2 - Torino tra le due guerre: dal 1921 al 1942

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2 - Torino tra le due guerre: dal 1921 al 1942
2 - Torino tra le due guerre:
dal 1921 al 1942
Alessandra Bargetto
A. Bargetto
Torino tra le due guerre: dal 1921 al 1942
A commento della situazione abitativa di inizio secolo – quando a Torino su 300.000 abitanti ve n’erano
47.000 che disponevano di un quarto di vano e 41.000 che disponevano di un terzo di vano – si imputava
l’elevata natalità illegittima alla promiscuità delle abitazioni sovraffollate, in cui si corrompeva l’animo degli
adolescenti. L’allarme, pur assumendo toni moralisteggianti, era allora indirizzato a sollecitare un intervento pubblico, che iniziò con la costruzione, tra il 1908 e il 1912, di 45.000 vani in otto complessi ad opera
dell’Istituto autonomo case popolari (Iacp) di Torino. Alla fine degli anni Trenta, dopo vent’anni di politica
fascista della casa, la responsabilità dei problemi irrisolti veniva invece scaricata senza mezzi termini su
coloro che ancora vivevano nel disagio.
“In merito al sovraffollamento delle abitazioni composte di una sola stanza ed al sovraffollamento in genere
osserviamo che numerose sono ancora le persone le quali ad una casa decorosa ed igienica preferiscono i
divertimenti. Benefici effetti a questo riguardo potrebbe pure spiegare la nuova legge urbanistica che limita
l’afflusso nella città, ed impedisce quella immigrazione caotica che si affida esclusivamente alla ventura,
con non sempre buoni risultati”.
Queste osservazioni giungevano ala fine di un decennio in cui l’attività edilizia aveva stentato a tenere il
passo con l’incremento della popolazione. L’affollamento medio infatti, già ridotto a 1,16 nel 1931, era rimasto sostanzialmente inalterato, segnando, come già negli anni della Grande Guerra, un peggioramento
delle condizioni abitative degli strati più umili della popolazione.
Dopo la stasi dell’edilizia abitativa tra il 1916 e il 1919, la tendenza negativa proseguì nell’immediato dopoguerra, in regime di blocco dei fitti, nonostante le esenzioni fiscali concesse e ripetutamente prorogate del
governo. L’offerta di nuove abitazioni ebbe un andamento positivo dopo il parziale sblocco dei fitti del 1923
e fino allo scoppio della grande crisi; si ebbe poi una ripresa nel 1934-35, cui seguì – nel regime autarchico
che dal 1936 limitò le costruzioni in ferro – un calo e un assestamento sui livelli di offerta mediamente
inferiori al boom edilizio del quinquennio prebellico (1909-14), quando lo Iacp aveva sospeso l’originario
programma per 9.000 vani, perché “i privati costruivano a sufficienza”.
Nel 1921 le abitazioni non affollate (quelle che ospitavano non più di una persona per stanza) erano il
50,3% del totale; la loro quota crebbe di peso nel 1931, fino al 51,7%. Negli stessi anni le abitazioni affollate
(occupate da più di una e non più di due persone per stanza) aumentarono anch’esse di poco, dal 35,2 al
36,8 per cento, in corrispondenza di una diminuzione della quota delle abitazioni sovraffollate (quella con
più di due persone per stanza), passate dal 14,5 all’11,5. Con il buon andamento dell’attività edilizia negli
anni Venti si ebbe dunque un progresso che interessò anche la popolazione più disagiata. Negli anni Trenta, invece, la stasi del miglioramento abitativo medio si tradusse in un andamento a forbice: le abitazioni
non affollate registrarono un consistente balzo in avanti, raggiungendo la quota del 60,5% nel 1942, cui
corrispose una diminuzione delle abitazioni affollate (al 27,5%); si ebbe però un aumento, seppure lieve, di
quelle sovraffollate (al 12,1%) In altre parole, continuò lo spostamento di quote di popolazione dalla condizione di affollamento a quella di non- affollamento, ma aumentarono al contempo le persone viventi in
condizione di sovraffollamento. Crebbe dunque la diseguaglianza di condizioni abitative per ceto sociale,
non senza responsabilità imputabili, come vedremo, alla politica della casa attuata dal fascismo.
