il delicato compito di gestire i detenuti ed internati di spiccata pericolosità, prevedendo al proprio inter-
prima è, senza dubbio, quella di suddividere la popolazione detenuta in categorie omogenee, al fine di consentire una migliore applicazione del principio di individualizzazione del trattamento, atteso che tale diversificazione offre la possibilità di svolgere, in maniera più
adeguata, l’osservazione scientifica della personalità,
poiché essa viene in tal modo effettuata su persone con
delle affinità, dal punto di vista del percorso criminale.
L’altra esigenza, connessa alla sicurezza, è quella di
fondare la separazione dei detenuti sulla scorta della
loro tipologia, al fine di evitare influenze reciproche.
L’attuale assetto normativo relativo all’allocazione dei
detenuti, in ragione della pericolosità penitenziaria o
criminale da essi manifestata, ha subito, nel corso degli
anni, una profonda rivisitazione. La nozione di “circuiti penitenziari” venne introdotta per la prima volta nel
1993 con la Circolare DAP n. 3359/5809 del 21 aprile
1993 e ss. mm. e ii. del 6 giugno 1993 con la quale si
distinse tra:
1. circuito penitenziario di primo livello, destinato alla
c.d. Alta Sicurezza (A.S.), cioè ai detenuti più pericolosi, imputati o condannati per i delitti di cui agli artt. 416
bis c.p. (associazione di stampo mafioso), 630 c.p.
(sequestro di persona a scopo di estorsione) e 74 T.U.
309/90 (associazione finalizzata al traffico illecito di
sostanze stupefacenti o psicotrope). La rigorosa separazione di tali soggetti dalla restante parte della popolazione detenuta trova ragione nella caratteristica ad essi
comune di essere esclusi dalle misure alternative e dai
benefici penitenziari ex art. 4 bis O.P. e, contestualmente, nella pericolosità degli stessi connessa al tipo di
reato ed alla capacità di proselitismo e sopraffazione.
2. circuito penitenziario di secondo livello destinato ai
detenuti c.d. di Media Sicurezza (M.S.), cioè a coloro
che non rientrano né nel circuito A.S., né in quello a
custodia attenuata ossia alla maggioranza della popolazione detenuta.
3. circuito penitenziario di terzo livello, ossia di
Custodia Attenuata (C.A.) destinato alla popolazione
detenuta tossicodipendente con bassa pericolosità considerata più facilmente recuperabile.
Nel 1998 una nuova Circolare DAP n. 3479/5929 introdusse un quarto livello, vale a dire il circuito ad Elevato
Indice di Vigilanza (E.I.V.) destinato a quei detenuti
che, non avendo titolo di reato per essere inseriti nel
circuito A.S. e non essendo in alcun modo collegabili
con la criminalità organizzata, presentino, tuttavia, una
pericolosità talmente spiccata da far risultare inopportuno il loro inserimento nel circuito di media sicurezza.
Nel 2007 il DAP ha emanato una nuova circolare in
materia di assegnazione e gestione dei detenuti classi10
Temi Romana
Saggi
tori nelle fattispecie di cui all’art. 74 D.P.R. 309/90
e 291 quater D.P.R. 43/73. Invece, per quanto
riguarda coloro che hanno rivestito ruoli marginali
nell’ambito delle suddette fattispecie di reato, non è
ritenuto più coerente con le finalità del circuito alta
sicurezza continuare a mantenerli nel suddetto sottocircuito A.S.3, ma si prevede espressamente la
destinazione di tali soggetti al circuito di media
sicurezza, seguendo la procedura prevista dalla suddetta circolare in tema di declassificazione.
Come emerge dalla disamina delle circolari innanzi
citate, le modalità custodiali, definite in conseguenza
dell’istituzione dei circuiti penitenziari, sono state
modellate sulle esigenze dell’alta sicurezza, le cui
norme di assegnazione e di gestione sono state più
volte analiticamente dettagliate, mentre nessuna norma
specifica sulle modalità di gestione è stata invece dettata sul c.d. circuito di media sicurezza, sin dalla sua
introduzione avvenuta nel 1993. Su tale presupposto
l’Amministrazione è da ultimo intervenuta emanando
la recente Circolare DAP n. 0206745 del 30 maggio
2012 che, sviluppando il percorso già intrapreso dalla
precedente Circolare del 25 novembre 2011 ha disposto
la creazione di circuiti regionali ex art. 115 D.P.R.
230/2000, in cui la media sicurezza si caratterizzi per
un regime detentivo che preveda modalità custodiali
meno rigide e un progressivo aumento ed ampliamento
degli spazi e del tempo utilizzabili dai detenuti, per lo
svolgimento di attività trattamentali, destinando ove
possibile un istituto o un’intera sezione di questo totalmente a “regime aperto”. Si tratta dunque di un “altro”
modo di fare sorveglianza che sposta l’ago della bilancia dal controllo fisico ed asfissiante del soggetto
ristretto ad una sorveglianza c.d. “dinamica” che cioè
pone alla base della sua funzionalità non solo l’aspetto
giuridico-delinquenziale ma, innanzitutto, la “conoscenza” della persona detenuta, con riferimento alla sua
personalità e specificità caratteriale e di relazione.
no, tre differenti sottocircuiti, con medesime garanzie
di sicurezza ed opportunità trattamentali, cui sono dedicate sezioni differenti, nelle quali vengono contenute
altrettante tipologie di detenuti, tra le quali non vi è
possibilità di comunicazione. I primi due sottocircuiti
(A.S.1 ed A.S.2) sono dedicati ai detenuti di elevata
pericolosità provenienti dal vecchio circuito E.I.V., il
terzo (A.S.3) è dedicato ai detenuti già destinati
all’Alta Sicurezza. In particolare:
- nel sottocircuito A.S.1 sono inseriti i detenuti e gli
internati appartenenti alla criminalità organizzata di
tipo mafioso, nei cui confronti sia venuto meno il
decreto di applicazione del regime di cui all’art. 41
bis O.P.. L’inserimento in tale sottocircuito è ovviamente giustificato dall’essere detenuti o internati
per taluno dei delitti di cui al primo periodo del
primo comma dell’art. 4 bis O.P. e, comunque, per
essere stati considerati elementi di spicco e rilevanti punti di riferimento delle organizzazioni criminali di provenienza.
L’Amministrazione ritiene, dunque, opportuno che
tali soggetti, che hanno rivestito ruoli di primaria
importanza nelle organizzazioni criminali, vengano
ristretti separatamente dagli altri, ugualmente
appartenenti ad organizzazioni criminali, ma con
ruoli di minore rilievo, in modo da evitare influenze
nocive reciproche, anche in relazione alle possibili
attività di proselitismo, ed impedire, infine, sopraffazioni dovute alla differenza di spessore criminale;
- nel sottocircuito A.S.2 sono inseriti automaticamente i soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, mediante il compimento di atti di violenza;
- nel sottocircuito A.S.3 è inserita, infine, la popolazione detenuta ai sensi della cit. circolare n. 20 del
9.1.2007 nonché coloro che hanno rivestito ruoli di
capi, promotori, dirigenti, organizzatori e finanzia-
Temi Romana
11
Saggi
La truffa aggravata: profili processuali, giurisprudenziali e
rapporto con reati aventi struttura analoga
Roberta Mencarelli
Avvocato del Foro di Roma
L
a truffa è uno dei reati maggiormente denunciati dalle Forze di Polizia all’Autorità Giudiziaria
che ne hanno rilevato un aumento esponenziale
negli ultimi vent’anni: su 100.000 abitanti si è infatti
passati dalle 62 truffe del 1992 alle 159 del 2010 senza
contare che, secondo gli ultimi aggiornamenti Istat, le
truffe sono aumentate dal 2000 del 113,4% solo nel
Mezzogiorno1.
La truffa, già rilevante da un punto di vista quantitativo, assume rilevanza qualitativa per la molteplicità
degli aspetti giuridici, sostanziali e processuali, che si
prospettano all’attenzione dei soggetti del processo
penale quando si configura come truffa aggravata di cui
all’art. 640 cpv e 640 bis codice penale.
dotato dei poteri d’imperio della p.a. stante il riferimento della circostanza aggravante agli enti pubblici in
genere senza distinzione alcuna tra enti pubblici economici ed altri enti pubblici, ad esclusione degli enti originariamente pubblici ma successivamente privatizzati
come Enel, Eni, Telecom.
Enti pubblici sono anche le Aziende speciali istituite
dai Comuni per la gestione dei servizi pubblici costituite in particolare per la gestione di servizi pubblici economici ai sensi degli artt. 22 e 23 L. n. 142/1990.
Sulla nozione di ente pubblico sono recentemente
intervenute anche le Sezioni Unite della Suprema Corte
di Cassazione con la sentenza n. 6773 del 12.2.2014 le
quali hanno ulteriormente chiarito che “Ai fini della
sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art.
640, comma secondo, n 1, cod. pen. può parlarsi di
natura pubblicistica dell’ente concessionario se si
accerta che l’affidamento da parte di un ente pubblico
ad un soggetto esterno, da esso controllato, della
gestione di un servizio pubblico, integra una relazione
incentrata sull’inserimento del soggetto medesimo nell’organizzazione funzionale dell’ente pubblico, in
modo che la società concessionaria si configuri come
organo indiretto della p.a.. Ne consegue che, atteso il
rapporto strumentale tra enti, non potrebbe parlarsi di
danno all’ente partecipante quale mero effetto riflesso
della partecipazione societaria”.
Non è invece configurabile l’aggravante in parola con
riferimento ad una società per azioni incaricata della
gestione dei servizi comunali in quanto la natura eventualmente pubblica del servizio prestato assume rilievo
esclusivamente ai fini della qualifica dei soggetti agenti secondo la concezione funzionale oggettiva accolta
dagli artt. 357 e 358 c.p.4 ma non rileva ai fini della
natura pubblicistica dell’ente.
La seconda aggravante di cui al n.1 ricorre qualora il
fatto sia commesso «con il pretesto di far esonerare
taluno dal servizio militare».
Art. 640 cpv n. 1 c.p.
Il capoverso dell’art. 640 c.p. ai numeri 1), 2) e 2 bis)
prevede e disciplina tre circostanze aggravanti c.d.
oggettive che determinano un aumento della pena base
che passa da uno a cinque anni di reclusione e multa da
309 euro a 1.549 euro.
Si parla di circostanze aggravanti oggettive poiché si
tratta di circostanze che riguardano o le modalità dell’azione o le qualità del soggetto passivo.
La prima circostanza aggravante di cui al n. 1 ricorre «se
il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente
pubblico» (c.d. truffa in danno dello Stato) ed è un’aggravante ad effetto speciale in quanto la legge determina
la misura della pena entro una nuova cornice edittale in
modo indipendente da quella ordinaria del reato2.
Tale aggravante è stata concepita dal Legislatore nell’ottica di apprestare una tutela rafforzata al patrimonio
della p.a. e presuppone che lo Stato (o l’ente pubblico3)
assuma le vesti del soggetto direttamente danneggiato
dal fatto costituente reato a nulla rilevando, invece, il
destinatario diretto della condotta d’inganno.
Si deve precisare che nella nozione di ente pubblico
rientra anche l’ente pubblico economico anche se non
12
Temi Romana
Saggi
In merito, è necessario specificare che deve trattarsi di
un mero pretesto e che l’agente non deve aver fatto
nulla per ottenere l’esonero, totale o temporaneo, altrimenti troverà applicazione la normativa speciale sugli
illegittimi esoneri dal servizio militare o, in caso di
accordo col pubblico ufficiale, si configurerà il delitto
di corruzione.
Tale aggravante sussiste anche nell’ipotesi in cui il soggetto passivo aveva diritto all’esonero essendo sufficiente che l’agente dissimuli il suo vero proposito
facendo falsamente credere di potersi efficacemente
adoperare per far conseguire alla vittima l’esonero sperato anche se questi ignori di avervi diritto per le sue
condizioni fisiche o familiari o per altro motivo.
L’aggravante non trova invece applicazione nel caso in
cui il raggiro sia stato posto in essere dall’agente dopo
l’esonero del soggetto passivo dal servizio militare.
Ciò posto, si deve tuttavia osservare che, la circostanza
de qua, da sempre caratterizzatasi per la sua scarsa applicazione, è divenuta addirittura anacronistica nel momento in cui è venuto meno l’obbligo della leva militare ai
sensi dell’art. 7 D.Lgs. 8.5.2001 n. 215 e si potrebbe
considerare attuale soltanto nel caso in cui si ritenga che
l’esonero riguardi anche un servizio volontario e, quindi,
il caso di fine anticipata della ferma volontaria.
reato di estorsione.
Quanto alla prima aggravante, si osserva che il criterio
distintivo tra il reato di truffa commesso ingenerando
nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario e il reato di estorsione va individuato, così come
pacificamente ammesso in giurisprudenza5, nel diverso
atteggiamento psicologico dei soggetti passivi nel sottomettersi all’ingiusto danno.
Ed infatti, mentre il reato di truffa sussiste se il male
minacciato viene ventilato come possibile ed eventuale
e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, con la conseguenza che la
persona offesa si determina perché tratta in errore dall’esposizione di un pericolo inesistente, il delitto di
estorsione si ha quando il colpevole incute da solo o
con altri il timore di un pericolo che fa apparire certo e
proveniente da lui stesso o da altra persona a lui legata
da un qualunque rapporto, di tal ché la persona offesa
viene posta di fronte all’alternativa di adempiere all’illecita richiesta o di subire il male minacciato.
In merito invece alla distinzione tra la seconda aggravante di cui all’art. 640 c. 2 n. 2) c.p. e l’estorsione, si
rileva che, a differenza dell’estorsione, nella circostanza aggravante in oggetto, l’ordine dell’Autorità non è
prospettato come dipendente dalla volontà o dal fatto
dell’agente, con la conseguenza che rimane in capo al
soggetto passivo l’illusione di agire liberamente pur se
la sua conoscenza è in realtà viziata dall’errore nel
quale è stato indotto.
Lo stesso criterio varrà a distinguere la truffa aggravata dalla concussione nel caso in cui l’agente sia un pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio.
Art. 640 cpv n. 2 c.p.
Il numero 2 del comma 2 dell’art. 640 c.p., a sua volta,
prevede due distinte circostanze aggravanti.
La prima ricorre nei casi in cui «il fatto è commesso
ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario».
Posto che per pericolo immaginario deve intendersi
tutto ciò che è effetto dell’immaginazione ed esiste solo
in essa senza alcun fondamento della realtà, si ritiene
che la ratio dell’aggravante in oggetto risieda nella
natura particolarmente insidiosa de facto di chi fa percepire all’offeso un timore di un pericolo che non sussiste specie perché il più delle volte costui versa in una
situazione psicologica più debole rispetto all’agente.
La seconda aggravante ricorre nei casi in cui «il fatto
sia commesso ingenerando nella persona offesa l’erroneo convincimento di dover eseguire un ordine dell’Autorità».
Tanto con riferimento alla prima che alla seconda si
pone la necessità di operare una distinzione rispetto al
Temi Romana
Art. 640 n. 2 bis c.p.
Infine, il numero 2 bis, introdotto con l’art. 3, 28° co.,
L. 15.7.2009, n. 94, ha previsto l’aggravante comune
della c.d. minorata difesa, ossia l’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo e di persona, anche in riferimento all’età, tali da ostacolare la pubblica o privata
difesa (art. 61, n. 5 c.p.).
Trattasi di un’aggravante speciale e ad effetto speciale
del delitto di truffa che determina un inasprimento della
risposta sanzionatoria anche dal punto di vista della
applicabilità della disciplina dettata dall’art. 63, c. 3 e 4
in caso di concorso di circostanze.
Ed infatti l’art. 63 c. 3 c.p. prevede che “Quando per
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Saggi
della politica economica comunitaria e nazionale, al
fine non soltanto di adempiere agli impegni che gli
derivavano dai trattati europei (articoli 5 e 280 del
Trattato di Roma, così come modificato dal Trattato di
Amsterdam), ma anche per rispondere alle pressioni
dei partners comunitari, preoccupati del dilagare di tali
tipi di frodi e del coinvolgimento crescente in questa
pratica della criminalità organizzata.
Tuttavia, tale fattispecie ha visto sollevarsi un acceso dibattito in merito alla sua natura fin dalla sua introduzione.
Ci si chiedeva cioè se la stessa configurasse una circostanza aggravante della truffa o fosse al contrario una
fattispecie autonoma di reato.
Il dibattito ha visto l’intervento delle Sezioni Unite
della Suprema Corte attesa la notevole rilevanza pratica della questione.
Ed infatti, configurare in termini di reato autonomo o di
circostanza aggravante la fattispecie dell’art. 640 bis
c.p. rileva in ordine alla esperibilità o meno del giudizio
di bilanciamento delle circostanze che, ai sensi dell’art.
69 c.p., può essere effettuato in caso di concorso tra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti ed influisce
così sulla determinazione della pena.
La distinzione assume rilievo, seppure meno importante, anche agli effetti del concorso di persone nel reato,
applicandosi gli artt. 116 e 117 ovvero l’art. 118 c.p., a
seconda che si adotti l’una o l’altra opzione.
Molteplici erano gli elementi che la dottrina richiamava a sostegno dell’una e dell’altra tesi7.
In favore della configurabilità della fattispecie de qua
quale circostanza aggravante militavano due elementi:
la rubrica dell’articolo 640 bis c.p. (“truffa aggravata…”) e il richiamo esplicito operato dallo stesso articolo al fatto descritto dall’art. 640 c.p..
Secondo questa impostazione, pertanto, la truffa aggravata sarebbe costituita dagli stessi elementi della truffa
(identità della struttura della condotta e dell’evento),
fatta salva la specialità inerente all’oggetto della frode
che consiste in «contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazione dello stesso tipo».
A favore invece della configurabilità in termini di fattispecie autonoma di reato venivano addotti i seguenti
elementi:
- la collocazione della presunta circostanza fuori dal
luogo “naturale” della aggravanti di truffa che è,
come sopra illustrato, il capoverso dell’art. 640 c.p.;
una circostanza la legge stabilisce una pena di specie
diversa da quella ordinaria del reato o si tratta di circostanza ad effetto speciale, l’aumento o la diminuzione per le altre circostanze non opera sulla pena ordinaria del reato, ma sulla pena stabilita per la circostanza
anzidetta. Sono circostanze ad effetto speciale quelle
che importano un aumento o una diminuzione della
pena superiore ad un terzo”.
Ed il c. 4 “Se concorrono più circostanze aggravanti
tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo
articolo, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può aumentarla”.
La ratio di tale scelta normativa è da cogliere nella
volontà legislativa di rafforzare la tutela dei soggetti
più deboli stante anche e soprattutto il gran numero di
truffe perpetrate a danno di soggetti anziani.
Art. 640 bis c.p.
L’art. 640 bis c.p. rubricato “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” prevede che «la
pena è della reclusione da uno a sei anni e si procede
d’ufficio se il fatto di cui all’articolo 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee».
Tale norma è stata inserita dall’art. 22 della Legge 19
marzo 1990, n. 55 (“Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi
forme di manifestazione di pericolosità sociale”) per
rispondere alla diffusa preoccupazione, segnalata in
ambienti giudiziari e accademici, circa l’insufficienza
delle fattispecie incriminatrici comuni (mendacio bancario ex art. 95 l. n. 141/1938, falso in bilancio, ricorso
abusivo al credito ex art. 218 l. fall. e la truffa di cui
all’art. 640 c.p.) di far fronte all’ampliarsi del fenomeno della captazione fraudolenta di sovvenzioni pubbliche, nazionali e comunitarie6.
E sempre nella stessa ottica, il Legislatore ha introdotto con la Legge 26 aprile 1990, n. 86 anche la malversazione ai danni dello Stato (art. 316 bis c.p.).
In tal modo il nostro Legislatore del 1990 ha voluto
offrire una tutela penale agli interessi finanziari dello
Stato e della Comunità Europea incriminando sia la
fraudolenta captazione sia la indebita utilizzazione
delle sovvenzioni e dei contributi erogati, in attuazione
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Temi Romana
Saggi
- l’autonomia assoluta dell’entità della sanzione rispetto a quelle previste anche per le ipotesi aggravate;
- l’inutile (nel caso fosse, appunto, una circostanza
aggravante) previsione esplicita della procedibilità
d’ufficio, sulla base del contenuto dell’ultimo
comma dell’art. 640 c.p.;
- l’inconciliabilità con la lettera dell’art. 6 D.L. n.
152/1991 secondo cui, se il fatto è commesso da
soggetto sottoposto a misura di prevenzione, la pena
«per il reato di cui all’art. 640 bis c.p.» è aggravata
(è discutibile che si possa configurare l’aggravante
di un’aggravante).
Anche la giurisprudenza non era univoca.
Prima della pronuncia con cui le Sezioni Unite hanno
risolto il dibattito infatti, nelle diverse Sezioni della Corte
di Cassazione si era consolidato un indirizzo giurisprudenziale maggioritario (Cassazione Sezione II n.
11582/1998; n. 11077/2000; n. 2286/1999; n. 4240/1999)
che riteneva la truffa relativa ad erogazioni pubbliche fattispecie autonoma di reato8, mentre minoritaria (Cass.
Sez. II n. 4731/2000) risultava l’opzione giurisprudenziale che configurava la nuova fattispecie come circostanza
aggravante9.
Sicché, con sentenza del 10 luglio 2002, n. 26351 delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, il dibattito
veniva definitivamente risolto con il riconoscimento
della natura di circostanza aggravante della fattispecie
prevista dall’art. 640 bis c.p..
Nella citata sentenza, le Sezione Unite hanno individuato, nel criterio strutturale della descrizione del precetto penale, il criterio da seguire per accertare la
volontà legislativa in ordine alla qualificazione circostanziale o costitutiva della fattispecie di cui all’art.
640 bis c.p. «Nel caso dell’art. 640 bis la fattispecie è
descritta attraverso il rinvio al fatto-reato previsto nell’art. 640, seppure con l’integrazione di un oggetto
materiale specifico della condotta truffaldina e della
disposizione patrimoniale (le erogazioni da parte dello
Stato, delle Comunità europee o di altri enti pubblici).Una siffatta struttura della norma incriminatrice
indica la volontà di configurare soltanto una circostanza aggravante del delitto di truffa. […] È proprio la
struttura della fattispecie penale di cui all’art. 640 bis,
definita da un lato attraverso il richiamo degli elementi essenziali del delitto di truffa di cui all’art. 640 (artifici o raggiri, induzione in errore con conseguente
Temi Romana
disposizione patrimoniale, ingiusto profitto per l’agente o per altri, danno del soggetto passivo) e dall’altro
con l’introduzione di un elemento specifico (erogazioni
pubbliche) che è estraneo alla struttura essenziale
della truffa, a denotare la inequivoca volontà legislativa di configurare una circostanza aggravante e non un
diverso titolo di reato. La descrizione della fattispecie,
insomma, non immuta gli elementi essenziali del delitto di truffa, né quelli materiali né quelli psicologici, ma
introduce soltanto un oggetto materiale specifico – tradizionalmente qualificato come accidentale e cioè circostanziale – laddove prevede che la condotta truffaldina dell’agente e la disposizione patrimoniale dell’ente pubblico riguardino contributi, finanziamenti, mutui
agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo. Tra
reato-base e reato circostanziato intercorre quindi un
rapporto di specialità unilaterale, per specificazione o
per aggiunta, nel senso che il secondo include tutti gli
elementi essenziali del primo con la specificazione o
l’aggiunta di elementi circostanziali».
In definitiva, con la pronuncia in esame le Sezioni
Unite hanno risolto il contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità (a favore del riconoscimento della
natura circostanziale della fattispecie in oggetto) mettendo l’accento sul c.d. oggetto materiale specifico
della fattispecie descritta dall’articolo 640 bis c.p.:
«contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre
erogazioni dello stesso tipo»10, pur sempre tenendo
fermi i requisiti strutturali di cui all’art. 640 c.p..
Si deve tuttavia osservare che la soluzione prospettata
dalla Suprema Corte a favore della natura di circostanza aggravante della fattispecie, si discosta dalle intenzioni originarie del Legislatore dell’art. 640 bis c.p. che
ha inserito la figura criminosa de qua nell’ambito di un
contesto normativo (la Legge 19 marzo 1990, n. 55)
diretto a contrastare la delinquenza mafiosa e altre gravi
forme di pericolosità sociale allo scopo di colpire più
efficacemente un fenomeno delittuoso spesso, anche se
non esclusivamente, legato alla criminalità organizzata.
Ed invero, considerare la fattispecie di cui all’articolo
640 bis c.p. come circostanza aggravante, con la conseguente applicazione del bilanciamento delle circostanze eterogenee (quindi, anche circostanze attenuanti
generiche), rende di fatto vano l’intento originario del
Legislatore di potenziare la risposta sanzionatoria nei
casi di truffa aventi ad oggetto «contributi, finanzia-
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Saggi
menti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello
stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati
da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle
Comunità europee».
dello Stato.
Trattasi infatti di una fattispecie criminosa che, introdotta dalla Legge 26 aprile 1990, n. 86 a distanza di
pochissimo tempo dalla previsione di cui all’art. 640
bis c.p., aveva lo specifico scopo di fornire copertura
penale a tutte quelle condotte che, interessando la fase
successiva alla indebita percezione del denaro pubblico, sarebbero rimaste fuori dal raggio di operatività del
reato di truffa.
Una questione peculiare è poi rappresentata dai rapporti tra la truffa aggravata e la fattispecie di cui all’art. 2
Legge 23 dicembre 1986, n. 898, che punisce l’indebito conseguimento di sovvenzioni da parte del Fondo
Europeo per l’Agricoltura.
Sul punto, carattere decisivo ha assunto l’art. 73, Legge
19 febbraio 1992, n. 142 che ha apportato un’importante modifica alla predetta fattispecie consistente nell’aggiunta dell’inciso «ove il fatto non configuri il più
grave reato previsto dall’art. 640 bis c.p.».
Grazie a tale modifica infatti, il reato di cui all’art. 2 L.
898/86 ha assunto carattere sussidiario rispetto al reato di
truffa aggravata che si configurerà solamente in quelle
ipotesi in cui al mendace comportamento o ad una qualsiasi alterazione della realtà da parte dell’agente nello
svolgimento di attività finalizzate al conseguimento delle
indennità si associa un quid pluris costituito da particolari accorgimenti o speciali astuzie capaci di elidere le
comuni e normali possibilità di controllo degli organi
amministrativi preposti, tali da integrare l’elemento
oggettivo della truffa ovvero l’artifizio o il raggiro.
A tal proposito, si deve infatti considerare che, tutelando il reato di frode comunitaria un grado inferiore del
medesimo interesse tutelato dalla norma portante, quest’ultima assorbe in sé l’oggetto giuridico della norma
sussidiaria.
In tal senso numerose sono le conferme giurisprudenziali: Cass. Sez. II n. 7280 del 24.7.1997 secondo cui
“l’indebito conseguimento di contributi comunitari
mediante la mera esposizione di dati e notizie falsi è
sanzionabile dall’art. 2 L. 898/86 allorché il soggetto
si sia limitato semplicemente ad una esposizione menzognera di dati e notizie e non quando alle false dichiarazioni si accompagnino diversi ed ulteriori artifizi e
raggiri che integrano invece la truffa aggravata” e
ancora Cass. n. 4569/1998 e n. 11076/1999 “Ricorrre il
reato di truffa aggravata quando le condotte relative
Rapporto tra truffa aggravata e artt. 316 bis, 316 ter
e art. 2 L. 898/86
Risolta in termini di circostanza aggravante la querelle
sulla natura giuridica dell’art. 640 bis c.p., problemi si
sono posti con riferimento alle molteplici interferenze tra
il delitto di truffa aggravata (art. 640 cpv c.p. e 640 bis
c.p.) e gli altri reati aventi struttura analoga come l’indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316 ter
c.p.), la malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis
c.p.) e l’indebito conseguimento di sovvenzioni da parte
del Fondo europeo per l’agricoltura (art. 2 L. 898/96).
Con riferimento al rapporto con il reato di cui all’art. 316
ter c.p. (“indebita percezione di erogazioni pubbliche”),
si trattava di stabilire se gli artifici o raggiri tipicamente
necessari per l’integrazione del reato di truffa ricomprendessero, o meno, le condotte di omissione o falsa dichiarazione descritte dall’art. 316 ter c.p. e, conseguentemente, di inquadrare il ruolo che tale ultima norma rivestiva
all’interno dell’ordinamento penalistico in relazione alla
più severa previsione di cui all’art. 640 bis.
Si deve, altresì, considerare che il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche può configurarsi, a differenza di quello di cui all’art. 640 bis c.p., anche in
difetto di un’induzione in errore da parte dell’agente,
ossia in quelle ipotesi in cui l’erogazione non dipenda
da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da
parte dell’erogatore che si rappresenta unicamente
l’esistenza della formale dichiarazione del richiedente.
Secondo giurisprudenza consolidata ed oggi determinante (Sezioni Unite del 19 aprile 2007 n. 16568), detto
rapporto deve intendersi in termini di sussidiarietà e non
di specialità, con la conseguenza che il residuale e meno
grave delitto disciplinato dall’art. 316 ter c.p. si configurerebbe solo quando difettino gli estremi della truffa.
Di tal ché, alla luce di tale orientamento, l’ambito di
operatività dell’indebita percezione di erogazioni pubbliche rimarrebbe circoscritta a situazione del tutto
marginali.
Sempre in termini di sussidiarietà è da considerare il
rapporto tra la truffa aggravata e il reato di cui all’art.
316 bis c.p., ossia il reato di malversazione a danno
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Temi Romana
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ne (o assorbimento) per il quale è sufficiente l’unità normativa del fatto (desumibile dall’omogeneità tra i fini
dei due precetti) ai fini dell’assorbimento dell’ipotesi
meno grave in quella più grave, escludeva che tra le due
fattispecie criminose operi il principio di specialità.
Un terzo orientamento, poi, sempre escludendo un rapporto di specialità tra i reati in questione, ammetteva il
concorso tra loro in considerazione della eterogeneità
delle fattispecie sia rispetto al bene giuridico tutelato
che rispetto alle modalità di consumazione, non occorrendo per la frode fiscale l’induzione in errore della
amministrazione finanziaria né l’ingiusto profitto, che
sono invece elementi costitutivi della truffa.
Questo terzo orientamento consentiva nella prassi di
applicare il sequestro preventivo per equivalente tanto
nei confronti delle persone sottoposte ad indagini in
forza dell’art. 640 c.p. quanto nei confronti degli enti
per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato ai
sensi degli artt. 24 e 53 del D.Lgs. n. 231/2001.
L’esistenza, infatti, di un disallineamento normativo
(venuto meno in forza della Legge Finanziaria 2008
che ha esteso ai reati tributari l’applicabilità della confisca per equivalente) precludeva l’attivazione di questa misura reale rispetto alle fattispecie rientranti nel
D.Lgs. n. 74/2000 e, conseguentemente, alimentava
l’orientamento volto a sostenere la compatibilità tra le
violazioni di frode fiscale e truffa ai danni dello Stato.
Ad oggi, comunque, si deve rilevare che le disposizioni
in materia penale tributaria non costituiscono reato-presupposto per la responsabilità amministrativa degli enti.
Risolutive sono state ancora una volta le Sezioni Unite
della Cassazione che con la sentenza del 28 ottobre 2010
n. 1235 hanno così argomentato: «il raffronto fra le fattispecie astratte evidenzia che la frode fiscale è connotata
da uno specifico artifizio, costituito da fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti. Una volta chiarito
che la condotta di cui alla frode fiscale è una specie del
genere “artifizio”, non si può far leva, per affermare la
diversità dei fatti, sugli elementi danno e profitto, giacché
questi dati fattuali di evento non possono trasformare
una tale situazione di identità ontologica dell’azione in
totale diversità del fatto. […] sia l’induzione in errore
che il danno sono presenti nella condotta incriminata dal
reato di frode fiscale, posto che alla presentazione di una
dichiarazione non veridica si accompagna normalmente
il versamento di un minor (o di nessun) tributo e genera,
alla semplice esposizione di dati e notizie false sono
congiunte a malizie ulteriori quali simulazione di compravendita, trasporti inesistenti con relative bolle di
accompagnamento e fatture che attengono ad operazioni commerciali inesistenti dirette all’induzione in
errore del soggetto passivo onde conseguire indebitamente aiuti comunitari”.
Alla luce di quanto illustrato, pertanto, posto che in alcun
modo può ammettersi la configurabilità di un concorso
tra la truffa aggravata e i reati che, come visto, hanno,
rispetto a quest’ultima, natura sussidiaria e residuale, si
parlerà in questi casi di concorso apparente di norme in
quanto il confluire di più norme incriminatrici nei confronti di un medesimo fatto non è reale con la conseguenza che, in luogo di configurarsi un concorso di reati, si ha
unicità di reato essendo una sola la norma incriminatrice
veramente applicabile all’ipotesi di specie.
Rapporto tra truffa aggravata e frode fiscale
Ha suscitato un vivo interesse in giurisprudenza anche
il tema del concorso della truffa aggravata con la frode
fiscale.
Sul rapporto tra l’art. 640 bis c.p. e la frode fiscale, è
intervenuta la Corte di Cassazione dapprima con la sentenza n. 34546/2009 successivamente confermata dalla
sent. Sezione Unite n. 1235/2010 la quale ha sancito che
“il delitto di frode fiscale può concorrere attesa l’evidente diversità del bene giuridico protetto con quello di
truffa comunitaria purché allo specifico dolo di evasione si affianchi una distinta ed autonoma finalità extratributaria non perseguita dall’agente in via esclusiva”.
Rilevante è stato il contrasto giurisprudenziale, risolto
sempre con la pronuncia a Sezioni Unite della Suprema
Corte di Cassazione (sentenza 28 ottobre 2010, n.
1235), sulla questione concernente la configurabilità o
meno di un concorso tra i reati di frode fiscale (artt. 2 e
8 del D.Lgs. n. 74/2000) e di truffa aggravata ai danni
dello Stato (art. 640, co. 2, n.1, c.p.).
In merito, un primo orientamento riconosceva un rapporto di specialità tra la truffa aggravata e i reati di
frode fiscale (artt. 2 e 8 D.Lgs. n. 74/2000) e concludeva nel senso che l’unica fattispecie che può formare
oggetto di contestazione è quella prevista dalla disciplina tributaria.
Un secondo orientamento giurisprudenziale, invece,
facendo leva sull’operatività del principio di consunzio-
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Saggi
all’art. 640, co. 2, n. 1 c.p. e agli artt. 2 e 8 del D.Lgs.
n. 74/2000.
L’unico margine riconosciuto al concorso formale di
reati è circoscritto all’ipotesi in cui accanto alla finalità tributaria si ponga, nella condotta dell’agente, una
finalità extratributaria preordinata al conseguimento di
contributi od altre sovvenzioni pubbliche: in questo
caso l’alterità dei fini giustifica una sovrapposizione di
imputazioni altrimenti inammissibile.
Sul punto, di recente, la Corte di Cassazione, III Sez.
Penale, con sentenza del 15 gennaio 2013 n. 10580, ha
ulteriormente specificato che «il discrimen tra concorso apparente di norme e concorso di reati non è da ravvisarsi nella tipologia di artifizi e raggiri posti in essere dagli indagati, bensì nel tipo di profitto che,
all’agente, la condotta criminosa apporta».
Profitto che, ai fini della configurabilità di un concorso
di reati, deve essere comprensivo dell’evasione fiscale
ma contemporaneamente ulteriore rispetto a quest’ultima (profitto extratributario).
in prima battuta e nella fase di liquidazione della dichiarazione, un’induzione in errore dell’Amministrazione
finanziaria e un danno immediato quanto meno nel senso
del ritardo nella percezione delle entrate tributarie […].
Il sistema sanzionatorio in materia fiscale ha una spiccata specialità che lo caratterizza come un sistema chiuso e
autosufficiente, all’interno del quale si esauriscono tutti i
profili degli interventi repressivi, dettando tutte le sanzioni penali necessarie a reprimere condotte lesive o potenzialmente lesive dell’interesse erariale alla corretta percezione delle entrate fiscali», dichiarando, infine, il
seguente principio di diritto: «i reati in materia fiscale di
cui al Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74, articoli
2 e 8, sono speciali rispetto al delitto di truffa aggravata
a danno dello Stato di cui all’articolo 640 c.p., comma 2,
n. 1».
Le Sezioni Unite, quindi, hanno fatto ricorso al principio di specialità, a discapito di quello di consunzione,
quale direttrice per dirimere la questione relativa al
concorso apparente delle norme incriminatrici di cui
_________________
1 ISTAT, Rapporto annuale 2012 – La situazione del Paese, pag. 151.
in I delitti contro il patrimonio, Torino, Utet
Giuridica, 2011, Parte Vol. X, p. 593.
2 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto Penale,
Padova, CEDAM, 2011, p. 407.
7 ARIOLLI, La truffa per il conseguimento di
erogazioni pubbliche è aggravante dell’art. 640
c.p., in Cass. Pen., 2002, p. 3378; BARTOLI,
Truffa aggravata per conseguire erogazioni
pubbliche: una fattispecie davvero circostanziale?, in Dir. Pen. Proc., 2003, p. 302 e
ss., FABBRO, Truffa per il conseguimento di
erogazioni pubbliche: davvero una circostanza
aggravante?, in Cass. Penn., 2003, p. 2322;
Terracina, La truffa per il conseguimento di
erogazioni pubbliche ed il ruolo del bene
giuridico nelle fattispecie di reato, in Indice
Pen., 2003, p. 667 e ss.
3 Per ente pubblico deve intendersi, inoltre,
l’ente pubblico economico, anche se non
dotato dei poteri di imperio propri dell’attività della p.a., purché non si tratti di enti –
originariamente pubblici ma successivamente – privatizzati, come Enel, Eni,
Telecom, ecc.. Sono, invece, da considerarsi enti pubblici le Aziende speciali comunali costituite per la gestione di servizi pubblici economici ai sensi degli artt. 22 e 23
L. n. 142/1990.
4 Cass. Sez. VI 5 febbraio-25 febbraio 2009
n. 8392.
5 Cass. Sez. II 16 febbraio 1995 – 22 maggio
1995 n. 5845, Cass. Sez. VI 12 dicembre
1995 – 9 febbraio 1996 n. 4823, Cass. Sez. II
6 maggio 2008 – 28 maggio 2008 n. 21537.
6 Cfr. A. CADOPPI, S. CANESTRARI, A.
MANNA, M. PAPA, Trattato di diritto penale,
8 Corte di Cassazione, II Sez. Penale, sentenza del 9 novembre 1998, n. 11582:
«l’art. 640 bis c.p., al di là della non vincolante terminologia usata nella rubrica
configura un’ipotesi autonoma di reato
rispetto alla truffa contemplata dall’art. 640
c.p.»; Corte di Cassazione, II Sez. Penale,
sentenza del 27 ottobre 2000, n. 11077:
«l’art. 640 bis c.p. prevede una figura
autonoma di reato e non una circostanza
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aggravante del delitto di truffa di cui all’art.
640 c.p.»; Corte di Cassazione, I Sez.
Penale, sentenza del 12 maggio 1999, n.
2286; Corte di Cassazione, I Sez. Penale,
sentenza del 8 giugno 1999, n. 4240.
9 Corte di Cassazione, II Sez. Penale, sentenza del 17 aprile 2000, n. 4731: «l’articolo 640 bis c.p. prevede una circostanza
aggravante del delitto di truffa di cui all’articolo 640 c.p. e non una figura autonoma di
reato, con la conseguenza che, ove sia
riconosciute sussistenti anche circostanze
attenuanti è consentito al Giudice effettuare
il giudizio di comparazione tra gli elementi
accessori di segno diverso».
10 Cfr. S. CANESTRANI, A. GAMBERINI, G.
INSOLERA, N. MAZZACUVA, F. SGUBBI, L.
STORTONI, F. TAGLIARINI, Diritto Penale –
Lineamenti di parte speciale, Bologna,
Monduzzi Editore, 2003, p. 546. “Le S.U.
della Cassazione con sentenza 10 luglio 2002
hanno attribuito rilevanza decisiva a criteri
formali probanti, tra i quali, appunto, la formulazione della fattispecie mediante rinvio”.
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Profili generali relativi alla tutela del consumatore
ed azione di classe
Parte II
Alessandro Nicodemi
Avvocato, Dottorando di Ricerca “Consumatori e Mercato-area giuridica” Università degli Studi Roma Tre (XXVII ciclo)
Il contributo reso ha affrontato – nella sua prima parte, già pubblicata – taluni profili generali relativi alla materia consumeristica, soffermandosi dapprima sulle istanze socio-economiche poste alla base della relativa legislazione per poi analizzare alcuni elementi pregnanti della disciplina di riferimento quali, in particolare, le clausole vessatorie, la tutela amministrativa ad esse correlata e l’azione di classe. In questa seconda parte, si continua
ad analizzare l’azione di classe: istituto che – mutuato da altri ordinamenti ed apparentemente idoneo al contrasto delle condotte illecite poste in essere dagli operatori del mercato – allo stato sembra ancora caratterizzato da
una ridotta effettualità
Sommario Prima Parte: 1. – La tutela del consumatore in ambito comunitario e domestico: nozione ed evoluzione storica; 2. – Uno sguardo generale al Codice del Consumo: clausole vessatorie ed altri elementi di rilievo;
3. – La tutela amministrativa del consumatore introdotta dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27; 4. – La disciplina italiana della class action: la genesi ed i confronti con i
rimedi preesistenti; 5. – I diritti tutelabili mediante l’azione di classe: struttura dell’illecito e danno risarcibile; 6.