Nel 1931 solo il 40% della popolazione godeva di condizioni di non-affollamento, il 43% abitava case affollate, il 17% viveva nel sovraffollamento. Le condizioni erano ovviamente diversificate secondo la professione del capofamiglia: la situazione più disagiata toccava alle famiglie operaie, le cui abitazioni ospitavano
in media 1,54 persone per stanza, seguite dalle persone di servizio e fatica, con una media di 1,41. A parte
gli addetti all’agricoltura (media di 1,30), tutte le altre categorie vivevano condizioni medie decisamente
migliori. I commercianti si avvicinavano al non-affollamento (1,07), gli artigiani, censiti assieme agli industriali, avevano una media di una persona per vano, gli impiegati scendevano sotto la persona per vano
(0,95); buona era la situazione per i professionisti (0,76), mentre i proprietari e benestanti godevano delle
condizioni migliori, con quasi due stanze a disposizione per ogni persona (media 0,56).
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La tipologia di abitazioni più diffusa era quella dei piccoli alloggi di uno o due vani, che sempre al 1931
costituivano il 58% del totale delle abitazioni e ospitavano il 51% degli abitanti. Questi alloggi presentavano
il più alto grado di affollamento, che era inversamente proporzionale alle dimensioni dell’abitazione. Ben il
72% della popolazione operaia viveva in alloggi di uno o due vani: 49.000 persone in alloggi di una stanza,
con un affollamento medio di 2,32 persone per vano, 128.000 persone in alloggi di due stanze, con una
media di 1,59. L’affollamento e il sovraffollamento erano dunque una condizione pressoché esclusiva degli
operai e dei lavoratori subordinati. Se l’acqua potabile aveva ormai raggiunto la quasi totalità delle abitazioni, e le massaie non erano più costrette a prendere l’acqua al rubinetto comune in cortile o al piano, gli
alloggi delle famiglie degli operai e delle persone di servizio e fatica erano le più carenti per gli altri servizi:
l’86% disponeva di latrine ad acqua, ma meno dell’1% aveva il bagno; il 78% era raggiunto dal gas, ma solo
il 4% aveva un impianto di riscaldamento a termosifone. La condizione abitativa del proletariato restava,
sotto tutti gli aspetti, molto svantaggiata in confronto a quella degli altri gruppi sociali.
Di fronte al problema delle abitazioni, l’intervento dello Iacp e del Comune di Torino in periodo fascista si
caratterizzò per un’accentuata destinazione dell’edilizia pubblica a favore della piccola borghesia, o comunque di strati non propriamente proletari e in via di promozione sociale. In confronto all’anteguerra, l’azione
dello Iacp, pur ancora dosata a seconda dell’intensità dell’iniziativa privata, diede maggior continuità agli
interventi: la realizzazione dei singoli complessi si susseguì quasi di anno in anno, salvo una lunga interruzione tra il 1933 e il 1937.
Dal punto di vista della localizzazione, una parte dei nuovi quartieri si caratterizzò non più, com’era stato
nell’anteguerra, come semplice “opera di urbanizzazione in aree tutto sommato casuali”, che pure svolgeva
un’azione pilota nei confronti dell’edilizia privata favorendo al contempo la lievitazione della rendita dei
terreni attigui; ora quartieri come il 12° di zona Montebianco, il 13° di Borgata Parella, il 14° di Borgo San
Paolo , il 16° di Borgo Vittoria divennero “parte funzionale dell’urbanizzazione di intere zone della città da
parte della speculazione privata”, che ne interessò le aree circostanti negli anni immediatamente successivi
alla costruzione di questi quartieri. A svolgere tale funzione furono blocchi esplicitamente destinati, per
tipologie e prezzi d’affitto, al ceto medio. Nemmeno le prime realizzazioni dello Iacp nel 1908-12 erano
intese a favorire i gruppi più disagiati: le case erano di qualità superiore all’abitazione operaia corrente, e il
prezzo d’affitto era corrispondentemente alto, sostenibile da famiglie di aristocrazia operaia o nelle quali
lavorassero stabilmente più persone. Si era così verificato il fatto curioso, per non dire grave, che oltre un
terzo degli alloggi, in particolare quelli di maggiore ampiezza, era rimasto sfitto tra il 1912 e il 1914.