– Cenni di diritto comparato in materia di azione di classe; 7. – Le peculiarità processuali dell’azione di classe.
Sommario Seconda Parte: 1. – Poteri processuali dell’organo giurisdizionale e pronunce adottabili dal Giudice;
2. – La legittimazione all’azione di classe; 3. – Il giudizio di ammissibilità nella class action; 4. – Le pronunce
sull’ammissibilità del giudizio; 5. – Adesione ed intervento nell’art. 140 bis del Codice del Consumo; 6. – Le ipotesi emerse nella prassi giudiziaria: peculiarità delle singole fattispecie ed analisi correlata.
1.
Poteri processuali dell’organo giurisdizionale e pronunce adottabili dal Giudice
Le disposizioni normative in commento, come
rilevato, recano disposizioni peculiari tese a predisporre una disciplina processuale in riferimento ad una
situazione sostanziale connotata da specialità ed a
matrice collettivistica.
La peculiarità della disciplina in parola, in particolare,
assurge ad un’evidenza netta laddove il legislatore ha
regolamentato la scansione procedurale.
Al riguardo, infatti, il ridetto art. 140 bis cod. cons., al
comma 11, stabilisce che “Con l’ordinanza con cui
ammette l’azione il tribunale determina altresì il corso
della procedura assicurando, nel rispetto del contraddittorio, l’equa, efficace e sollecita gestione del processo. Con la stessa o con successiva ordinanza, modificabile o revocabile in ogni tempo, il tribunale prescrive le
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misure atte a evitare indebite ripetizioni o complicazioni nella presentazione di prove o argomenti; onera le
parti della pubblicità ritenuta necessaria a tutela degli
aderenti; regola nel modo che ritiene più opportuno
l’istruzione probatoria e disciplina ogni altra questione di rito, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio”.
Il corso della procedura, dunque, non è prestabilito dalla
norma – come avviene, invece, per il rito ordinario, ai
sensi dell’art. 183 c.p.c. o per il rito cautelare ex artt.
669 bis e ss. c.p.c. – ma demandato ad una valutazione
discrezionale dell’organo giudicante che, a tale proposito, dovrà, naturalmente, rispettare l’ineludibile principio
del contraddittorio, per altro a rilievo costituzionale.
Una siffatta potestà discrezionale del giudice – pervasiva dell’intero disposto normativo in parola ed idonea a
predisporre un intenso potere valutativo in capo allo
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stesso giudicante – è strumentale ad assicurare un processo celere ed equo e, al tempo stesso, a demandare
ogni determinazione di natura processuale alla concretezza della situazione di volta in volta rilevante.
L’intero comma 11 dell’art. 140 bis, in altri termini è
interamente parametrato su una situazione giudiziale
risarcitoria a valenza collettivistica laddove, non potendo essere applicate le regole ordinarie – predisposte per
giustiziare illeciti a rilievo individuale – è stato demandata all’organo giurisdizionale la determinazione del
corso della procedura in relazione alle necessità di pubblicità (coessenziali all’azione in parola) e a quelle probatorie (da non complicarsi né ripetersi, rilevando una
pluralità di attori), pur nel rispetto di esigenze di celerità, equità e di rispetto del contraddittorio.
Le menzionate caratteristiche dell’azione di classe, poi,
incidono in termini assolutamente rilevanti non soltanto sulla procedura, ma anche sul tipo di pronunce che il
giudice è facoltizzato ad emettere.
Relativamente all’esito decisionale dell’azione di classe, in dottrina1 è stato osservato che con la novella del
2009 (L. 23 luglio 2009, n. 99), si è voluto in primo
luogo introdurre uno strumento di tutela di immediata
natura risarcitoria volta a compensare i pregiudizi sofferti dai singoli e quindi condannare l’impresa al risarcimento per l’ingiusto profitto che ha realizzato; ciò a
differenza del modello originario disegnato dall’art.
140 bis cod. cons., nel quale il Tribunale nel caso di
accoglimento della domanda attrice si limitava a determinare i criteri omogenei di calcolo per la liquidazione,
in separato giudizio, delle somme da corrispondere ai
singoli consumatori o utenti che avevano aderito
all’azione collettiva, lasciando aperta la questione circa
la quantificazione dei diritti dei singoli. Il Tribunale,
ma solo se ciò fosse stato possibile allo stato degli atti
di causa, poteva al limite determinare la somma minima da corrispondere a ciascun consumatore o utente.
Il legislatore della riforma ha quindi inciso fortemente
nella fase decisoria del giudizio prevedendo espressamente al 12° co. dell’art. 140 bis cod. cons., che «se
accoglie la domanda, il Tribunale pronuncia sentenza
di condanna con cui liquida, ai sensi dell’art. 1226
c.c., le somme definitive dovute a coloro che hanno
aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di
calcolo per la loro liquidazione».
Attraverso la nuova azione di classe si rafforza l’ob-
biettivo di realizzare strumenti di economia processuale e di uniformità decisoria all’interno di un processo
suscettibile di risolvere potenzialmente un numero
indefinito di posizioni individuali.
Il novellato art. 140 bis cod. cons. si muove infatti nella
direzione della aggregazione ab initio delle molteplici
pretese individuali, presentando, come oggetto del processo, un accertamento completo della pretesa risarcitoria, sia in ordine all’an che al quantum del dovuto.
Guardando alla disciplina concreta, l’art. 140 bis cod.
cons., al comma 12, recita così: “Se accoglie la domanda, il tribunale pronuncia sentenza di condanna con
cui liquida, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile, le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme. In questo ultimo caso il giudice assegna alle parti un termine, non
superiore a novanta giorni, per addivenire ad un
accordo sulla liquidazione del danno. Il processo verbale dell’accordo, sottoscritto dalle parti e dal giudice,
costituisce titolo esecutivo. Scaduto il termine senza
che l’accordo sia stato raggiunto, il giudice, su istanza
di almeno una delle parti, liquida le somme dovute ai
singoli aderenti. In caso di accoglimento di un’azione
di classe proposta nei confronti di gestori di servizi
pubblici o di pubblica utilità, il tribunale tiene conto di
quanto riconosciuto in favore degli utenti e dei consumatori danneggiati nelle relative carte dei servizi eventualmente emanate”.
Il giudicante, dunque, potrà determinare gli importi
risarcitori alla stregua di un criterio equitativo, ai sensi
dell’art. 1226 c.c. laddove il danno non possa essere
determinato nel suo preciso ammontare oppure sulla
scorta di un criterio omogeneo di calcolo utile alla
liquidazione delle somme, ma, evidentemente, a carattere generale od astratto, rimanendo la concreta individuazione degli importi demandata al successivo accordo delle parti o, in sua mancanza, alla determinazione
del giudice stesso.
La norma, come si vede, menziona dapprima la possibilità di valutazione del danno alla stregua di un criterio equitativo; una siffatta disposizione si giustifica
sulla scorta del rilievo plurimo o collettivistico dei fatti
da giustiziare: ove dovesse individuarsi specificamente
il danno subito da ciascuno, la relativa istruttoria sarebbe oltremodo articolata e l’azione collettiva non verreb-
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be mai a conclusione; per tale motivo, ove i danni individuali non siano concretamente determinabili, il giudice potrà decidere in via equitativa ai sensi dell’art.
1226 c.c.
In ordine alla possibilità di determinare il danno ex art.
1226 c.c., è comunque pacifico che tale strumento non
vale ad alleggerire la prova del danno e della sua consistenza, quanto meramente la sua quantificazione2.
Per altro, la liquidazione ex art. 1226 c.c. dovrà essere
debitamente motivata in sentenza così da non assumere una connotazione personalistica e consentire la
conoscibilità dell’iter logico-giuridico seguito dal giudice, necessariamente ispirata a criteri di razionalità e
non arbitrarietà3.
Per il caso in cui, invece, sussista la possibilità di determinare i danni e, dunque, non si renda necessario ricorrere ad un criterio equitativo, ai sensi dell’art. 1226
c.c., allora il giudice provvederà ad individuare un criterio omogeneo di calcolo, utile a tale riguardo.
Il carattere astratto o generico di tale criterio viene evidenziato nel prosieguo della norma laddove, demandandosi ad un possibile accordo delle parti la determinazione concreta degli importi risarcitori, si rende evidente come l’indicazione del giudice rimanga aspecifica, così da consentire alle parti di disporre degli interessi in gioco e da evitare loro una decisione imposta
dall’Autorità giudiziaria, sempre capace di scontentare
le parti processuali (sicuramente quella soccombente).
La possibilità di un accordo sulla liquidazione del
danno potrà consentire all’azienda di “autodeterminare” gli importi risarcitori, nei limiti dei propri vincoli di
bilancio, all’ovvia condizione che una siffatta determinazione sia considerata dai danneggiati satisfattiva o
ragionevolmente non inferiore a quanto potrebbe essere liquidato dal giudice: entrambe le parti, come detto,
hanno interesse ad addivenire ad un accordo accettabile piuttosto che esporsi al rischio di una valutazione
terza, potenzialmente dirompente per il professionista o
non soddisfacente per i consumatori.
In ordine all’ultimo periodo della norma in parola –
secondo cui in caso di accoglimento di un’azione di
classe proposta nei confronti di gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità, il Tribunale tiene conto di
quanto riconosciuto in favore degli utenti e dei consumatori danneggiati nelle relative Carte dei servizi eventualmente emanate – giova precisare che la valutazione
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giurisdizionale, naturalmente, non rimane vincolata da
quanto stabilito nelle Carte dei servizi (per altro, emesse dagli stessi soggetti erogatori dei servizi ex art. 2,
comma 12, lett. p), L. 481/95 ), posto che le relative
indicazioni costituiranno per il giudice un criterio di
valutazione da cui lo stesso potrà discostarsi ove non
considerato congruo.
2. La legittimazione all’azione di classe
In ordine alla legittimazione all’esercizio dell’azione di
classe, la norma, al comma 1 del menzionato art. 140
bis cod. cons. stabilisce che “…ciascun componente
della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa, può agire per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni”.
Al capoverso del successivo comma 6 della stessa
norma, poi, si stabilisce che “La domanda è dichiarata
inammissibile quando… [omissis] il proponente non
appare in grado di curare adeguatamente l’interesse
della classe”.
Le disposizioni legislative riportate rendono evidente
come la legittimazione ad esperire l’azione de qua
abbia una connotazione diffusa, risiedendo in capo a
ciascun consumatore che sia interessato dai fatti dannosi che danno la stura alle rivendicazioni risarcitorie
della classe.
In ordine a tale punto, in giurisprudenza è stato rilevato che l’attore per potersi legittimare deve essere prima
di tutto titolare, in proprio e personalmente, del diritto
individuale che caratterizza la classe che intende rappresentare. Di conseguenza la legittimazione attiva non
è regolata in termini diversi da quelli propri di qualunque altra azione. In altre parole non sussiste la legittimazione perché il proponente intende rappresentare gli
interessi della classe, ma perché il suo interesse coincide con quello della classe, essendo egli portatore del
medesimo diritto individuale omogeneo di cui sono
titolari gli appartenenti alla classe4.
In ogni caso, l’ampiezza della legittimazione attiva in
parola sembra strumentale al favor legislativo accordato
all’azione collettiva così da sollecitare o dare adeguato
impulso all’utilizzo del relativo strumento giudiziario.
Al riguardo, infatti, il legislatore avrebbe potuto – sul
crinale delle opzioni teoricamente adottabili – conferire la legittimazione all’azione di classe ad associazioni
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che fossero adeguatamente rappresentative della classe
dei consumatori (per un raffronto in ordine a problematiche che possono apparire analoghe, si veda l’art. 28
dello Statuto dei lavoratori ove il profilo della legittimazione attiva, pur attinente a problematiche di rilievo
collettivistico, è stato risolto dalla norma in termini differenti); conferire la legittimazione in parola a ciascun
componente della classe, invece, sembra propriamente
strumentale all’esigenza di implementare o dare impulso alle azioni giudiziarie in parola.
Per la verità, guardando all’evoluzione storica della
norma, nella versione primigenia adottata dalla L.
244/2007, il potere di agire era stato dapprima conferito alle associazioni consumeristiche iscritte ad apposito albo ministeriale nonché alle altre associazioni e
comitati adeguatamente rappresentativi degli interessi
collettivi fatti valere; le successive rivisitazioni normative, però, hanno indotto ad una soluzione diversificata, come visto, assai più ampia sul crinale soggettivo.
La latitudine soggettiva che, in tal modo, viene abbracciata dalla norma, nel conferire la legittimazione a
qualsiasi componente della classe rimane, tuttavia,
menomata o, in qualche misura depotenziata dalla
disciplina normativa laddove al successivo comma 6
dello stesso art. 140 bis cod. cons. si stabilisce che la
domanda è dichiarata inammissibile per il caso in cui il
proponente non appaia in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe.
La ratio giustificatrice di una siffatta disposizione pare
debba rinvenirsi nell’esigenza di assicurare la debita
tutela a situazioni di rango collettivo: l’esercizio dell’azione e la gestione dell’impianto processuale che ne
deriva è bene che siano riservati a soggetti che dispongano delle competenze idonee ad assicurare la protezione degli interessi consumeristici portati all’attenzione del giudice.
Ove così non fosse, le istanze dei consumatori, piuttosto che rafforzate, sarebbero depotenziate da un’azione
giudiziale a valenza collettiva iniziata e gestita da soggetti non dotati delle necessarie competenze sul fronte
della conoscenza delle situazioni di fatto o della capacità a gestire i correlati aspetti processuali.
Tanto analizzato in via generale, occorre rilevare che,
sul fronte della prassi applicativa, il singolo, nell’avviare l’azione risarcitoria di classe, sarà verosimilmente coadiuvato (anzi: spesso cooptato) da un’associazio-
ne o da un comitato, posto che per la natura stessa delle
cose non avrà interesse a farsi carico degli ingenti costi
del contenzioso collettivo (a fronte del modesto tornaconto individuale del risarcimento spettantegli) né di
solito possiede la forza economica ed organizzativa
necessaria5.
In ordine al rapporto tra il singolo consumatore e l’associazione alla quale egli abbia conferito mandato, la
giurisprudenza (Ord. App. Torino, 23 novembre 2011)
ha ritenuto che, in virtù del carattere speciale e autonomo del procedimento disciplinato dall’art. 140 bis c.
cons., è ammissibile l’azione proposta da un’associazione cui sia stata conferita dai consumatori proponenti la mera rappresentanza in giudizio, senza il potere di
disporre dei diritti sostanziali azionati.
Per quanto concerne, invece, il dato comparativo,
preme evidenziare la differenza con la normativa statunitense: la Rule 23 sect. (a) delle statunitensi Federal
Rules of Civil Procedure (FRCP), nell’ambito di una
regolamentazione generale (a livello federale) delle
azioni di classe, ammesse da parte di chiunque e tendenzialmente in ogni materia, considera non solo
l’eventualità che si agisca, ma anche quella che si sia
convenuti quali rappresentanti di una classe mentre
l’art. 140 bis cod. cons. non fa cenno di un’evenienza
del genere la quale pure sarebbe in astratto configurabile nonostante la specificità delle situazioni giuridiche
elencate dal 2° co. quale possibile oggetto di una
domanda di classe.
È infatti ben ipotizzabile un fondato interesse dell’impresa a citare in accertamento negativo uno o più consumatori od utenti che appaiano in astratto «in grado di
curare adeguatamente l’interesse della classe» (6° co.)
e che, direttamente o tramite l’adesione ad iniziative di
associazioni e comitati, abbiano stragiudizialmente
avanzato nei suoi confronti pretese riconducibili a
quelle situazioni giuridiche o le abbiano vantate attraverso le casse di risonanza dei mezzi di comunicazione; anche se non è realistico immaginare che essa
impresa decida di soddisfare un interesse del genere
mettendo, almeno potenzialmente, tutte le uova in un
paniere o, in alternativa, senza poter ottenere un risultato vincolante se non per quei pochi consumatori od
utenti che decidessero di aderire alla difesa (e ciò a
causa del ben diverso meccanismo nostrano dell’opt in
rispetto a quello statunitense dell’opt out), a meno che
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il vaglio giudiziale, volto ad escludere un possibile conflitto di interessi, è esattamente mutuato dalla normativa statunitense, in cui la previsione è posta al fine di
scongiurare tutti quei casi tratti dalla prassi americana in
cui l’utilizzo dello strumento della settlement class
action, era attuato per fini fraudolenti, in cui erano le
stesse imprese a spingere il consumatore, utente del servizio e come tale esso stesso vittima della loro condotta, a promuovere una class action per poi giungere ad
una transazione capestro che sarebbe divenuta vincolante anche per tutte le altre vittime sia attuali che future.
Il caso più macroscopico di conflitto di interessi è quello di alcune imprese statunitensi, che avevano utilizzato amianto nei processi di lavorazione, e verso la fine
degli anni ’90 si erano rivolte ad un pool di legali per
far promuovere una class action e, ottenuta la certificazione, avevano l’intenzione di concludere una transazione tombale che avesse coperto qualunque altra pretesa risarcitoria anche da parte di tutti i futuri soggetti
che avessero successivamente contratto una patologia
da asbestosi.
L’analisi dottrinale in parola, sul punto, ha tuttavia rilevato che una simile ipotesi fraudolenta per i diritti dei
consumatori rappresenta nel nostro sistema un’eventualità difficile a verificarsi nella pratica.
Infatti, mentre nel sistema statunitense un’eventuale
transazione della causa è destinata irrimediabilmente a
vincolare tutti i partecipanti alla classe, nel sistema
nostrano ciò è espressamente escluso, avendo l’art. 140
bis cod. cons. espressamente previsto al 15° co. che
l’eventuale transazione collettiva possa assumere efficacia sui crediti individuali solo attraverso l’esplicita
adesione del singolo interessato.
Ad ogni modo, l’eventualità che sia l’impresa a selezionare l’attore collettivo per garantirsi una controparte più docile o addirittura interessata al “naufragio” dell’azione e di tutti i suoi incauti aderenti, è giustamente
contemplata anche dal legislatore italiano, il quale
esclude l’ammissibilità dell’azione per il caso di un
possibile conflitto di interessi.
Circa l’insussistenza dell’omogeneità dei diritti vantati, costituendo il carattere omogeneo delle situazioni
sostanziali che si intende far valere il presupposto dell’azione collettiva, ne deriva, inevitabilmente, l’inammissibilità della tutela di classe proposta.
Sul punto, è già stato osservato come la tutela realizza-
l’obiettivo non sia quello di lucrare l’improponibilità di
ulteriori azioni di classe dopo la scadenza del termine
per l’adesione che fosse fissato dal giudice (14° co.,
periodi 3-4, art. 140 bis, cit.)6.
3. Il giudizio di ammissibilità nella class action
Ai sensi dell’art. 140 bis, comma 6, cpv, cod. cons., “La
domanda è dichiarata inammissibile quando è manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi ovvero quando il giudice non ravvisa l’omogeneità dei diritti individuali tutelabili ai sensi del comma 2,
nonché quando il proponente non appare in grado di
curare adeguatamente l’interesse della classe”.
Il giudizio di ammissibilità in parola, idoneo, come già
è stato rilevato nel corso della presente opera, a destare
notevoli preoccupazioni negli operatori pratici e nella
classe forense in particolare, attese le incertezze che
esso genera in relazione al prosieguo del giudizio, poggia sui diversi criteri menzionati dalla norma, insuscettibili – si ritiene – di un’applicazione estensiva, caratterizzandosi il “filtro” di ammissibilità in termini di eccezionalità rispetto alle ordinarie regole processuali.
Per altro, la fase preliminare di ammissibilità in argomento ha sollevato altresì dubbi sul versante della legittimità costituzionale, essendo idonea a realizzare un’indebita compressione del diritto di azione dei consumatori e ponendo il dubbio – necessariamente correlato
alla menzionata compressione – che non si realizzi, in
tal modo, un eccessivo sbilanciamento del sistema a
vantaggio delle imprese convenute7.
In particolare, l’organo giudicante dovrà vagliare se il
giudizio in questione sia manifestamente infondato,
così andando ad effettuare una valutazione che, pur a
carattere sommario in quanto fondato sulle acquisizioni processuali primigenie, impinge direttamente nel
merito della vicenda.
Altri fattori idonei a giustificare il giudizio di ammissibilità, secondo la formulazione della norma, sono poi
rinvenibili nella sussistenza di un conflitto d’interessi,
evidentemente tra il promotore dell’azione e la classe
rappresentata, l’insussistenza dell’omogeneità dei diritti vantati che sola fonda l’azione di classe, o l’apparente inidoneità del proponente a curare adeguatamente gli
interessi della classe.
Circa la possibile sussistenza di un conflitto d’interessi,
giova riportare l’analisi svolta in dottrina8, secondo cui
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sino ad oggi in Italia mostra come le azioni di classe
siano sempre state proposte da enti rappresentativi dei
consumatori, dietro esplicito mandato alle liti rilasciato
dal singolo appartenente alla classe9.
In via ultima, comunque, la dottrina10 si è chiesta se
l’introduzione del giudizio di ammissibilità dell’azione
di classe – in relazione alla quale non si pongono le
particolari questioni di contemperanza di interessi
costituzionali, invece connessi all’analoga fase di
ammissibilità prevista da altre procedure giudiziali (si
allude all’art. 5, L. 117/88 relativo alla responsabilità
civile dei magistrati) – non valga a sostanziare una
limitazione del diritto di azione dei consumatori ed un
correlato, indebito vantaggio in favore dell’imprese.
bile per tramite della class action attenga a situazioni
ora definite omogenee, non più “identiche”, come
avveniva con la precedente formulazione normativa.
L’identità precedentemente richiesta dalla norma, ben
vero, frapponeva ostacoli di rilievo all’ammissibilità
dell’azione di classe, ponendo a proprio presupposto
una serialità di illeciti non già accomunati sul versante
sostanziale, ma propriamente identici.
L’omogeneità, il carattere analogo od assimilabile consente invece adesso una tutela seriale od a rilievo plurimo; a fronte di una situazione siffatta si staglia quella relativa a situazioni distinte o non omologabili che,
contrassegnate dalle proprie rispettive peculiarità,
necessiterebbero, al contrario, di azioni individuali e
sarebbero inconciliabili con l’azione di classe.
Siffatte situazioni a carttere differenziato, precludendo
una tutela a carattere seriale, imporrebbero la formulazione di un giudizio di inammissibilità da parte del giudice.
Laddove, al contrario, il giudice formulasse un giudizio
di ammissibilità, con la relativa ordinanza egli dovrà
provvedere a fornire una perimetrazione di quanto
costituirà oggetto del giudizio: in particolare, ai sensi
dell’art. 140 bis, comma 9, lett. A), cod. cons., egli
dovrà definire i caratteri dei diritti individuali oggetto
del giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o
devono ritenersi esclusi dall’azione.
Ultimo criterio utile a definire l’ammissibilità dell’azione di classe è dato dal fatto che il proponente
appaia in grado di curare adeguatamente l’interesse
della classe.
Il giudizio di adeguatezza del proponente è volto
sostanzialmente a verificare che l’azione di classe sia
attivata solo da parte di un soggetto che prometta di
avere la capacità di coltivarla e portarla a termine con
le energie e le capacità sufficienti al ruolo ricoperto,
specie al fine di evitare che gli effetti conseguenti alla
sostituzione processuale ex lege nei confronti di tutti i
possibili aderenti possano tornare a loro pregiudizio,
per il caso in cui si siano affidati a chi non sia in grado
di curare adeguatamente l’interesse della classe, privati come sono di ogni possibilità di controllo diretto sul
processo e sulle modalità di sua conduzione.
Proprio al fine di scongiurare una possibile dichiarazione di inammissibilità dell’azione per la riscontrata non
adeguata rappresentatività dell’attore, la prassi seguita
4. Le pronunce sull’ammissibilità del giudizio
Il giudizio preliminare di ammissibilità cui è assoggettata l’azione di classe assolve al duplice scopo: a) di tutelare l’impresa convenuta contro azioni temerarie che
potrebbero nondimeno arrecare notevole pregiudizio alla
sua immagine; b) di rassicurare i potenziali aderenti circa
la serietà dell’iniziativa assunta del proponente, incentivando le adesioni e favorendo così il conseguimento
degli obiettivi propri del giudizio di classe11.
In particolare, come visto, il comma 6 dell’art. 140 bis
c. cons. prevede che all’esito della prima udienza il
Tribunale decide con ordinanza sull’ammissibilità dell’azione, dichiarando l’inammissibilità della domanda
quando la stessa appare manifestamente infondata,
quando sussiste un conflitto di interessi, quando il giudice non ravvisa l’omogeneità dei diritti individuali
tutelabili ai sensi del comma 2°, nonché quando il proponente non appare in grado di curare adeguatamente
l’interesse della classe.
Contro l’ordinanza del Tribunale è ammesso reclamo
alla Corte d’appello, che decide a sua volta con ordinanza resa in camera di consiglio.
Circa l’udienza in parola è stato ritenuto12 che essa sia
un’udienza preliminare di discussione (dunque, aperta
al pubblico) che precede e prepara la successiva trattazione del merito; trattazione, quest’ultima, che, in
assenza di specifiche disposizioni stabilite con l’ordinanza dal Tribunale, avverrà secondo le cadenze che
caratterizzano il rito di cognizione ordinario.
Per altro, il profilo letterale della norma non esclude che
ai fini del giudizio di ammissibilità sia esperibile un’at-
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tività istruttoria non documentale e che, quindi, in tale
fase si svolgano, ad es., audizioni testimoniali con
forme semplificate e senza capitolazione o per la richiesta di informazioni alla Pubblica Amministrazione.
Il profilo dell’ammissibilità dell’azione di classe, in
ogni caso, sostanziando la fase preliminare nell’ambito
del giudizio in parola, ha formato oggetto di plurime
pronunce giurisprudenziali.
In particolare, al riguardo, è stato ritenuto che il giudizio sull’ammissibilità non debba necessariamente svolgersi in un’unica udienza e che possano concedersi alle
parti termini per il deposito di memorie scritte, utili a
supportare ulteriormente le contrapposte tesi difensive
(Trib. Milano, ord. 20 dicembre 2010; App. Milano,
ord. 3 maggio 2011).
Nell’ambito della fase giudiziale in parola, poi, la giurisprudenza ha ritenuto che le parti possano precisare o
modificare le domande ed eccezioni già formulate
entro gli stessi limiti previsti per il giudizio ordinario
dall’art. 183, comma 5°, c.p.c. (in tal senso, Trib.
Milano, ord. 20 dicembre 2010).
Per quanto concerne la non manifesta infondatezza dell’azione, invece, è stato precisato che il giudizio preliminare nel merito ha carattere sommario ed assume la
veridicità dei fatti che le parti hanno introdotto nel giudizio (sulla base del principio di tradizione romanistica
secondo cui si vera sint exposita), i quali, ove necessario, dovranno essere provati nella successiva fase
istruttoria (così App. Roma, ord. 27 gennaio 2012).
Con riferimento al diverso profilo relativo all’adeguatezza dei proponenti l’azione, inoltre, è stato ritenuto che si
debba presumere l’idoneità a curare in modo adeguato
l’interesse della classe da parte di associazioni iscritte
all’elenco delle associazioni dei consumatori e degli
utenti rappresentative a livello nazionale previsto dall’art.
137 cod. cons. (Trib. Napoli, ord. 9 dicembre 2011, confermata sul punto da App. Napoli, ord. 29 giugno 2012).
Diversamente, non sono stati ritenuti in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe i consumatori
sprovvisti di adeguati mezzi finanziari e organizzativi
(Trib. Torino, ord. 28 aprile 2011; Trib. Torino, ord. 7
aprile 2011).
Il Tribunale di Torino, nelle ordinanze menzionate, ha
infatti ritenuto i consumatori non adeguati a rappresentare gli interessi della classe sulla scorta del dato che i
conti correnti bancari degli attori, dagli stessi allegati
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nel giudizio, erano in situazione di sofferenza (nei casi
in parola erano state esercitate azioni di classe contro
istituti di credito in relazione all’applicazione delle
commissioni di massimo scoperto).
Per quanto concerne, invece, la necessaria omogeneità
dei diritti tutelabili, già nella vigenza dell’originario
testo normativo – secondo cui l’azione di classe doveva essere promossa a tutela di diritti omogenei di consumatori che si trovano in una posizione identica tra
loro – la giurisprudenza aveva ritenuto (pur non senza
contrasti) che il requisito dell’identità, nella sostanza,
coincidesse con quello dell’omogeneità, non sussistendo la necessità che i danni individuali di cui ciascun
consumatore chiedeva il risarcimento fossero identici
(in tal senso, App. Roma, ord. 27 gennaio 2012; App.
Torino, ord. 23 settembre 2011; Trib. Roma, ord. 20
aprile 2012; Trib. Napoli, ord. 9 dicembre 2011).
Soluzione, questa, in qualche misura necessitata, posto
che, diversamente, ben pochi sarebbero stati gli spazi di
tutela rimasti all’azione di classe, a quel punto esperibile soltanto in ipotesi residuali.
La ragionevolezza di tale soluzione, infatti, è stata di
seguito abbracciata anche dal legislatore che, re melius
perpensa, nel 2012 ha ritenuto di abbandonare il criterio dell’identità dei diritti sostituendolo con quello,
sicuramente meno restrittivo, dell’omogeneità dei diritti (art. 140 bis, commi 2° e 6°, c. cons.).
Con precipuo riferimento al requisito dell’omogeneità dei
diritti, poi, la giurisprudenza sembra orientata nel senso di
considerarne la ricorrenza quando, sulla base delle deduzioni difensive sollevate, il Tribunale sia in grado di svolgere un’unica istruttoria valevole per tutti i membri della
classe (Trib. Roma, ord. 11 aprile 2011, confermata sul
punto da App. Roma, ord. 27 gennaio 2012).
Soltanto così, ben vero, l’azione di classe può svolgere
la funzione di economia processuale che le è propria:
ove fosse impossibile svolgere un’attività probatoria
comune, il Tribunale si vedrebbe costretto a trattare e
decidere singolarmente la posizione di ciascun consumatore non dissimilmente da quanto avverrebbe nell’ipotesi di esercizio di tante azioni individuali.
Altro aspetto da vagliare attiene alla possibilità d’impugnare in Cassazione l’ordinanza della Corte d’appello che abbia deciso sul reclamo proposto avverso l’ordinanza del Tribunale che decide sull’ammissibilità
dell’azione di classe.
25
Saggi
Da ultimo, giova esaminare l’ipotesi in cui l’azione sia
stata ammessa.
In tal caso, il proponente dovrà dare esecuzione alla
pubblicità disposta dal Tribunale a pena d’improcedibilità dell’azione, ai sensi dell’art. 140 bis, comma 9°,
Codice del Consumo.
Posto che i costi legati alla pubblicità possono essere di
certo rilievo, si era ipotizzato che, almeno nei casi in
cui la responsabilità del convenuto fosse maggiormente evidente, il Tribunale potesse imputare al convenuto
gli oneri relativi.
Tale soluzione, tuttavia, è stata espressamente scartata
dalla giurisprudenza sulla base del rilievo per cui,
essendo l’esecuzione della pubblicità una condizione
per la prosecuzione dell’azione, il relativo onere non
può essere efficacemente addossato al convenuto, il
quale di norma non ha interesse alla prosecuzione dell’azione nei propri confronti (Trib. Torino, ord. 15 giugno 2012).
Sul punto, la giurisprudenza – con un decisum accolto
favorevolmente dalla dottrina13 – si è pronunciata negativamente sulla scorta del rilievo per cui l’ordinanza
che dichiara o conferma l’inammissibilità dell’azione
di classe non è suscettibile di assumere la stabilità del
giudicato sostanziale e non produce la efficacia preclusiva del dedotto e del deducibile, in quanto è fondata su
una delibazione sommaria.
Nell’ipotesi di pronuncia di inammissibilità per manifesta
infondatezza dei diritti omogenei fatti valere, la valutazione del giudice è, invero, operata, oltre che in sede di cognizione sommaria, ai soli fini del giudizio di ammissibilità
della domanda di classe e, dunque, con delibazione finalizzata ad una pronuncia di rito, idonea a condizionare unicamente la prosecuzione dl quel processo di classe.
A norma dell’art. 140 bis, comma 14, D.Lgs. n. 206 del
2005 – dunque, secondo la Suprema Corte – è unicamente l’ordinanza di ammissibilità che preclude la proposizione delle medesima azione di classe per i medesimi fatti e nei confronti della stessa impresa dopo la
scadenza del termine per l’adesione e non la ordinanza
di inammissibilità, la quale non preclude affatto la
riproponibilità dell’azione (Cass., Sez. I, 14 giugno
2012, n. 9772).
Con riferimento, poi, alla possibilità che il vaglio di
ammissibilità dell’azione comporti una vulnerazione
del diritto di difesa dei consumatori, in merito a tale
questione è intervenuta la Corte d’appello di Torino,
con ordinanza del 27 ottobre 2010, ritenendo che il “filtro” di ammissibilità per l’azione di classe non si ponga
di per sé in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., dal
momento che esso non soltanto non rappresenta un
ostacolo apprezzabile per la difesa dei diritti azionati,
ma è caratterizzato da forme procedurali di pieno contraddittorio ed esercizio del diritto di difesa.
La Corte, sul punto, ha altresì ritenuto che il “filtro” in
parola sia funzionale all’interesse degli stessi consumatori, i quali, proprio in virtù del vaglio giudiziale di
ammissibilità, sono posti in condizione di evitare di aderire ad un’azione manifestamente infondata (allontanando da sé, in tal maniera, gli effetti di un giudicato che si
preannuncia fin dall’inizio ad essi sfavorevole); a maggior ragione, tenuto conto del fatto che tale adesione può
avvenire senza ministero di difensore tecnico e comporta automatica rinuncia ad ogni azione restitutoria o risarcitoria individuale fondata sul medesimo titolo.
5. Adesione ed intervento nell’art. 140 bis del Codice
del Consumo
“Con l’ordinanza con cui ammette l’azione il tribunale
fissa termini e modalità della più opportuna pubblicità, ai fini della tempestiva adesione degli appartenenti
alla classe. L’esecuzione della pubblicità è condizione
di procedibilità della domanda. Con la stessa ordinanza il tribunale:
a) definisce i caratteri dei diritti individuali oggetto del
giudizio, specificando i criteri in base ai quali i soggetti che chiedono di aderire sono inclusi nella classe o
devono ritenersi esclusi dall’azione;
b) fissa un termine perentorio, non superiore a centoventi giorni dalla scadenza di quello per l’esecuzione
della pubblicità, entro il quale gli atti di adesione,
anche a mezzo dell’attore, sono depositati in cancelleria. Copia dell’ordinanza è trasmessa, a cura della
cancelleria, al Ministero dello sviluppo economico che
ne cura ulteriori forme di pubblicità, anche mediante
la pubblicazione sul relativo sito internet.
È escluso l’intervento di terzi ai sensi dell’articolo 105
del codice di procedura civile”.
Le disposizioni riportate, presenti ai commi 9 e 10 del
ridetto art. 140 bis, cod. cons., individuano un altro
momento di rilievo all’interno della scansione procedurale propria delle azioni giudiziarie in commento,
26
Temi Romana
Saggi
ponendo, al tempo stesso, una disciplina necessaria a
rivendicazioni a valenza collettivistica.
Il sistema c.d. dell’opt-in, in base al quale un soggetto
sceglie di entrare nel contenzioso di classe, rinviene un
proprio necessario antecedente nella pubblicità realizzata dall’attore, secondo i termini e le modalità fissate
dal Tribunale.
La pubblicità in ordine alla sussistenza di un procedimento giudiziario ed in ordine alla correlata possibilità
di aderire alle relative istanze giudiziarie costituisce un
momento strutturale ed ineludibile dell’azione di classe, in assenza del quale non potrebbero trovare ingresso nel processo istanze a valenza pletorica.
Esattamente per tale motivo, la pubblicità in parola
deve anche specificare il proprium dell’azione di classe, vale a dire i criteri di appartenenza alla classe stessa, in assenza dei quali non è consentito aderire
all’azione collettiva.
Il nostro legislatore, come si diceva, ha scelto il sistema dell’opt-in, ritenendo, evidentemente di non adottare l’opposto sistema dell’opt-out, proprio del sistema
statunitense e fondato sull’automatica estensione del
giudicato nei confronti di tutti i soggetti che non abbiano espressamente scelto di rimanere estranei all’azione
di classe (in schietta difformità, pare, con le connotazioni proprie del nostro sistema processuale per cui le
pronunce giudiziarie non producono effetti verso coloro che non abbiano preso parte al processo, salvo che
siano eredi od aventi causa, ai sensi dell’art. 2909 c.c.).
Gli aderenti acquistano la qualità di parti sostanziali del
processo ed usufruiscono delle agevolazioni connesse:
l’interruzione della prescrizione, la liquidazione del
danno e la formazione di un titolo esecutivo, anche in
mancanza di un giudizio individuale.
Essi non assumono anche la posizione di parte processuale che spetta esclusivamente ad attore e convenuto.
Anzi, al proponente, anche dopo l’adesione degli altri,
spetterà di veicolare le richieste probatorie, la gestione
della lite e la presentazione di prove ed argomenti.
Il proponente è titolare esclusivo dei diritti ed obblighi
processuali; spetterà, ad es., solo a lui il potere di reclamare l’ordinanza che dichiari eventualmente inammissibile la domanda o di resistere contro l’eventuale
reclamo dell’impresa contro l’ordinanza che ammette
l’azione di classe.
Sarà il proponente il destinatario dei provvedimenti in
Temi Romana
materia di spese.
Naturalmente, l’attore non sarà titolare di quei poteri
processuali che presuppongono la capacità di disporre
dei diritti sostanziali degli aderenti: non potrà transigere o formulare rinunce in verbali di conciliazione relativamente a crediti altrui né deferire o riferire il giuramento su questi aspetti.
Le transazioni stipulate dagli aderenti vincolano solo
chi vi abbia aderito; l’intervenuta transazione estingue
il processo e coloro che non vi abbiano aderito dovranno tutelare i loro diritti dando vita ad una nuova causa.
La situazione sopra descritta relativamente alla posizione processuale dei soggetti aderenti alla class action
– frutto dell’analisi dottrinale14 e condivisa anche dalla
giurisprudenza15 – è evincibile da un’attenta analisi del
dato normativo laddove la posizione dei soggetti aderenti rimane sempre nettamente distinta rispetto a quella delle parti sulla scorta di un’attenta differenziazione
terminologica, foriera, evidentemente, di distinte situazioni processuali.
In ordine alle questioni che occupano, comunque, pare
ineludibile l’osservazione per cui l’attore, gravato dei
rischi correlati all’esercizio dell’azione giudiziale ed
alla correlata possibilità di soccombenza – con quel che
ne segue sul piano delle spese – rimanendo unico soggetto titolato alle scelte processuali, è portatore altresì
dei poteri correlati senza che i soggetti aderenti possano incidere a tale riguardo.
Per quanto concerne, poi, la possibilità che intervengano
forme di accordo o conciliazione tra l’attore ed il convenuto, gli aderenti potranno prestarvi assenso oppure no,
ma nell’ipotesi in cui non lo facciano si vedranno
costretti ad esercitare azioni giudiziarie individuali, ove
vogliano vedere tutelati i propri diritti in maniera difforme rispetto agli accordi conclusi tra le parti.
Sul fronte pratico, dunque, trattandosi, come detto di
small claims, sovente gli aderenti preferiranno aderire
agli accordi conclusi tra le parti anche quando essi non
siano pienamente satisfattivi.
Sulla scorta del dato normativo riportato, quindi, i poteri processuali della parte attrice sono tutt’altro che
secondari laddove gli aderenti rimarranno, appunto, in
una posizione di fatto subordinata a scelte processuali
fatte dal proponente.
Nell’azione di classe non è perciò immaginabile un litisconsorzio, nemmeno aggregato, degli aderenti con
27
Saggi
positivo, registrata nella casistica giudiziaria nazionale.
Nello specifico, il Tribunale di Napoli, con sentenza
depositata il 18 febbraio 2013, ha accolto le istanze
avanzate da un gruppo di consumatori che aveva acquistato un pacchetto turistico “tutto compreso” per un
viaggio a Zanzibar.
La sistemazione alberghiera non era, però, conforme
alle informazioni che il gruppo aveva ricevuto prima
della partenza.
Il Tribunale, quindi, ha considerato il venditore del pacchetto turistico inadempiente rispetto alle obbligazioni
che aveva assunto e lo ha condannato al risarcimento
del danno non patrimoniale per vacanza rovinata a
favore dei consumatori che avevano promosso l’azione
nonché di quelli che, trovandosi in una posizione omogenea rispetto a questi, avevano aderito all’iniziativa
giudiziaria17.
Nel dettaglio, il Tribunale ha ritenuto che con il contratto avente ad oggetto un pacchetto turistico “tutto
compreso” – sottoscritto dal consumatore sulla base di
una articolata proposta contrattuale contenuta in un
depliant illustrativo – l’organizzatore assume specifici
obblighi contrattuali, segnatamente di tipo qualitativo,
relativi a modalità di viaggio, sistemazione alberghiera,
livello di servizi, etc.
Di conseguenza, ove le prestazioni non siano esattamente adempiute, sulla base di un criterio medio di
diligenza valutabile dal giudice di merito, si configura
la responsabilità contrattuale ed il conseguente obbligo
risarcitorio in capo all’organizzatore, salvo la prova
della non imputabilità dell’inadempimento, derivante
da eventi verificatisi successivamente al perfezionamento del contratto, quali il caso fortuito o la forza
maggiore, ovvero l’esclusiva responsabilità del terzo o
del consumatore.
Vertendosi in tema di responsabilità contrattuale, sul
turista-consumatore incombe l’onere di comprovare la
fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla
mera allegazione dell’inadempimento di controparte,
mentre all’organizzatore è demandata la prova di aver
agito con normale diligenza, di aver fatto tutto il possibile per evitare i danni ed, eventualmente, la dimostrazione della sussistenza del caso fortuito o di forza maggiore a sua discolpa.
Sulla scorta di tali principi, quindi, è stato individuato,
a carico dell’organizzatore, un inadempimento del con-
l’attore, tanto è vero che il comma 10 dell’art. 140 bis
cod. cons., esclude tassativamente qualunque tipologia
di intervento di terzi, vuoi litisconsortile, vuoi adesivo.
Pertanto gli aderenti, a differenza di quanto accadrebbe
se essi fossero veri e propri intervenuti in giudizio, non
potranno autonomamente impugnare una sentenza di
rigetto, verosimilmente neppure se il rigetto fosse motivato con la loro “estraneità” alla classe.
Proprio in vista dello sbarramento alla possibilità da
parte di altri danneggiati a proporre un autonomo giudizio dopo la scadenza del termine per l’adesione assegnato dal giudice ai sensi dell’art. 140 bis comma 9,
cod. cons., vengono dal legislatore imposti al rappresentante della classe puntuali obblighi di pubblicità,
onde consentire la massima adesione all’azione da
adempiersi nelle forme e modalità che verranno indicate dallo stesso Tribunale e dalla cui mancata ottemperanza consegue l’improcedibilità della domanda, sempre a termini del citato comma 9, secondo periodo16.
Sul versante ultimo, in ogni caso, è dato osservare
come la disciplina in parola si sia differenziata non
poco dall’omologa disciplina statunitense: quest’ultima appare schiettamente schierata accanto ai consumatori, come si evince, tra l’altro, dal sistema dell’opt-out nonché dalla sussistenza dei danni punitivi;
quella nostrana, invece, appare maggiormente tesa a
contemperare le posizioni di consumatori e professionisti, probabilmente con una maggiore attenzione
alla posizione di questi ultimi come verrebbe da
osservare guardando al sistema dell’opt-in (pure
imposto dai principi del nostro ordinamento), dal filtro di ammissibilità, dalla circostanza che gli accordi
conclusi dall’attore nel concreto tendano a vincolare
anche i soggetti aderenti (venendo in rilievo small
claims, come si diceva, difficilmente azionabili individualmente).
6. Le ipotesi emerse nella prassi giudiziaria: peculiarità delle singole fattispecie ed analisi correlata
Il presente paragrafo intende esaminare taluni casi giudiziari che, in ragione delle rispettive peculiarità, appaiono di particolare interesse nella tutela giudiziale delle
posizioni di classe e, dunque, meritevoli di un adeguato commento in questa trattazione.
La presente disamina, in particolare, trae il proprio
incipit dalla prima ipotesi di azione di classe ad esito
28
Temi Romana
Saggi
dei molti aspetti critici della disciplina contenuta nell’art. 140 bis cod. cons..
In particolare, la Corte d’appello di Milano ha riformato la decisione resa in primo grado da Trib. Milano 13
marzo 2012 (in Foro it., 2012, I, 1909) e ha sancito, in
contrasto con Trib. Napoli 18 febbraio 2013, cit.,
l’inammissibilità dell’intervento volontario nel processo di classe nonché l’impossibilità di assimilare l’aderente alla parte processuale.
La novità proposta dalla Corte d’appello milanese,
nello specifico, sta nell’aver comunque riconosciuto
all’interventore in primo grado la legittimazione ad
impugnare la sentenza, ma con riferimento al solo capo
relativo alle spese processuali.
La scelta interpretativa compiuta è apparsa persuasiva
alla dottrina20 perché tende a scoraggiare l’ampliamento del contraddittorio nel processo di classe, ontologicamente destinato, nel modello accolto dal nostro legislatore, a svolgersi tra due soli soggetti cui riconoscere
i poteri e le prerogative delle parti processuali.
La terza – ed ultima, per quanto consta – vicenda giudiziaria che ha visto accogliere le istanze dei consumatori è esitata nella sentenza resa dal Tribunale di Torino
in data 28 marzo 2014 che ha dichiarato la nullità delle
clausole aventi ad oggetto le commissioni di massimo
scoperto introdotte dalla Soc. Intesa Sanpaolo S.p.A.
nei confronti dei propri correntisti per violazione del
dato normativo di riferimento (art. 2 bis, D.L. 29
Novembre 2008, n. 185, come convertito dalla L. 28
gennaio 2009, n. 2) con conseguente condanna alla
restituzione delle somme indebitamente pagate.
In particolare, il Tribunale ha ritenuto che le clausole,
comunque denominate che impongano una remunerazione per la banca indipendentemente dall’effettivo utilizzo delle somme e dalla durata di tale utilizzo, siano
del tutto vietate, pur ponendosi dei distinguo tra conti
non affidati ed affidati (in riferimento a questi ultimi la
nullità sarebbe evitabile, secondo il decisum, ove la
remunerazione fosse ancorata ad un utilizzo per un
periodo continuativo non inferiore a trenta giorni –
primo periodo – o comunque sia prevista da patto scritto e con connessione effettiva all’utilizzo del fondo).
Le conclusioni del Tribunale, per altro, si sono fondate
altresì sulla ratio ispiratrice della norma (l’art. 2 bis,
D.L. 29 novembre 2008, n. 185, come convertito dalla
L. 28 gennaio 2009, n. 2), diretta a considerare con sfa-
tratto di viaggio “tutto compreso” atteso che la struttura alberghiera prenotata nel pacchetto turistico presentava deficienze non segnalate nel dépliant richiamato
nel contratto e la struttura alternativa, dove i turisti avevano soggiornato per alcuni giorni, era qualitativamente inferiore alla prima.
Sul fronte dell’identità dei diritti azionati, la pronuncia in
parola ha, poi, affermato che il richiamo all’identità dei
diritti di una pluralità di consumatori e utenti deve essere inteso nel senso che è necessario che tutti gli elementi costitutivi, con riferimento sia all’an, sia al quantum
del risarcimento, siano identici potendosi differenziare
soltanto per il fatto che ineriscano a soggetti differenti.
In base al concetto richiamato, quindi, veniva dichiarata inammissibile l’adesione all’azione di classe di quei
consumatori che, come dagli stessi dedotto, si trovavano in una situazione di fatto diversa da quella indicata
dall’ordinanza con cui l’azione medesima è stata
dichiarata ammissibile.
Il dictum giudiziale in esame, come detto, si segnala
per il fatto di essere la prima pronuncia di accoglimento relativa ad una domanda esercitata ai sensi dell’art.
140 bis cod. cons.
Sul piano dell’analisi dei contenuti, poi, non rileva tanto
l’affermazione dell’inadempimento del professionista –
fondata sulla base dell’avvenuta erogazione di un servizio secondo modalità difformi e qualitativamente inferiori rispetto a quelle convenute – quanto l’applicazione
del criterio dell’identità dei diritti, interpretato dalla sentenza in parola in chiave letterale piuttosto che alla stregua di un canone di omogeneità, già affermato in ambito giudiziario anteriormente alla modifica normativa
indotta dal D.L. 1/12 e maggiormente condivisibile (in
tal senso, App. Roma, ord. 27 gennaio 2012; App.
Torino, ord. 23 settembre 2011; Trib. Roma, ord. 20
aprile 2012; Trib. Napoli, ord. 9 dicembre 2011).
Altra vicenda giudiziaria inerente all’azione di classe
che ha registrato un esito positivo è quella esitata nella
sentenza resa dalla Corte d’Appello di Milano in data
26 agosto 201318 in cui un solo consumatore, rappresentato da un’associazione consumeristica, ha ottenuto
la restituzione di 14,50 euro, pari al costo di un test
influenzale pubblicizzato in modo ingannevole dalla
società distributrice in Italia.
La sentenza della corte meneghina è stata segnalata in
dottrina19 perché contribuisce a fare chiarezza su alcuni
Temi Romana
29
Saggi
vore l’imposizione di remunerazioni che, non corrispondendo a servizi effettivamente resi, risulta scollegata con la funzione sinallagmatica naturalmente
intrinseca al rapporto contrattuale di conto corrente21.
Passando alla disamina di un altro caso giurisprudenziale, l’analisi dottrinale22 ha considerato degna di nota
anche la vicenda giudiziaria esitata nell’ordinanza resa
dal Tribunale di Firenze in data 15 luglio 2011.
In particolare, detta pronuncia viene segnalata per
quanto riguarda l’individuazione dei diritti a tutela dei
quali è ammissibile l’azione di classe.
Nella specie, un assessore comunale della città di
Firenze aveva citato in giudizio la società affidataria
del servizio di pulizia delle strade comunali, lamentando il fatto che essa non aveva provveduto a mantenere
le strade pulite in occasione di una forte nevicata che si
era verificata a Firenze nel dicembre 2010.
Il Tribunale, con decisione confermata in sede di reclamo, ha dichiarato l’azione inammissibile sulla base
della considerazione che nella specie non ricorreva
alcuno dei casi previsti dalla legge per la promozione di
un’azione di classe.
In particolare, a giudizio del Tribunale, non sussisteva
un rapporto contrattuale tra il proponente e il convenuto, dal momento che il contratto di servizio obbligherebbe il convenuto esclusivamente nei confronti dell’ente pubblico che affida il servizio.
Inoltre, sempre a giudizio del Tribunale, non sussisteva
una responsabilità del produttore, dal momento che,
contrariamente a quanto sostenuto dal proponente, la
responsabilità del produttore non ricomprende la
responsabilità del fornitore di un servizio.
Questa decisione è considerata degna di nota proprio
perché ha escluso dal novero dei diritti tutelabili
mediante un’azione di classe il diritto al risarcimento
del danno subito a causa di una qualche violazione
imputabile a un fornitore di servizi con il quale il proponente non sia legato da un rapporto contrattuale, conformemente all’originaria formulazione della norma.
In seguito, il legislatore ha ritenuto di includere anche
questo diritto tra quelli tutelabili mediante un’azione di
classe.
Infatti, il testo riformato dell’art. 140 bis, comma 2,
lett. b), cod. cons. precisa che l’azione di classe tutela i
diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un
determinato prodotto o servizio nei confronti del relati-
vo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale.
Questa riforma avrà certamente l’effetto di estendere
l’ammissibilità di un’azione di classe anche a casi che
in origine ne erano esclusi.
Degna di nota appare, poi, la pronuncia resa dal
Tribunale di Roma con ordinanza 11 aprile 2011, nella
controversia Codacons c. BAT, specie con riferimento
al dato relativo all’identità dei diritti posti ad oggetto
dell’azione di classe.
Il caso traeva origine dalla domanda proposta da un’associazione dei consumatori per ottenere l’accertamento
della responsabilità della parte convenuta per aver esercitato un’attività pericolosa, quale la produzione e la
vendita di sigarette, senza adottare tutte le misure idonee ad evitare conseguenze pregiudizievoli in capo ai
consumatori, causando – così – danni non patrimoniali, consistenti nella dipendenza da nicotina, nonché nel
timore di ammalarsi di altre patologie e danni patrimoniali, costituiti dalla spesa necessaria per l’acquisto
quotidiano di sigarette indotto dalla dipendenza.
Il Tribunale adito dichiarava con ordinanza l’inammissibilità della domanda, ritenendola manifestamente
infondata ed affermando l’insussistenza dell’interesse
collettivo tutelato.
Più nel dettaglio, in relazione all’ultimo profilo indicato, il Tribunale di Roma affermava che “la tutela cumulativa può avvenire soltanto in quei casi in cui, per le
caratteristiche della fattispecie sostanziale, la decisione del giudice si può basare esclusivamente su valutazioni di tipo comune, essendo del tutto inesistenti o
marginali i temi personali; non già nell’ipotesi in cui le
questioni individuali da accertare […] superino le
eventuali questioni comuni a ciascun consumatore, e le
caratteristiche dei diritti azionati impediscano una
liquidazione dei danni omogenea e unitaria per tutte le
pretese potenzialmente azionabili”23.
I principi così affermati successivamente venivano
confermati nella fase d’appello (da App. Roma, ord. 27
gennaio 2012).
La pronuncia si segnala per la peculiarità del caso concreto nonché per l’adesione, da parte degli organi giudicanti, alla tesi giurisprudenziale incline a definire
l’identità dei diritti azionati alla stregua di un criterio
restrittivo piuttosto che alla luce di un più ampio criterio di omogeneità.
30
Temi Romana
Saggi
Proseguendo la disamina del dato giurisprudenziale, di
certo interesse appare anche l’ordinanza resa dal
Tribunale di Milano in data 8 novembre 2013.
Tale dictum è stato segnalato in ambito dottrinale in
quanto costituisce una delle prime applicazioni della
nuova disciplina dell’art. 140 bis c. cons. introdotta
dall’art. 6 L. 24 marzo 2012, n. 27, nella parte in cui
subordina l’ammissione dell’azione di classe non più
alla “identità” ma alla “omogeneità” dei diritti dedotti24.
Si ritiene comunemente che tale modifica sia diretta a
favorire l’accesso all’istituto, coerentemente alla rubrica della norma di modifica (“Norme per rendere efficace l’azione di classe”), ma l’esatto significato del concetto di omogeneità è controverso: mentre vi è chi ritiene che si evochi un’interpretazione diffusa in altri ordinamenti di lingua latina, secondo la quale essa consiste
nella dipendenza del danno risarcibile da una medesima azione, omissione o condotta abituale, altri affermano che implichi invece la necessaria predominanza
delle questioni comuni su quelle individuali.
Il dubbio dipende dalla ricostruzione che si adotta a
proposito delle finalità dell’istituto de quo: la seconda
interpretazione, in qualche modo avallata dalla pronuncia odierna, si ricollega all’idea che l’azione di classe
svolga soprattutto funzioni di economia processuale; la
Corte milanese la riprende, aggiungendo un riferimento forse meno pregnante all’esigenza di assicurare uniformità delle decisioni.
La prima interpretazione, per converso, concepisce
l’istituto come uno strumento rivolto anche ad altri fini,
in particolare di deterrenza delle condotte illecite25.
Le doglianze posta alla base della controversia in parola erano state avanzate dall’Associazione Altroconsumo la quale proponeva azione ex art. 140 bis, D.Lgs.
206/2005, chiedendo che, dichiarata l’ammissibilità
dell’azione e fissati i criteri per l’inclusione dei futuri
aderenti alla domanda in modo da ricomprendervi tutti
gli abbonati ai servizi ferroviari delle Trenord s.r.l. nel
periodo 9 dicembre 2012-19 dicembre 2012, la convenuta Trenord s.r.l. fosse condannata al risarcimento dei
danni patrimoniali e non patrimoniali causati agli utenti del servizio ferroviario da questa gestito in talune
giornate del mese di dicembre 2012 allorquando – a
seguito dell’introduzione senza adeguata sperimentazione di un nuovo software per l’assegnazione e l’organizzazione dei turni del personale dipendente – si erano
Temi Romana
verificati gravissimi disservizi su tutte le tratte coperte
dal servizio.
In particolare, secondo l’assunto di parte attrice, si
erano verificati ritardi dei convogli in partenza ed in
arrivo, soppressione di molteplici treni, mancanza di
informazioni ed assistenza, trasbordi da un convoglio
all’altro, sovraffollamento dei vagoni, modifica degli
itinerari (per la cui descrizione si rinviava ai resoconti
redatti dai singoli attori, sub. doc. 21a), i quali tutti
avrebbero configurato inadempimenti alle obbligazioni
assunte nei confronti di ciascun utente con il contratto
di trasporto, il cui contenuto sarebbe stato integrato
delle condizioni dettate dal c.d. contratto di servizio stipulato dalla convenuta con la Regione Lombardia, relativamente agli standard minimi di qualità del servizio
da erogare all’utenza.
A seguito di tali fatti e delle correlate difese giudiziali
avanzate sul punto dalla Società convenuta, il
Tribunale dichiarava l’inammissibilità dell’azione collettiva, ritenendo la disomogeneità delle posizioni dei
soggetti appartenenti alla classe.
In particolare, secondo le parole dell’ordinanza,
“Omogenea, in realtà, si presenta nella fattispecie solo
la causa che ha provocato gli inadempimenti lamentati
dagli abbonati al servizio ferroviario (e dunque la messa
in funzione di un sistema informatico per la gestione dei
turni del personale senza la necessaria sperimentazione,
risultato così inidoneo a garantire la presenza di addetti su ogni convoglio), del tutto estrattori al rapporto fra
Trenord s.r.l. e gli utenti, rispetto ai quali vengono in
rilievo esclusivamente le conseguenze di tale errata scelta, e dunque l’inadempimento alle obbligazioni assunte
con il contratto di trasporto. Queste, secondo la stessa
descrizione offerta dagli attori, sono state invece affatto
diverse tra loro, trattandosi in alcuni casi di ritardi tra i
15/20 minuti, in altri tra ì 60/80 minuti, in altri ancora
di diverse ore, od altresì di cancellazione di convogli con
dirottamento su altri: certamente comune a tutto tali
situazioni è stata prospettata l’erogazione di un servizio
inaccettabile quanto a sovraffollamento delle carrozze,
ma è evidente come anche questo inadempimento si configuri in modo del tutto differente in relazione alla durata dei vari percorsi.
Difettano di uniformità anche i danni lamentati dai singoli attori promotori dell’odierna iniziativa giudiziaria:
ed infatti non solo non possono essere equiparati i pre-
31
Saggi
Con maggiore sforzo esplicativo, l’ipotesi in esame
costituisce un caso di danno seriale azionabile con lo
strumento processuale di cui all’art. 140 bis, cod. cons.
laddove le differenti posizioni degli utenti del servizio
di trasporto con riferimento alla difformità dei danni
subiti potevano essere valutate e giustiziate – si ritiene
– alla stregua di criteri omogenei di calcolo per la liquidazione delle somme di spettanza, in conformità al
disposto di cui al comma 12 del ridetto art. 140 bis.
Le tesi da ultimo sostenute, per altro, appaiono da ultimo condivise anche dalla giurisprudenza, posto che
un’ulteriore ricerca è esitata nella discoperta di un avviso – pubblicato sul sito Internet del Ministero dello
Sviluppo Economico – che recita nei seguenti termini:
“Il Tribunale di Milano (10^ sezione Civile) ha fissato
termini e modalità di pubblicità dell’azione di classe
nei confronti dell’operatore ferroviario della Regione
Lombardia Trenord Srl, per permettere agli utenti pendolari di aderire alla class action proposta da
Altroconsumo (art. 140 bis del Codice del Consumo).
La Corte di Appello di Milano (2^ sezione civile), infatti, aveva dichiarato ammissibile l’azione di classe proposta da Altroconsumo contro Trenord S.r.l. per i danni
subiti dai pendolari a causa del disservizio ferroviario
dello scorso dicembre 2012.
Gli utenti coinvolti sono, pertanto, i pendolari che possiedono un abbonamento settimanale, mensile o
annuale valido per le tratte ferroviarie coperte da
Trenord nel periodo tra il 9 al 19 dicembre 2012. Gli
interessati hanno tempo fino al 27 settembre 2014 per
il deposito degli atti di adesione presso la cancelleria
del Tribunale di Milano.
Il Tribunale di Milano ha stabilito, inoltre, che la pubblicità (ai sensi del comma 9, art. 140 bis Codice del
Consumo) per la divulgazione della class action in
corso deve effettuarsi sul quotidiano La Repubblica e
rispettivamente sui siti web del Tribunale e del
Ministero dello sviluppo economico”.
Paiono, dunque, accolte, nel proprio aspetto ultimo e
sostanziale, le considerazioni critiche sopra espresse in
ordine alla pronuncia resa dal Tribunale di Milano in
data 8 novembre 2013.
giudizi subiti da coloro i quali siano giunti in ritardo di
30 minuti al luogo di destinazione rispetto a quelli che
siano rimasti in attesa per ore sulle banchine ferroviarie,
ma nemmeno quelli di coloro che abbiano comunque
usufruito del servizio con i connessi disagi e quelli di
coloro che, scoraggiati dalla prima esperienza, abbiano
nei giorni successivi deciso di recarsi al lavoro con la
propria auto. Ritiene infatti questo Tribunale che anche
i danni lamentati debbano presentare caratteri di base
comuni (pur non richiedendosi l’identità del petitum), in
mancanza dei quali verrebbe meno la possibilità di trattare congiuntamente la fase di merito con riferimento ad
una pluralità (potenzialmente indefinita, per effetto delle
eventuali adesioni ex art. 140 bis, IX co. lett. a) di crediti: contestualmente all’introduzione del sicuramente più
elastico criterio della “omogeneità”, il legislatore del
2012 ha previsto che la liquidazione del danno sia definitivamente attuata con la fase decisoria dell’azione di
classe (rimanendo in via alternativa la possibilità di stabilire il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione), sul necessario presupposto che siano aggregati fin
dall’inizio del processo pretese individuali suscettibili di
essere valutate unitariamente, senza la necessità di
un’istruttoria relativa alle particolari posizioni degli
attori, La class action può dunque essere esperita solo
per far valere crediti di natura seriale ed isomorfi, diversamente non potendo conseguire quelle finalità di economia processuale e di uniformità decisoria che le sono
unanimemente riconosciute.
La domanda deve pertanto essere dichiarata inammissibile…[omissis]”.
Per la verità, la pronuncia appena richiamata non appare
convincente: il danno riportata dagli utenti, pur non identico, originava dalle medesime cause e, in via di massima,
si atteggiava in termini di affinità, similarità o, per dirla
con le parole del legislatore, in termini di omogeneità.
Pare che negare l’applicabilità dell’istituto in un’ipotesi di danno a valenza plurima come quello azionato nel
caso di specie valga, in qualche misura, a privare di
fondamento la valenza dell’azione di classe, vale a dire
il ruolo che il legislatore ha inteso attribuire a tale azione all’interno del nostro ordinamento.
_________________
1 Cfr. SACCHI, Nuova class action., cit.
3 Opinione sostenuta anche da C. SCO-
zione e rimedi nell’azione di classe., in Class
2 Cfr. SACCHI, Nuova class action., cit.
GNAMIGLIO,
action il nuovo volto della tutela collettiva in
Risarcimento del danno, restitu-
32
Temi Romana
Saggi
Italia – Atti, Milano, Giuffrè, 2011.
di classe, in Riv. Dir. Proc., 2013, 1, p. 191.
4 Trib. Torino, Ord. 4 giugno 2010.
12 Cfr. CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe, cit., p.172 e ss.
5 Così CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe,
cit., p. 110.
6 Così V. TAVORMINA, La nuova class
action: il coordinamento con la disciplina
del codice di procedura civile, in Obbl. e
Contr., 2010, 4, p. 246.
7 Così CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe
cit., p. 176.
8 Cfr. SACCHI, Nuova class action, cit.
9 Così SACCHI, Nuova class action, cit.
10 Cfr. CONSOLO - ZUFFI, L’azione di classe, cit., p. 176.
11 Così S. BOCCAGNA, Una condivisibile
pronuncia della Corte di cassazione sulla
non ricorribilità ex art. 111 Cost. dell’ordinanza che dichiara inammissibile l’azione
Temi Romana
20 Cfr. DE SANTIS, Recenti sviluppi della
giurisprudenza, cit.
14 Cfr. Di LANDRO, Interessi dei consumatori e azione di classe, cit., p. 142 e ss.
21 Per un approfondimento sulla pronuncia
in commento, cfr. A. ANTONUCCI, Class
action bancaria: considerazioni sulla
prima vittoria consumeristica, in Nuova
Giur. Civ., 2014, 7-8, p. 580.
15 Cfr. Trib. Torino, 4 giugno 2010, ord., in
Danno resp., 2011, p. 81 e ss.
22 Cfr. G. AFFERNI, Recenti sviluppi dell’azione di classe cit., p. 1275 e ss.
16 Cfr. SACCHI, Nuova class action., cit.
23 Ricostruzione della vicenda giudiziaria
tratta da R. DONZELLI, L’azione di classe tra
pronunce giurisprudenziali e recenti riforme
legislative, in Corriere Giur., 2013, 1, p. 103.
13 Cfr. BOCCAGNA, Una condivisibile pronuncia della Corte, cit., p. 191 e ss.
17 Sintesi della vicenda giudiziaria mutuata
da G. AFFERNI, Recenti sviluppi dell’azione di
classe, in Contratto e Impr., 2013, 6, p. 1275.
18 In Foro it., 2013, I, p. 3326.
19 Cfr. A. D. DE SANTIS, Recenti sviluppi
della giurisprudenza sull’azione di classe a
tutela dei consumatori, in www.Treccani.it,
14 gennaio 2014.
33
24 Cfr. A. GIUSSANI, Intorno alla tutelabilità con l’azione di classe dei soli diritti omogenei, in Giur. It., 2014, 3, p. 603.
25 Così GIUSSANI, Intorno alla tutelabilità,
cit., p. 603 e ss.
Saggi
Il concorso del professionista nei reati connessi alla crisi
d’impresa
Tommaso Pietrocarlo
Avvocato del Foro di Roma
1.
Il concorso del professionista nei reati connessi alla crisi d’impresa deve essere inquadrato –
sia pure in termini generali – nell’ambito delle
tematiche riguardanti il concorso di persone nel reato.
Con la presente trattazione non si intendono affrontare
le responsabilità, per così dire, dirette, ossia quelle in
cui potrebbe incorrere colui che, in ragione della professione esercitata, vada a ricoprire la carica di amministratore o di sindaco di una società, ovvero assuma la
veste di attestatore – quale professionista indipendente
– nei casi di concordato preventivo, accordo di ristrutturazione o piano attestato, previsti dalla legge fallimentare.
Si vuole, piuttosto, esaminare la possibilità che un
“consulente” di impresa, di solito un avvocato o un
commercialista, concorra, per effetto dei “consigli” dati
o delle attività poste in essere in una situazione di crisi
aziendale, nei reati commessi dall’imprenditore o dagli
altri soggetti chiamati “direttamente” dalla legge penale a rispondere di talune ipotesi di reato.
Pertanto, per affrontare la tematica in questione, è
necessario formulare, attraverso l’esame dei principi
generali in materia di concorso di persone nel reato,
alcune ipotesi in cui taluno possa concorrere nel reato
commesso da altri.
derne soltanto ove abbia realizzato interamente tutti gli
elementi espressamente previsti dalla norma penale,
ossia quando abbia posto in essere la condotta ivi
descritta, quando l’evento – ove previsto – si sia realizzato e, da ultimo, quando ricorra anche l’elemento psicologico contemplato dalla previsione normativa.
3. La situazione presenta caratteri più problematici –
con riguardo al rispetto dei canoni di tipicità e di tassatività del precetto penale – allorquando il fatto reato sia
stato commesso da più soggetti.
In tali casi, potrebbe in astratto accadere:
a) che ciascuno dei concorrenti realizzi interamente la
condotta tipica;
b) che solo uno o alcuni soggetti la realizzino, mentre
altri si limitino ad attività di preparazione o agevolazione;
c) che ciascun concorrente realizzi soltanto un segmento di condotta e che questa sia quindi realizzata
dall’insieme di tali segmenti;
d) che uno o taluni soggetti si limitino a far sorgere il
proposito di altri di compiere il fatto illecito, ovvero
rafforzino tale proposito criminoso.
4. Il nostro Codice penale, con l’art. 110, ha adottato i
principi di unicità della fattispecie concorsuale e di pari
responsabilità di ciascun concorrente.
Si afferma, infatti, come tale norma riguardi, prima
ancora che l’aspetto della responsabilità, quello della
tipicità, nel senso che essa andrebbe ad innestarsi nella
fattispecie penale c.d. monosoggettiva e consentirebbe
la punibilità di condotte che altrimenti – isolatamente
considerate – non sarebbero punibili, poiché costituenti soltanto parti di quelle previste dalla norma penale.
Nei vari casi indicati al n. 3 che precede, infatti, e senza
una disciplina del concorso, soltanto nell’ipotesi sub a)
sarebbero punibili le condotte di tutti i concorrenti, poiché ciascuno di essi, avendo realizzato per intero la
2. Nel nostro sistema penale vigono, come è noto, oltre
che il principio di legalità, anche i corollari di tipicità e
di tassatività della fattispecie penale.
Con tali concetti si intende precisare che l’illecito penale, oltre che essere previsto da una norma di legge, deve
contenere l’esatta e precisa enunciazione del fatto
costituente reato, in modo tale che ciascuno sappia con
certezza, prima di agire, quale sia il comportamento
vietato e sanzionato dalla norma penale.
Quando il reato è interamente commesso da un solo
soggetto, questi – in sintesi – sarà chiamato a rispon34
Temi Romana
Saggi
condotta tipica, sarebbe punibile in base alla sola
norma penale incriminatrice.
Si pensi, viceversa, all’ipotesi sub 3), b) e c), in cui nessuno o soltanto taluno dei concorrenti ponga in essere
quella condotta esattamente prevista dalla norma penale.
A stretto rigore, in assenza della disciplina del concorso di persone nel reato, nessuno dei concorrenti di cui
all’ipotesi sub c) sarebbe punibile e, rispetto all’ipotesi
sub b), lo sarebbero soltanto alcuni di essi.
Quanto all’ipotesi sub d), senza una disciplina del concorso resterebbero al di fuori della sfera di punibilità
quei soggetti che non hanno compiuto alcuna attività
materiale, ma hanno soltanto “influenzato” moralmente la commissione del reato.
E allora, poiché le norme penali incriminatrici sono, di
regola, costruite come fattispecie c.d. monosoggettive,
soltanto attraverso il “sistema” delineato dagli artt. 110
e ss. c.p. è possibile ritenere illecite anche quelle condotte “causali” rispetto al fatto reato, che altrimenti non
potrebbero essere sanzionate.
In tutti questi casi, il concorrente nel reato risponde a
pieno titolo del reato commesso da altri, sebbene non
ne abbia realizzato la condotta tipica, ma abbia soltanto “influenzato” moralmente l’autore materiale.
La giurisprudenza appare spesso consapevole che,
soprattutto in tema di concorso morale, esiste un rilevante profilo di possibili forme atipiche e differenziate in cui
può manifestarsi il contributo causale del concorrente.
Tuttavia, si afferma che tale circostanza, ben lungi dal
rendere penalmente irrilevante il contributo del determinatore o dell’istigatore, fa sorgere soltanto l’obbligo,
da parte del giudice, di “… motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale
forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità
efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti …” (così la ben nota SS.UU. 30.10.2003, n.
45276).
8. Quanto all’elemento psicologico del reato a titolo di
concorso, esso richiede la consapevolezza e la volontà
del contributo causale arrecato alla condotta altrui,
oltre che quello previsto dalla fattispecie monosoggettiva.
5. Si deve, a questo punto, stabilire sulla base di quali
principi una condotta “atipica” possa dirsi, comunque,
“causale” rispetto al fatto reato e, dunque, possa dare
luogo ad un’ipotesi di concorso nel reato.
Ciò con l’importante precisazione che, comunque, la
consumazione del reato segna il limite oltre il quale
non vi è possibilità di concorso: pertanto, la condotta
rilevante dovrà essere necessariamente individuata tra
quelle poste in essere prima di tale momento.
9. Come quasi tutti i reati, anche quelli che possono
rilevare nell’ambito della c.d. crisi d’impresa sono
costruiti come fattispecie monosoggettiva.
Si pensi, ad esempio, alla bancarotta fraudolenta prevista dall’art. 216 L. Fall., che ha come destinatario l’imprenditore e, per effetto dell’estensione ex art. 219, gli
amministratori, i direttori generali, i sindaci ed i liquidatori di società.
Ebbene, anche rispetto a tale reato possono venire in
rilevo le norme ed i principi, appena ricordati, in materia di concorso di persone e, dunque, anche il c.d.
extraneus può concorrere nel reato di bancarotta.
Le forme possono essere, perciò, tanto quella del concorso materiale che quella del concorso morale.
Si pensi, ad esempio, al “consiglio”, dato dal consulente all’imprenditore o all’amministratore di una società
in crisi, di costituire una “bad company” ove collocare
le passività o una società “good” ove inserire gli asset
in pregiudizio dei creditori ed in modo da cagionare il
fallimento (art. 223, comma 2, n. 2 L. Fall., fallimento
per effetto di operazioni dolose).
6. Appare ormai consolidata, in dottrina ed in giurisprudenza, quella teoria che costruisce la “causalità” nel
concorso di persone nel reato in termini di causalità c.d.
agevolatrice o di rinforzo.
Si afferma che, da un punto di vista oggettivo, la condotta del concorrente è punibile, a titolo di concorso
c.d. materiale, anche quando essa, considerando ex post
l’evento così come si è, in concreto, verificato, ne abbia
soltanto facilitato la realizzazione, rendendolo più probabile, più facile, più grave.
7. Quanto al c.d. concorso morale, è da tempo consolidata la distinzione tra colui che faccia sorgere l’altrui
proposito criminoso (c.d. determinatore) e colui che
rafforzi tale proposito (c.d. istigatore).
Temi Romana
35
Saggi
Tale “consiglio” si può tradurre, per ciò solo, in caso di
dichiarazione di fallimento, in una ipotesi di concorso
morale per determinazione o istigazione altrui – ossia
per aver fatto sorgere, ovvero rafforzato, l’altrui proposito criminoso – nel reato di bancarotta fraudolenta
patrimoniale.
Ove, invece, il professionista abbia agevolato – attraverso la predisposizione di mezzi, strutture, pareri tecnici, etc. – la commissione del reato, si potrebbe profilare un vero e proprio concorso materiale.
comune sentire, che un consulente possa concorrere nel
reato di bancarotta ove coadiuvi materialmente l’imprenditore a distrarre beni dalla società, magari mettendo a disposizione altro ente cui cedere, a prezzo esiguo
o senza alcuna contropartita, beni sociali, può essere
meno “intuitivo” ritenere illecito il semplice “consiglio”, dato dal consulente, di trasferire un bene ad altra
società per sottrarlo al fallimento.
Tuttavia, soprattutto la disciplina del concorso c.d.
morale prima ricordata, laddove ritiene che tale forma
di responsabilità sussista anche in capo a colui che si
limiti a “rafforzare” un proposito criminoso già esistente, sembra chiaramente orientata nel senso restrittivo.
Del resto, la massima prima ricordata è proprio il frutto dell’applicazione dei principi sul concorso morale,
secondo cui non occorre che il concorrente abbia posto
in essere una condotta materiale concretamente percepibile, ma è sufficiente che egli abbia determinato altri
a commettere un delitto, ovvero lo abbia, per così dire,
“incoraggiato”.
Si veda, nello stesso senso, Cass. 15.2.2008, n. 10742,
in tema di affitto di azienda privo di effettiva contropartita e preordinato ad avvantaggiare i soci a scapito
dei creditori.
La S.C. ha, in questo caso, ritenuto sussistente il concorso del consulente della società nel reato di bancarotta fraudolenta per aver progettato e portato ad esecuzione la conclusione di tale contratto.
10. Ancora più insidiosa si può presentare l’ipotesi di
concorso eventuale nel reato di bancarotta fraudolenta
c.d. documentale, che ricorre anche quando la contabilità esista, ma sia tenuta in modo tale da impedire la
ricostruzione del patrimonio o del movimento degli
affari (art. 216, comma 1, n. 2, ult. parte).
In linea di principio, il consulente contabile dovrebbe
comunque restare estraneo a tale possibile incriminazione, atteso che, di per sé, l’obbligo di una corretta
tenuta della stessa grava sull’imprenditore, ovvero su
amministratori, sindaci, liquidatori.
11. La giurisprudenza, tuttavia, sia pure in presenza di
un atteggiamento non meramente inerte del professionista, ha ritenuto, con riferimento ad entrambe le forme
di bancarotta, che:
“Concorre in qualità di extraneus nei reati di bancarotta patrimoniale e documentale il consulente contabile
che, consapevole dei propositi distrattivi o di confusione contabile dell’imprenditore, dia consigli o suggerimenti sui negozi giuridici atti a sottrarre i beni ai creditori o lo assista nella conclusione dei relativi negozi
o svolga attività dirette a garantirgli l’impunità o a rafforzarne, con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni l’intento criminoso”. (Così, Cass.,
Sez. V, 9.10.2013, n. 49472).
13. Le medesime conclusioni si attagliano, ad esempio,
anche all’ipotesi di falso in bilancio ex artt. 2621 e
2622 c.c., punite, in caso di fallimento, alla stregua
della bancarotta, ai sensi dell’art. 223, comma 2, n. 1,
L. Fall..
Anche se la norma in esame richiede, accanto alla falsità nel bilancio e nelle altre comunicazioni sociali, la
prova che tali operazioni siano state causali rispetto al
dissesto, è tuttavia possibile e, anzi, probabile che –
ove si sia giunti all’esposizione di dati falsi attraverso
il “consiglio” di un “esperto” e da tale consiglio sia
derivato anche un semplice aggravamento del dissesto
– il professionista sia chiamato a rispondere del delitto
in esame.
12. Ecco, dunque, che si delinea una sorta di zona, per
così dire, grigia, dai contorni estremamente problematici, nell’ambito della quale il professionista – ancorché
non si spinga fino a mettere a disposizione dell’imprenditore mezzi, strutture, persone, e tuttavia orienti, con
la sua “scienza”, le scelte imprenditoriali – può,
comunque, concorrere nei reati c.d. fallimentari.
Se, infatti, nessun dubbio sussiste, neppure in base al
14. Nei reati tributari, il concorso del professionista
(morale o materiale) nel reato dell’imprenditore può
36
Temi Romana
Saggi
configurarsi attraverso modalità analoghe alle precedenti.
Si pensi, con riguardo esclusivamente alle ipotesi meno
eclatanti, al “consiglio” di creare, ovvero di utilizzare,
società estere che si frappongano nell’acquisto di beni
o servizi, con il risultato di ottenere costi fittizi e, eventualmente, anche una provvista estera sottratta a tassazione.
Secondo le regole generali in materia di concorso c.d.
morale, il consulente in questo caso risponderebbe, in
concorso con l’imprenditore, del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false, ex art.
2 D.Lgs. 10.3.2000, n. 74.
Ciò, pur non avendo fornito alcun apporto materiale
(es.: mettendo a disposizione società esistenti, persone
compiacenti, etc.) alla commissione del fatto.
Si pensi, ad esempio, al caso del tenutario di scritture
contabili di una società c.d. “cartiera”, ossia quella non
dotata di attrezzature, strutture, personale che però
emetta fatture per prestazioni di beni o servizi che non
può rendere.
O, specularmente, all’eventuale concorso del consulente con colui che utilizzi tali fatture in dichiarazione.
La S.C., con sentenza 26.5.2010, n. 35453, Sez. V, ha
ritenuto responsabile del delitto di emissione di fatture
per operazioni inesistenti, ex art. 8 cit., anche il commercialista – in concorso con il legale rappresentante
della società emittente – nel cui studio furono rinvenute numerose fatture irregolari che non erano state contabilizzate dall’emittente, ma che, tuttavia, erano regolarmente annotate nella contabilità dell’utilizzatore.
16. Conclusivamente, si può affermare che il ruolo del
consulente, specialmente nel caso in cui esso venga
esercitato in una situazione di crisi d’impresa, si può
prestare agevolmente ad essere qualificato in termini
penalmente rilevanti se il comportamento tenuto non
tenga adeguatamente conto della portata dei principi in
tema di concorso di persone nel reato, ormai pacifici in
giurisprudenza.