Nel dopoguerra fecero la loro comparsa le iniziative destinate espressamente a soddisfare una domanda
piccolo-borghese. Le 41 palazzine a tre piani con 15 alloggi ciascuna ultimate in via Arquata nel 1921,
erano tutte divise da giardini, con cortile interno ad aiuole e tappeto erboso. Dato l’alto costo di costruzione, richiedevano affitti che “non potevano essere bassi, pur restando inferiori notevolmente a quelli delle
case private”; il quartiere fu così abitato “quasi esclusivamente dal ceto medio”. La storia si ripeté con altre
iniziative degli anni Venti, localizzate nelle zone “alte” della città, a ridosso dell’attuale corso Francia, in
aree appetibili per l’iniziativa privata, alla quale aprivano la strada. Solo negli anni Trenta fu dato avvio alla
costruzione di case “popolarissime”, situate nell’estrema periferia e in zone di scarso pregio (quali l’area
“bassa” oltre il corso della Dora, in Regio Parco), quando non degradate (come in vicinanza della baraccopoli di corso Polonia).
La scelta a favore del ceto medio e degli strati alti di classe operaia fu sostenuta e indirizzata a livello governativo. Nel 1926 un decreto legge finanziò con contributi a fondo perduto la costruzione di alloggi da
assegnarsi con patto di futura vendita, mentre l’edilizia popolare destinata al solo affitto venne finanziata
unicamente con mutui agevolati.
L’attuale distinzione, che si operava all’interno dei ceti popolari, tra tre gruppi, i piccoli impiegati, gli operai
professionali e la manodopera non qualificata per i quali andavano costruiti tipi di abitazione diversi per
qualità e localizzazione, si risolse in una tendenza a privilegiare il primo, e in subordine il secondo gruppo.
Il Comune di Torino, in particolare, costruì otto blocchi di “case economicamente municipali” tra il 1922
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e il 1927, la prima metà dei quali costituiti quasi esclusivamente da alloggi di quattro o cinque vani (più
latrina, cantina, due balconi), di dimensioni superiori a quelli dello Iacp, che furono affittati, a un prezzo
adeguatamente più alto, a impiegati statali, municipali e privati, a guardie municipali e guardie daziarie, a
tramvieri e persino a professionisti: a operai fu assegnato un terzo scarso degli alloggi. Va inoltre tenuto
conto della logica di settore e appartenenza di parecchie iniziative, che andavano a favore di singole categorie di dipendenti pubblici e impiegati privati; tra di esse spiccavano la Cooperativa torinese per le case
degli impiegati, le case per i dipendenti della provincia, le case per i funzionari delle ferrovie e quelle per i
semplici ferrovieri, il quartiere Iacp denominato TM, riservato ai dipendenti dell’Azienda tramviaria municipale. In questo quadro va infine valutata l’azione privata delle grandi aziende per fornire abitazioni ai
propri dipendenti.
A Torino si distinsero la Fiat, la Snia, la Michelin, che operarono con iniziative indipendenti o attraverso
accordi con lo Iacp. Anche in questi casi, benché le abitazioni fossero indiscutibilmente destinate agli operai, si finiva per privilegiare una quota ridotta delle maestranze più qualificate e stabili, mentre la manodopera generica e i lavoratori instabili erano lasciati al loro destino (un discorso a parte meriterebbero i casi
dei convitti per le giovani operaie reclutate in zone molto distanti, come quello della Snia Viscosa, che nella
seconda metà degli anni Venti arrivò a ospitare oltre 1500 ragazze provenienti dal Veneto).