15. Sempre ponendo l’attenzione ad ipotesi, per così
dire, meno evidenti, si potrebbe profilare anche il concorso – da parte del commercialista che curi la contabilità della società emittente – nel reato di emissione di
fatture per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. cit.),
ovvero in quello di dichiarazione fraudolenta mediante
uso di false fatture (art. 2).
Temi Romana
37
Saggi
Gioco d’azzardo patologico: nuove esigenze di tutele
e vecchie regole di contesto
Rita Tuccillo
Avvocato del Foro di Roma, Dottore di Ricerca in Diritto dell’arbitrato interno ed internazionale Università Luiss “Guido Carli” di Roma
1.
Introduzione
Il gioco1 è, sul piano fattuale, un’attività ludica
piacevole e di svago, a carattere individuale o
collettivo, che coniuga differenti funzioni di sviluppo
della creatività, di educazione e pedagogia2, di prevenzione dell’ira3 e di relax4. Il gioco è una delle prime
manifestazioni di vita del bambino, ma caratterizza
l’intero percorso della vita. La ragione del continuo
interesse dell’uomo al gioco si può ravvisare nel bisogno di evadere dalla realtà quotidiana per rifugiarsi in
quello che viene definito il “mondo magico del gioco”5.
Storicamente considerato uno strumento socialmente
utile quale mezzo di svago e distrazione, può assumere
“connotati parossistici e sproporzionati, quando da
forma di svago diventa passione smodata, che distoglie
dalle comuni attività della vita”6. Il gioco può trasformarsi in una “fonte di disordini morali, suscettibili di
compromettere gravemente gli interessi patrimoniali e
familiari del contraente, accecato dalla passione”7.
Il fenomeno del gioco lungi dall’apparire come aspetto
giuridico “di interesse meramente dottrinale e studiato
per solo desiderio di completezza”8 ha assunto un ruolo
determinante nel panorama economico e giuridico
degli stati moderni che ne detengono il monopolio.
L’offerta statale di giochi è varia e progressivamente
crescente, in quanto rappresenta uno strumento di
finanziamento per i bilanci pubblici.
Tuttavia mentre lo svolgimento sporadico di giochi può
avere effetti limitati sul reddito e sulla salute, il suo
esercizio assiduo può incidere sul giocatore creandone
dipendenza, sino a diventare una patologia.
Sicché si assiste nel corso degli ultimi anni ad una crescente diffusione delle pratiche del gioco e ad una preoccupante incremento dei giocatori d’azzardo patologici.
dell’obbligatorietà o meno dei debiti di gioco o di
scommessa non sembrano uniformi.
Il diritto romano presentava due possibili alternative: in
alcune ipotesi, vietava in pecuniam ludere; in altre,
riconosceva piena validità ed efficacia al gioco.
Pertanto le scommesse sulla corsa, sulla lotta, o sul
salto erano valide ed efficaci e davano luogo ad obbligazioni protette con azione; le scommesse proibite
erano colpite con sanzioni penali e davano luogo altresì all’infamia9.
Il codice civile del 1865 si limitava a distinguere tra
debito munito di azione e debito non munito di azione.
L’invalidità dei negozi collegati al gioco dipendeva da
un giudizio di illiceità del gioco medesimo, derivante
da illiceità della causa di gioco o da illiceità per contrarietà a norme imperative10.
L’ordinamento giuridico vigente riconosce rilevanza
giuridica al gioco ove più soggetti si accordano per
disputare una gara o una partita in base a “regole da
loro stessi imposte o comunque accettate, obbligandosi ad una prestazione di contenuto patrimoniale a favore”11 del vincitore.
Una prima dicotomia tra giochi è presente nel codice
civile12 che distingue tra “giuoco” e “scommessa” (artt.
1933-1935 c.c.). La distinzione è considerata giuridicamente irrilevante, non esistendo una differenza di disciplina applicabile tale da giustificare una classificazione, utile solo ad appagare esigenze di precisione concettuale13. Dunque, il prevalente orientamento dottrinale14 ravvisa nel gioco un mero presupposto di fatto della
scommessa, di tal che il gioco diverrebbe rilevante per
il diritto solo quando vi sia una scommessa sull’esito
dello stesso15.
Ciò premesso, dall’analisi degli articoli 1933-1935 del
codice civile e degli articoli 718-723 del codice penale
è possibile distinguere tre tipi di giochi: giochi vietati;
giochi non proibiti ma tollerati; giochi pienamente tute-
2. Classificazione dei giochi
I criteri posti dagli ordinamenti giuridici a fondamento
38
Temi Romana
Saggi
dipendenza dell’esecuzione di una o di alcune delle
prestazioni dal verificarsi di un evento incerto.
L’aleatorietà non dipende dalla incertezza intorno al
vantaggio economico derivante dal contratto, non rilevando giuridicamente tale circostanza, ma si identifica
nel dato strutturale della subordinazione dell’an o del
quantum delle prestazioni all’esito del gioco o della
scommessa21.
L’art. 1935 c.c. prevede che “non compete azione per il
pagamento di un debito di giuoco o di scommessa,
anche se si tratta di giuoco o di scommessa non proibito”. In tali ipotesi di giochi e scommesse, l’unico effetto riconosciuto dall’ordinamento al gioco, “anche se si
tratta di giuoco o di scommessa non proibiti” (ex art.
1933 c.c.), è la soluti retentio del vincitore.
Il fondamento della irripetibilità è variamente indicato
dalla dottrina.
Secondo alcune opzioni interpretative22, il debito di
gioco sarebbe da ricondursi ad un’obbligazione naturale; secondo altre23, si tratta di prestazioni contrarie al
buon costume. Altro orientamento dottrinale ritiene che
l’irripetibilità, con la quale viene sanzionato il debito di
gioco, trovi la sua ratio nell’essere la prestazione
subordinata nell’an e nel quantum all’esito di un gioco
e, quindi, nel fatto che il trasferimento patrimoniale,
prodottosi in dipendenza dell’esito del gioco medesimo, non risponde a interessi economici meritevoli di
piena tutela. Tale trasferimento non potrebbe, quindi,
essere ricondotto all’adempimento di un dovere morale e sociale, ma neanche potrebbe essere ritenuto
immorale24.
In altre parole, l’art. 1933 c.c. stabilisce quale regola
giuridica generale che il gioco è un’attività considerata
non meritevole di tutela, tanto che da un lato non dà
azione al vincitore, dall’altro, non consente la ripetizione di quanto pagato. L’obbligazione sottesa al rapporto
giuridico del gioco d’azzardo lecito manca della coercibilità, ma l’adempimento spontaneo non è ripetibile25.
lati. La tripartizione dei giochi non si basa sulle caratteristiche del gioco, ma esclusivamente sulla voluntas
legis. Il legislatore stabilisce quali giochi sono proibiti,
quali giochi sono tollerati e quali, infine, sono tutelati.
3. Giochi vietati
L’articolo 718 c.p. sancisce il principio generale per cui
il gioco d’azzardo è illegale per l’ordinamento, se non
autorizzato. La ratio legis dell’assunto trova fondamento nella concezione del gioco d’azzardo come un
“vizio” che “rafforza la cupidigia e l’avversione al
lavoro”16, tanto che l’esigenza ludica diffusa nel sociale deve poter essere esercitata esclusivamente sotto il
controllo e il monopolio statale, che gestisce il gioco
d’azzardo lecito.
L’art. 721 c.p. definisce “giochi d’azzardo” illegali
quelli nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la
perdita è, interamente o quasi, aleatoria.
Integrano la fattispecie del gioco d’azzardo il relativo
esercizio, l’agevolazione o la partecipazione allo stesso, ove tali condotte siano tenute “in un luogo pubblico
o aperto al pubblico o in circoli privati di qualunque
specie” (ex artt. 718 e 720 c.p.). L’art. 721 c.p. considera un gioco “d’azzardo” in presenza di due elementi
costitutivi: il fine di lucro e l’alea.
La Corte di Cassazione Penale ha precisato che “Il
gioco d’azzardo, punito dall’art. 718 cod. pen., si configura allorché l’abilità del giocatore assume un ruolo
minimo rispetto alla aleatorietà dovuta alla fortuna ed
al caso e sussiste un fine di lucro, che può essere escluso solo allorquando la posta sia talmente tenue da
avere un valore del tutto irrilevante”17.
Il gioco o “la scommessa proibita ha dal punto di vista
civilistico causa illecita” per contrarietà a norma imperativa e all’ordine pubblico ed è, quindi, sanzionata con
la nullità, “ne nasce la negazione al vincitore dell’azione per ottenere la posta vinta e l’ammissibilità della
ripetizione di quanto abbia pagato il perdente”18.
L’obbligazione naturale è, quindi, estranea a questa fattispecie e riferibile solo alle ipotesi di giochi non proibiti.
5. Giochi pienamente tutelati
I giochi pienamente tutelati producono effetti contrattuali e sono assistiti da azione in giudizio per il pagamento della posta promessa.
L’ordinamento giuridico vieta il gioco d’azzardo da un
lato, e, attraverso leggi speciali (Casa da Gioco, Lotto,
Lotterie Nazionali) e norme derogative, conferisce
4. Giochi non proibiti ma tollerati
Il Capo XXI del libro IV del codice civile è rubricato
“Del giuoco e della scommessa”. Il gioco e la scommessa19 sono tipici contratti aleatori20, in ragione della
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Saggi
liceità e tutela ai giochi d’azzardo autorizzati, in quanto gestiti direttamente o indirettamente dallo Stato (a
mezzo di Gestori licenziati dal Ministero), dall’altro.
La legittimità costituzionale delle leggi speciali che
derogano al divieto di gioco d’azzardo è stata confermata dalla Corte Costituzionale, che ha affermato l’impossibilità che “i proventi del gioco lecito siano al tempo
stesso prodotto di un reato ed entrate di diritto pubblico: e ciò in base al carattere di unità e di coerenza del
nostro ordinamento giuridico”26. L’evidente contrasto
tra il divieto di giochi d’azzardo, previsto dagli artt.
718-721 c.p., e l’offerta al pubblico degli stessi in regime di monopolio statale è motivato sull’assunto che
“solo una legge dello Stato può derogare al diritto
penale vigente, tale effetto può essere conseguito anche
da una legge non emessa espressamente ad hoc, purché
contenga disposizioni incompatibili con il divieto
penalmente sanzionato. Si può inoltre rammentare che
per le disposizioni penali in generale o per quelle specifiche in tema di gioco d’azzardo (artt. 718-722 c.p.) fa
difetto un divieto di abrogazione o modifica tacita”27.
Se ne desume che i giochi d’azzardo pienamente tutelati trovano la loro legittimità in leggi statali di natura e
con efficacia derogatoria delle disposizioni penali
richiamate. Efficacia derogatoria, disposta dal legislatore, che troverebbe “ragioni giustificative della sottrazione di ipotesi di specie alla disciplina della ipotesi di
genere: accanto a quella più generale di disincentivare l’afflusso di cittadini italiani a case da gioco aperte
in Stati confinanti nelle zone prossime alla frontiera, si
pone quella più particolare di sovvenire alle finanze di
comuni o regioni ritenute dal legislatore particolarmente qualificate dal punto di vista turistico e dalla
situazione di dissesto finanziario”28.
Tali ragioni giustificative sono considerate dal legislatore prevalenti rispetto ad altri valori costituzionalmente tutelati, quali: il lavoro, di cui all’art. 1 Cost., inteso
come valore fondamentale caratterizzante la forma
dello Stato che manifesta la volontà della Costituzione
che tutti i cittadini siano impegnanti in attività socialmente utili; il risparmio, incoraggiato e tutelato dall’art. 47 Cost.; la solidarietà sociale, che tramuta il
diritto del cittadino al lavoro in un dovere sociale; la
libertà e dignità umana, che posso essere pregiudicate
dal gioco d’azzardo29.
Ne consegue che l’offerta di giochi d’azzardo leciti è
oggi molto varia e vi rientrano, in primis, le competizioni sportive e le lotterie autorizzate.
L’art. 1934 c.c. individua infatti quali giochi tutelati “I
giuochi che addestrano al maneggio delle armi, le corse
di ogni specie e ogni altra competizione sportiva”.
Per verificare se si tratti di una competizione sportiva
secondo una voce dottrinale30 non assume rilievo lo
sforzo fisico dei partecipanti, secondo altra dottrina31
l’elemento rilevante è la vigoria fisica da intendersi non
come sforzo, ma come esercizio del corpo.
Benché le competizioni sportive rientrino tra i giochi
tutelati dall’ordinamento è previsto il potere del giudice di rigettare o di ridurre la domanda di adempimento
dell’obbligazione contratta ove ritenga la posta eccessiva. Il diritto alla prestazione è, ovviamente, subordinato allo svolgimento della competizione nel rispetto
delle regole.
Il successivo art. 1935 c.c. prevede poi che “le lotterie
danno luogo ad azione in giudizio, qualora siano legalmente autorizzate”.
La lotteria32 è qualificata come un contratto bilaterale o
plurilaterale avente ad oggetto una prestazione patrimoniale caratterizzata dall’aleatorietà del risultato e
dall’aperta partecipazione del pubblico. Il presupposto
di liceità della lotteria è l’autorizzazione. Quest’ultima
realizza un elemento della fattispecie, la cui assenza
comporterebbe la nullità del contratto e la ripetibilità
delle prestazioni. Nell’alveo dei contratti di lotteria
autorizzata rientrano anche le lotterie istantanee33. Tali
lotterie, a differenza di quelle tradizionali in cui le vincite vengono attribuite a posteriori, sono caratterizzate
dalla circostanza per cui l’Amministrazione finanziaria
si impegna a mettere a disposizione degli scommettitori un numero prefissato di premi, predeterminati a
monte e corrispondenti ad altrettanti biglietti vincenti,
adeguatamente criptati, in modo da mantenere celata la
possibilità degli acquirenti di scoprire anzitempo la
natura vincente del tagliando.
Sono considerati giochi leciti e tutelati i giochi automatici34, che con macchine elettriche consentono una vincita in denaro o in natura e la possibilità di prolungare
il gioco. La definizione di apparecchio idoneo a gioco
lecito è prevista nell’art. 110, comma 6 e 7, R.D. 18
giugno 1931, n. 773 e successive modifiche, ai sensi
del quale: “Si considerano apparecchi idonei per il
gioco lecito: a) quelli che, dotati di attestato di confor-
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Temi Romana
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guire nel gioco, l’obiettivo da perseguire.
Nella seconda fase (fase della perdita progressiva),
caratterizzata da un gioco sempre più solitario e con
episodi di perdite sempre più rilevanti, il giocatore
insegue invano la vincita, trasformando il gioco nella
principale attività della vita quotidiana. In tale fase, il
gioco appare sempre più monopolizzare il pensiero e le
preoccupazioni del soggetto, fino a trasformarsi in una
fuga dalla vita reale.
Nella terza fase (fase della disperazione) il giocatore
perde la cognizione della realtà e per continuare a giocare può contrarre debiti, compiere atti illegali o violenti.
Il superamento del disturbo comportamentale necessita
di un percorso di cura e riabilitazione spesso lungo e
complesso. Il principale ostacolo alla cura della patologia si rinviene nella circostanza che il gioco è oggi una
pratica sociale riconosciuta dall’ordinamento: la dipendenza da sostanze stupefacenti è contrastata da una normativa stringente che sanziona alcune condotte connesse agli stupefacenti; la dipendenza da alcol è limitata da
sanzioni amministrative, che sanzionano, ad esempio,
la guida in stato di ebbrezza; il gioco, al contrario, non
è considerata una pratica riprovevole, il giocatore non
è emarginato dalla società, ma anzi circondato da messaggi pubblicitari che incitano al gioco.
Il fenomeno del gioco d’azzardo patologico è dilagante,
tanto che l’azzardo è considerato una delle principali
cause di indebitamento delle famiglie e delle imprese38.
La spesa per giochi e lotterie è considerata come un
“moltiplicatore negativo” della domanda di beni e servizi destinati alla vendita, poiché con lo sviamento della
domanda verso dissipazione e tassazione riduce lo stimolo potenziale alla produzione di valore aggiunto39.
Dunque il gioco influisce negativamente sulla crescita
economica di un Paese, sia in quanto dirotta la spesa
verso beni che non producono utilità, sia perché determina un rilevante costo sociale. Il costo sociale del
gioco d’azzardo patologico è composto da voci variabili: costo lavoro, inteso quale ridotta capacità lavorativa;
un costo relazionale e affettivo, che può comprendere
separazioni, divorzi e dunque costi di giustizia; costi
per la riabilitazione del gioco, che incidono sulla spesa
sanitaria; costo sociale, che comprende l’incremento di
attività illecite e, dunque, della illegalità. Tali elementi
sono la ragione dell’attenzione che viene da ultimo
riservata al tema.
mità (...), nei quali insieme con l’elemento aleatorio
sono presenti anche elementi di abilità, che consentono
al giocatore la possibilità di scegliere, all’avvio o nel
corso della partita, la propria strategia, selezionando
appositamente le opzioni di gara ritenute più favorevoli tra quelle proposte (...); b) quelli, facenti parte della
rete telematica (…); c) quelli elettromeccanici privi di
monitor attraverso i quali il giocatore esprime la sua
abilità fisica, mentale o strategica (…)”.
Dunque dal dato normativo al fine della liceità del gioco
offerto sembrerebbe necessario che il gioco stesso presenti quale carattere predominante la abilità del giocatore, intellettiva o fisica, e come carattere solo secondario
l’alea. Eppure i giochi che vengono offerti non pare
rispondano effettivamente a tali requisiti, a meno di non
voler considerare gioco di abilità una slot machine e
abilità fisica lo sforzo di spingere un pulsante.
6. Il gioco d’azzardo patologico
Il mero incontro con il gioco d’azzardo non porta fisiologicamente all’evoluzione di un quadro patologico,
sono, invece, necessari diversi elementi per trasformare una attività ludica in una condotta di dipendenza.
Quest’ultima è il risultato di un processo caratterizzato
dal concorso di fattori diversi legati al contesto sociale,
storico, culturale ed economico.
La letteratura scientifica considera il gioco d’azzardo
come una addiction35, intesa come “dedizione”, che ben
rappresenta la mancanza di libertà e di responsabilità
del giocatore patologico. Col termine new addictions si
fa riferimento a quelle forme di dipendenza, in cui non
è implicata una sostanza chimica che crea dipendenza
fisica, ma in cui sussiste una dipendenza psicologica,
che spinge alla ricerca costante di un oggetto, di un’attività, di un comportamento.
Il gioco d’azzardo patologico è un disturbo delle abitudini e degli impulsi che determina il compimento di atti
ripetuti senza motivazione razionale, che portano a
ledere interessi personali del soggetto e di altre persone36. Dall’analisi dei percorsi37 delle persone che hanno
sviluppato problemi con il gioco, si è riscontrata una
evoluzione del quadro dall’incontro con il gioco alla
vera e propria compulsività, che può essere suddivisa
in tre diverse fasi.
Nella prima fase (fase vincente) il giocatore occasionale ottiene una vincita, che diventa lo stimolo per prose-
Temi Romana
41
Saggi
La portata del fenomeno sociale del gioco era già evidente negli anni ’80, quando ha determinato il riconoscimento da parte della comunità scientifica del gioco d’azzardo come patologia, attraverso l’inclusione del
“Pathological Gambler” nella terza versione del DSM40.
Si riscontra, oggi, un crescente interesse del legislatore
nella prevenzione della dipendenza che ha portato alla
promulgazione del decreto legge 13 settembre 2012, n.
158 convertito in L. 8 novembre 2012, n. 18941, recante
“Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del
Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”.
Il citato decreto, all’art. 5, ha disposto l’aggiornamento
dei livelli essenziali di assistenza (c.d. LEA) con riferimento “alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da ludopatia, intesa
come patologia che caratterizza i soggetti affetti da
sindrome da gioco con vincita in denaro, così come
definita dall’Organizzazione mondiale della sanità
(G.A.P.)”. Con questa disposizione si è manifestata la
consapevolezza del legislatore che la dipendenza da
gioco d’azzardo è una patologia che necessita di un
intervento riabilitativo, che data la diffusione, non può
esulare dalle prestazioni fornite dal Sistema sanitario
nazionale (c.d. SSN). Tuttavia, per la effettiva modifica dei LEA e l’inserimento del GAP tra le patologie
curate dal SSN è necessaria, come noto, la promulgazione di un decreto ad hoc del Presidente del Consiglio
dei Ministri42, che allo stato tarda ad intervenire.
Nelle more, si deve tener conto che il gioco d’azzardo
patologico è una patologia che può incidere, in particolare, sulla capacità di agire e naturale del giocatore,
nonché sulle eventuali relazioni coniugali.
emancipato, i quali si trovano in condizioni di abituale
infermità di mente che li rende incapaci di provvedere
ai propri interessi”. Il gioco patologico, come abbiano
anticipato, è considerato come un disturbo comportamentale, che può senz’altro influenzare le scelte del
giocatore, ma difficilmente potrebbe assurgere ad una
infermità mentale abituale.
Il giocatore patologico potrebbe rientrare in alcuni presupposti della inabilitazione, e, precisamente: infermità mentale non così grave da determinare l’interdizione
o la prodigalità.
La citata infermità mentale sussiste in presenza di
un’alterazione delle facoltà mentali, che dia luogo ad
una incapacità parziale o totale di curare i propri interessi44. La dipendenza da gioco per portare a una sentenza di inabilitazione dovrebbe trovare riscontro in
una perizia psicologica, medica o psichiatrica, che ravvisi nel disturbo veri e propri sintomi patologici invalidanti la capacità di intendere e volere. Ciò trova un
ostacolo nella considerazione della dipendenza da
gioco alla stregua, non già di un vizio della volontà tale
da rendere irresistibile al giocatore la vocazione al
gioco, ma piuttosto di un vizio della personalità, che
pure potendo non avrebbe avuto l’indole di astenersi.
La dipendenza da gioco d’azzardo potrebbe, inoltre,
determinare una pronuncia di inabilitazione per prodigalità. La giurisprudenza ritiene tuttavia a tal fine
necessaria “una alterazione mentale che escluda o
riduca notevolmente la capacità di valutare il denaro,
di risolvere i problemi anche semplici di amministrazione, di cogliere il pregiudizio conseguente allo sperpero delle proprie sostanze”45. Tuttavia, il ricorso
all’istituto per i giocatori patologici è stato escluso in
capo ai soggetti che erano dediti al gioco, ma in maniera consapevole, anzi al preciso scopo di guadagnare
denaro46.
Una tutela per il giocatore patologico potrebbe rinvenirsi nell’istituto dell’amministrazione di sostegno.
L’art. 404 c.c.47, definisce l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno prevedendo che “La
persona che, per effetto di una infermità ovvero di una
menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai
propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno”.
L’amministrazione di sostegno ha come presupposto
7. Limitazioni della capacità di agire
Il gioco d’azzardo patologico può influire sulla capacità di agire del giocatore, intesa quale “idoneità a compiere a validamente atti giuridici che consentano al
soggetto di acquisire ed esercitare diritti o di assumere
ed adempiere obblighi”43, riducendola o, addirittura,
eliminandola. In queste ipotesi, al fine di tutelare il giocatore si potrebbe ricorrere a strumenti di tutela come
l’interdizione, l’inabilitazione o l’amministrazione di
sostegno, per cui è opportuno verificarne la concreta
applicabilità.
Ai sensi dell’art. 414 c.c., il ricorso all’interdizione è
possibile solo per: “Il maggiore di età e il minore
42
Temi Romana
Saggi
getti privati estranei alla normale linea creditizia bancaria e finanziaria.
La Corte di Cassazione, in una recente sentenza53, ha
affermato che il giocatore, il quale vuole invocare la
propria incapacità naturale derivante dall’essere avvezzo al gioco d’azzardo al fine di annullare quel contratto di prestito, deve necessariamente fornire prova rigorosa della patologia la quale non può desumersi dalla
mera frequentazione assidua delle sale da gioco.
L’aspetto più problematico dell’annullamento di un
atto per incapacità naturale è la prova dell’incapacità,
che non risulta facile da integrare.
una qualsiasi menomazione che ponga l’interessato
nella, anche, momentanea impossibilità di provvedere
ai propri interessi. Per ottenere il relativo provvedimento, dunque, non è necessaria la sussistenza di alcuna
comprovata incapacità totale o parziale di intendere e
volere, ossia una diagnosticata patologia inficiante la
cognizione del soggetto. Anche solo una generica
menomazione di natura fisica o psichica che renda l’interessato incapace di attendere alle proprie esigenze e
ai propri interessi consente la nomina dell’amministratore di sostegno.
Il ricorso all’istituto dell’amministrazione per la tutela
degli interessi, soprattutto economici, dei giocatori
patologici è ormai considerato possibile dalla giurisprudenza, che propende all’utilizzo dello strumento
invece di ricorrere a misure di tutela più incisive sulla
capacità del destinatario48.
La disciplina dell’AdS49 prevede, infatti, la possibilità
che il giudice tutelare stabilisca espressamente quali
atti potrà compiere il beneficiario in modo autonomo,
quali gli saranno del tutto vietati e quali dovrà compiere con la necessaria assistenza dell’amministratore50.
Un altro istituto che potrebbe essere utilizzato al fine di
tutelare i giocatori patologici è l’incapacità naturale.
Quest’ultima è disciplinata dall’art. 428 c.c. che stabilisce “Gli atti compiuti da persona che, sebbene non
interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa,
anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al
momento in cui gli atti sono stati compiuti possono
essere annullati, quando, per il pregiudizio che sia
derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente”51.
In alcuni (e isolati casi) la giurisprudenza52, riconoscendo la sussistenza della patologia in capo all’attore, ha
ritenuto che la stessa fosse talmente rilevante da determinare nel malato l’incapacità obiettiva di autodeterminarsi perfino nel contrarre di un prestito, finalizzato al
reperimento di liquidità da destinare al gioco d’azzardo.
Il giocatore aveva maturato una totale dipendenza dal
gioco d’azzardo che lo aveva portato a dilapidare il
proprio patrimonio familiare. Il bisogno di giocare non
era più limitato al tempo ma anche all’entità degli investimenti tanto da raggiungere mediamente cinquecento
euro al giorno. Per mantenere i ritmi compulsivi era
stato costretto a contrarre prestiti facendo ricorso a sog-
Temi Romana
8. Rapporti tra coniugi
Il gioco patologico può avere, e molto spesso ha, effetti pregiudizievoli nei rapporti familiari. L’art. 143 c.c.,
comma 3, stabilisce che “[e]ntrambi i coniugi sono
tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e
alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”.
Lo sviamento delle risorse economiche derivanti dai
proventi realizzati con la propria attività lavorativa per
fini futili, quali dedicarsi all’attività di gioco, può configurare una violazione del dovere di contribuzione ai
bisogni della famiglia.
In tali casi, il pregiudizio economico causato dal giocatore e patito dal coniuge potrebbe essere ricondotto alla
categoria del danno ingiusto. Peraltro potrebbe rilevare
oltre al risarcimento del danno patrimoniale, anche
quello non patrimoniale, essendo coinvolti aspetti
riguardanti la persona e lo svolgimento della propria
vita, danneggiata dalla condotta del coniuge giocatore54.
La concreta risarcibilità del danno causato dal giocatore d’azzardo patologico al coniuge può essere impedita
da alcune circostanze. L’ingiustizia del danno patito dal
coniuge del giocatore potrebbe escludersi ove entrambi
i coniugi abbiano contribuito, anche se in diversa misura, a determinare il danno, in applicazione del principio
volenti non fit iniuria. Probabilmente potrebbe escludersi una responsabilità aquiliana del giocatore anche
nell’ipotesi in cui “il coniuge abbia contratto il matrimonio con la consapevolezza55 della propensione al
gioco” o nell’ipotesi in cui conscio della patologia sia
rimasto inerte.
Il giocatore inoltre potrebbe dimostrare in giudizio che
la dipendenza dal gioco d’azzardo ha determinato una
43
Saggi
mità hanno ritenuto che il disturbo della shopper non
determinasse una incapacità di intendere e volere e dunque hanno confermato l’addebito della separazione nei
confronti della moglie affetta dalla sindrome da “shopping compulsivo” facendole perdere il diritto al mantenimento. Allo stesso modo nelle ipotesi di giocatori
patologici è ben possibile che l’autorità giudiziaria non
ritenga sufficiente la sussistenza di una dipendenza
comportamentale per l’esclusione ad nutum della
volontarietà della condotta del giocatore. Il giocatore
dunque che abbia dilapidato patrimonio, da destinare ai
bisogni della famiglia, potrebbe violare gli obblighi di
mantenimento derivanti dalla normativa dettata in tema
di matrimonio ed incorrere, oltre che in una possibile
condanna al risarcimento dei danni subiti, in una pronuncia di addebito in sede di separazione.
“mancanza rilevante sul piano della volontà e, quindi,
dell’imputabilità della condotta”56 escludendo così
l’applicabilità dell’art. 2043 c.c. A quanto precede si
deve inoltre aggiungere che l’utilizzo di risorse economiche per fini estranei ai bisogni della famiglia potrebbe configurare una violazione dei doveri coniugali e
determinare, in sede di separazione e divorzio, l’addebito a carico del coniuge giocatore.
Chiaramente la condizione patologica del giocatore
potrebbe portare ad escludere l’imputabilità della condotta dannosa allo stesso giocatore per carenza della
sua volontà, ma la prova dello stato di incapacità del
giocatore in sede processuale è ardua.
La Corte di Cassazione57 si è occupata del tema in relazione ad un’altra dipendenza comportamentale: lo shopping compulsivo. In questa ipotesi, i Giudici di legitti-
_________________
1 La parola ‘gioco’ deriva dal latino iocus
che significa scherzo, burla, da cui il predicato iocari, giocare. In greco le parole che
significano gioco, scherzo e cioè ?? ??????
e ????????, sono connesse alla radice di ????
?????? ossia bambino.
2 Come rilevato da Quintiliano, Institutio
oratoria, 1. 3, 8-12, Torino, Einaudi, 2001.
3 Come è messo in risalto da Seneca, De ira
IV, 21, v. trad. e ann., Milano, Serdonati,
1863.
4 Cfr. M.G. CAVALCA SCHIROLI (a cura di),
Lucio Anneo Seneca, De tranquillitate
animi, Bologna, Cooperativa Libraria
Universitaria editrice, 1981.
5 Cfr. L. BUTTARO, Del gioco e della scommessa, in Comm. Scialoja-Branca,
Bologna, Zanichelli, 1959, p. 3.
6 Cass. 21 aprile 1949, n. 964, in Foro it.
1949, I, c. 1177 ss.
7 Cass. 21 aprile 1949, n. 964, ult. loc. cit.
8 Così DI GIANDOMENICO – RICCIO, sub art.
1933 c.c., in Dei singoli contratti (artt.
1861-1986), a cura di D. VALENTINO, Torino, UTET, 2011, vol. IV, p. 324.
9 Sul tema si rinvia a FUNAIOLI, Il giuoco e
la scommessa, in Trattato di diritto civile
italiano, a cura di F. VASSALLI, Torino,
UTET, 1961, vol. IX, t. II, fasc. 1, p. 116.
10 Cfr. A. PINO, Il gioco e scommessa e il
contratto aleatorio, in Studi in onore di
Francesco Santoro-Passarelli, III, Napoli,
Jovene, 1972, p. 787.
11 Cfr. DI GIANDOMENICO – RICCIO, sub art.
1933 c.c., cit., p. 335.
12 Precisamente nel Capo XXI, del Titolo
III rubricato “Dei singoli contratti”, del
Libro IV dedicato alle obbligazioni.
13 Cfr. L. BUTTARO, Giuoco, I, Giuoco e
scommessa, dir. civ., in Enc. Giuridica,
Roma, Treccani, 1989, XV, p. 2.
14 Cfr. E. BRIGANTI, La disciplina dei debiti di giuoco, in Riv. del Notariato, 1994, p.
252.
15 Cfr. FUNAIOLI, Il giuoco e la scommessa,
cit., p. 114 e ss., ove precisa che “la disciplina giuridica prescinde oggi del tutto
dalla distinzione fra scommesse in base a
giuoco o indipendenti da questo (e fatte per
passatempo, per emulazione, per sostenere
44
un effettivo contrasto di opinioni, ecc.), ma
ha riguardo unicamente alla distinzione fra
quei tipi di scommesse più o meno direttamente tutelate (art. 1933 e segg. cod. civ.) o
proibite”.
16 Lavori preparatori al codice civile consultabili anche in AA.VV., Il nuovo codice
civile commentato: con i lavori preparatori, la più recente giurisprudenza, i confronti tra il vecchio e il nuovo codice, le norme
di attuazione, a cura di Nicola Stolfi, Francesco Stolfi, Napoli, Jovene, 1939-1956.
17 Cass. 24 ottobre 2002, n. 42519, in Rep.
Foro it. 2003, p. 1170. Secondo Cass. pen.,
12 ottobre 2011, n. 43679: “Non integra il
reato di esercizio di gioco d’azzardo l’organizzazione di tornei di poker texano (cosiddetto Texas Hold’Em) in quanto i giochi di
carte organizzati in forma di torneo, ove la
posta in gioco sia costituita esclusivamente
dalla sola quota d’iscrizione, sono considerati giochi di abilità e non d’azzardo”.
18 Cfr. M.A. C IOCIA , L’obbligazione
naturale: evoluzione normativa e prassi
giurisprudenziale, Milano, Giuffrè, 2000,
p. 107.
Temi Romana
Saggi
19 “Il gioco e la scommessa sono contratti
aleatori, a titolo oneroso, caratterizzati dalla
artificiale creazione del rischio, e che presentano, a seconda dei casi, la struttura bilaterale o plurilaterale” secondo BUTTARO, in
Del giuoco e della scommessa, in Comm.
Scialoja-Branca, cit., p. 57. La natura contrattuale è concordemente ammessa per i
giochi e le scommesse fornite di piena tutela giuridica (giochi e scommesse autorizzati), dubbi sussistono per i giochi vietati.
20 L’incidenza del rischio intesa come “il
variare l’entità di una o di entrambe le prestazioni a seconda del verificarsi o meno di
un evento futuro e incerto” è l’elemento
caratterizzante i contratti aleatori, secondo
BUTTARO, in Del giuoco e della scommessa,
cit., p. 71.
21 Cfr. BUTTARO, Gioco, I, Gioco e scommessa, dir. civ., cit.; ID., In tema di gioco, in
Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1952, p. 408 ss.
22 Cfr. BUTTARO, In tema di gioco, cit.
23 Cfr. G. B. FERRI, La neutralità del gioco,
in Riv. Dir. Comm. e gen. delle obbl., 1974,
I, 46; P. RESCIGNO, L’abuso del diritto,
Bologna, il Mulino, 1998, p. 145.
24 Nel dibattito sul fondamento, se adempimento di un’obbligazione naturale o esecuzione di prestazione ob turpem causam,
della sanzione di cui la norma fornisce il
debito di gioco, una dottrina (PINO, Il gioco
e scommessa e il contratto aleatorio, cit., p.
791) suggerisce una diversa soluzione: il
gioco e la scommessa concretano la linea di
confine tra validità e nullità del negozio; in
essi non si ravvisa infatti né illiceità, né
immoralità, ma manca l’utilità sociale.
L’intento ludico si viene così a sistemare,
proprio perché volto a realizzare una funzione frivola, tra l’illiceità cui l’ordinamento appronta la sanzione della nullità e la
piena meritevolezza.
25 La irripetibilità è esclusa nell’ipotesi in
cui il perdente sia un soggetto incapace, ove
è sempre ammessa l’azione per ottenere la
ripetizione della somma giocata e persa.
26 Secondo la Corte Cost., 23 maggio
1985, n. 152: “La circostanza che altri
comuni o regioni si trovino o potrebbero
trovarsi in condizioni analoghe a quelle dei
comuni o della regione a statuto speciale
finora considerati dal legislatore non concreta di per sé sola e hic et nunc lesione
dell’art. 3 Cost. E ciò tanto più in quanto
Temi Romana
dalla lamentata circostanza (cioè dalla
censurata omissione del legislatore) non
possono trarsi conseguenze di automatica
estensione”. La Corte Costituzionale conclude, quindi, per la non fondatezza della
questione di legittimità costituzionale, in
riferimento all’art. 3 Cost., delle leggi 3
novembre 1954, n. 1042, 29 novembre
1955, n. 1179, 18 febbraio 1963, n. 67, 6
dicembre 1971, n. 1065 e 26 novembre
1981, n. 690, per le parti e nel senso in cui
prevedono la liceità del gioco d’azzardo nel
Casinò di Saint Vincent. La sentenza è edita
in CED Cassazione, 1985 o sul sito
www.giurcost.it.
27 Così Corte Cost., 23 maggio 1985, n.
152, cit.
28 Secondo quanto affermato dalla Corte
Cost., 23 maggio 1985, n. 152, cit.
29 Profilo evidenziato da Corte Cost., 30 ottobre 1975, n. 237, in Foro it., 1976, I, p. 14.
30 Cfr. BUTTARO, Giuoco, I, Giuoco e
scommessa, dir. civ., cit., p. 6.
31 Cfr. E. BRIGANTI, La disciplina dei debiti di giuoco, in Rivista del Notariato, 1994,
p. 251.
32 Cfr. E. VALSECCHI, Giuoco e scommessa,
in Enciclopedia del diritto, XIX, Milano,
Giuffrè, 1970, p. 49 ss.
33 Sul tema si rinvia a G. POLI, Lotterie
istantanee: la speranza delusa non è risarcibile, in Giur. It, 2008, p. 10.
34 Il Decreto legge 4 luglio 2006, n. 223
(c.d. Decreto Bersani-Visco), “Disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale,
per il contenimento e la razionalizzazione
della spesa pubblica, nonché interventi in
materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale” (in G.U. n. 153 del 4 luglio 2006,
conv. in L. 4 agosto 2006, n. 248, in G.U. 11
agosto 2006, n. 186), all’art. 38, inoltre, ha
disposto Misure di contrasto del gioco illegale, “legalizzando due tipologie di gioco”
(P. CIPOLLA, Social network, furto d’identità e reati contro il patrimonio, in Giur.
Mer., 2012, 12, p. 2672 B) le scommesse a
distanza a quota fissa con modalità di interazione diretta tra i singoli giocatori e i giochi di abilità a distanza con vincita in denaro, nei quali il risultato dipende, in misura
prevalente rispetto all’elemento aleatorio,
dall’abilità dei giocatori. La legge di conversione ha confermato la legalità dei c.d.
skills games ossia “l’esercizio dei giochi di
45
abilità a distanza con vincita in denaro nei
quali il risultato dipende, in misura prevalente rispetto all’elemento aleatorio, dall’abilità dei giocatori” (art. 1).
35 Con il termine “Dependence” si indica la
dipendenza fisica e chimica, ossia la condizione in cui si verifica un’alterazione del
comportamento che determina una ricerca
patologica del piacere. Cfr. G. SERPELLONI,
Il gioco d’azzardo patologico in Italia, in
The Italian journal on addiction, vol. 2, n.
3-4, 2012 (numero monografico).
36 In questo senso C.A. COLOMBO - I.
MERZAGORA BETSOS, Tentare nuoce: il
gioco d’azzardo in criminologia e psicopatologia forense, in Riv. it. Medicina legale,
2002, 06, p. 1361.
37 Cfr. H.R. LESIEUR - R. J. ROSENTHAL,
Pathologic Gambling: a review of a literature, prepared for the American Psichiatric
Task Force of DSM – IV Committee on
Desorders of Impulse Control Not
Elsewhere Classified, in Gambling Studies,
1991; R.L., CUSTER, Pathological gambling, in A. WHITFIELD (a cura di), Patients
with Alcoholism and other Drug Problems,
New York, Year Book Publication, 1984; C.
GUERRESCHI, Il gioco patologico, Roma,
Edizioni Kappa, 2003.
38 Cfr. M. FIASCO, Aspetti sociologici, economici e rischio criminalità, in AA.VV. Il gioco
e l’azzardo, Milano, Franco Angeli, 2002.
39 Cfr. E. L. GRINOLS - D. B. MUSTARD,
Business profitability vs. social profitability: Evaluating the social contribution of
Industries with externalities and the case of
the casino industry, in Managerial and
Decision Economics, 2001, n. 22, p. 143.
40 Cfr. Diagnostic Statistic Manual, ossia il
sistema, riconosciuto in ambito internazionale,
di classificazione delle condizioni patologiche
riconosciute dalla comunità scientifica internazionale. American Psychiatric Association,
Diagnostic and Statistical Manual of Mental
Disorders (ed. 4, Washington DC., 1994),
Milano, Masson, 1995.
41 Il decreto Balduzzi è stato pubblicato in
G.U. 10 novembre 2012, n. 263.
42 Su proposta del Ministro della salute di
concerto con il Ministro dell’economia e
delle finanze, d’intesa con la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le
regioni e le province autonome di Trento e
di Bolzano.
Saggi
43 A. TORRENTE - P. SCHLESINGER, Manuale
di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2013, p.
82.
44 Cass., 4 luglio 1985, n. 4028, in Giust.
Civ. Mass., 1985, f. 7.
45 Cass., 13 marzo 1980, n. 1680, in Giust.
Civ. Mass., 1980, f. 3.
46 Trib. L’Aquila, 7 maggio 2008, in banca
data elettronica Pluris – Utet Cedam.
47 La Legge n. 6/2004, modificativa del
Codice Civile, ha introdotto l’istituto dell’amministrazione di sostegno. La ratio della
riforma consiste nel “tutelare, con la minore
limitazione possibile della capacità di agire,
le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della
vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente” (art.1).
48 Cfr. inter alios decreto del Tribunale di
Monza del 15 dicembre 2010, inedito.
49 Si distinguono tre forme di AdS: amministrazione rappresentativa, ove il giudice
individua espressamente quali atti l’amministratore ha il potere di compiere in nome
e per conto del beneficiario, sostituendosi a
quest’ultimo nella qualità di rappresentante
legale; amministrazione di assistenza, ove il
giudice stabilisce quali atti il beneficiario
può compiere con la mera assistenza dell’amministratore di sostegno; estensione
della disciplina dell’interdizione o inabilitazione, ove il giudice tutelare (ex art. 411,
ult. comma, c.c.) sceglie di applicare al
beneficiario dell’AdS le stesse preclusioni
stabilite per gli interdetti o quelle prescritte
per gli inabilitati.
50 Si precisa che, il terzo comma dell’art.
406 c.c. prevede l’obbligo per i “responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della
persona, ove a conoscenza di fatti tali da
rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno” di
proporre al giudice tutelare il ricorso per
l’amministrazione di sostegno o di informarne il pubblico ministero. Dalla norma
non si evince quali soggetti siano destinatari dell’obbligo di proporre il ricorso, ossia
se l’obbligo riguardi i soggetti apicali delle
strutture o anche gli operatori delle stesse.
La prima interpretazione propende per una
lettura verticistica e assicura maggior attenzione per gli interessi del paziente. La seconda lettura è conforme al principio di non
burocratizzazione e semplificazione del
procedimento e potrebbe essere confortata
dal fatto che si parla di servizi (evidenziando l’elemento funzionale) e non di struttura. Sembra preferibile una lettura intermedia e considerare quale responsabile del
servizio chi ha responsabilità di indirizzo
della terapia specifica richiesta al servizio.
minare il risarcimento del danno patrimoniale, quali quelle previste dall’art. 217 c.c.
La citata disposizione al secondo comma
stabilisce che ove uno dei coniugi abbia
amministrato i beni dell’altro, munito di
procura ma senza un espresso obbligo di
rendiconto, il coniuge o i suoi eredi possono domandare la consegna dei frutti esistenti, ma non si risponde per i frutti già
consumati. Il terzo comma dell’art. 217 c.c.
prevede che se uno dei coniugi, “nonostante l’opposizione dell’altro, amministra i
beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni risponde dei danni e della
mancata percezione dei frutti”. In questa
seconda ipotesi il legislatore espressamente
consente al coniuge danneggiato che ha
provato ad impedire il depauperamento del
patrimonio senza riuscirvi la facoltà di
domandare il risarcimento dei danni subiti.
51 Sussiste un grave pregiudizio ove l’atto
abbia causato all’attore una perdita economica o sia ravvisabile un’alterazione dell’equilibrio negoziale a causa dell’assunzione di obblighi ingiustificati o eccessivamente onerosi. La giurisprudenza ha precisato
che per l’annullamento degli atti unilaterali
è necessaria la prova del grave pregiudizio
subito dall’attore, mentre l’annullamento di
contratti è subordinato all’accertamento del
requisito della mala fede dell’altro contraente, “rispetto alla quale il pregiudizio all’incapace si pone soltanto quale uno dei possibili elementi rilevatori” (Cass. 8 novembre
1966, n. 2732, in Giur. It. 1967, p. 1140).
56 Cfr. DI MARZIO, Scommesse, vizi, cavalli, depauperamento patrimoniale, cit., p.
1608, secondo l’Autore in questo caso l’altro coniuge dovrebbe altresì rispettare il
dovere di assistenza sancito dall’art. 143 c.c.
52 V. Tribunale Civile di La Spezia, con
una sentenza del gennaio 2013, inedita.
53 Cass. 1 ottobre 2012, n. 16670, in CED
Cassazione, 2012.
54 In alcune ipotesi, è il legislatore stesso a
disciplinare fattispecie che possono deter-
46
55 Cfr. M. DI MARZIO, Scommesse, vizi,
cavalli, depauperamento patrimoniale, in
Trattato della responsabilità civile e penale
in famiglia, a cura di P. CENDON, II, Padova,
CEDAM, 2004, pp. 1605-1609.
57 Cass., 18 novembre 2013, n. 25843, in
CED Cassazione. Sembra anche utile ricordare che il Tribunale di Varese, con decreto
3 ottobre 2012 in www.altalex.it, ha concesso l’amministrazione di sostegno a una
donna affetta dalla sindrome da “shopping
compulsivo”, poiché dall’istruttoria è risultata evidente la difficoltà della donna di
“contenere la propensione al consumo irrazionale di denaro” e la necessità di farle
“riacquistare la capacità di risparmio e
gestione efficiente del reddito”.
Temi Romana
Osservatorio legislativo
Accesso civico e accesso disciplinato dalla legge n. 241 del 1990
Marina Binda
Avvocato del Foro di Roma, iscritto nell'elenco speciale di un ente pubblico
I
ra davvero singolare. Si consideri, al riguardo, che il
comma primo dell’art. 5 D.Lgs. n. 33/2013 statuisce
che “L’obbligo previsto dalla normativa vigente in
capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare
documenti, informazioni o dati comporta il diritto di
chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia
stata omessa la loro pubblicazione”.
Dalla formulazione normativa appare subito chiaro che
il diritto di accesso civico è correlato all’obbligo di
pubblicazione; discende direttamente da quello, alla
stregua di una sorta di obbligazione civilistica4 tra ente
pubblico ed utente, in virtù della quale l’ente è obbligato nei confronti dell’utente ad un facere consistente
nella pubblicazione dei dati, mentre l’utente è il creditore al corretto adempimento della prestazione.
Il diritto di richiedere la conoscenza dei dati previsti
dalla legge e di pretenderne la pubblicazione è attribuito a “chiunque”, ossia a qualsiasi soggetto, che sia una
persona fisica o giuridica, indipendentemente dalla
natura o dallo status che caratterizza il richiedente.
L’accesso civico è invero costruito come un diritto soggettivo libero, senza barriere di ingresso e senza ostacoli nella realizzazione degli scopi ai quali è preordinato, atteso che non è necessario, per colui che intende
esercitarlo, dimostrare né la legittimazione né l’interesse specifico all’acquisizione del dato.
Sicché il diritto all’ostensione, disciplinato dal D.Lgs.
14 marzo 2013, n. 33, è a “legittimazione assoluta”
piuttosto che a “legittimazione particolare”, come è
concepito l’accesso agli atti nella legge n. 241/1990, e
in ciò l’istituto del c.d. accesso civico, disciplinato dal
citato decreto n. 33, si trova in un rapporto di “reciproca esclusione”5 con il valore della trasparenza regolato
dal titolo V della legge breve sul procedimento amministrativo.
È stato notato6 che non sussiste un’incompatibilità tra
l’accesso della legge n. 241 e l’accesso del decreto 33:
i due istituiti, all’opposto, convivono nell’ordinamento
senza interferenze ed invasioni di campo, in quanto
l’uno è destinato a regolare fattispecie non contempla-
l decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, acclamato come testo unico sulla trasparenza amministrativa, esprime, in primo luogo, il totale capovolgimento del rapporto tra segretezza e pubblicità dei dati
afferenti all’azione amministrativa: fatta eccezione per
alcune limitate ipotesi individuate nell’articolo 4, il
citato provvedimento legislativo ha generalizzato l’obbligo di pubblicare dati ed informazioni che il legislatore ha prioritariamente ritenuto di rendere disponibili,
elencandoli puntualmente ed analiticamente.
La trasparenza, definita nel decreto come accessibilità
totale delle informazioni concernenti la pubblica
amministrazione, nell’ottica del legislatore risulta essere espressamente rivolta a tre scopi fondamentali: a)
l’incoraggiamento di “forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche”; b) l’attuazione del “principio
democratico e dei principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità,
efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche,
integrità e lealtà nel servizio alla nazione”; c) la garanzia “delle libertà individuali e collettive, nonché dei
diritti civili, politici e sociali” che “integra il diritto ad
una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del
cittadino” (art. 1)1.
Il decreto reca l’introduzione dell’innovativa figura
dell’accesso civico, disciplinato nell’art. 5, le cui caratteristiche risultano tanto peculiari da far subito comprendere che ci troviamo dinanzi a un meccanismo
finora conosciuto nel nostro ordinamento soltanto in
rarissimi casi2.
Il tema
L’accesso civico attribuisce un vero e proprio diritto
soggettivo in capo a chiunque intenda riscontrare il
rispetto da parte dell’amministrazione dell’obbligo di
pubblicazione dei dati, resi accessibili per legge3.
A ciò si aggiunga che il dovere di pubblicazione dei
dati, come concepito dal legislatore, riveste una struttuTemi Romana
47
Osservatorio legislativo
te dall’altro. L’accesso contemplato dalla legge n. 241,
infatti, presuppone che il documento non sia sottoposto
al regime di pubblicazione di cui al D.Lgs. n. 33, la cui
ratio è invece il c.d. right to know, a prescindere da uno
specifico interesse in capo al richiedente.
Accessibilità a chiunque di determinate informazioni
concernenti l’organizzazione e l’attività delle p.a. al
fine di consentire forme diffuse di controllo democratico sull’operato della p.a. (art. 1).
Informazioni, peraltro, già elencate nel decreto legislativo n. 33/2013: sono tipizzate, previste dal legislatore
sulla base di nome puntuali. Si tratta di una serie numerosa di informazioni, tracciabili nei motori di ricerca
perché pubblicate sui siti, a prescindere dalle eventuali
richieste di accesso civico. Di conseguenza, nel citato
decreto n. 33 c’è una selezione ex ante, operata dal
legislatore, delle informazioni da pubblicare, poste a
disposizione di tutti; indipendentemente dalle iniziative
dei privati.
Quali sono le informazioni oggetto di pubblicazione
obbligatoria? Sono quelle elencate nel decreto, e precisamente: gli atti di carattere normativo e amministrativo (art. 12); l’organizzazione delle pubbliche amministrazioni (art. 13); i componenti degli organi di indirizzo politico (art. 14); i titolari di incarichi dirigenziali e
di collaborazione o consulenza (art. 15); la dotazione
organica e il costo del personale con rapporto di lavoro
a tempo determinato (art. 16); i dati relativi al personale non a tempo determinato (art. 17); gli incarichi conferiti ai dipendenti pubblici (art. 18); i bandi di concorso (art. 19); i dati relativi alla performance e alla distribuzione dei premi al personale (art. 20); i dati sulla
contrattazione collettiva (art. 21); i dati relativi agli enti
pubblici vigilati, e agli enti di diritto privato in controllo pubblico, nonché alle partecipazioni in società di
diritto privato (art. 22); i provvedimenti amministrativi
(art. 23); i dati aggregati relativi all’attività amministrativa (art. 24); i controlli sulle imprese (art. 25); gli atti
di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e
attribuzione di vantaggi economici a persone fisiche ed
enti pubblici e privati (art. 26) e l’elenco dei soggetti
beneficiari (art. 27); i rendiconti dei gruppi consiliari,
regionali e provinciali (art. 28); il bilancio, preventivo
e consuntivo, e il piano degli indicatori e dei risultati
attesi di bilancio, nonché i dati concernenti il monitoraggio degli obbiettivi (art. 29); i beni immobili e la
gestione del patrimonio (art. 30); i dati relativi ai controlli sull’organizzazione e sull’attività dell’amministrazione (art. 31); i servizi erogati (art. 32); i tempi di
pagamento dell’amministrazione (art. 33); i procedimenti amministrativi e i controlli sulle dichiarazioni
sostitutive e l’acquisizione d’ufficio dei dati (art. 35);
le informazioni necessarie per i pagamenti informatici
(art. 36); i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (art. 37); i processi di pianificazione, realizzazione e
sovvenzione delle opere pubbliche (art. 38); l’attività di
pianificazione e governo del territorio (art. 39); le
informazioni ambientali (art. 40); i dati specifici relativi al Servizio Sanitario Nazionale (art. 41); gli interventi straordinari in caso di calamità naturali o altre
emergenze, che comportano deroghe alla legislazione
vigente (art. 42).
Si tratta di un elenco standardizzato ma non chiuso.
Basti considerare, al riguardo, che l’articolo 4 comma
4, del decreto n. 33/2013 prevede che “nei casi in cui
norme di legge o di regolamento prevedano la pubblicazione di atti o documenti, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti…”. Appare chiaro che i “casi in
cui norme di legge o di regolamento prevedano la pubblicazione di atti o documenti” non sono quelli del
decreto trasparenza: si tratta di casi differenti, anche
futuri, in cui il legislatore potrà prevedere nuovi obblighi di pubblicazione. Qui vi sarà la possibilità di selezionare, di rendere non intellegibili i dati non pertinenti; ciò non è possibile, invece, nei casi già tipizzati dal
decreto n. 33, ove prevale sempre la trasparenza sulla
riservatezza, in quanto la selezione è già operata a
monte dal legislatore.
L’accesso civico e l’accesso della legge n. 241/1990.
Differenze
a) Il bene giuridico tutelato. La disciplina dell’accesso
contenuta nella legge 7 agosto 1990 n. 241 non attribuisce un diritto generalizzato alla trasparenza amministrativa: il diritto all’ostensione, nella logica della legge
n. 241, è sempre distinto rispetto al diritto all’informazione. L’accesso è concepito come mezzo per perseguire la trasparenza, in un’ottica, però, strumentale; la trasparenza, nella legge n. 241, viene tutelata non come
bene in sé, ma come mezzo funzionale per il soddisfacimento di un interesse corrispondente ad una situazio-
48
Temi Romana
Osservatorio legislativo
dei consociati: affinché possano ricorrere i requisiti
dell’attualità e della concretezza15, deve sussistere un
collegamento tra la documentazione di cui si chiede
l’ostensione e la posizione sostanziale dell’istante, il
cui soddisfacimento è limitato o impedito16.
Ciò non accade nell’accesso civico disciplinato dall’art. 5 del decreto trasparenza ove non è necessario,
per colui che intende esercitarlo, dimostrare né la legittimazione né l’interesse all’acquisizione, tramite la
consultazione nel sito web del singolo dato o documento, del quale “chiunque” è abilitato a pretendere di ottenere la pronta disponibilità.
c) La motivazione. La richiesta di accesso agli atti e
documenti di cui alla legge n. 241/1990 deve essere
motivata (art. 25, comma 2) in quanto devono essere
dimostrati, in capo all’accedente, la legittimazione e
l’interesse, nonché la connessione tra il documento
richiesto e l’obbiettivo di tutela della posizione soggettiva vantata.
L’accesso civico di cui al decreto n. 33/2013 non necessita di motivazione in quanto il diritto soggettivo alla
visione dei dati discende direttamente dall’obbligo di
pubblicazione imposto dal legislatore alla pubblica
amministrazione.
d) L’esercizio. Il diritto di accesso della legge n.
241/90 si esercita mediante esame ed estrazione di
copia dei documenti amministrativi; le modalità di
esercizio sono disciplinate dal D.P.R. 12 Aprile 2006,
n. 184 che distingue, tra l’altro, la procedura di accesso informale da quella di accesso formale.
Con riferimento ai costi, l’art. 25 della legge n. 241 statuisce che l’esame dei documenti è gratuito ma il rilascio di copia è subordinato al rimborso delle spese di
riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di
bollo nonché i diritti di ricerca e di visura. Ugualmente
l’art. 7 del D.P.R. 184/2006 statuisce che la copia dei
documenti è rilasciata subordinatamente al pagamento
degli importi dovuti ai sensi dell’art. 25, secondo le
modalità determinate dalle singole amministrazioni.
Ciò significa che le copie non vengono rilasciate se
l’istante non provvede a versare le somme dovute per i
costi di riproduzione. Sicché può concludersi che l’accesso ai documenti amministrativi è tutt’ora sostanzialmente oneroso per l’istante, il quale può certamente
esaminare la documentazione di cui ha richiesto
l’ostensione, ma non può riceverne copia laddove non
ne giuridicamente tutelata di cui deve essere titolare il
soggetto che pretende l’accesso7. Di conseguenza,
come risulta anche dall’art. 24, comma 3, della citata
legge n. 241 introdotto dalla novella n. 15/20058, l’accesso non può tramutarsi in un’azione popolare diretta
al controllo generalizzato dell’attività amministrativa,
al fine di verificare se la stessa risulti conformata ai
canoni della correttezza, trasparenza e legittimità.
Nel caso di accesso civico, all’opposto, è sufficiente
richiamare il testo dell’art. 59, per comprendere immediatamente che ci troviamo dinanzi ad un obbligo generalizzato di pubblicare le informazioni predeterminate
dal legislatore, finalizzato a favorire forme diffuse di
controllo sull’utilizzo delle risorse pubbliche e sul perseguimento degli scopi istituzionali delle amministrazioni.
b) La legittimazione e l’interesse all’accesso. Il diritto
di accesso agli atti, disciplinato dalla legge n. 241/1990
può essere esercitato da soggetti “interessati” e cioè
“portatori di un interesse diretto, concreto ed attuale
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso” (art. 22 comma 1, lett. b).
La giurisprudenza maggioritaria10 ha sempre valorizzato il collegamento dell’accesso con una diversa “situazione giuridicamente tutelata”, (diritto soggettivo o
interesse legittimo, e, nei casi ammessi, esponenzialità
di interessi collettivi o diffusi) che abbia, in connessione a quest’ultima, un interesse diretto, concreto ed
attuale ad acquisire, mediante l’accesso, uno o più
documenti amministrativi. Ciò in quanto nella legge n.
241 l’inerenza del documento alla posizione giuridica
sostanziale preesistente fonda l’interesse concreto e
differenziato della parte che richiede i documenti11.
Poiché la formula utilizzata dal legislatore “interessi
giuridicamente rilevanti” nell’art. 22 è piuttosto ampia,
la giurisprudenza12 e la dottrina13 hanno chiarito che la
posizione soggettiva cui la legge ricollega l’accesso
non deve avere la consistenza del diritto soggettivo o
dell’interesse legittimo, essendo sufficiente che l’istante versi, al momento, in una posizione giuridica soggettiva, anche meramente potenziale14, collegata cioè ad
eventi ancora non verificatisi.
Peraltro, l’interesse all’accesso della legge n. 241, pur
nell’ampia accezione testé chiarita, deve rivestire i
caratteri della differenziazione rispetto alla generalità
Temi Romana
49
Osservatorio legislativo
cedimento di accesso ai documenti amministrativi
di cui alla legge n. 241/1990. Basti aver riguardo
alle modalità di esercizio dell’accesso civico, come
fissate nell’art. 5, commi 2, 3, e 4 del decreto trasparenza.
“2. La richiesta di accesso civico …. va presentata
al responsabile della trasparenza dell’amministrazione obbligata alla pubblicazione di cui al comma
1, che si pronuncia sulla stessa.
3. L’amministrazione, entro trenta giorni, procede
alla pubblicazione nel sito del documento, dell’informazione o del dato richiesto e lo trasmette contestualmente al richiedente, ovvero comunica al
medesimo l’avvenuta pubblicazione, indicando il
collegamento ipertestuale a quanto richiesto. Se il
documento, l’informazione o il dato richiesti risultano già pubblicati nel rispetto della normativa
vigente, l’amministrazione indica al richiedente il
relativo collegamento ipertestuale.
4. Nei casi di ritardo o mancata risposta il richiedente può ricorrere al titolare del potere sostitutivo
di cui all’articolo 2, comma 9 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, che,
verificata la sussistenza dell’obbligo di pubblicazione, nei termini di cui al comma 9 ter del medesimo articolo, provvede ai sensi del comma 3”.
Dalla lettura dell’articolo 5, appare subito chiaro
che il decreto trasparenza prospetta gli stessi passaggi procedimentali disegnati nel capo V della
legge n. 241/1990, fissando per la conclusione dell’istruttoria, avviata con la presentazione della
domanda di accesso civico, lo stesso termine di
trenta giorni stabilito dall’articolo 25, comma 4,
della citata legge n. 241 nonché tratteggiando i meccanismi remediali in caso di inerzia da parte dell’ente tenuto alla pubblicazione del dato.
b) L’inerzia. Il mancato adempimento dell’ente che ha
ricevuto l’istanza all’obbligo di pubblicazione dei
dati nel termine di trenta giorni dall’istanza (art. 5,
comma 3) consente a chi richiede la pubblicazione,
prima di rivolgersi subito alla onerosa tutela giurisdizionale (che, in ogni caso, comporta il versamento del contributo unificato, sebbene in primo grado
non sia necessario ricorrere al patrocinio di un
avvocato, ai sensi dell’articolo 23, comma 1, c.p.a.
come integrato dall’articolo 52, comma 4, lettera a)
provveda all’esborso dei relativi costi.
L’accesso civico, invece, si realizza mediante la pubblicazione sul sito istituzionale del dato richiesto con contestuale trasmissione al richiedente ovvero comunicazione dell’avvenuta pubblicazione, indicando il collegamento ipertestuale (art. 5, comma 3). Di conseguenza può comprendersi che la relativa istanza sia assolutamente gratuita (art. 5, comma 2), visto che l’accesso
si esplica tramite un’operazione che non comporta
costi per l’amministrazione: la pubblicazione. Al più
sono ipotizzabili i costi che la p.a. può sostenere per
informare la parte istante di aver provveduto alla pubblicazione, ma si ritiene che ciò possa avvenire anche
tramite e-mail, in un’epoca ove la modalità telematica
è destinata ad essere la principale (se non l’unica)
forma di interlocuzione tra privati e pubbliche amministrazioni, sia in campo amministrativo che in campo
giudiziario.
e) La ratio. Poiché l’accesso civico può realizzarsi in
un momento anche temporalmente distante rispetto
all’esercizio della funzione amministrativa17, è evidente che il legislatore, per talune categorie di informazioni, ha ammesso una pubblicazione differita del dato
rispetto al momento di esercizio della funzione pubblica: si pensi a quelle di cui all’articolo 26, che vedono
sorgere l’obbligo di pubblicazione al momento della
erogazione del beneficio economico, ovvero ai dati
relativi ai contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, all’esito delle procedure di gara. Ciò significa che in
concreto l’esercizio del diritto di accesso civico potrebbe risultare intempestivo rispetto alle necessità di avvio
di un contenzioso giurisdizionale nei confronti di chi
detiene il dato.
Se ne deduce che il diritto di accesso civico non risponde all’esigenza di deflazione del contenzioso, fine che
resta ancorato all’istituto dell’accesso documentale18,
ma persegue l’obiettivo del rispetto e della lealtà verso
i destinatari dell’esercizio della funzione amministrativa, propri di un moderno e più consapevole rapporto tra
cittadini e istituzioni.
Sintonie
a) La struttura. Il diritto di accesso civico è condizionato alla presentazione di una vera e propria istanza, dalla quale scaturisce un procedimento amministrativo, disegnato in completa armonia con il pro-
50
Temi Romana
Osservatorio legislativo
del decreto n. 33/2013), di rivolgersi al titolare del
potere sostitutivo di cui all’art. 2 comma 9 bis della
legge n. 241/1990, soggetto presente in ogni ente, in
quanto istituita per legge19, sostituto che provvederà
in luogo del dipendente rimasto inerte nei termini di
cui al comma 9 ter dell’art. 2 legge n. 241/1990
(metà del tempo previsto).
c) La giurisdizione. Le controversie provocate dalla
mancata risposta all’istanza di accesso civico vengono attribuite dal legislatore alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo (art. 133 lett.
a) n. 6 come modificato dall’art. 52 lett. e) decreto
n. 33/2013) al pari di quel che avviene per la tutela
del diritto di accesso ai documenti amministrativi. Il
legislatore, dunque, estendendo la previsione della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
alla pretesa di accesso civico (ma anche a tutte le
“controversie relative agli obblighi di trasparenza
previsti dalla normativa vigente”, ex art. 50 del
decreto n. 33/2013) ha costruito un sistema giurisdizionale identico per entrambe le figure: l’accesso
civico e l’accesso ai documenti amministrativi.
Di conseguenza, il ricorso al giudice amministrativo va
proposto entro 30 giorni dalla conoscenza del diniego o
dalla formazione del silenzio (articolo 116, comma 1,
c.p.a.); la pubblica amministrazione può stare in giudizio a mezzo di un dipendente (116 comma 3, c.p.a.); la
parte ricorrente non necessita del patrocinio di un
difensore in primo grado (art. 23 c.p.a. ); i termini processuali sono dimezzati (art. 87, comma 3, c.p.a.); la
sentenza viene resa in forma semplificata in camera di
consiglio (art. 87, comma 3, c.p.a.), e può ordinare la
pubblicazione dei documenti richiesti, entro un termine
non superiore, di norma, a trenta giorni, dettando, ove
occorra, le relative modalità (art. 116, comma 4, c.p.a.).
della legge 6 novembre 2012, n.190.
L’art. 43 statuisce, inoltre, che il responsabile per la trasparenza ha l’obbligo di segnalare all’indirizzo politico, all’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV),
all’Autorità anticorruzione e, nei casi più gravi, all’ufficio di disciplina, i casi di mancato o ritardato adempimento degli obblighi di pubblicazione.
Il comma 5 del citato art. 43 dispone, inoltre, che “In
relazione alla loro gravità, il responsabile segnala i
casi di inadempimento o di adempimento parziale degli
obblighi in materia di pubblicazione previsti dalla normativa vigente, all’ufficio di disciplina, ai fini dell’eventuale attivazione del procedimento disciplinare.
Il responsabile segnala altresì gli inadempimenti al
vertice politico dell’amministrazione, all’OIV ai fini
dell’attivazione delle altre forme di responsabilità”.
Tanto premesso, si noti che l’art. 5 statuisce che l’istanza di accesso civico deve essere presentata al responsabile della trasparenza il quale è tenuto, in caso di inerzia, ad effettuare la segnalazione di cui all’articolo 43,
comma 5. Ebbene, poiché la figura del responsabile per
la trasparenza di norma coincide con quella del responsabile dell’anticorruzione, ed in entrambi i casi si tratta
di un dirigente posto al massimo livello del complesso
gestionale dell’ente, resta difficile immaginare come
possa l’inerzia del responsabile per la trasparenza sull’istanza di accesso civico provocare, su richiesta della
parte rimasta delusa, l’attribuzione della competenza a
rispondere, in via sostitutiva, ad altro organo dell’ente
collocato in posizione sovraordinata rispetto a quello
che avrebbe dovuto procedere.
Sicché, sembra sussistere una sorta di contraddizione
tra la prescrizione recata dall’articolo 5 D.Lgs. n.
33/2013 e l’art. 43 stessa legge: sarebbe stato preferibile lasciare alla pubblica amministrazione la libertà di
individuare autonomamente al proprio interno la figura
organizzativa alla quale affidare il ruolo di responsabile per la trasparenza.
Il rischio più concreto è quello di un addossamento in
un’unica figura di più ruoli, che possono sovrapporsi
facendo coincidere la figura del responsabile trasparenza con quella del sostituto ex art. 2 comma 9 bis, legge
n. 241/1990 (che è poi lo stesso responsabile che
dovrebbe sostituire e provvedere a segnalare della sua
inerzia) con il concreto rischio di conflitti di interesse.
L’unica soluzione ermeneutica alla rilevata criticità
Il responsabile della trasparenza
Va premesso che l’art. 43 del D.Lgs. n. 33/2013 attribuisce al responsabile per la trasparenza il ruolo di
svolgere, stabilmente, un’attività di controllo sull’adempimento degli obblighi di pubblicazione previsti
dalla normativa vigente, assicurando la completezza, la
chiarezza e l’aggiornamento delle informazioni pubblicate. La disposizione fa preferenzialmente coincidereil
responsabile per la trasparenza con il responsabile per
la lotta alla corruzione di cui all’articolo 1, comma 7,
Temi Romana
51
Osservatorio legislativo
sembra essere la seguente:
1) l’articolo 5, comma 2, afferma soltanto che “La
richiesta di accesso civico... va presentata al
Responsabile della trasparenza..., che si pronuncia
sulla stessa”;
2) il responsabile costituisce il destinatario naturale
della domanda e l’organo competente a rispondere
all’istante, ma ciò non significa che gli sia altresì
attribuito legislativamente il compito di istruire il
procedimento scaturente da tale istanza;
3) in caso d’inerzia del dirigente dell’ufficio competente protrattasi oltre i 30 giorni dalla richiesta,
provvederà direttamente (entro i successivi 15 giorni a partire dalla reiterazione della domanda da
parte dell’interessato) il responsabile per la trasparenza, in qualità di titolare del potere sostitutivo ai
sensi dell’articolo 2, comma 9 bis, della legge n.
241/1990.
civico”, consistente in una richiesta – che non deve
essere motivata – di effettuare tale adempimento.
L’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato
dagli articoli 22 e seguenti della n. 241/1990 è riferito,
invece, al diritto degli interessati – che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una
situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso – di prendere visione ed estrarre copia di documenti. In funzione di tale
interesse la domanda di accesso deve essere opportunamente motivata20.
Va poi segnalata la sentenza del Consiglio di Stato, n.
3014 del 19 marzo 2014, ove viene rilevato che “con
l’accesso civico si è introdotto il potere di cittadini ed
enti di controllare democraticamente se una amministrazione pubblica abbia adempiuto agli obblighi di
trasparenza previsti dalla legge”.
Chiarisce al riguardo il Cons. Stato, che «Un’amministrazione può respingere una istanza di accesso civico
esclusivamente contestando la ricorrenza del presupposto normativo, ovvero che l’istanza di accesso nella
specie concerne documenti, informazioni o dati per i
quali “la normativa vigente” non prevede un obbligo
di pubblicazione in capo all’amministrazione stessa».
Quanto alla legittimità del diniego in caso di pubblicazione già avvenuta, il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, precisa che “se l’obbligo sussiste, ma
l’amministrazione vi avesse già adempiuto, non può
solo per questo opporsi un diniego di accesso all’istante, giacché l’amministrazione è comunque tenuta ad
indicare a quest’ultimo il collegamento ipertestuale
necessario per la compiuta conoscenza del documento,
informazione o dato”.
Si segnala, infine, una sentenza del T.A.R. Campania –
Salerno, n. 680 del 4 aprile 2014 in materia di accesso
dei consiglieri comunali e provinciali. Qui si legge
testualmente: “Il recente D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33,
nell’introdurre una disciplina organica relativa agli
obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni,
intercetta, di certo, un piano diverso rispetto a quello
interessato dall’istituto dell’accesso, di cui al D.Lgs. n.
241/1990 e, relativamente ai Consiglieri comunali e
provinciali, di cui all’art. 43 D.Lgs. n. 267/2000.
Nonostante queste differenze ontologiche tra accesso e
trasparenza, tuttavia, i due istituti finiscono irrimedia-
La giurisprudenza
L’accesso civico ha già interessato la giurisprudenza
amministrativa, pur trattandosi di istituto introdotto
nell’ordinamento solo di recente.
Va anzitutto segnalata la sentenza del Consiglio di
Stato n. 5515 del 20 novembre 2013, che traccia la
distinzione tra accesso civico e accesso ai documenti
amministrativi.
Il Cons. Stato precisa che con il decreto legislativo n.
33/2013 il legislatore ha inteso procedere al riordino
della disciplina volta ad assicurare a tutti i cittadini la
più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti
l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare “il principio democratico e
i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità,
buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza
nell’utilizzo di risorse pubbliche”, nonché per la “realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del
cittadino”. La normativa, secondo il Consiglio di Stato,
riveste dichiarate finalità di contrasto della corruzione
e della cattiva amministrazione ed intende anche attuare la funzione di “coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale,
regionale e locale, di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera r) della Costituzione”. Solo in caso di omessa
pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5
del citato D.Lgs. n. 33/2013, il cosiddetto “accesso
52
Temi Romana
Osservatorio legislativo
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo24)
bensì in materia di dati e informazioni, più vicini alla
tematica di accesso e riservatezza dei dati personali
attribuiti alla cognizione “piena” del giudice ordinario
dal codice della privacy25, attesa la posizione soggettiva di diritto riferibile all’accedente, analoga a quella
propria di colui che vanta il diritto di accesso civico.
Al riguardo, ci si permette di rilevare che non sembrano rinvenibili particolari similitudini tra l’art. 5 del
decreto trasparenza e l’art. 7 del codice della privacy.
La struttura dell’accesso civico, pur nella siderale differenza quanto a finalità, legittimazione, interesse e
bene giuridicamente tutelato, appare più simile a quella del diritto di accesso ai documenti amministrativi:
entrambi gli istituti presuppongono un’istanza del privato che dà il via ad un vero e proprio procedimento
amministrativo, come risulta palese, del resto, dal
richiamo, contenuto nell’articolo 5 D.Lgs. n. 33/2013,
all’art. 2, commi 9 bis e 9 ter, L. n. 241/1990, nonché
alla disciplina del termine, identica a quella prevista
dalla citata legge n. 241.
E pur qualificando la posizione giuridica soggettiva in
capo all’utente che richiede l’accesso civico come
quella di un diritto soggettivo, non pare scorretta l’attribuzione della materia alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo. Ciò in quanto anche nell’ipotesi di diritto di accesso ai documenti amministrativi si è
a lungo discusso sulla situazione soggettiva del richiedente. Come è noto, in materia si sono storicamente
fronteggiati, da un lato l’orientamento che afferma la
natura di interesse legittimo e che concepisce l’atto
adottato dall’amministrazione come provvedimento
autoritativo, dall’altro quello che configura la situazione stessa come diritto soggettivo. In dottrina è emersa
anche una terza posizione, secondo cui la natura della
pretesa di accesso non sarebbe identica, ma influenzabile dalle circostanze della fattispecie concreta e, in
particolare, dalla natura vincolata o discrezionale del
potere esercitato dall’amministrazione.
La tematica, articolata e complessa, sulla quale si sono
pronunciate importanti plenarie26, ci porterebbe lontano, fuori tema. Qui pare utile solo accennare che la
posizione della giurisprudenza dominante, ormai,
sembra essere attestata sulla riconducibilità della posizione giuridica in capo all’accedente ai documenti
amministrativi al diritto soggettivo, piuttosto che
bilmente per sovrapporsi; ciò significa che, se da un
lato, il principio di trasparenza tenderà sempre più ad
occupare spazi sin’ora appartenenti al dominio dell’accesso alla documentazione amministrativa, la portata di quest’ultimo non potrà che trarre giovamento
da un ampliamento diffuso degli obblighi di ostensione
del proprio operato da parte dell’Amministrazione”.
Le criticità
Inizialmente la dottrina21 ha segnalato dubbi di costituzionalità in relazione ad un eccesso di delega rispetto al
testo dell’art. 1 comma 35 della legge 6 novembre 2012
n. 190. Non vi sarebbe traccia, nella legge delega, dell’attribuzione del potere di introdurre una nuova figura
di accesso alla conoscenza delle informazioni pubbliche quale strumento per una diffusa verifica circa la
tempestiva pubblicazione dei dati delle amministrazioni e dei soggetti tenuti a farlo.
Si è anche detto22 che nell’articolo art. 152 D.Lgs. 30
giugno 2003, n.196 si annida l’introduzione di una
sorta di azione popolare, analogamente a quanto previsto dall’art. 9 del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 con
caratteri analoghi alle previsioni in materia di ricorsi
elettorali (art. 130, comma 1, c.p.a.) ovvero dell’articolo 3 del D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 195, in materia di
accesso alle informazioni ambientali.
In realtà, trattasi di preoccupazioni forse eccessive,
atteso che l’accesso civico riguarda atti individuati ex
ante dal legislatore soggetti a pubblicazione obbligatoria: l’ostensione sul sito istituzionale è obbligo già
gravante ex lege sulla p.a. cosa che l’accesso civico
altro non fa che sollecitare. Forse è il caso di ridimensionare tali preoccupazioni considerato che la pubblicazione delle informazioni è attività doverosa, per
l’amministrazione, in quanto discendente direttamente dalla legge.
Ulteriori dubbi di costituzionalità sono stati poi rilevati23 con riferimento all’introduzione di una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Si è osservato che, al di là degli stretti profili di
eccesso di delega, la scelta del legislatore delegato di
affidare al giudice amministrativo la cognizione delle
controversie in materia di inadempimento agli obblighi
di pubblicità sarebbe impropria in quanto nella specie,
non si verterebbe affatto in tema di accesso ai documenti amministrativi (materia rispetto alla quale vige la
Temi Romana
53
Osservatorio legislativo
all’interesse legittimo. Del resto, l’utilità pratica presa
di posizione in ordine alla situazione giuridica soggettiva in capo all’accedente ex L. n. 241/1990 appare
poco conferente ove si consideri che vi è giurisdizione
esclusiva in capo al giudice amministrativo e che
l’istanza non risulta reiterabile.
A ciò si aggiunga che, come ha ben chiarito la dottrina27, oggetto della cognizione del giudice è la fondatezza della pretesa all’ostensione. Nel giudizio sul diritto
di accesso ai documenti amministrativi, il giudice valuta la fondatezza della pretesa sostanziale, i presupposti
dell’istanza. Tanto si giustifica in quanto il giudizio ex
art. 116 c.p.a. non ha come epilogo l’annullamento o
meno del diniego di accesso, ma un provvedimento
giurisdizionale sull’esistenza o meno della pretesa
sostanziale dell’accedente. Tant’è che la sentenza può
consistere in una condanna ad un facere. Si è detto, al
riguardo28 che il giudice può decidere sull’istanza di
accesso anche prescindendo dai motivi di ricorso, accogliere o respingere la domanda per motivi diversi e non
dedotti in giudizio: ciò in quanto il giudizio sull’accesso della n. 241 ha ad oggetto la verifica delle basi a fondamento dell’istanza di ostensione, piuttosto che la
legittimità del diniego.
Ebbene, a fronte di un giudizio sull’accesso della legge
n. 241 avente le descritte incisive caratteristiche, non
pare davvero irragionevole l’attribuzione della giurisdizione esclusiva al G.A. in tema di accesso civico;
l’assunto che la posizione giuridica dell’accedente nell’accesso civico è di diritto soggettivo, non sembra proprio costituire motivo per ritenere preferibile la cognizione del G.O., sul rilievo che lo stesso sarebbe il giudice naturale deputato a condannare o meno la P.A. ad
un facere. Ma ciò accade ormai comunemente anche
nel processo amministrativo e proprio nel giudizio sull’accesso della legge n. 241. Ed a tale istituto l’accesso
civico, pur nella diversità, appare assimilabile quanto a
struttura procedimentale, e sembra in definitiva assai
più vicino rispetto, ad esempio, all’istituto dell’accesso
disciplinato dal codice della privacy. Del resto, a ben
vedere, anche nell’accesso regolato dalla legge n.
241/90 non viene in considerazione una tradizionale
funzione amministrativa in senso classico: basti pensare alla funzione regolatoria di interessi contrastanti che
è chiamata a svolgere la P.A. nel caso in cui occorrano
eventuali istanze di controinteressati ex art. 22.
Conclusioni
Nella relazione illustrativa al decreto trasparenza, viene
affermato che l’accesso civico “rappresenta un ampliamento del potere di controllo dei cittadini sull’operato
delle pubbliche amministrazioni, un potere introdotto
originariamente dalla legge 241/1990, la quale aveva
previsto la pubblicità come regola e il segreto come
eccezione” e mira “ad alimentare il rapporto di fiducia
intercorrente tra la collettività e le pubbliche amministrazioni e a promuovere la cultura della legalità, nonché la prevenzione di fenomeni corruttivi”.
L’istituto, frutto di un’indubbia trasformazione culturale del rapporto intercorrente tra ente che esercita la funzione pubblica e cittadinanza, va inteso con equilibrio
ed applicato nelle giuste dimensioni, volute dal legislatore: non quale mezzo di futuri conflitti tra amministrazione e cittadini, bensì strumento di utile collaborazione tra le istituzioni e popolazione, alla quale non sono
attribuiti indefiniti poteri punitivi, ma un giusto diritto
alla conoscenza dei dati di cui (sempre e solo) la legge
impone la pubblicazione.
_________________
1 Il decreto legislativo 14 marzo 2013, n.
33, rappresenta il culmine di una serie di
interventi normativi, non coordinati tra
loro, tutti indirizzati alla massima trasparenza delle informazioni, quali:
- gli artt. 2, 12 e 50 del decreto legislativo
7 marzo 2005, n. 82 (codice dell’amministrazione digitale); nonché l’art. 50,
comma 1 bis, del medesimo decreto,
introdotto dal terzo correttivo (decreto
legislativo 30 dicembre 2010, n. 235), che
contengono sia definizioni, sia obblighi
di pubblicazione, ripresi dal D.Lgs. n.
33/2013;
- l’art. 2 del decreto legislativo 12 aprile
2006, n. 163, che indica la trasparenza tra
i principi generali della disciplina dei
contratti pubblici;
- l’art. 21 della legge 18 giugno 2009, n.
69, che obbliga le pp.aa. a pubblicare sul
sito internet “le retribuzioni annuali, i
curricula vitae, gli indirizzi di posta elet-
54
tronica e i numeri telefonici dei dirigenti
e dei segretari comunali e provinciali
nonché di rendere pubblici, con lo stesso
mezzo, i tassi di assenza e di maggiore
presenza del personale, distinti per uffici
di livello dirigenziale”; nonché, a rendere
pubblico: a) un indicatore dei propri
tempi medi di pagamento relativi agli
acquisti di beni, servizi e forniture, denominato “indicatore di tempestività dei
pagamenti”; b) i tempi medi di definizio-
Temi Romana
Osservatorio legislativo
-
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ne dei procedimenti e di erogazione dei
servizi con riferimento all’esercizio
finanziario precedente;
l’art. 11 del decreto legislativo 27 ottobre
2009, n. 150 (c.d. decreto “Brunetta”),
che ha fornito una definizione di “trasparenza”, intesa già in quella sede come
“accessibilità totale”, attraverso lo strumento della pubblicazione nei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni
di tutte le informazioni relative all’organizzazione e all’utilizzazione delle risorse
per l’espletamento delle funzioni istituzionali;
l’art. 18 del decreto legge 22 giugno
2012, n. 83, “Misure Urgenti per la crescita paese”, convertito con modificazioni dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, il
quale, “in deroga ad ogni diversa disposizione di legge o regolamento” – e, quindi,
anche al Codice Privacy – ha previsto
l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di pubblicare, sui rispettivi siti internet
istituzionali, il “nome dell’impresa o
altro soggetto beneficiario ed i suoi dati
fiscali; l’importo; la norma o il titolo a
base dell’attribuzione; l’ufficio e il funzionario o dirigente responsabile del
relativo procedimento amministrativo; la
modalità seguita per l’individuazione del
beneficiario; il link al progetto selezionato, al curriculum del soggetto incaricato,
nonché al contratto e capitolato della
prestazione, fornitura o servizio;
l’art. 9 del decreto legge 18 ottobre 2012,
n. 179, “Ulteriori misure urgenti per la
crescita del paese”, recanti ulteriori
obblighi di pubblicazione sui siti web istituzionali;
l’art. 1, commi 15, 16 e 29, della legge 6
novembre 2012, n. 190.
2 Ci si riferisce, ad esempio, al potere di
accesso alle informazioni ambientali da
parte dei cittadini ai sensi dell’art. 5 D.Lgs.
19 agosto 2005, n.195; al potere di accesso
alle informazioni detenute dagli enti locali
da parte dei consiglieri comunali e provinciali ai sensi dell’art. 43 D.Lgs. 18 agosto
2000, n. 267.
3 Come emerge dalla relazione illustrativa
allo schema di decreto, il modello cui si è
ispirata la disposizione è quello statunitense dei Freedom of Information Acts (FOIA)
“atto per la libertà di informazione” – emanata il 4 luglio 1966 – che, tuttavia, a differenza del nostro sistema, assicura, a chiun-
Temi Romana
que lo richieda, la conoscenza di qualsiasi
informazione inerente l’attività di una
amministrazione pubblica, e non solo di
quelle oggetto di pubblicazione; mentre, nel
sistema delineato dal D.Lgs. n. 33/2013,
affinché possa essere esercitato il c.d. diritto di accesso civico, deve preesistere un
obbligo normativo di pubblicazione.
4 Come risulta testualmente dalla disposizione in commento: “l’obbligo… di pubblicare… comporta il diritto di …richiedere”.
5 Così testualmente: R. GIOVAGNOLI, “rapporti tra accesso c.d. difensivo e documenti coperti dal segreto” 2014.
6 Cfr. R. GIOVAGNOLI (nt. 5).
7 In questo senso, già nel 2006, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (18
aprile 2006 n. 6), qualificava il diritto di
accesso come una situazione soggettiva
che, più che fornire utilità finali risulta
caratterizzata per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla
tutela di un interesse giuridicamente rilevante (diritto o interesse).
8 L’assunto era già assodato in via giurisprudenziale. Cfr. ad es. Cons. Stato, Sez. V,
20 Ottobre 2004, n. 6879 e 7 aprile 2004, n.
1969, secondo cui, anche in materia di enti
locali, il diritto di accesso, per essere esercitato, deve estrinsecarsi attraverso un interesse per la tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti. Nello stesso senso: Cons. Stato, 28
maggio 2001, n. 2889.
9 In particolare il comma 2: “La richiesta di
accesso civico non è sottoposta ad alcuna
limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente non deve essere motivata, è gratuita e va presentata al responsabile della trasparenza dell’amministrazione
obbligata alla pubblicazione di cui al
comma 1, che si pronuncia sulla stessa”.
10 Ex multis: Cons. Stato, 22 maggio 2012,
n. 2974.
11 Ma va registrata una posizione contraria
che dà rilievo all’autonomia dell’interesse
all’accesso rispetto alla situazione giuridica
sottostante cui l’accesso è preordinata. In
questo senso: T.A.R. Campania, Napoli, 23
novembre 2012, n. 4200.
12 Cfr.: Cons. Stato, 13 aprile 2006, n.
2068; T.A.R. Puglia, Bari, 7 maggio 2007,
n. 1263; T.A.R. Puglia, Lecce, 6 maggio
55
2008, n. 1278; id., 28 maggio 2008, n.
1609; id., 9 luglio 2008, n. 2087.
13 Cfr. S. MEZZACAPO, Entrata in vigore
solo dopo il regolamento, in Guida al
Diritto n. 10 del 12 marzo 2005; S. RUSSO,
Oggetto e funzione dell’accesso agli atti dei
pubblici poteri nella l. 15/2005, suoi limiti,
sua reclamabilità, in Giust.Amm.it, 2005, n.
7; V. CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90,
in Giustamm.it, 2005, n. 3; G. BACOSI, La
legge n. 15 del 2005: ecco il nuovo volto
della “241”, in Giustamm.it, 2005, n. 4.
14 Già, in tal senso, prima della novella del
2005, Cons. Stato, 7 settembre 2004, n.
5873; successivamente alla novella, Cons.
Stato, 27 ottobre 2006, n. 6440.
15 Art. 22 comma 1 lett. b) legge n.241/1990
e art. 2 D.P.R. 12 aprile 2006 n. 184.
16 In questo senso T.A.R. Campania, (nt. 9).
17 L’art. 8 del decreto legislativo n.
33/2013 stabilisce che “I dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa
vigente sono pubblicati per un periodo di 5
anni, decorrenti dal 1° gennaio dell’anno
successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione, e comunque fino a che
gli atti pubblicati producono i loro effetti,
fatti salvi i diversi termini previsti dalla
normativa in materia di trattamento dei
dati personali”.
18 La deflazione del contenzioso è da annoverare tra le finalità sottese al diritto di
accesso ai documenti amministrativi, in
quanto a seguito della visione dei documenti la parte istante potrebbe convincersi della
correttezza dell’operato dell’amministrazione e rinunciare al ricorso (in questo
senso di veda: T.A.R. Campania, Napoli, 9
aprile 2009, n. 1968).
19 Art. 1, comma 1, D.L. 9 febbraio 2012,
n. 5, convertito in l. 4 aprile 2012, n. 35.
20 Il caso valutato dal Consiglio di Stato
riguardava un’istanza di accesso di un dottore di ricerca, successiva ad altre cinque
istanze, ma l’istante chiedeva ulteriormente
l’ostensione “del decreto rettorale n. 9737
del 15.3.2012”, nonché di “tutti gli atti
delle procedure di valutazione di tutti i dottorandi di ricerca, il cui relativo titolo di
dottore di ricerca è stato o non è stato rilasciato dal Rettore dell’Università Cattolica
del Sacro Cuore dal giorno 1 gennaio 2005
Osservatorio legislativo
ad oggi”.
“L’accesso civico”, in Treccani.it, 2014.
24 Art. 133 comma 1, lettera a) n. 6) c.p.a.
21 Cfr. S. TOSCHEI, Accesso civico e accesso ai documenti amministrativi, due volti
del nuovo sistema amministrativo Italia,
Intervento al convegno “Anticorruzione e
trasparenza: analisi dell’impatto normativo nell’ente locale”, Frascati, 15 luglio
2013; C. COLAPIETRO - C. SANTARELLI,
22 Cfr. V. TORANO, Il diritto di accesso civico, Intervento al convegno “Anticorruzione
e trasparenza: analisi dell’impatto normativo nell’ente locale”, Frascati, 15 luglio
2013.
25 Art. 152 D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196.
23 Cfr. TOSCHEI (nt. 22).
28 Cfr. GIOVAGNOLI (nt. 5).
56
26 Ad. Plen. Consiglio di Stato 18 aprile
2006, n. 6 e Ad. Plen. 24 aprile 2012, n. 7.
27 Cfr. GIOVAGNOLI (nt. 5).
Temi Romana
Note a sentenza
Lavoro (Rapporto di) - Licenziamento individuale Successiva revoca del provvedimento - Reintegra nel posto
di lavoro - Decorrenza ex tunc degli effetti dalla data di
decorrenza originaria del rapporto di lavoro - Retribuzioni
medio tempore maturate
Trib. Roma – Sez. Lavoro – 10 Gennaio 2013, n. 245 – G.U. dr. Nunziata – ric.: D.M. (avv. F.d.A.); res.: B.N. ora B.S. (avv. F.M. e N.P.)
Carlotta Maria Manni
Praticante Abilitato
Il licenziamento, una volta comunicato alla controparte, è unilateralmente irrevocabile. È tuttavia consentita
l’accettazione della revoca da parte del lavoratore (Cass. 11664-06). Tale revoca implica l’invito del datore a
riprendere il lavoro e la sua volontà di considerare il rapporto come mai risolto “de iure”. E pertanto, ove accettata, essa ripristina il rapporto di lavoro con effetto dalla data del recesso, con la conseguenza che da tale data
il lavoratore ha diritto alle retribuzioni “medio tempore” maturate, essendo il mancato svolgimento della prestazione lavorativa imputabile esclusivamente alla condotta datoriale e potendo la tempestiva impugnativa del licenziamento, valutarsi come implicita offerta delle energie lavorative da parte del lavoratore (Cass. 5638-09).
F
atto e diritto – La parte ricorrente, all’odierna
udienza, ha dichiarato a fronte dell’avvenuta
ripresa del servizio in data 16.3.2012, di abbandonare la domanda per la parte inerente alla validità del
licenziamento ed al risarcimento dei danni.
Nel rito del lavoro il contenuto della domanda proposta
dal ricorrente e della memoria difensiva del resistente
fissano il thema decidendum, che non può più essere
alterato con l’introduzione di nuovi elementi, tali da
modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni
già formulate nei termini di cui all’art. 420 c.p.c.; tale
regola processuale, però, non esclude che l’attore
abbandoni alcuni capi della domanda ovvero che il
convenuto rinunci a talune eccezioni, trattandosi di una
condotta processuale che rientra nella piena disponibilità delle parti (Cass. 7035-86).
Non si verte invece in materia di rinuncia agli atti del
giudizio, con conseguente necessità delle formalità
richieste dall’art. 306 c.p.c., atteso che tale istituto
comporta l’estinzione del giudizio, laddove nel caso in
esame il giudizio permane, in quanto restano fermi i
residui capi della domanda.
Temi Romana
Il lavoratore ha insistito per l’accoglimento della residua parte della domanda con condanna del datore di
lavoro alla corresponsione delle retribuzioni dal licenziamento alla ripresa del servizio con declaratoria della
continuazione del rapporto di lavoro dalla originaria
assunzione.
La domanda è parzialmente fondata nei termini di
seguito esposti.
Quanto al primo profilo, il lavoratore è stato licenziato
in data 16.3.2011 e collocato in mobilità ai sensi della
L. 223/91. È pacifico tra le parti che successivamente,
in sede di trattative sindacali, il licenziamento è stato
revocato (v. anche accordo aziendale 7.4.2011) e che
tale revoca è stata accettata dal lavoratore al più tardi
con la notifica del ricorso introduttivo del giudizio.
Il giudice è chiamato a pronunciarsi su fatti che siano
sostanzialmente controversi tra le parti; ed anzi deve
porre a fondamento della decisione, oltre alle prove raggiunte dalle parti, i fatti non specificamente contestati
dalla parte costituita (art. 115 c.p.c.; Cass. 14623-09).
Il licenziamento, una volta comunicato alla controparte, è unilateralmente irrevocabile. È tuttavia consentita
57
Note a sentenza
l’accettazione della revoca da parte del lavoratore
(Cass. 11664-06). Tale revoca implica l’invito del datore a riprendere il lavoro e la sua volontà di considerare
il rapporto come mai risolto “de iure”. E pertanto, ove
accettata, essa ripristina il rapporto di lavoro con effetto dalla data del recesso, con la conseguenza che da tale
data il lavoratore ha diritto alle retribuzioni “medio
tempore” maturate, essendo il mancato svolgimento
della prestazione lavorativa imputabile esclusivamente
alla condotta datoriale e potendo la tempestiva impugnativa del licenziamento, valutarsi come implicita
offerta delle energie lavorative da parte del lavoratore
(Cass. 5638-09).
Quanto sopra esposto trova conferma nel comportamento processuale della società la quale, in comparsa
di risposta, ha dichiarato: 1) di aderire alla proposta del
D. di ricostituire il rapporto “fin dalla data del licenziamento”; 2) che, entro qualche giorno, il lavoratore
avrebbe ricevuto lettera di accettazione di tale proposta, “mettendo nel nulla il precedente effetto risolutivo”; 3) che, in tal modo, “il rapporto è costituito fin
dall’origine”.
La revoca del recesso, in una con l’invito a riprendere
servizio, deve essere portata a conoscenza del lavoratore, al quale deve essere comunicata. Nel caso in esame
il datore di lavoro ha ottemperato a tale onere soltanto
in corso di causa, con lettera del 12.3.2012, dopo che il
lavoratore ha accettato la revoca per averne avuto
conoscenza “aliunde”.
Alla luce delle considerazioni esposte la società deve
essere condannata a pagare al lavoratore le retribuzioni
dal momento del licenziamento (16.3.2011) a quello
della instaurazione del presente giudizio (7.12.2011) in
osservanza del principio generale secondo cui, salva
diversa disposizione di legge, la materia del contendere si cristallizza al momento della instaurazione del
giudizio e quindi non possono essere prese in considerazione pretese fondate su fatti non dedotti nel ricorso
introduttivo e successivi allo stesso.
Quanto al secondo profilo, la domanda di declaratoria
della inefficacia od invalidità di licenziamento collettivo contiene necessariamente quella di accertamento
della continuazione del rapporto di lavoro, conseguendo necessariamente la reintegra nel posto di lavoro (v.
art. 5 comma 3 L. 223/91 e art. 18 Stat. Lav. nel testo
vigente “ratione temporis”).
Consegue che tale ultima domanda non può essere considerata né nuova né tardiva, purché sussista l’interesse
a proporla al momento della decisione (art. 100 c.p.c.).
Tale interesse sussiste a fronte della opposizione manifestata dal difensore della società alla odierna udienza.
La data di assunzione originaria va individuata, secondo le risultanze dello statino-paga di febbraio 2011, al
20.11.1989. D’altro canto lo stesso lavoratore dà atto in
ricorso di essere stato licenziato e riassunto nel novembre 1989.
Alla luce delle considerazioni esposte deve dichiararsi
la continuazione del rapporto di lavoro fin dalla data
del 20.11.1989.
L’esito complessivo del giudizio ed il perfezionamento
della revoca del licenziamento con ripresa del servizio
in corso di causa giustifica la declaratoria di compensazione delle spese processuali.
(Omissis)
Revoca del licenziamento: tra margini di incertezza
e soluzioni normative
La sentenza in commento concerne un aspetto controverso del diritto di lavoro: la revoca del licenziamento.
Prima della nota Riforma Fornero1 – di cui si avrà
modo di discorrere nel prosieguo di questo lavoro – le
Parti sociali rinviavano l’argomento ai principi generali di diritto civile concernenti i negozi giuridici,
lasciando in tal modo ampi margini a interpretazioni
talora discordanti.
Il tema ha sollevato numerose perplessità alimentando
frequenti dibattiti. La giurisprudenza, sovente, è intervenuta per trovare una disciplina applicabile ad un istituto che sembrava dimenticato dal Legislatore.
1. Effetti della revoca sul rapporto di lavoro
Il quesito centrale, attorno a cui ruota la vexata quaestio del giudizio, concerne gli effetti della revoca del
licenziamento; ossia, per meglio dire, se questa determini la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro,
ovvero se da essa derivi una mera prosecuzione del rapporto instaurato in precedenza.
Nel caso di specie, il ricorrente era stato licenziato e
collocato in mobilità dalla Società presso cui aveva
prestato per anni la propria attività lavorativa.
Successivamente, impugnava il licenziamento medesi-
58
Temi Romana
Note a sentenza
Tuttavia, tale orientamento non convince; una simile
previsione, mentre da un lato favorisce ampiamente il
datore di lavoro che, mediante una variazione contrattuale, può decidere se corrispondere o meno le somme
medio tempore dovute, d’altro canto rende il lavoratore
sottoposto alla discrezionalità del datore. Né può giovare, in tal senso, la libertà a contrarre del lavoratore,
che spesso per esigenze meramente economiche si
trova costretto ad accettare condizioni dettate da parte
datoriale.
mo innanzi al Tribunale di Roma (Sez. lavoro).
A seguito di trattative concluse in sede sindacale, la
Società revocava – nelle more del giudizio – il provvedimento impugnato. La suddetta revoca veniva accettata dal ricorrente entro i termini e nelle modalità previste ex lege. Nel frattempo il giudizio proseguiva per i
residui capi di domanda relativi all’accertamento del
diritto del ricorrente alla retribuzione per il periodo
compreso tra la data del licenziamento e la data della
riassunzione.
Sebbene la Cassazione abbia mostrato segnali di
costante oscillazione, l’orientamento maggioritario2 ha
assunto il convincimento secondo cui a seguito della
revoca del licenziamento si realizza la prosecuzione
dell’originario rapporto di lavoro. Ne consegue il diritto del lavoratore a vedersi corrispondere la retribuzione maturata medio tempore: ossia nel periodo intercorso dalla data del licenziamento sino al momento della
revoca sopravvenuta.
La ratio di un simile orientamento risiede nella considerazione per cui il mancato svolgimento della prestazione è imputabile al datore, che di fatto ha licenziato
il proprio dipendente. Di converso, l’impugnazione del
licenziamento da parte del lavoratore si configura come
espressione dell’intenzione di svolgere prestazioni
lavorative3. Per usare le parole della Suprema Corte, il
comportamento del lavoratore esprime una “offerta
delle energie lavorative”.
Per esigenze di completezza, giova qui richiamare un
orientamento minoritario secondo cui l’elemento di
discernimento, tra la riassunzione e la reintegrazione,
risiede nella dichiarazione del datore – contenuta nel
nuovo contratto di lavoro individuale – in cui il rapporto di lavoro viene considerato come “mai risolto
de iure”. Se ne deduce che, ove il datore di lavoro
esprima la volontà di riassumere il lavoratore a condizioni differenti rispetto all’originario rapporto, e,
quindi, con elementi essenziali differenti, si realizzerà la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro cui,
necessariamente, dovrà precedere l’accettazione del
lavoratore, con la conseguenza che il lavoratore non
avrà diritto alla corresponsione delle somme maturate
medio tempore. Pertanto, nella valutazione complessiva, il giudice dovrà tenere in particolare considerazione il tenore letterale della proposta formulata dal datore medesimo4.
Temi Romana
2. Accettazione della revoca: elemento necessario?
La natura giuridica della revoca presenta ulteriori spunti di analisi e di riflessione. Come accennato, l’orientamento dominante della Suprema Corte rifiuta la soluzione di continuità tra i due rapporti di lavoro, considerandoli piuttosto un unicum.
Ne consegue l’assoluta irrilevanza dell’accettazione
della revoca da parte del lavoratore5. Questa considerazione muove dalla presunzione che l’impugnazione del
licenziamento si traduca in una volontà a proseguire il
rapporto di lavoro. In siffatta maniera, il lavoratore
avrebbe già espresso una conferma – seppure tacita e
presunta – da ricercare in una fase anteriore rispetto
alla revoca.
A sostegno di questo orientamento, vi è il principio
della presunzione di conoscenza (peraltro previsto dall’art. 1335 del Codice civile), secondo cui la revoca si
ritiene conosciuta, e quindi efficace, nel momento in
cui la stessa giunga all’indirizzo del destinatario, avendo chiaramente riguardo alle particolari modalità della
sua comunicazione. In tale circostanza, spetta al giudice di merito accertare se il lavoratore-destinatario possa
averne avuta conoscenza utilizzando la normale diligenza.
Tuttavia la Suprema Corte6, pur confermando il principio di continuità dei rapporti, ha mostrato numerose
reticenze nel seguire il dettato codicistico. Anzi da esso
ha tratto (e trae tuttora) spunto con una interpretazione
innovativa. La revoca viene configurata come una proposta contrattuale di reintegrazione del lavoratore sul
posto di lavoro e non più come revoca in senso stretto.
Pertanto, affinché si possa perfezionare l’accordo, il
lavoratore dovrà accettare la proposta dichiarando di
voler proseguire il rapporto di lavoro.
Mediante questo diverso inquadramento giuridico, la
59
Note a sentenza
fatti noti convergenti nella dimostrazione della sua
sussistenza11.
stessa Corte ha rifiutato l’idea di una “irrilevanza dell’accettazione”, che di fatto mina la sfera giuridica del
lavoratore, sottoponendolo al potere decisionale del
datore, il quale diviene unico dominus del rapporto
contrattuale.
In definitiva la revoca del licenziamento deve considerarsi come un atto al quale deve seguire, necessariamente, una accettazione – espressa o tacita – da parte
del lavoratore, per l’espletamento degli effetti ad essa
connessi7.
Per quanto concerne la forma dell’accettazione non
sembra, invece, porsi alcun limite. Viene escluso
l’obbligo della forma scritta, in quanto gli atti risolutori degli effetti prodotti da atti scritti non sono
assoggettati al medesimo requisito formale; ciò in
ossequio al principio secondo cui la forma degli atti
è libera se la legge non richiede espressamente una
forma determinata8.
Non essendovi alcun limite, l’accettazione della revoca
può avvenire in forma espressa, tacita o presunta sulla
base di comportamenti concludenti del lavoratore, siano
essi commissivi che omissivi. Ne consegue, logicamente, che la mera presentazione sul luogo di lavoro e il successivo svolgimento delle proprie mansioni assumono il
significato di accettazione alla prosecuzione del rapporto, in quanto palesemente contrastante con la volontà di
interruzione del rapporto di lavoro medesimo9.
Spetta al giudice adito procedere alla ricostruzione
della volontà del lavoratore medesimo di rinunziare ad
un proprio diritto, il quale, una volta valutati tutti gli
elementi di prova, potrà accertare la sussistenza o meno
della volontà abdicativa del lavoratore10.
Chiaramente le presunzioni dovranno presentare i
requisiti di gravità, precisione e concordanza definiti
dalla giurisprudenza e che di seguito si riporta per
mero scrupolo chiarificatore a vantaggio del lettore. Il
requisito della gravità si configura come “il grado di
convincimento che ciascuno di essi (elementi indiziari) è idoneo a produrre” tale che possa determinare
una “ragionevole certezza”. Il requisito della precisione impone che l’iter logico che ha guidato il giudice
nel ragionamento non sia vago, ma definito in maniera inequivoca, chiara ed esaustiva. Da ultimo il requisito della concordanza richiede che il fatto ignoto –
nel caso di specie la volontà abdicativa – desunto dal
giudice di merito, sia il risultato di una pluralità di
3. Coesistenze incerte e percorsi alternativi
Il legislatore individua numerosi strumenti a tutela del
lavoratore che sia destinatario di un licenziamento successivamente revocato. Spetta a questo ultimo scegliere il percorso più efficace ed idoneo per difendere i propri interessi. Tuttavia, sovente, la coesistenza tra gli
strumenti medesimi rischia di divenire inconciliabile se
non addirittura contrastante.
3.1. Tutela reintegratoria e tutela risarcitoria
In merito alla eventuale coesistenza tra la tutela reintegratoria e la tutela risarcitoria, rileva verificare se il
datore abbia reintegrato il lavoratore, non solo nella
propria posizione lavorativa, ma altresì, abbia provveduto a ripristinare tutti i diritti, sì da eliminare tutti gli
effetti pregiudizievoli e dannosi del licenziamento. In
questo caso la prosecuzione del rapporto – seppure formale – fa venire meno il fatto generatore del danno12.
Ne consegue, pertanto, che al lavoratore non spetta
alcun diritto al risarcimento.
Altresì rileva la peculiare ipotesi in cui il datore di
lavoro abbia revocato il licenziamento in un momento
immediatamente successivo, prima che il lavoratore ne
possa avere conoscenza, sicché lo stesso licenziamento
non spiega i propri effetti nel mondo giuridico, tale da
potersi definire sostanzialmente inesistente13.
Non si applica, di conseguenza, la previsione normativa di cui l’art. 8 della legge n. 604/1966, salvo il diritto al risarcimento dei danni di cui l’art. 1218 Cod. civ.
Rientrano in siffatta previsione normativa i danni per
retribuzione ritardata o inferiore al dovuto, per il carattere ingiurioso del licenziamento o per il nocumento
alla salute del lavoratore per il quale sia provato il
nesso eziologico14.
A contrariis, qualora il rapporto di lavoro sia stato
interrotto dal licenziamento, il risarcimento è dovuto
nella misura in cui il fatto dannoso verificatosi ha spiegato i suoi effetti. In tale contesto la successiva revoca,
benché non incida sulla tutela risarcitoria, può variarne
in minima parte l’entità e la natura15.
Tale soluzione, certamente, non è stata accolta
all’unanimità da quell’indirizzo minoritario della giurisprudenza che definiva il diritto al risarcimento
60
Temi Romana
Note a sentenza
minimo delle 5 mensilità. Diversa è la disciplina per le
altre forme viziate di licenziamento. Ove il fatto non
sussista, ovvero il medesimo rientri in una fattispecie
punibile con sanzione conservativa, il giudice ordina la
reintegrazione e il pagamento dell’indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità19. In tutti gli altri casi in
cui non ricorrano i presupposti per la comminazione
del licenziamento, al lavoratore spetta una indennità
risarcitoria compresa tra un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità20.
“connesso in via diretta ed immediata” al licenziamento illegittimo. Ragion per cui neanche il ripristino
ex tunc del rapporto lavorativo avrebbe potuto ostacolare la costituzione della tutela risarcitoria in capo al
lavoratore. La stessa stesura dell’art. 18 Stat. Lav.
(ante Riforma Fornero) non prevedeva alcun rimedio
per impedire l’insorgere del medesimo diritto, fissato
nella misura non inferiore a cinque mensilità16. Una
simile previsione sussiste indipendentemente dalla
sopravvenuta reintegra o dalla accettazione o meno
della revoca.
Ne discende che il lavoratore, che abbia accettato la
revoca del licenziamento, ha comunque diritto di ottenere il risarcimento, salvo che non vi abbia rinunciato
attraverso un accordo bilaterale o collettivo con il proprio datore di lavoro.
Per quanto concerne la disciplina dell’istituto, occorre
evidenziare come la recente riforma Fornero abbia notevolmente modificato la disciplina del risarcimento
(come, del resto, anche di altri aspetti connessi al licenziamento).
La formula contenuta nell’art. 18 Stat. Lav. ante riforma
prevedeva una disciplina unitaria per tutte le ipotesi di
invalidità del licenziamento. Non vi era alcun distinguo.
Pertanto il giudice, una volta accertato il vizio del licenziamento comminato, condannava il datore al risarcimento del danno patito dal lavoratore. L’indennità risarcitoria veniva calcolata con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra (comunque non inferiore a 5
mensilità).
Il dettato normativo di cui all’art. 18 Stat. Lav. cambia in
maniera evidente. Il legislatore diversifica le tutele risarcitorie a seconda della particolare tipologia di licenziamento;
a ciascuna di esse segue una particolare tipologia di effetti
negativi per il lavoratore, spesso non sufficientemente tutelabile con una previsione normativa omogenea.
La recente riforma prevede, in primis, una tutela maggiore per i lavoratori destinatari di un licenziamento
discriminatorio17 o di licenziamento comunicato oralmente, laddove indica che il giudice ordina al datore di
lavoro la reintegrazione del lavoratore “indipendente
dal motivo formalmente addotto e quale che sia il
numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”18.
Inoltre l’indennità risarcitoria, pur essendo calcolata
nelle medesime modalità, rimane vincolata al limite
Temi Romana
3.2. Tutela reintegratoria e indennità sostitutiva
Il licenziamento illegittimo comporta la facoltà per il lavoratore/creditore, di optare per una strada alternativa alla
reintegra. Questi può decidere di usufruire di una indennità sostitutiva (in seguito anche solo I.S.). Chiaramente, la
scelta di uno preclude l’esercizio dell’altro.
Il diritto alla I.S. sorge contemporaneamente al diritto
concernente la reintegra, configurandosi il primo come
una sorta di monetizzazione del secondo in una somma
pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di
fatto21. Qualora il lavoratore abbia accettato la revoca
proposta dal datore di lavoro – e di conseguenza sia
stato reintegrato nella posizione lavorativa – viene
meno il suo diritto alla indennità.
L’attuale disciplina normativa (ex art. 18 co. 3 Stat.
Lav.) prevede che il lavoratore possa chiedere una
indennità, in sostituzione della reintegrazione nel
posto di lavoro, nel termine di 30 giorni con decorrenza “dalla comunicazione del deposito della sentenza, o
dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio”,
ove questo ultimo sia anteriore alla comunicazione.
L’indicazione del termine ha lo scopo ben preciso di
contenere, in termini ragionevolmente ristretti, la
situazione di incertezza giuridica in cui si verrebbe a
trovare il datore di lavoro.
La ratio alla base di un simile istituto trova fondamento in una duplice considerazione: da un lato il lavoratore potrebbe non avere più interesse alla reintegrazione
sul posto di lavoro, d’altro canto il datore non può essere costretto a reintegrare il lavoratore in ragione del
principio, costituzionalmente tutelato, della libertà di
iniziativa economica.
4. Conclusioni
La questione, sottoposta ad esame in questo breve lavo-
61
Note a sentenza
ro, torna ad essere oggetto di analisi con le recenti riforme. Il legislatore ridisegna, in concreto, la disciplina
conformandosi in toto all’autorevole giurisprudenza
ormai consolidatasi nel corso degli anni, quasi a voler
cristallizzare un orientamento ormai condiviso e condivisibile22.
Il dettato configura la revoca come un potere unilaterale, senza indicare alcun riferimento alla volontà del
lavoratore di riprendere o meno la propria attività; vengono completamente abbandonati i riferimenti codicistici che sino ad allora avevano costituito un valido
sostegno al vulnus normativo.
Unica condizione imposta è la tempestività entro cui
deve essere effettuata la revoca, pari a 15 giorni dalla
comunicazione al datore dell’impugnazione del licenziamento, a seguito della quale si realizza il ripristino
del rapporto di lavoro senza soluzione di continuità.
Una siffatta previsione logicamente può far sorgere
ragionevolmente il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate medio tempore, poiché il rapporto di lavoro si considera come mai interrotto.
Tuttavia non può riconoscersi, nella riforma in questione, un trattamento di favore per il lavoratore, poiché la
stessa garantisce al datore di lavoro di sanare l’eventuale vizio del licenziamento mediante revoca, senza alcun
bisogno di accettazione da parte del lavoratore.
La sentenza in epigrafe non viene minimamente toccata dalla Riforma Fornero per ovvie ragioni, ispirate al
principio del “tempus regit actum”.
Il giudizio, conclusosi a qualche mese di distanza dall’entrata in vigore della l. 92/2012, ha tuttavia risentito del prevalente orientamento maggioritario giurisprudenziale, già accennato, in perfetta sintonia col
nuovo disposto normativo di cui all’art. 18 co. 10,
conducendo il Giudice del Tribunale di Roma a concludere che il lavoratore/ricorrente – il cui licenziamento era stato revocato in corso di causa – abbia,
non solo il diritto alla reintegra (e non già quello alla
riassunzione) ma, altresì, la copertura retributiva e
previdenziale del periodo intermedio corrispondente
all’arco di tempo compreso tra la data di licenziamento e quella della reintegrazione,nonché il risarcimento
del danno.
Il rapporto di lavoro si considera come mai interrotto.
Pertanto ne consegue, logicamente, che sulla busta
paga del lavoratore reintegrato dovrà essere indicata la
data di assunzione e non la data di reintegra, come erroneamente avvenuto nel caso di specie.
Nelle more del giudizio – la cui sentenza è, qui, oggetto di commento – il datore di lavoro ha cancellato dal
ridetto cedolino la data di assunzione originaria sostituendola con la data di rientro in servizio del lavoratore medesimo.
Tale precisazione assume un rilievo di notevole importanza laddove si consideri che l’eventuale erronea indicazione arreca danni di carattere economico per il lavoratore medesimo.
Si pensi, infatti, agli scatti di anzianità, ossia gli
aumenti retributivi che maturano periodicamente in
relazione all’attività continuativa o meno presso la
medesima azienda. Una posticipata collocazione temporale della data di assunzione, inevitabilmente determina un minus percipiendi a danno del lavoratore e
della sua famiglia, il quale, ingiustificatamente e ingiustamente, si vede privato di un diritto contrattualmente
stabilito su base nazionale.
Tuttavia questo non rappresenta il solo e unico problema che consegue l’erronea indicazione della data sul
cedolino. Ad esso si aggiunge poi la questione del tutto
ipotetica e niente affatto surreale, ossia l’ipotesi in cui
il datore proceda al licenziamento collettivo.
Per chiarezza espositiva rileva menzionare la nota
L. del 23 luglio 1991, n. 22323 in materia di mobilità. Il testo normativo indica i criteri di scelta dei
lavoratori destinati al licenziamento; tali criteri
sono indicati talora nel testo dei contratti collettivi
stipulati tra le parti sociali24. In mancanza di una
espressa previsione contrattuale, sovviene il legislatore il quale dispone che, nel procedere al licenziamento collettivo, il datore di lavoro dovrà tener
conto dei carichi familiari, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative, con la
precisazione che i predetti requisiti debbono concorrere tra loro.
Si tratta, in definitiva, di criteri oggettivi che consentono la formazione di una graduatoria dei lavoratori. Tale
previsione normativa garantisce la trasparenza della
procedura che, in quanto riferita a criteri ben determinati, si sottrae ad eventuali comportamenti dolosi da
parte del datore e garantisce il pieno esercizio dei diritti dei lavoratori25.
Una simile precisazione non è affatto marginale. Il
62
Temi Romana
Note a sentenza
comportamento negligente della Società, che aveva
indicato nei cedolini dello stipendio la data di reintegra
e non già la data di assunzione avrebbe potuto generare problemi ed equivoci in riferimento alla posizione
del ricorrente all’interno dell’azienda, sicché questi
sarebbe potuto divenire nuovamente destinatario di un
futuro eventuale licenziamento collettivo, salvo poi a
dover procedere a nuova impugnativa.
_________________
1 Legge 28 giugno 2012, n. 92 “Disposizioni in materia di riforma del
mercato del lavoro in una prospettiva di
crescita”, in G.U. n. 153 del 3.7.2012, S.O.
n. 136.
2 Si vedano, ex multis, Cass. Civ. Sez. Lav.
del 2.2.2007, n. 2258; 9.3.2009, n. 5638;
14.8.2012, n. 14493.
3 Cfr. Cass. Civ. Sez. Lav. del 9.3.2009, n.
5638. Tale considerazione si desume, altresì, a contrariis dalla sentenza della Cass.
Civ. del 2.2.2007 n. 2258 nella parte in cui
dispone che “[…] la mancata accettazione
della revoca non è giuridicamente irrilevante, in quanto viene equiparata al rifiuto
della prestazione, che, per la sinallagmaticità del rapporto, preclude il sorgere dell’obbligazione datoriale alla corresponsione della retribuzione”.
4 Nel caso di specie il datore di lavoro aveva
fatto chiaro riferimento non alla reintegrazione, bensì alla riassunzione del dipendente licenziato. Pertanto il rapporto si intende
costituito ex nunc e non piuttosto ex tunc.
L’accettazione da parte del lavoratore preclude qualsiasi diritto alle retribuzioni maturate in medio tempore. Cfr. Cass. Civ. Sez.
Lav. del 12.7.2004, n. 12867.
5 Si tenga presente il formalismo dell’espressione “…a prescindere dall’accettazione del lavoratore…” (in Cass. Civ.
Sez. Lav. del 2.2.2007 n. 2258).
6 Si noti, d’altra parte, l’oscillazione forni-
Temi Romana
ta dalla Cass. Civ. Sez. Lav. del 3.1.2011, n.
36 secondo cui “…la revoca del recesso
non può avere l’effetto di ricostituire il rapporto di lavoro, occorrendo a tal fine una
manifestazione di volontà del lavoratore”.
Tale principio risulta, peraltro, già espresso
nelle precedenti sentenze del 5.10.2007 n.
20901 e del 5.3.2008 n. 5929.
17 A titolo di esempio: il licenziamento intimato in prossimità del matrimonio o
durante il periodo di gravidanza della lavoratrice.
7 Cass. Civ. Sez. Lav. del 12.10.1993,
n.10085; 5.10.2007, n. 20901; 5.3.2008, n.
5929; 3.1.2011, n. 36; 15.6.2011, n. 13090.
21 Così Cass. Civ. Sez. Lav., 21.12.1995,
Cass. n. 13047; Cass. 5.12.1997 n. 12366;
Cass. 13.6.2002 n. 8493.
8 Cass. Civ. Sez. Lav. 1.7.2004, n. 12107.
22 Cfr. in particolare l’art. 18 co. 10 Stat. Lav.
9 Cass. Civ. 3.1.2011, n. 36.
23 Pubblicato in G.U. n. 175 del 27.7.1991
– S.O. n. 43 e modificato dall’art. 2 co. 73
della L. 28 giugno 2012, n. 92.
10 Ai fini della suddetta verifica la
giurisprudenza opera un costante riferimento normativo al Codice civile – art. 2729 –
che disciplina le presunzioni semplici.
11 Cass. Civ. Sez. II, 24.2.2004, n. 3646.
12 “…il recesso non ha spiegato efficacia
alcuna sulla continuità del rapporto e sulla
ordinaria funzionalità del sinallagma contrattuale”. Cfr. Trib. Torino del 30.9.2002;
Appello Milano 1.9.2004; Cass. Civ.
14.8.2012, n. 14493.
13 Cass. Civ. Sez. Lav. 1.7.2004, n.12102.
14 Cass. Civ. Sez. Lav. 12.12.2007, n. 26073.
15 App. Perugia, 22.9.2011.
16 Cass. 12.10.1993 n. 10085; Cass. Civ.
Sez. Lav., 21.12.1995, n. 13047 e Cass.
1.7.2004, n. 12102; Trib. Cassino, 6.7.2007.
63
18 Cfr. art. 18 Stat. Lav. comma 1.
19 Cfr. art. 18 Stat. Lav. comma 4.
20 Cfr. art. 18 Stat. Lav. comma 5.
24 A riguardo cfr. l’art. 5 co. 1 – rubricato
“Criteri di scelta dei lavoratori ed oneri a
carico delle imprese” del testo citato il
quale dispone che: “L’individuazione dei
lavoratori da licenziare deve avvenire in
relazione alle esigenze tecnico-produttive, ed
organizzative del complesso aziendale, nel
rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’articolo 4, comma 2, ovvero in mancanza di questi
contratti nel rispetto dei seguenti criteri in
concorso tra loro;
a) carichi di famiglia;
b) anzianità;
c) esigenze tecnico produttive ed organizzative”.
25 Cass. Civ. Sez. Lav., 9.6.2011, n. 12544.
Note a sentenza
La destinazione urbanistica a verde privato come vincolo
meramente conformativo della proprietà rispetto
alla tutela ambientale
Nota a Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21 dicembre 2012, n. 6656
Lorenzo Maria Pelusi
Avvocato dello Stato dell’Avvocatura Generale
SOMMARIO: 1. Il caso concreto – 2. Vincoli conformativi e vincoli ablatori: termini della questione e inquadramento della destinazione a verde privato – 3. La diversa fattispecie del verde pubblico, fonte di contrasti giurisprudenziali – 4. L’obbligo di motivazione gravante sulla P.A. e la rilevanza dei contrari interessi privati – 5. Il “governo
del territorio” in funzione di coordinamento dell’espansione edilizia e della tutela ambientale – 6. I c.d. lotti interclusi – 7. I parametri in base ai quali valutare la coerenza della scelta di zonizzazione operata in concreto – 8.
L’abusato appello alla naturale vocazione edificatoria delle aree
1.
Il caso concreto
La sentenza in commento offre lo spunto per
esaminare un consolidato orientamento giurisprudenziale ad avviso del quale la destinazione a
verde privato impressa da un piano regolatore generale
debba considerarsi frutto dell’attività meramente conformativo-pianificatoria spettante alle amministrazioni
locali e non inquadrabile, quindi, nell’ambito dei vincoli sostanzialmente espropriativi, malgrado gli effetti
che ne conseguono sul piano sostanziale.
Il giudizio prende le mosse dalla decisione del proprietario di un fondo di impugnare, chiedendone l’annullamento, tutti gli atti del procedimento di formazione del
PRG del Comune di Monteroni di Lecce, nel cui territorio è ricompreso il fondo stesso, a partire dalle delibere
del Consiglio Comunale con cui è stato conferito l’incarico di redazione del piano e con cui è stato poi adottato
lo stesso, passando per la delibera della Giunta
Regionale di approvazione del piano con prescrizioni e
modifiche e per la delibera comunale di recepimento e
controdeduzioni in ordine alle prescrizioni e modifiche
regionali, per finire con la delibera regionale di approvazione definitiva del PRG. Tale impugnazione s’impernia
sulla differente qualificazione riservata all’area di proprietà del ricorrente, tipizzata come zona “B” destinata a
edilizia residenziale nel vecchio Programma di
Fabbricazione (strumento prescritto dall’art. 34 della
legge urbanistica del 17 agosto 1942, n. 1150 per tutti i
Comuni sprovvisti di PRG), ma in seguito classificata,
nel nuovo piano, come zona a verde privato, che, ai sensi
delle relative norme tecniche di attuazione, consente
«attività primarie di tipo agricolo, la sistemazione di
verde attrezzato, interventi manutentivi e di ristrutturazione dell’edificato esistente, di tipo conservativo».
Risulta di tutta evidenza, pertanto, la notevole compressione del diritto dominicale esercitabile dal proprietario, intervenuta con la nuova destinazione urbanistica impressa al fondo in questione, dapprima edificabile, seppur entro limiti predefiniti, poi assoggettato a
inedificabilità pressoché assoluta. Va inoltre osservato
come, in parallelo al ridimensionamento del contenuto
del diritto di proprietà, l’inibizione dello ius aedificandi determini altresì una drastica diminuzione del valore
di scambio del bene immobile interessato da siffatto
vincolo urbanistico.
2. Vincoli conformativi e vincoli ablatori: termini
della questione e inquadramento della destinazione a verde privato
Prima ancora di addentrarsi nel percorso argomentativo
seguito nel caso in esame dal Supremo Consesso di
giustizia amministrativa, è opportuno soffermarsi su
una distinzione che fa da sfondo al tema della destinazione a verde privato, incidendo sulla natura giuridica
64
Temi Romana
Note a sentenza
sce un rischio fisiologico connesso al diritto stesso, al
fine di assicurarne la funzione sociale nel perseguimento di obiettivi di interesse generale, ai sensi dell’art. 42,
co. 2, Cost. (C. cost., 20 maggio 1999, n. 179)3.
Ne consegue che la destinazione a verde privato di
un’area, siccome consente al privato sia di fruire del
fondo, sia di eseguirvi autonomamente tutti gli interventi edificatori compatibili con tale qualificazione
urbanistica, andrebbe intesa come riconducibile al
generale potere conformativo della proprietà privata di
cui è titolare l’Amministrazione Comunale in sede di
pianificazione del territorio e non invece al ben diverso
potere di carattere ablatorio previsto dall’art. 25 della
legge urbanistica4.
Questa ricostruzione dogmatica è stata fatta propria, già
in tempi risalenti, dal Consiglio di Stato, il quale ha più
volte affermato che la destinazione a verde privato di
un’area rientra tra le ipotesi di qualificazione delle zone
territoriali omogenee di cui lo strumento urbanistico primario si compone e, anche se pone preclusione all’edificazione implicando l’esclusione della possibilità di realizzare qualsiasi opera edilizia incidente sulla destinazione a verde (così, ex plurimis, Cons. St., Sez. IV, 5 ottobre 1995, n. 781; Id., 14 dicembre 1993, n. 1068), rimane comunque espressione delle funzioni di ripartizione
in zone del territorio, senza determinare vincoli tali da
escludere potenzialmente il diritto di proprietà nella sua
interezza (così Cons. St., Sez. IV, 24 luglio 1985, n. 290).
Va quindi segnalato come un indirizzo giurisprudenziale
consolidato e univoco, riconfermato anche dalla pronuncia in commento, quello a mente del quale la destinazione a verde privato non è ascrivibile ai vincoli ablatori,
atteso che essa non è prodromica all’espropriazione e
non è ostativa alla fruizione del fondo da parte del proprietario, il quale vedrà limitata esclusivamente la propria facoltà di godimento dello stesso.
Pertanto, la destinazione in questione non sostanzia
alcun vincolo sussumibile nel regime di decadenza
conseguente all’inutile decorso del termine quinquennale contemplato per i vincoli ablatori dall’art. 9 del
T.U. approvato con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 327 (come
modificato dall’art. 1 del D.Lgs. 27 dicembre 2002, n.
352), regime che altrimenti implicherebbe l’insorgere
in capo al Comune, da un lato, dell’obbligo di procedere alla riqualificazione urbanistica delle aree stesse
dopo la scadenza del vincolo (cfr. sul punto, ad es.,
di quest’ultima. La questione in argomento, infatti,
investe apertamente la summa divisio fra vincoli meramente conformativi e vincoli ablatori1.
Per vincoli aventi carattere sostanzialmente espropriativo debbono intendersi, alla luce della celeberrima
sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 20 maggio 1999, quei vincoli che abbiano in concreto l’effetto
di svuotare incisivamente il contenuto del diritto di proprietà, mediante l’imposizione immediatamente operativa di vincoli a titolo particolare su beni determinati,
comportanti inedificabilità assoluta. In quell’occasione
la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 7, numeri 2, 3 e 4, e 40 della
legge 17 agosto 1942, n. 1150 (d’ora in poi: legge urbanistica), e dell’art. 2, primo comma, della legge 19
novembre 1968, n. 1187 (Modifiche ed integrazioni
alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), nella
parte in cui consentiva all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o comportanti l’inedificabilità, senza la previsione di alcun indennizzo.
La Consulta, peraltro, ebbe modo di puntualizzare che
non possono considerarsi alla stregua di vincoli sostanzialmente espropriativi quelli che, pur avendo contenuto specifico e operando a titolo particolare, impongono
a determinati fondi una destinazione realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata e che
quindi non comportino necessariamente espropriazione
o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica (ad es. parcheggi, mercati o impianti sportivi). Non si pone, pertanto, un problema di indennizzo per i vincoli che non
preludano all’esecuzione di opere pubbliche in senso
stretto, in quanto connesse all’iniziativa anche concorrente dei privati.
Parimenti non sono assoggettati al regime dei vincoli
espropriativi quelli che, pur comprimendo l’edificabilità, dispongono tale restrizione in ragione delle caratteristiche intrinseche del fondo, imponendo modi e limiti,
in via generale ed astratta, a tutti i consociati in maniera oggettiva (si pensi ai vincoli ambientali paesistici).
D’altra parte la zonizzazione del territorio2, con i connessi vincoli che incidono con carattere di generalità e
in modo obiettivo su intere categorie di beni, è connaturata alla pianificazione urbanistica e non può essere ex
se considerata un’azione ablatoria, in quanto la possibilità che il diritto di proprietà subisca limitazioni costitui-
Temi Romana
65
Note a sentenza
Cons. St., Sez. IV, 14 dicembre 1993, n. 1068), dall’altro, dell’obbligo di indennizzo a favore del privato
(Cons. St., Sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2919)5.
parte dei proprietari, ma ne prescrive soltanto le modalità di utilizzo, da realizzarsi anche ad iniziativa degli
stessi proprietari (Cons. St., Sez. V, 13 aprile 2012, n.
2116; Sez. IV, 12 maggio 2010, n. 2843; Sez. VI, 19
marzo 2008, n. 1201). Tuttavia il massimo organo della
giustizia amministrativa siciliana si è di recente espresso in senso contrario, stabilendo che, diversamente da
altre solo in apparenza simili destinazioni urbanistiche
(tra cui quelle a verde privato o verde agricolo) – che
effettivamente conformano il diritto dominicale dei
proprietari dei fondi interessati, senza però sopprimerlo in toto – la destinazione a verde pubblico attrezzato,
al pari di quella a verde pubblico, sia radicalmente
incompatibile con la permanenza del fondo in proprietà privata. La ragione di tale indirizzo interpretativo
poggia sulla ravvisata necessità di ritenere sussistente
«un vincolo preordinato all’espropriazione tutte le
volte in cui la destinazione dell’area permetta la realizzazione di opere destinate esclusivamente alla fruizione soggettivamente pubblica», a prescindere quindi
dalla concessione al privato sia della realizzazione dell’opera, sia di un margine di sfruttabilità economica del
bene, non più in termini di fruizione personale, bensì di
disposizione onerosa a favore di terzi (Cons. Giust.
Amm., Sez. giur., 27 febbraio 2012, n. 212; Id., 25 gennaio 2011, n. 95).
In quest’ottica, ove ci si trovi innanzi ad una potestà
conformativa che impedisca sine die la realizzazione di
un opus suscettibile di valutazione economica pienamente assoggettato alla disponibilità del privato, ne
consegue, di fatto, l’ablazione di una precipua facoltà
produttiva inerente al diritto di proprietà, tale da incidere significativamente sul contenuto minimo essenziale
di quest’ultimo, con l’effetto di svuotarlo per intero del
suo contenuto, piuttosto che di plasmarlo secondo lo
schema conformativo. Ciò perché lo sfruttamento delle
potenzialità edificatorie rappresenta la naturale destinazione di ogni area di proprietà privata, anche qualora si
tratti di zone agricole, contraddistinte da un basso indice di edificabilità7.
Tale qualificazione sostanzialmente espropriativa
della destinazione a verde pubblico comporta che,
decorso il quinquennio di cui all’art. 9 del D.P.R. n.
327 del 2001 senza che sia stata dichiarata la pubblica
utilità dell’opera, la reiterazione del vincolo, in costanza di ulteriore inerzia in ordine agli atti consequenzia-
3. La diversa fattispecie del verde pubblico, fonte di
contrasti giurisprudenziali
In tempi più recenti si è statuito che persino la destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde
pubblico, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l’imposizione sulle stesse di
un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, il quale è funzionale all’interesse pubblico
generale conseguente alla zonizzazione effettuata
dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri
generali dell’edificabilità in ciascuna delle zone in cui
è suddiviso il territorio comunale (Cons. St., Sez. IV,
3 dicembre 2010, n. 8531). Anche in questi casi,
peraltro, può rinvenirsi traccia dell’insegnamento
della Corte costituzionale secondo cui non si è alla
presenza del paradigma ablatorio tutte le volte in cui
le iniziative di realizzazione dell’opera siano suscettibili di operare in regime di libero mercato. Ne rappresenta applicazione diretta, infatti, quell’orientamento
che subordina il riconoscimento della natura conformativa del vincolo al ricorrere della possibilità conferita al privato di far luogo alla costruzione delle
attrezzature previste dallo stesso strumento urbanistico, per mezzo di iniziative totalmente private o in
forme di partenariato misto pubblico-privato (Cons.
St., Sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 244)6. Di contro, nel
caso in cui la disciplina urbanistica escluda in modo
assoluto che nelle zone destinate a verde pubblico
siano possibili, anche parzialmente, iniziative da parte
del privato proprietario dell’area, detto vincolo potrà
essere qualificato come preordinato all’espropriazione (Cons. St., Sez. IV, 25 maggio 2005, n. 2718; Id.,
24 febbraio 2004, n. 745).
Contrapposta all’impostazione maggioritaria appena
descritta, va inoltre menzionata la posizione assunta dal
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Sicilia sul punto. Secondo la tesi che ad oggi appare
dominante, come già detto, una destinazione a verde
pubblico disposta da un piano regolatore, quindi di
durata indeterminata, sarebbe pur sempre espressione
della potestà conformativa del pianificatore, dal
momento che non inibisce l’utilizzazione del fondo da
66
Temi Romana
Note a sentenza
li, si configura come patologica cristallizzazione di un
vincolo di inedificabilità assoluta, che tende a connotarsi come illegittima espropriazione di fatto.
Analoghe osservazioni non valgono, invece, per la
zona destinata a verde privato, poiché essa mantiene
determinate capacità edificatorie e potenzialità di
sfruttamento a fini economici (T.A.R. Lazio – Roma,
Sez. II, 19 luglio 2011, n. 6442).
ci, le ragioni specifiche della singola scelta operata dall’amministrazione, poiché il sistema non richiede una
giustificazione analitica delle singole scelte operate,
ma solo delle ragioni d’insieme che hanno portato alle
complessive scelte di pianificazione. Non potrà invocarsi, pertanto, il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la
destinazione impressa ad immobili adiacenti (Cons. St.,
Sez. IV, 13 febbraio 2009, n. 811; Id., 9 giugno 2008,
n. 2837). Va ricordato, d’altra parte, che in sede di elaborazione e approvazione dei PRG viene in rilievo un
agire pubblico che è esclusivamente inteso a predisporre un ordinato assetto del territorio comunale e che
quindi è tenuto a prescindere dalle posizioni particolari dei titolari di diritti reali, nonché dai vantaggi o svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione
stessa (Cons. St., Sez. IV, 22 febbraio 2013, n. 1097).
Sulla scorta di tale premessa, viene poi ribadito che le
scelte operate attraverso lo strumento pianificatorio
generale, circa la destinazione di singole aree, sono congruamente motivate facendo riferimento alle ragioni
evincibili dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano regolatore,
mentre deve escludersi un obbligo di specifica motivazione, giacché in subiecta materia trova applicazione
l’art. 3, comma 2, della legge 241 del 1990, che esonera l’Amministrazione dall’obbligo motivazionale in
caso di adozione di atti normativi e a contenuto generale (tra cui rientrano appunto i PRG e le relative varianti
generali). Pertanto è ritenuto sufficiente l’espresso riferimento alla relazione illustrativa del piano regolatore,
oppure alla relazione di accompagnamento al progetto
di modifica del piano stesso8, salvo il ricorrere di casi
particolari in cui si configuri uno specifico obbligo
motivazionale a carico dell’Amministrazione (Cons.
St., Sez. IV, 5 gennaio 2011, n. 24; Id., 13 ottobre 2010,
n. 7492; Id., 26 aprile 2009, n. 2293).
Tale necessità di più incisivi profili motivazionali può
essere rinvenuta solo nei casi in cui preesistano particolari situazioni che abbiano creato aspettative o affidamenti qualificati sulla destinazione dell’area, dando
luogo a posizioni differenziate rispetto alla generalità
degli interessati, e che quindi debbano ricevere una più
compiuta valutazione, in ragione della sussistenza di
posizioni soggettive meritevoli di specifica considerazione9. In particolare, dette evenienze sono date: dal
4. L’obbligo di motivazione gravante sulla P.A. e la
rilevanza dei contrari interessi privati
Venendo, a questo punto, all’esame dei singoli passaggi
che compongono la motivazione della sentenza in commento, va brevemente dato conto delle doglianze sottoposte alla cognizione dei giudici. In primo grado il
T.A.R. aveva respinto il ricorso; veniva pertanto richiesta la riforma della relativa sentenza innanzi al
Consiglio di Stato. I ricorsi di primo e di secondo grado
possono considerarsi sostanzialmente coincidenti e il
motivo principale cui entrambi risultano affidati consiste nella censura del potere pianificatorio esercitato, in
forza dei vizi di: eccesso di potere, violazione del principio della tendenziale stabilità delle previsioni urbanistiche, violazione del principio di ponderazione degli
interessi privati da sacrificare in relazione all’interesse
pubblico perseguito e carenza motivazionale. Quest’ultima, in particolare, sarebbe da riscontrare nell’assenza
di alcuna specifica motivazione in merito a una scelta
così penalizzante per il ricorrente, posto che la nuova
destinazione rende di fatto l’area inedificabile.
Nel respingere tali censure, i giudici amministrativi
richiamano il pacifico orientamento giurisprudenziale
secondo cui le scelte urbanistiche costituiscono apprezzamenti di merito, risultando quindi sottratte al sindacato di legittimità con l’eccezione di quelle inficiate da
errori di fatto o da abnormi illogicità (Cons. St., Sez.
IV, 30 luglio 2012, n. 4319; Id., Ad. Plen., 22 dicembre
1999, n. 24). Le scelte inerenti alla disciplina del territorio possono quindi formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei soli casi di arbitrarietà, irragionevolezza o di palese travisamento dei fatti, che costituiscono
i limiti della discrezionalità amministrativa.
Ne consegue che il privato che si ritenga leso da una
scelta di piano non favorevole ai suoi interessi in ordine alla destinazione data ad una certa area di sua proprietà, non può censurare, se non per evidenti vizi logi-
Temi Romana
67
Note a sentenza
superamento, imposto dall’Amministrazione, degli
standard urbanistici minimi di cui al D.M. n. 1444 del
1968 (con la precisazione che, in tal caso, la motivazione dovrà indicare le ragioni che hanno comportato il
“sovradimensionamento” e non quelle che hanno portato ad assegnare una specifica destinazione di zona a
una certa area); dalla lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione o da accordi ex art. 11 l. n. 241 del 1990 intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree (e già oggetto di stipula); dalla lesione di aspettative nascenti da un
giudicato di annullamento di dinieghi di titoli abilitativi edilizi o di accertamento dell’illegittimità del silenzio rifiuto su una domanda di titolo abilitativo (Cons.
St., Sez. IV, 11 settembre 2012 n. 4806); o, più in generale, dalla lesione di aspettative collegate a situazioni di
diverso regime urbanistico accertate da sentenze passate in giudicato (Cons. St., sez. IV, 16 febbraio 2010, n.
1015); nonché, infine, dalla modificazione in zona
agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi legittimamente edificati (Cons. St., sez. IV,
16 novembre 2011 n. 6049; Id., 13 ottobre 2010, n.
7492). Ogniqualvolta l’esercizio dello jus variandi
vada ad incidere in senso peggiorativo su una di queste
aspettative assistite da una peculiare tutela o da uno
speciale affidamento, l’Amministrazione è tenuta ad
operare una valutazione comparativa tra l’interesse
pubblico e la posizione privata qualificata, corredando
il provvedimento di una puntuale motivazione che dia
altresì conto della concreta impossibilità di conseguire
l’obiettivo di pubblico interesse con soluzioni alternative, capaci di escludere o di contenere la vulnerazione
dell’affidamento insorto in capo al privato.
Al di fuori di queste fattispecie tipizzate in via pretoria,
invece, può ravvisarsi in capo all’interessato unicamente una generica aspettativa ad una non reformatio in
peius delle destinazioni di zona, tale da non giustificare
né una particolare tutela, né un obbligo di più puntuale
motivazione. Non può infatti ritenersi qualificato l’interesse del privato meramente correlato ad una precedente previsione urbanistica che consentiva un più proficuo
utilizzo dell’area, quale è l’interesse che viene in rilievo
nel caso di cui trattasi. Siffatta aspettativa, pertanto,
risulta cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere
pubblico di pianificazione urbanistica, per ragioni analoghe a quelle per cui il divieto della reformatio in peius
è un criterio del tutto inidoneo, atteso il difetto di qualsivoglia copertura costituzionale, a vincolare il legislatore (Cons. St., Ad. Plen., 22 dicembre 1999, n. 24).
5. Il “governo del territorio” in funzione di coordinamento dell’espansione edilizia e della tutela
ambientale
In secondo luogo, la sentenza in commento si dichiara
fedele a quella giurisprudenza che ha evidenziato come
all’interno della pianificazione urbanistica possano trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare
l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi. Si è affermato,
in proposito, che il potere di pianificazione del territorio – attribuito dalla Carta costituzionale alla potestà
legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni, ex
art. 117, comma terzo, Cost. ed il cui esercizio è normalmente rimesso, pur nel contesto di ulteriori livelli
ed ambiti di pianificazione, al Comune – non è limitato alla classificazione delle zone del territorio comunale e, in particolare, alla delimitazione delle potenzialità
edificatorie delle stesse (Cons. St., Sez. IV, 10 maggio
2012, n. 2710).
Al contrario, tale potere di pianificazione è da ricondursi ad un concetto di urbanistica che non può essere
minimale, ovvero limitato alla sola disciplina coordinata della edificazione dei suoli (e, al massimo, ai tipi di
edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti), ma
che invece deve essere ampio, tale da consentire che si
possa dare attuazione, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, anche a finalità economico-sociali
della comunità locale (non in contrasto, bensì in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità
territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e positiva attuazione di valori costituzionalmente
tutelati, come quelli di cui agli artt. 9, comma secondo,
32, 42, 44, 47, comma secondo, Cost. (Cons. St., Sez.
IV, 13 giugno 2013, n. 3262). Tra le esigenze fondamentali della comunità territoriale, vanno indubbiamente ricomprese sia le esigenze di tutela della salute,
la quale richiede che agli abitanti sia garantito un
ambiente salubre in cui vivere, sia l’aspirazione dell’individuo alla casa di abitazione, da porre necessariamente in relazione alle effettive esigenze abitative della
comunità ed alle concrete vocazioni dei luoghi. Anche
68
Temi Romana
Note a sentenza
(Cons. St., Sez. IV, 19 gennaio 2000, n. 245)16. In particolare, si è sostenuta la chiara valenza conservativa
dei valori naturalistici propria della destinazione a
verde privato, in considerazione del fatto che essa, salvaguardando «il polmone dell’insediamento urbano»,
assume per tale via «la funzione decongestionante e di
contenimento dell’espansione dell’aggregato urbano»
(Cons. St., Sez. IV, 1° febbraio 2001, n. 420). Nel
medesimo solco si muove quella giurisprudenza che
riconosce, in ragione della necessità di non consentire
la totale consumazione del suolo nazionale, la possibilità che gli strumenti urbanistici non siano sostenuti
dalle tradizionali linee guida di espansione demografica o edilizia ma, al contrario, da linee guida esclusivamente rivolte al recupero ed alla razionalizzazione del
patrimonio edilizio esistente (Cons. St., Sez. IV, 8 maggio 2000, n. 2639).
siffatti interessi devono pertanto essere contemperati in
sede di configurazione del «modello di sviluppo che
s’intende imprimere ai luoghi stessi, in considerazione
della loro storia, tradizione, ubicazione e di una riflessione de futuro sulla propria stessa essenza, svolta per
autorappresentazione ed autodeterminazione dalla
comunità medesima, con le decisioni dei propri organi
elettivi e, prima ancora, con la partecipazione dei cittadini al procedimento pianificatorio» (Cons. St., Sez.
IV, 21 dicembre 2012, n. 6656).
Proprio per tali ragioni, lo stesso legislatore costituzionale, nel novellare l’art. 117 Cost., per il tramite della
legge cost. n. 3 del 2001, ha sostituito il termine «urbanistica» con l’onnicomprensiva espressione di «governo
del territorio»10, materia che risulta pertanto affidata alle
Regioni, salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali11. Secondo l’insegnamento della Corte
costituzionale, i due concetti non sono perfettamente
coincidenti, poiché l’urbanistica si esaurirebbe nel
governo del territorio, ma non sarebbe vero il contrario12. Questa posizione, peraltro, risulta la medesima
assunta dalla dottrina dominante13. Alcuni hanno inteso
paragonare questa distinzione a due cerchi concentrici:
il più ristretto, rappresentato dall’urbanistica, a sua volta
costituita dalla pianificazione territoriale e urbanistica, e
il più ampio, comprendente le ulteriori funzioni identificabili nel governo del territorio, ovvero quell’insieme
composito di attività svolte da soggetti pubblici di varia
natura che incidono fortemente nella definizione di un
determinato assetto territoriale (ad es., servizi pubblici a
rete e approntamenti infrastrutturali)14. Non è tuttavia
mancata una tesi minoritaria tendente a ravvisare, nella
riforma costituzionale, nulla più che una mera interpolazione lessicale, volta ad adeguare la terminologia dell’art. 117 al suo mutato «significato di disciplina avente ad oggetto l’intero territorio, indipendentemente dal
grado della sua urbanizzazione»15.
Proprio in ossequio alla rinnovata estensione delle finalità che l’Amministrazione è chiamata a perseguire in
sede pianificatoria, la giurisprudenza ha avvertito che
le scelte urbanistiche destinate a tutelare l’ambiente,
anche quando consistono nell’imprimere ad un’area il
connotato di zona agricola o di verde privato, non
richiedono una diffusa analisi argomentativa con
riguardo al valore dell’ambiente, stante la sua copertura di rango costituzionale, offerta dall’art. 9 Cost.
Temi Romana
6. I c.d. lotti interclusi
Il Consiglio di Stato si sofferma, poi, sul concetto di
“lotto intercluso”, escludendone l’applicabilità nel caso
concreto. Tale fattispecie altro non è che una peculiare
situazione di fatto che si realizza, secondo una più rigorosa impostazione, allorquando l’area edificabile di
proprietà del richiedente: sia l’unica a non essere stata
ancora edificata; si trovi in una zona integralmente
interessata da costruzioni; sia dotata di tutte le opere di
urbanizzazione (primarie e secondarie), previste dagli
strumenti urbanistici; sia infine valorizzata da un progetto edilizio del tutto conforme al PRG (Cons. St.,
Sez. IV, 10 giugno 2010, n. 3699).
In presenza di questi presupposti, anche nel caso in cui
lo strumento urbanistico generale preveda che la sua
attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, si consente l’intervento costruttivo diretto,
ovvero in mancanza di un titolo edilizio rilasciato dopo
che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace. Purché si accerti la sussistenza di una situazione
di fatto perfettamente corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo, viene pertanto
consentito l’esercizio diretto dello ius aedificandi, allo
scopo di evitare defatiganti attese per il privato ed inutili dispendi di attività procedimentale per l’ente pubblico (Cons. St., Sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 268; Id.,
Sez. V, 3 marzo 2004, n. 1013).
Tale esonero dal piano di lottizzazione previsto dal
69
Note a sentenza
PRG trova il suo necessario presupposto in uno stato di
fatto che consenta di prescindere dalla predisposizione
dello strumento attuativo, in quanto lo stesso risulta
non più necessario perché lo scopo cui sarebbe destinato è già stato raggiunto. Ciò risulta in tutta la sua evidenza nell’ipotesi appena descritta di lotto intercluso,
nella quale nessuno spazio potrebbe rinvenirsi per
un’ulteriore pianificazione. Non è a questo assimilabile, invece, il caso di zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere e compensare il disordine
edificativo in atto, al fine di un armonico raccordo con
il preesistente aggregato abitativo (Cons. St., Sez. V, 5
ottobre 2011 n. 5450; Id., Sez. IV, 13 ottobre 2010 n.
7486; Id., Sez. V, 1° dicembre 2003, n. 7799).
Tale essendo la ratio della regola sottesa alla fattispecie di lotto intercluso, il Consiglio di Stato ne esclude
la ravvisabilità nel caso di specie, dal momento che
l’area oggetto del contenzioso, affacciando su due
diverse strade (non risultando quindi interclusa su
tutti i lati) e trovandosi in una zona non completamente urbanizzata, non può affatto ricadere nell’ambito di
applicazione dei principi che regolano suddetta tipologia di area, poiché questi principi, data la loro natura eccezionale, non sono suscettibili di estensione
analogica.
razione della sua ampia portata in relazione agli interessi pubblici e privati coinvolti, così come ogni potere
discrezionale, non è sottratto al sindacato giurisdizionale, dovendo la pubblica amministrazione dare conto,
sia pure con motivazione di carattere generale, degli
obiettivi che essa, attraverso lo strumento di pianificazione, intende perseguire e, quindi, della coerenza delle
scelte in concreto effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici agli stessi immanenti (Cons. St., Sez. IV,
10 maggio 2012, n. 2710).
Ebbene, nel caso di cui ci si occupa, viene riscontrata
una puntuale motivazione di carattere urbanisticoambientale della scelta laddove, nella relazione illustrativa, si esprime la volontà di «ritrovare un equilibrio
nuovo dotando il centro esistente delle infrastrutture e
delle aree per verde e servizi necessari», «operazioni
per favorire spazi di sosta, per servizi e verde». Anche
il giudice di prime cure, del resto, rigettava la censura
a mezzo della quale si lamentava la contraddittorietà
della nuova destinazione con la delibera di intenti, dal
momento che, a ben vedere, in tale provvedimento di
indirizzo, tra gli obiettivi generali, il Comune introduceva anche quello «di ricucire il tessuto urbano esistente, recuperando tutti i possibili spazi da destinare a
servizi, con priorità per il verde», nonché «di salvaguardare il patrimonio edilizio privato di carattere
ambientale e artistico». Questi obiettivi prioritari, ad
avviso dei giudici amministrativi di entrambi i gradi di
giudizio, sono ritenuti non contraddetti, bensì confermati dalla destinazione impressa in sede di attuazione
del piano17.
È opportuno sottolineare che nel sistema pianificatorio
appena delineato emerge un atto, la relazione illustrativa del PRG, che, sebbene non fosse nemmeno previsto
dalla legge urbanistica, svolge un ruolo fondamentale
tanto sul piano istruttorio quanto su quello motivazionale, rivelandosi un parametro essenziale, se non l’unico, ai fini dell’accertamento della coerenza interna fra
le risultanze istruttorie e la concreta decisione adottata
in sede di pianificazione18.
Venendo poi alla denunciata violazione del principio di
tipicità degli atti amministrativi, essa riceve confutazione più esplicita nella sentenza di primo grado, laddove si esclude l’atipicità della zona “verde privato”,
che viene qualificata come una sottospecie della zona
agricola di cui alla lett. E), art. 2, D.M. 1444 del 1968.
7. I parametri in base ai quali valutare la coerenza
della scelta di zonizzazione operata in concreto
Con ulteriore motivo di diritto, il ricorrente lamenta
inoltre la mancata considerazione della fissazione dei
criteri di formazione e indirizzo del piano, con particolare riguardo alla necessità di ricucire il tessuto urbano
esistente attraverso il recupero degli spazi destinabili a
servizi: tale criterio risulterebbe leso dalla tipizzazione
a verde dell’area, precedentemente qualificata come
zona di completamento e destinata ad edilizia residenziale. Altro gravame si appunta, invece, sulla violazione del principio di tipicità degli atti amministrativi,
posto che la destinazione a verde privato non rientra tra
le destinazioni espressamente previste dall’art. 2 del
D.M. n. 1444 del 1968.
Preme innanzitutto porre in risalto un caposaldo formulato dalla giurisprudenza maggioritaria: il potere di pianificazione urbanistica, a maggior ragione in conside-
70
Temi Romana
Note a sentenza
Si aggiunge, tuttavia, che la destinazione a verde privato di un’area «non postula necessariamente l’esistenza
della effettiva vocazione agricola della stessa, dato che
siffatta classificazione ha una più generale finalità di
provvedere – mediante il divieto di edificazione ovvero
la possibilità di edificazione in termini estremamente
limitati – ad orientare gli insediamenti urbani e produttivi in determinate direzioni, ovvero di salvaguardare
precisi equilibri dell’assetto territoriale» (T.A.R.
Puglia – Lecce, Sez. I, 28 settembre 2005, n. 4374).
Non è dato quindi riscontrare alcuna tipizzazione
abnorme o extra ordinem, atteso che il verde privato
viene a svolgere una funzione di riequilibrio del tessuto urbano, conservando adeguati spazi liberi da edificazione, senza sottrarre al proprietario l’utilizzo del bene,
funzione del tutto compresa nelle potestà pianificatorie
dell’ente comunale.
indubbiamente, quelli di proprietà del ricorrente)».
Giova rammentare, inoltre, che la giurisprudenza
amministrativa ha avuto modo di chiarire che la censura con cui si lamenta la pretermissione della vocazione
edificatoria di un’area sconta una configurazione di tale
vocazione di tipo strettamente “edilizio”, nel senso di
offrirne una lettura limitata al solo aspetto dello “sviluppo edilizio” e in contraddizione con la più ampia
gamma di finalità pubblicistiche cui invece risponde il
potere conformativo della proprietà privata (Cons. St.,
Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710). D’altra parte, si è
altresì precisato che «il proprietario terriero non può
lamentarsi del fatto che in aree limitrofe alla propria
sono state autorizzate costruzioni sotto il vigore di
precedenti strumenti urbanistici, in quanto il piano
regolatore può rallentare l’utilizzazione edilizia delle
aree mediante l’imposizione di vincoli di inedificabilità su aree libere, attraverso la creazione di aree
verdi. Tale potestà trova il limite della macroscopica
irragionevolezza delle scelte effettuate che sussiste
quando il contrasto tra lo stato di fatto e la destinazione urbanistica a verde sia, per l’area interessata,
di assoluta ed indiscutibile evidenza, […] come si
verificherebbe se ci trovassimo di fronte ad una zona
industriale ad alta densità abitativa o caratterizzata
da infrastrutture ad alto impatto ambientale. A ciò si
aggiunge che l’intento di salvaguardare le pregevoli
qualità paesaggistiche ed ambientali di un’area
mediante la creazione di un vincolo a verde secondo
la giurisprudenza non può essere vanificato dall’affermazione che gran parte delle aree limitrofe siano
state edificate, poiché l’avvenuta parziale compromissione del sito rende ancor più giustificata la cristallizzazione delle potenzialità edificatorie nelle aree
residue edificate e non» (T.A.R. Lombardia – Milano,
Sez. IV, 9 settembre 2011, n. 2199).
8. L’abusato appello alla naturale vocazione edificatoria delle aree
Viene censurata dal proprietario dell’area in questione,
infine, la mancata considerazione della naturale vocazione edificatoria della stessa, in quanto avente le
caratteristiche di cui alle zone B disciplinate dall’art. 2
del D.M. n. 1444 del 1968. A tal riguardo i giudici
amministrativi contestano, in primo luogo, l’impiego
nel caso de quo della nozione di naturale vocazione
edificatoria, poiché essa postula la preesistenza di
un’edificabilità di fatto ed è quindi concetto proprio
alle sole vicende espropriative. In secondo luogo, viene
rilevato come le caratteristiche dell’area risultino del
tutto chiare nella relazione illustrativa del PRG impugnato, contenente, come già affermato in primo grado,
«dati puntuali circa la tipologia della zona, caratterizzata dall’esistenza di numerose ville e giardini con
valenza architettonica e/o ambientale rilevante (come,
_________________
1 Per una puntuale classificazione dei vincoli urbanistici si rinvia a G. PAGLIARI, La
pianificazione e la proprietà edilizia, in A.
GAMBARO - U. MORELLO, Trattato dei diritti reali. Volume IV – Proprietà e pianificazione del territorio, Milano, Giuffrè, 2012,
p. 53 s., il quale distingue fra vincoli preor-
Temi Romana
dinati all’espropriazione, vincoli di inedificabilità assoluta e vincoli procedimentali: i
primi volti alla localizzazione di opere pubbliche per la cui realizzazione risulti imprescindibile l’espropriazione per pubblica utilità, i secondi finalizzati a riservare determinate aree all’uso pubblico con la conse-
71
guente e automatica inutilizzabilità privata
delle stesse, i terzi invece caratterizzati dall’imposizione dell’obbligo di preventiva
adozione di un piano particolareggiato di
attuazione.
2 Per zonizzazione s’intende, è il caso di
Note a sentenza
ricordarlo, la divisione del territorio comunale in zone territoriali omogenee, con la
precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona. Tali zone sono disciplinate dall’art. 2 del D.M. n. 1444 del 1968 e
ognuna di esse rappresenta l’insieme delle
parti del territorio comunale che hanno
ricevuto la medesima destinazione urbanistica. Contrapposta alla zonizzazione è l’attività di localizzazione, ovvero quell’attività tramite la quale il pianificatore individua
le aree destinate a formare spazi di uso pubblico e le aree da riservare ad edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed
impianti di interesse collettivo o sociale.
3 In proposito sia consentito richiamare
un’altra fondamentale pronuncia della
Corte Costituzionale la quale, con sent. 9
maggio 1968, n. 55, ha affermato che
«senza dubbio la garanzia della proprietà
privata è condizionata, nel sistema della
Costituzione, dagli artt. 41 al 44, alla
subordinazione a fini, dichiarati ora di utilità sociale, ora di funzione sociale, ora di
equi rapporti sociali, ora di interesse ed
utilità generale. Ciò con maggiore ampiezza e vigore di quanto è stabilito dagli artt.
832 e 845 del Codice civile, i quali, per il
contenuto del diritto di proprietà fondiaria
in particolare, richiamano, rispettivamente,
i limiti e gli obblighi stabiliti “dall’ordinamento giuridico” e le regole particolari per
scopi di pubblico interesse […]. Secondo i
concetti, sempre più progredienti, di solidarietà sociale, resta escluso che il diritto di
proprietà possa venire inteso come dominio
assoluto ed illimitato sui beni propri,
dovendosi invece ritenerlo caratterizzato
dall’attitudine di essere sottoposto nel suo
contenuto, ad un regime che la Costituzione
lascia al legislatore di determinare».
4 L’art. 25 della legge urbanistica dispone,
infatti, che «le aree libere sistemate a giardini privati adiacenti a fabbricati possono
essere sottoposte al vincolo dell’inedificabilità anche per una superficie superiore a
quella di prescrizione secondo la destinazione della zona», con la precisazione che «in
tal caso, e sempre che non si tratti di aree
sottoposte ad analogo vincolo in forza di
leggi speciali, il Comune è tenuto al pagamento di un’indennità per il vincolo imposto
oltre il limite delle prescrizioni di zona».
5 I vincoli di piano regolatore ai quali inve-
ce si applica il principio della decadenza
quinquennale sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, assoggettandoli a
vincoli preordinati all’espropriazione od a
vincoli che ne comportano l’inedificabilità
assoluta e dunque svuotano il contenuto del
diritto di proprietà incidendo sul godimento
del bene tanto da renderlo inutilizzabile
rispetto alla sua destinazione naturale (Cons.
St., Sez. IV, 22 gennaio 2010, n. 216).
6 «Non si pone, pertanto, un problema di
indennizzo per i vincoli che non preludano
all’esecuzione di opere pubbliche in senso
stretto, in quanto connesse all’iniziativa
anche concorrente dei privati. Del pari non
è indennizzabile la reiterazione del vincolo
per destinazione a parco pubblico, a verde
pubblico ovvero a zona di pregio agricolo
con valenza di tutela ambientale, in considerazione che non tutti i vincoli di inedificabilità assoluta hanno carattere espropriativo e che se anche si prevede la realizzazione di un parco pubblico, il vincolo imposto assolve la funzione primaria di conformare la proprietà a tutela dell’ambiente
e solo in via indiretta quella di condurre ad
una espropriazione, sicché la nascita
dell’effettivo vincolo di esproprio sarebbe
ritardata al momento della successiva
dichiarazione di pubblica utilità» (Cons.
St., Sez. IV, 15 giugno 2004, n. 4010).
7 Rispetto alle istanze di cui si fa promotrice l’attività di zonizzazione, infatti, l’area
agricola non rileva tanto per l’attività agricola che vi si può svolgere, quanto più semplicemente per i limiti “quantitativi” alla
sua trasformazione edilizia, restando così
inattuato quel principio costituzionale, contenuto nell’art. 44 Cost., che assegna alla
legge il compito di perseguire il razionale
sfruttamento del suolo. Per tali considerazioni, cfr. P. URBANI, La disciplina urbanistica delle aree agricole, in www.giustamm.it.
8 Ciò perché sia i provvedimenti comunali di
pianificazione urbanistica sia le varianti di
piano regolatore hanno natura discrezionale
e possono incidere su precedenti, difformi,
destinazioni di zona, comportare modifiche
radicali al piano vigente e rettificare direttive
urbanistiche pregresse, al fine di realizzare
un processo di adeguamento e modernizzazione delle strutture al servizio del territorio
(Cons. St., Sez. IV, 25 novembre 2003, n.
7782). In sede di pianificazione generale o di
variante generale, infatti, il Comune ha la
72
facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni e non è tenuto a
dettare una motivazione specifica per le singole zone o aree a destinazione innovata
(Cons. St., Sez. IV, 1° marzo 2010, n. 1182;
Id., 13 maggio 1992, n. 511). Quanto appena
detto, tuttavia, incontra una deroga nell’ipotesi in cui la variante non abbia portata generale, bensì abbia finalità particolari e oggetto
circoscritto (come ad esempio quando essa
intervenga a disciplina di un unico terreno):
in tal caso, come nel caso in cui la variante
incida su aspettative assistite da speciale
tutela, si rende necessaria una puntuale motivazione (Trib. Reg. Giust. Amm., Bolzano,
12 gennaio 2012, n. 9; Cons. St., Sez. IV, 5
marzo 2008, n. 933; Id., 28 dicembre 2006,
n. 8050).
9 Da notarsi, per inciso, come il principio
dell’inesistenza di un obbligo specifico di
motivazione delle scelte urbanistiche venga
applicato anche alle osservazioni al piano
formulate dai proprietari interessati, in
quanto ritenute inidonee a determinare l’insorgere di aspettative qualificate. Secondo
un orientamento giurisprudenziale ormai
consolidato, infatti, le osservazioni proposte dai cittadini nei confronti degli atti di
pianificazione urbanistica non costituiscono veri e propri rimedi giuridici, ma semplici apporti collaborativi alla formazione
degli strumenti urbanistici e tanto il loro
rigetto quanto il loro accoglimento non richiedono, pertanto, una puntuale controdeduzione sorretta da motivazione analitica,
essendo sufficiente che esse siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali dello strumento pianificatorio (Cons.
St., Sez. IV, 18 giugno 2009, n. 4024; Id.,
19 marzo 2009, n. 1652).
10 Per una panoramica sui dubbi e le perplessità che l’intervento legislativo ha suscitato, si rinvia ai contributi della dottrina:
T. BONETTI, Il diritto del “governo del territorio” in trasformazione, Napoli, Editoriale
Scientifica, 2011, p. 5 ss.; M. A. CABIDDU,
Diritto del governo del territorio, Torino,
Giappichelli, 2010, p. 7 ss.; N. ASSINI - P.
MANTINI, Manuale di diritto urbanistico,
Milano, Giuffrè, 2007, p. 16 ss.; P. STELLA
RICHTER, La nozione di «governo del territorio» dopo la riforma dell’art. 117 cost., in
Giust. civ., 2003, p. 107 ss.; S. AMOROSINO,
Il “governo del territorio” tra Stato, regioni ed enti locali, in Riv. giur. edil., 2003, p.
77 ss.; V. CERULLI IRELLI, Il “governo del
Temi Romana
Note a sentenza
territorio” nel nuovo assetto istituzionale,
in S. CIVITARESE MATTEUCCI, E. FERRARI, P.
URBANI (a cura di), Il governo del territorio,
Milano, Giuffrè, 2003, p. 499 ss.; P. URBANI,
Il governo del territorio nel Titolo V della
Costituzione, in Riv. giur. urb., 2003, p. 50
ss.; M. A. SANDULLI, Effettività e semplificazioni nel governo del territorio: spunti problematici, in Dir. amm., 2003, p. 507 ss.; P.
L. PORTALURI, Riflessioni sul “governo del
territorio” dopo la riforma del Titolo V, in
Riv. giur. edil., 2002, p. 357 ss.
11 Va ricordato che l’art. 1, comma 3, della
legge n. 131 del 2003 di attuazione della
riforma del Titolo V della Costituzione,
prevede che «nelle materie appartenenti
alla legislazione concorrente le Regioni
esercitano la potestà legislativa nell’ambito
dei principi fondamentali espressamente
determinati dallo Stato o, in difetto, quali
desumibili dalle leggi statali vigenti».
12 La Consulta, infatti, ha avuto modo in
più occasioni di chiarire l’esatta portata del
mutamento testuale operato nel 2001: C.
cost., 25 settembre 2003, n. 303, in Giur.
cost., 2003, p. 2675 ss. con osservazioni di
A. D’ATENA, p. 2776 ss.; C. cost., 28 giugno 2004, n. 196, in Giur. cost., 2004, p.
1930 ss., con osservazioni di P. STELLA
RICHTER, p. 2015 ss.; nonché, da ultimo,
con particolare riferimento ai rapporti fra
materia urbanistica e tutela paesisticoambientale: C. cost., 10 febbraio 2006, n.
51, in Giur. cost., 2006, 469 ss., con osservazioni di S. MANGIAMELI, 485 ss.; C. cost.,
5 maggio 2006, n. 182, in Giur. cost., 2006,
1841 ss., con osservazioni di D. TRAINA,
1856 ss. In tale prospettiva, viene in rilievo
il confluire ineluttabile, nella materia del
governo del territorio, delle esigenze di salvaguardia di valori costituzionali assoluti e
non comprimibili quali il paesaggio, l’ambiente ed i beni culturali (cfr. da ultimo,
Cons. St., Sez. IV, 12 marzo 2010, n. 1461;
Id., 12 giugno 2009, n. 3770; C. cost., 7
novembre 2007, n. 367).
13 Ex plurimis, S. AMOROSINO, Il “governo
del territorio” tra Stato, regioni ed enti
locali, in S. CIVITARESE MATTEUCCI, E.
FERRARI, P. URBANI (a cura di), Il governo
del territorio, Milano, Giuffrè, 2003, p. 139
ss.; P. L. PORTALURI, Poteri urbanistici e
principio di pianificazione, Napoli, Jovene,
2003, p. 200 ss.
14 Così BONETTI, Il diritto del “governo del
Temi Romana
territorio” in trasformazione, cit., 10.
15 Tale impostazione, per cui urbanistica e
governo del territorio sarebbero da ritenersi
concetti del tutto equivalenti, è riconducibile a P. STELLA RICHTER, I principi del diritto urbanistico, Milano, Giuffrè, 2006, p. 6
ss.
16 Come chiarito dalla Corte costituzionale, infatti, i principi generali in materia
ambientale e paesaggistica non possono
esser disgiunti dagli artt. 9 e 117 della
Costituzione, per cui deve essere data la
prevalenza alla tutela del paesaggio non nel
significato, meramente estetico, di “bellezza naturale”, ma come complesso dei valori inerenti il territorio naturale (cfr. C. Cost.,
7 novembre 1994, n. 379), che è un bene
“primario” ed “assoluto” (C. cost., 5 maggio 2006, nn. 182 e 183) e comunque una
risorsa assolutamente limitata ed in via di
esaurimento. Si aggiunga che «il piano
regolatore generale, nell’indicare, tra l’altro, i limiti da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può
disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi indipendentemente da quelli introdotti dalle amministrazioni competenti nel perseguimento della
salvaguardia di cose di interesse storico,
artistico e paesaggistico» (Cons. St., Sez.
IV, 5 ottobre 1995, n. 781, in Riv. giur. edil.,
1996, I, 341), e quindi «in sede di pianificazione urbanistica è consentita sia la ricognizione dei vincoli imposti in virtù di leggi
speciali sia la costituzione di vincoli autonomi per la tutela di valori ambientali e
paesaggistici considerati in una prospettiva
specificatamente urbanistica» (Cons. St.,
Sez. IV, 14 maggio 2001, n. 2653, in Guida
al dir., 2001, fasc. 30, 83). In altre pronunce si rinviene poi un’enunciazione del primato del valore ambientale e paesaggistico,
rispetto al quale la stessa pianificazione
urbanistica risulta recessiva; ne derivano
alcuni corollari: «a) la tutela del paesaggio
non è riducibile a quella dell’urbanistica,
né può essere considerato vizio della funzione preposta alla tutela del paesaggio il
mancato accertamento dell’esistenza, nel
territorio oggetto dell’intervento paesaggistico, di eventuali prescrizioni urbanistiche
che, rispondendo ad esigenze diverse, in
ogni caso non si inquadrano in una considerazione globale del territorio sotto il profilo dell’attuazione del primario valore
paesaggistico; b) l’avvenuta edificazione di
73
un’area immobiliare o le sue condizioni di
degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici o culturali ad essa
legati, poiché l’imposizione del vincolo
costituisce il presupposto per l’imposizione
al proprietario delle cautele e delle opere
necessarie alla conservazione del bene e
per la cessazione degli usi incompatibili
con la conservazione dell’integrità dello
stesso; c) l’ambiente rileva non solo come
paesaggio ma anche come assetto del territorio, comprensivo financo degli aspetti
scientifico-naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e
fauna), pur non afferenti specificamente ai
profili estetici della zona» (Cons. St., Sez.
IV, 5 luglio 2010, n. 4246). A ulteriore conferma della prevalenza gerarchica della
tutela del paesaggio rispetto al governo del
territorio, sovvengono altresì gli artt. 143
ss. del D.Lgs. 42 del 2004, Codice dei beni
culturali e del paesaggio, a norma dei quali
gli strumenti urbanistici sono tenuti a
rispettare, a pena di illegittimità, quanto
previsto dalla pianificazione paesistica. In
tal senso, cfr. anche G. SEVERINI, La tutela
costituzionale del paesaggio (art. 9 Cost.),
in S. BETTINI, L. CASINI, G. VESPERINI, C.
VITALE, Codice di edilizia e urbanistica,
Torino, UTET, 2013, p. 34.
17 A tal riguardo, si ravvisa l’utilità di indicare, a titolo esemplificativo, alcune fattispecie emblematiche di motivazione della
zonizzazione agricola o a verde privato che
hanno superato il vaglio di legittimità del
giudice amministrativo. In una recente pronuncia si è ritenuta puntuale ed esaustiva la
motivazione della destinazione agricola
impressa, come stabilito nella Relazione
illustrativa della Variante, al fine di «assicurare maggiore continuità con l’edificato
esistente e minori costi per nuove opere di
urbanizzazione, evitando la formazione di
aree residuali tra gli insediamenti residenziali, di incerta vocazione» (Cons. St., Sez.
IV, 7 novembre 2012, n. 5665). In altra pronuncia viene in evidenza una fattispecie in
cui un Consiglio comunale ha mantenuto
per l’area di un privato la destinazione a
verde privato vincolato, rigettando l’osservazione da questo proposta, considerando
che era «rilevante il mantenimento di una
pregevole area a servizio di un edificio già
esistente»: tale valutazione effettuata dall’ente locale è stata in giudizio ritenuta non
Note a sentenza
affetta da irragionevolezza, né da errore di
fatto, in quanto effettivamente l’area risultava non edificata e prospiciente ad un edificio di proprietà privata, configurandosi
pertanto la possibilità di ravvisare un rapporto di pertinenzialità dell’area stessa
rispetto agli edifici attigui (Cons. St., Sez.
IV, 13 giugno 2013, n. 3262). Con riferimento invece alla legittimità della scelta di
contenere l’espansione edilizia, scelta rientrante nella sfera di libera determinazione
dell’ente locale il quale è istituzionalmente
rappresentativo di tutti gli appartenenti alla
comunità, ivi compresi i non proprietari di
terreni, si è stabilito che, «anche sul piano
logico-funzionale e del senso comune, la
determinazione di cui sopra appare del
tutto ragionevole e legittima al fine di prevenire che, come è capitato ad altri Comuni
turistici, l’eccessiva antropizzazione del
territorio – facendo venir progressivamente
meno l’attrattiva paesaggistico-ambientale
della località – finisca per nullificare l’interesse dei villeggianti e, di conseguenza,
innescare una irrimediabile crisi del relativo settore» (Cons. St., Sez. IV, 13 luglio
2011, n. 4242). Un altro caso in cui della
pianificazione urbanistica è venuta in rilievo non tanto la sua funzione di regolare
l’assetto e l’utilizzazione del territorio,
quanto piuttosto quella di indirizzare lo sviluppo dell’economia locale, è rappresentato
dalla «scelta di escludere in via generale
una nuova edificazione residenziale nel territorio del Comune di Cortina d’Ampezzo,
salvo la circoscritta deroga per nuove edificazioni da eseguirsi sulle sole aree di proprietà comunale e regoliera e destinate ad
abitazione per i residenti». Ad avviso del
Supremo Consesso di giustizia amministrativa, «lo strumento urbanistico è stato, dunque, utilizzato dal Comune – così come
condivisibilmente chiarito dal I giudice – al
fine di definire, per un verso, il modello di
sviluppo del proprio territorio, negandone
una ulteriore “terziarizzazione” o utilizzazione per c.d. “seconde case”; per altro
verso, al fine di risolvere il problema abitativo dei cittadini residenti», finalità ritenute
entrambe riconducibili al potere pianificatorio, in concreto esercitato secondo un
modello di zonizzazione non «ancorato a
74
rigide individuazioni territoriali e/o per
direttrici di sviluppo», bensì mirato a «individuare diversamente le “zone omogenee”», limitando lo specifico sviluppo edilizio voluto alle sole aree il cui regime di
proprietà ne sia garanzia di realizzazione
(Cons. St., Sez. IV, 10 maggio 2012, n.
2710). Si segnala infine un’altra scelta
urbanistica, volta a privilegiare l’espansione edilizia in zone già urbanizzate ma non
immediatamente centrali, anch’essa considerata immune da alcun profilo di irrazionalità, in quanto coerente con i criteri tecnico-urbanistici assunti per la redazione del
Progetto di PRG e con il prefissato intento
di attuare la salvaguardia di alcune aree
interne al centro storico che costituiscono
gli orti e i giardini esistenti, in un’ottica di
tutela dei valori ambientali, di recupero di
una migliore vivibilità del paese e di decongestionamento della viabilità (Cons. St.,
Sez. IV, 4 marzo 2003, n. 1191).
18 In tal senso, cfr. B. BOSCHETTI, La
discrezionalità delle scelte di pianificazione
generale tra fatti e limiti normativi, in
Urbanistica e appalti, 11/2011, p. 1360 ss.
Temi Romana
Cronache e attualità
Il Trust dopo di noi!
Matteo Santini
Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma
I
l Trust viene introdotto nell’ordinamento italiano
tramite la legge 9 ottobre 1989, n. 364 (entrata in
vigore il 1° gennaio 1992). La suddetta norma ha
recepito la Convenzione dell’Aja del 1985. Molte sono
le ragioni che possono indurre una persona fisica alla
costituzione di un trust. I più frequenti sono: la riservatezza, la protezione dei beni, la salvaguardia del patrimonio familiare, la tutela dei minori e dei soggetti
diversamente abili, la tutela del patrimonio per finalità
successorie, la beneficenza. Attraverso il trust si instaura una relazione mediante la quale un soggetto denominato trustee, gestisce un patrimonio (mobiliare e/o
immobiliare) che gli è stato trasferito da un altro soggetto, detto disponente (o settlor), per una finalità specifica. I trust più complessi contemplano anche la
nomina del cosiddetto guardiano (o protector) che ha il
compito specifico di controllare che le azioni del trustee e la gestione del patrimonio siano effettivamente
dirette a perseguire le finalità del trust.
Nelle operazioni di trust si possono individuare due
momenti essenziali. Il primo è rappresentato dall’atto
di costituzione ed il secondo dall’atto di conferimento
dei beni. Sebbene il conferimento dei beni possa avvenire contestualmente all’atto di costituzione si tratta di
due atti ben distinti. Infatti, il disponente potrebbe decidere di istituire un trust con una dotazione minima in
denaro rimandando ad un momento successivo il conferimento dei beni necessari al perseguimento delle
finalità del trust. La maggior parte delle volte i beni
vengono conferiti nel trust attraverso più operazioni nel
corso del tempo. Questo accade anche in virtù del fatto
che i beni inizialmente conferiti possono essere stati
utilizzati ed essersi esauriti proprio per la realizzazione
dei fini specifici del trust e che, quindi, si rende necessario provvedere alla “ricostituzione” del patrimonio.
Con il conferimento di beni in trust il disponente, si
spoglia della proprietà di parte o di tutti i suoi beni, con
atto tra vivi o mortis causa e li affida al trustee il quale
avrà il dovere di gestirli ed amministrarli nell’interesse
del beneficiario per il raggiungimento dei fini specifici
Temi Romana
del trust così come individuati nell’atto di istituzione
dello stesso.
Il conferimento dei beni nel trust comporta che questi
vengono formalmente intestati al trustee ma allo stesso
tempo essi vanno a costituire un patrimonio separato
rispetto a quello del disponente e dello stesso trustee.
Quest’ultimo ha il dovere di amministrare i beni in trust
seguendo le disposizioni inserite nell’atto istitutivo. La
segregazione patrimoniale è l’aspetto fondamentale
che caratterizza il trust; essa comporta che i beni in
trust rappresentino un patrimonio separato rispetto ai
beni del disponente e del trustee e, pertanto, qualunque
vicenda personale e patrimoniale che riguardi tali soggetti non colpisce i beni in trust. I beni in trust, quindi,
non possano essere aggrediti dai creditori personali del
trustee, del disponente e dei beneficiari ed il loro eventuale fallimento non vedrà mai ricompresa nella massa
attiva fallimentare i beni in trust (opera il cosiddetto
vincolo di destinazione e di separazione).
Si parla di trust “autodichiarato” quando l’atto istitutivo del trust prevede che il trustee stesso possa essere il
beneficiario del trust.
Come inizialmente accennano l’istituto del trust entra a
far parte del nostro ordinamento a seguito della
Convenzione dell’Aja la quale all’articolo 11 sancisce il
riconoscimento del trust costituito in conformità ad una
legge specifica. L’articolo 13 attribuisce il potere, allo
Stato che dovrebbe provvedere al riconoscimento, di
rifiutarlo se gli elementi costitutivi del trust, all’infuori
della legge regolatrice richiamata, rimandano ad un
diverso ordinamento che non conosca l’istituto del trust.
Non essendovi, però, in Italia alcuna legge specifica
che disciplina l’istituto del trust, la legge regolatrice del
trust deve essere necessariamente straniera. Pertanto, al
momento della costituzione del trust il disponente
dovrà indicare nell’atto istitutivo la legge regolatrice.
La limitazione all’esercizio del diritto di proprietà in
capo al trustee che pur essendo intestatario dei beni in
trust non ne può disporre liberamente ha la sua fonte in
un atto di autonomia negoziale ritenuto meritevole di
75
Cronache e attualità
tutela nel nostro ordinamento ai sensi dell’articolo
1322 del codice civile.
L’articolo 12 della Convenzione dell’Aja consente al
trustee di richiedere la trascrizione dei beni in trust
nella sua qualità di trustee, a meno che ciò non sia
incompatibile con l’ordinamento giuridico. La giurisprudenza di merito ammette quasi all’unanimità tale
trascrizione ai sensi dell’articolo 12 della Convenzione
dell’Aja. La prassi notarile è nel senso di accompagnare a tale trascrizione (eseguita contro il disponente e a
favore del trustee) una seconda trascrizione (contro il
trustee), al fine di fare emergere con maggiore chiarezza il vincolo sui beni nascente a seguito dell’istituzione
del trust.
La Corte di Cassazione con l’ordinanza 19 novembre
2012, n. 20254 ha stabilito che il trust costituito per
ragioni familiari non rappresenta un’elusione fiscale.
Infatti è contestabile dal fisco solo nel caso in cui l’unico scopo della sua creazione sia l’indebito risparmio
d’imposta.
La Corte ha accolto il ricorso di una contribuente alla
quale era stata contestata dall’amministrazione un’elusione fiscale per aver costituito un trust su un immobile di famiglia.
L’abuso del diritto in materia tributaria richiede, infatti, il ricorso di due fattori. Occorre in primo luogo che
il contribuente abbia conseguito una vantaggiosa ricaduta fiscale del suo operato. Ma occorre inoltre che tale
vantaggio costituisca la ragione determinante dell’operazione, cioè che non ricorrano ragioni e giustificazione economico-sociali di altra natura, o almeno che
siano di rilievo inferiore, di guisa che si possa affermare che l’operazione è stata determinata esclusivamente
da ragioni fiscali.
76
Temi Romana
Cronache e attualità
Dissesto degli enti locali e posizione dei creditori:
l’intervento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo
con le sentenze De Luca e Pennino c. Italia
Francesca Sbarra
Avvocato del Foro di Roma
L’
In questo panorama normativo, finalizzato, come visto,
a consentire all’ente locale la prosecuzione della sua
attività in una condizione finanziaria sana, si inseriscono in maniera dirompente le due sentenze della Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo del 24 settembre 2013,
rese nei casi De Luca c. Italia e Pennino c. Italia.
Le vicende sottoposte all’attenzione della Corte traggono origine, appunto, dagli effetti derivanti dalla dichiarazione dello stato di dissesto del Comune di
Benevento, che hanno impedito la soddisfazione economica dei ricorrenti, sebbene questi fossero titolari,
nei confronti dell’amministrazione, di un credito riconosciuto in sentenza. Più nel dettaglio, i ricorrenti avevano ottenuto, in sede giurisdizionale, la condanna del
Comune di Benevento al risarcimento dei danni loro
arrecati per la mancata corresponsione del canone di
locazione di alcuni immobili. Intervenuta, medio tempore, la dichiarazione dello stato di dissesto dell’ente
locale, l’organo straordinario di liquidazione proponeva ai ricorrenti la corresponsione di una somma pari
all’80% del credito. L’offerta veniva rifiutata.
I ricorrenti, si rivolgevano, dunque, alla Corte Europea
censurando, in primo luogo, la violazione dell’art. 1 del
Primo Protocollo addizionale alla Convenzione, lamentando, in particolare, che il delineato impianto normativo, nel rinviare sine die la possibilità di recuperare i
crediti riconosciuti in sentenza, costituiva una indebita
lesione del diritto di proprietà. A tale doglianza si
aggiungeva quella relativa alla violazione degli artt.
6§1 e 13 CEDU, sotto il profilo dei principi del giusto
processo e dell’accesso al giudice, consistente nell’impossibilità di portare ad esecuzione la pronuncia ottenuta dinanzi al Tribunale di Benevento e, conseguentemente, di soddisfare le proprie legittime pretese4.
La Corte di Strasburgo, investita della questione,
richiama brevemente la disciplina relativa al dissesto
finanziario, con particolare riguardo ai poteri dell’organo straordinario di liquidazione ed alla situazione dei
creditori, alla luce della necessità dell’ente di continua-
istituto del dissesto degli enti locali, introdotto
in prima battuta dall’art. 25 del decreto legge
n. 66 del 1989 ed attualmente disciplinato
dagli artt. 244 e ss. del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, mira a regolare quelle
situazioni in cui la situazione finanziaria dell’ente è di
una gravità tale, da impedirne il regolare svolgimento
delle funzioni essenziali1.
La normativa, oggetto di ulteriori rimaneggiamenti a
seguito della riforma del titolo V della Costituzione,
fornisce la definizione dell’istituto, precisandone le
conseguenze e circoscrivendone l’operatività a province e comuni.
In particolare, l’art. 244 TUEL stabilisce che si ha dissesto finanziario laddove l’Ente locale non possa garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili, ovvero esistano nei confronti dello stesso crediti
di terzi cui non si possa fare validamente fronte, né con
il mezzo ordinario del ripristino del riequilibrio del
bilancio, né con lo straordinario riconoscimento del
debito fuori bilancio. La procedura che segue la dichiarazione di dissesto finanziario mira, nell’ottica del risanamento dei conti dell’ente locale, a cristallizzare ad
una certa data la situazione creditoria e, soprattutto,
debitoria dell’ente, affidandone la gestione ad una commissione esterna all’ente, di modo da consentire allo
stesso di ripartire, libero da vincoli e con un bilancio
risanato2. La tutela delle ragioni dei creditori dell’ente,
dunque, trova un limite importante nella necessità di
assicurare la continuità di esercizio dell’amministrazione locale e, con essa, il regolare svolgimento dei servizi essenziali per la comunità3. Tali esigenze sono sottese al dettato di cui al successivo art. 248 Tuel, che introduce il divieto di intraprendere o proseguire azioni esecutive nei confronti dell’ente per debiti che rientrano
nella competenza dell’organo straordinario di liquidazione, prevedendo, altresì, che i pignoramenti eventualmente eseguiti dopo la deliberazione dello stato di dissesto non vincolano l’ente ed il tesoriere.
Temi Romana
77
Cronache e attualità
§ 41). Deve, dunque, constatarsi, secondo la Corte, la
violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla
Convenzione.
Quanto alla seconda censura, relativa alla violazione
degli artt. 6§1 e 13 della Convenzione, la consolidata
giurisprudenza in materia ritiene che il “diritto ad un
Tribunale” non si esaurisca con la decisione promanata
da un organo giurisdizionale, ma includa anche la sua
esecuzione, affinché non si corra il rischio che una
decisione definitiva resti inoperante a detrimento della
parte vittoriosa7. Il diritto ad un giusto processo, infatti, resterebbe illusorio se uno Stato permettesse, appunto, ad una parte di non rispondere dei suoi obblighi
derivanti da una pronuncia resa da un Giudice8.
L’esecuzione di una decisione, anche non definitiva e
di qualsiasi autorità giudiziaria si tratti, deve essere,
quindi, considerata, alla luce delle coordinate internazionali, come facente parte del processo ai sensi dell’art. 6 CEDU: il rifiuto o la mancata esecuzione della
medesima, in assenza di un rapporto di ragionevole
proporzionalità tra i mezzi impiegati e il fine perseguito, costituisce una violazione del diritto del cittadino ad
un giusto processo.
Nella specie, la Corte ha rilevato che per i crediti vantati dai ricorrenti non vi era la possibilità di intraprendere alcuna azione esecutiva. Ed invero, il divieto di
intraprendere azioni esecutive nei confronti dell’ente,
di cui all’art. 248 Tuel, è esteso, in virtù del disposto di
cui all’art. 5, co. II della legge 140 del 2004, anche ai
crediti – quali quelli degli esponenti – riconosciuti con
sentenza successiva alla dichiarazione di dissesto
finanziario. Peraltro, siffatte limitazioni della soddisfazione del credito attraverso la procedura esecutiva, previste dal legislatore, non possono dirsi legittime, in
quanto sproporzionate rispetto al fine perseguito. Al
riguardo, la Corte sottolinea che “il divieto di intraprendere o proseguire procedure esecutive contro il
Comune resta in vigore fino all’approvazione, da parte
dell’OSL, del rendiconto, dunque fino ad una data futura legata all’attività di una commissione amministrativa indipendente. La celerità della procedura davanti a
quest’ultima sfugge dunque completamente al controllo del ricorrente. Il Comune di Benevento si è dichiarato in stato di dissesto nel dicembre 1993 […] e a tutt’oggi la Corte non è stata informata circa un’approvazione dei conti da parte dell’OSL. Il ricorrente, il quale
ha ottenuto il riconoscimento del suo credito attraverso una decisione giudiziaria del novembre 2003 e divenuta definitiva in data 9 maggio 2004 […] è stato, dunque, privato del suo diritto di accesso al giudice per un
periodo eccessivamente lungo. A parere della Corte,
re ad erogare i servizi pubblici essenziali. Ciò detto,
tuttavia, tali esigenze di tutela della collettività non
possono giustificare, secondo i giudici internazionali,
la frustrazione di un diritto di credito – quale quello
oggetto delle contestazioni – certo, liquido ed esigibile,
in virtù di sentenza passata in giudicato. Ed invero,
ricorda la Corte, un “credito” può essere considerato un
“bene” ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, se è
sufficientemente certo ed esigibile (Stran Raffinerie
greche e Stratis Andreadis c. Grecia del 9 dicembre
1994, § 59, serie A n. 301 – B e Burdov c. Russia, n.
59498/00, § 40, CEDU 2002 – III)5.
Nel caso di specie, i ricorrenti erano titolari di un credito certo, liquido ed esigibile riconosciuto da una sentenza resa dal Tribunale di Benevento, che aveva condannato il Comune al pagamento di una determinata
somma di denaro in loro favore. A seguito della dichiarazione di insolvenza, l’ente locale, tuttavia, non procedeva più al pagamento dei suoi debiti, sebbene questi,
in virtù di quanto appena riportato, costituiscano beni
ai sensi del disposto convenzionale. Di conseguenza,
rilevano i giudici di Strasburgo, la normativa italiana
che disciplina la materia dello stato di dissesto degli
enti locali viola il diritto al rispetto della proprietà,
posto che, anche qualora venga assicurato nel piano di
riparto il pagamento parziale del credito, lo Stato è
tenuto ad onorare in toto i debiti di ogni sua articolazione centrale o periferica, non potendo la mancanza di
risorse finanziarie dell’ente avere rilievo per giustificare l’inadempienza di obblighi derivanti da una sentenza definitiva6. Difatti, sostiene la Corte, “nel lasciare
ineseguita la sentenza del Tribunale di Benevento, le
autorità nazionali hanno impedito al ricorrente l’effettiva percezione delle somme che egli poteva ragionevolmente aspettarsi di ottenere. Vero è che l’Organo
straordinario di liquidazione aveva proposto al ricorrente un accordo transattivo, in virtù del quale sarebbe
stata versata una somma corrispondente all’80% del
credito […]; ma è pur vero che accettando questa
offerta – cosa che egli non fece – il ricorrente avrebbe
perso il 20% del suo credito ed avrebbe rinunciato agli
interessi legali ed alla rivalutazione, cui avrebbe avuto
diritto, e questo a partire dalla data della dichiarazione di insolvenza del Comune”.
D’altronde, tale ingerenza nel diritto di proprietà – convenzionalmente inteso – non può trovare giustificazione, come sostenuto dal Governo, nella mancanza di
risorse dell’ente: lo stato di insolvenza, difatti, non può
giustificare l’inadempimento scaturente da una sentenza definitiva passata in giudicato (Ambruosi c. Italia, n.
31227/96, § 28-34, 19 ottobre 2000 e Burdov c. Russia
78
Temi Romana
Cronache e attualità
T.A.R. osserva che la Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo “parrebbe aver affermato principi – di
segno diverso – che potrebbero risultare determinanti
nella decisione della causa (casi De Luca contro Italia
e Pennino contro Italia del 24 settembre 2013). Ritenuto
dunque necessario appurare se siffatta pronuncia abbia
(o verrà ad avere) carattere di definitività (art. 44 della
Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali) e, pertanto, rinviare la procedura ad altra camera di consiglio, dando
mandato alle parti di svolgere ogni verifica in tal senso,
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia,
Sezione Seconda di Lecce, rinvia la procedura alla
camera di consiglio del 30 gennaio 2014, disponendo
gli incombenti istruttori di cui in motivazione”10.
Le sopra riportate pronunce della Corte Europea dei
diritti dell’Uomo sembrerebbero, dunque, preludere a
scenari del tutto inediti nelle procedure esecutive
avviate o proseguite nell’ambito dello stato di dissesto
finanziario della provincia o del comune debitori.
Difatti, l’esigenza di addivenire ad una interpretazione
c.d. convenzionalmente orientata – secondo l’indirizzo
inaugurato dalle note sentenze nn. 348 e 349 del 2007
della Corte Costituzionale – della normativa interna,
comporterà un ripensamento dell’istituto del dissesto e
delle sue conseguenze sui creditori e sulle procedure
esecutive alla luce dei parametri internazionali sopra
riportati, pena la condanna dello Stato italiano per violazione della Convenzione e l’aggravarsi della già problematica situazione dei conti pubblici. Tale percorso,
tuttavia, si profila sin d’ora impervio, stanti la necessità di assicurare la continuità di esercizio delle funzioni
dell’ente in stato di dissesto e le ben note difficoltà
finanziarie dello Stato e delle amministrazioni locali. Si
rende, dunque, auspicabile un intervento del legislatore
volto all’individuazione di strumenti idonei, da un lato,
a rispettare le esigenze di tutela delle collettività locali
sopra evidenziate, dall’altro, a soddisfare la posizione
dei creditori nel rispetto dei principi della Convenzione
Europea, ponendo, così, lo Stato italiano al riparo da
ulteriori condanne della Corte di Strasburgo.
ciò ha comportato la violazione del rapporto di ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e l’obiettivo perseguito”. La Corte ha, così, riconosciuto che i
ricorrenti hanno subito un’ingerenza nel loro diritto di
“accesso ad un Tribunale”, constatando, così, la violazione dell’art. 6§1 della Convenzione. La constatazione di violazione è stata accompagnata dal riconoscimento di un’equa soddisfazione per i danni materiali e
morali.
I giudici di Strasburgo, ribadiscono, dunque, con le due
pronunce qui in commento, che le carenze finanziarie
di una pubblica amministrazione non possono giustificare una pesante compromissione del diritto degli individui a vedersi riconosciuti i propri crediti derivanti da
una sentenza passata in giudicato, o meglio, a trovarsi
nell’impossibilità di porre in esecuzione una sentenza.
Se, tuttavia, tali statuizioni si iscrivono, come visto, in
un percorso giurisprudenziale internazionale ormai
consolidato con riguardo alla tutela del credito ed
all’accesso al giudice, interessanti saranno le reazioni
della giurisprudenza italiana all’ennesimo richiamo
avanzato da Strasburgo.
Al riguardo, si segnala la recentissima ordinanza n.
2210/2013, con la quale il T.A.R. Puglia – Lecce, Sez.
II, nel prendere atto delle sopra citate sentenze della
Corte di Strasburgo nel corso di un giudizio di ottemperanza, ha ritenuto di rinviare la procedura, al fine di
verificare se dette pronunce abbiano acquisito carattere
di definitività, ai sensi dell’art. 44 della Convenzione
Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e
delle libertà fondamentali9.
Nel caso portato all’esame del Collegio, il ricorrente
agiva nei confronti del Comune di Taranto, per ottenere l’esecuzione di un giudicato, che riconosceva, in suo
favore, un credito nei confronti dell’amministrazione.
L’amministrazione resistente, rilevando l’intervenuta
dichiarazione di dissesto finanziario, eccepiva l’inammissibilità del ricorso, per essere il credito de quo riferibile alla competenza dell’Organo straordinario di
liquidazione, e, dunque, soggetto al regime di cui
all’art. 248 Tuel. A fronte di tale situazione, tuttavia, il
_________________
1 Cfr. A.R. DE DOMINICIS, Dissesto degli
enti locali. Contenuto, effetti, responsabilità, Milano, Giuffrè, 2000.
2 Cfr. M. MULAZZANI, Economia delle aziende
e delle amministrazioni pubbliche, Padova,
Temi Romana
CEDAM, 2001; F. ZITO, Commento agli artt.
242-269 Tuel, in M. BERTOLISSI (a cura di),
L’ordinamento degli enti locali, Bologna, il
Mulino, 2002.
3 Cfr. M.T. SEMPREVIVA (a cura di),
79
Ordinamento e attività istituzionali del
Ministero dell’Interno, Roma, Dike, 2013.
4 De Luca c. Italia, ric. n. 43870/2004, sentenza 24.09.2013; Pennino c. Italia, ric. n.
43892/2004, sentenza 24.09.2013.
Cronache e attualità
5 Al riguardo, si ricorda che, nella recente
evoluzione giurisprudenziale della Corte di
Strasburgo, “il concetto di proprietà è stato
esteso […] anche a diritti soggettivi relativi
quali i diritti di credito. A tale proposito,
nonostante l’affermata autonomia della
nozione, la Corte non ha escluso di poter
fare riferimento al diritto interno al fine di
accertare l’esistenza di un bene ai sensi
della Convenzione […] In tali ipotesi, la
Corte ha ritenuto necessario accertare se,
in considerazione del diritto interno, i crediti dei ricorrenti fossero «... sufficientemente
certi per essere esigibili» (Corte, 9 dicembre 1994, Raffineries Grecques Stran cit.,
par. 59) o se, quantomeno, «i ricorrenti
potessero pretendere di avere una legittima
aspettativa di concretizzare i loro
crediti…conformemente al diritto generale
in materia di responsabilità» (Corte, 20
novembre 1995, Pressos Compania Naviera
S.A. et autres cit., par. 31”, in S. BARTOLE,
B. CONFORTI, G. RAIMONDI, Commentario
alla Convenzione Europea per la tutela dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, CEDAM, 2001.
6 Cfr. L. SERINO, Lo Stato deve garantire i
crediti dei cittadini nei confronti delle
Pubbliche Amministrazioni. Note a margine dei casi De Luca e Pennino c. Italia, in
www.duitbase.it.
7 Hornsby c. Grecia, 19.03.1997, §40 e
Bordov c. Russia, 15.01.2009, §65.
8 Sul punto, si ricorda che, per costante giurisprudenza internazionale, la verifica circa
il rispetto del diritto alla tutela giurisdizionale, peraltro, va estesa anche alla fase esecutiva del giudizio, poiché il diritto di
accesso ad un giudice sarebbe illusorio se
l’ordine giuridico interno permettesse che
una decisione giudiziaria definitiva ed
obbligatoria restasse inoperante a detrimento di una delle parti (C.edu, Immobiliare
Saffi c. Italia, 28.07.1999, §63). Cfr. S.
BARTOLE, P. DE SENA, V. ZAGREBELSKY,
Commentario breve alla Convenzione
Europea dei diritti dell’uomo, Padova,
CEDAM, 2012.
9 Ordinanza n. 2210/2013, il T.A.R. Puglia
– Lecce, Sez. II, depositata in data
31.10.2013.
10 Con la recente sentenza n. 600/2014, il
T.A.R. Puglia – Lecce, Sez. II ha dichiarato
80
il ricorso in ottemperanza sopra richiamato
inammissibile. Quanto al rilievo delle sentenze della Corte EDU, il Collegio ha statuito che “tale conclusione non risulta
‘superata’ dalle recenti pronunce della
Corte europea dei diritti dell’uomo nei casi
‘De Luca contro Italia’ e ‘Pennino contro
Italia’ (del 24 settembre 2013), avendo in
quelle fattispecie il giudice di Strasburgo
esaminato situazioni in cui il diritto a un
equo processo (da intendersi comunque
non in senso assoluto, essendo ammesse
restrizioni implicite affidate al margine di
apprezzamento degli Stati membri e riferibili a motivi imperativi di interesse generale) risultava compresso per un tempo eccezionalmente lungo, in violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza (si
dibatteva della posizione di due creditori
del Comune di Benevento i quali avevano
iniziato, rispettivamente nel 1987 e nel
1992, un’azione risarcitoria, ottenendo due
sentenze favorevoli passate in giudicato nel
2003 e nel 2004): nel caso in esame, invece, la sentenza della cui esecuzione di tratta è passata in giudicato solo nel 2012, e
dunque da un periodo di tempo non comparabile con quelli appena indicati”.
Temi Romana
Passeggiata in libreria
n° 4
Rassegna di dottrina
e giurisprudenza
a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma
“I DIRITTI DEI MINORI”
Matteo Santini e Pompilia Rossi (a cura di)
Testi di: Francesca Beccaria, Emilia Casali, Francesca Cimatti,
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per argomenti. I diritti dei minori ivi trattati sono stati affrontati in modo esaustivo: nel testo
infatti si rinvengono leggi e sentenze di diritto civile ma anche di diritto penale, al fine di
consentire un compiuto inquadramento della materia.
Direttore Responsabile: Mauro VAGLIO
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Capo Redattore: Samantha LUPONIO
Comitato Scientifico:
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Temi Romana - Autorizzazione Tribunale di Roma n. 320 del 17 luglio 2001 - Direzione, Redazione: P.zza Cavour - Palazzo di Giustizia - 00193 Roma
Impaginazione e stampa: Infocarcere scrl - Via C. T. Masala, 42 - 00148 Roma
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sensibilizzazione all’utilizzo, in campo scientifico forense, di un linguaggio semplice e
pulito, scevro di terminologie astruse e indecifrabili, proprie di chi invece con la scienza si
confronta quotidianamente.
50 parole, tra le più utilizzate nelle Aule di Giustizia, che parlano di informatica forense,
cercando di offrire una spiegazione breve e chiara di concetti tecnici ormai entrati a far
parte della nostra quotidianità professionale.
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La crisi finanziaria che dal 2008 ha riguardato gli Stati Uniti e si è velocemente espansa in
Europa, con modalità domino, ha sottolineato l’inadeguatezza del sistema bancario sotto il
profilo dell’assunzione del rischio, di prevenzione degli effetti collaterali e della
composizione della crisi. L’Europa, al fine di evitare ulteriori crisi sistematiche e con
l’obbiettivo di esonerare i contribuenti dai costi di un dissesto generato da scelte
manageriali sbagliate, ha creato la Unione Bancaria. Vigilanza, risoluzione e garanzia dei
depositi delle banche cross-border vengono, dunque, tutti investiti da un più profondo
processo di armonizzazione e vengono collocati ad un nuovo e unico livello, quello
europeo, dove la BCE assume il ruolo di protagonista. L’opera si concentra sul nuovo
Meccanismo Unico di Risoluzione delle crisi bancarie transfrontaliere (Single Resolution
Mechanism, SRM), che vede la sua disciplina nel Regolamento (UE) N. 806/2014 del
Parlamento europeo e del Consiglio e sulla Direttiva Banking Recovery and Resolution N.
59/2014/EU, la quale mette a disposizione sia della nuova Authority europea di risoluzione
(Resolution Board), sia delle Autorità Nazionali, strumenti per la prevenzione, per
l’intervento precoce e per la risoluzione delle crisi bancarie. L’autore ha inteso delineare un
quadro delle nuovissime disposizioni europee in materia bancaria che a breve entreranno in
vigore, cercando di esprimere con semplicità espositiva un sistema contorto ed incompleto,
nell’ottica di stimolare riflessioni e facilitare il suo recepimento nell’ordinamento italiano.
2014
n° 4
Temi Romana
n° 4
Rassegna di dottrina
e giurisprudenza
a cura dell’Ordine degli Avvocati di Roma
ANNO LXII
OTTOBRE – DICEMBRE 2014