L’attività dello Iacp, con il 6% del totale dei vani costruiti tra il 1921 e il 1942, ebbe un’importanza non trascurabile, ma neppure decisiva. Non bastò a colmare i vuoti di offerta di nuove abitazioni popolari lasciati
dall’edilizia privata che, nella ripresa della metà degli anni Venti, puntò piuttosto alle case civili e signorili
destinate ai ceti medi e benestanti; non costruì piccoli alloggi perché il prezzo non sarebbe stato competitivo con gli affitti ancora parzialmente bloccati pagati dagli operai per le vecchie case. Tra il giugno del 1925
e il dicembre del 1926, ad esempio, il 25% dei 14.400 nuovi vani fu costruito in zona Crocetta, con ampi
alloggi di 6,2 stanze in media, e un altro 26% fu edificato in zona San Donato, con alloggi di 4 stanze . Risultò così: quasi completa la mancanza di piccoli alloggi di una o due camere, dei quali oggi è maggiormente
sentita la necessità da parte delle più piccole e modeste famiglie che non dispongono di notevoli entrate e di
conseguenza non sono in grado di pagare il fitto occorrente in alloggi più ampi.
Vi fu tuttavia almeno un’importante eccezione nel campo dell’iniziativa privata, quella della ditta Luigi
Grassi, già operante all’inizio del secolo, che costruì case popolari in aree medio-centrali e medio-periferiche (zone Aurora e Monterosa), utilizzando elementi in cemento armato prefabbricati e scomponibili e
pochi operai di semplice manovalanza, con costi di costruzione ridotti; al 1929 la Luigi Grassi aveva costruito oltre 100 case (per 6000 vani, quasi la metà dell’attività Iacp a quella data), prevalentemente composte
di alloggi di due stanze distribuiti su ballatoio con al fondo la latrina comune.
Il peggioramento delle condizioni abitative per gli strati operai più svantaggiati che caratterizzò gli anni
Trenta trasse inizio dalla grande crisi, quando si ebbe una caduta dell’attività edilizia sia privata sia pubblica, mentre l’incidenza degli immigrati sugli emigrati, pur registrando un deciso calo, si mantenne su valori
abbastanza elevati.
Le famiglie operaie, colpite dalla disoccupazione o dagli orari ridotti, ressero a fatica il costo degli affitti
(nel 1931 solo il 12% delle abitazioni era di proprietà degli occupanti). La morosità, in precedenza pressoché inesistente, divenne, complice anche lo sblocco dei fitti, un fenomeno diffuso, e le cause per disdette e
sfratti aumentarono fino al 12,8 per mille abitanti nel 1932; a dimostrazione della scarsa capacità di spesa
valgono i dati sui vani rimasti sfitti, che crebbero di oltre dieci volte dopo il 1930, arrivando a 17.200 nel
1931 per poi scendere leggermente al 16.500 nel 1932 e a 12.000 nel 1933. A peggiorare la situazione dei
ceti più umili contribuirono gli interventi di risanamento del centro, attuati senza predisporre provvedimenti a favore degli abitanti dei vecchi stabili demoliti; agli sfrattati non restò che il sovraffollamento negli
altri vecchi isolati del centro, o le baraccopoli che iniziarono a sorgere in periferia, o i ricoveri comunali per
gli accattoni, i disoccupati e, per l’appunto, gli sfrattati.
Il numero di questi ricoveri crebbe da tre a cinque a sei, e aumentarono i pernottamenti.
Con la ripresa dell’immigrazione dopo il 1934, seguita al lento superamento della crisi, il problema della
casa si fece sempre più allarmante, tanto da indurre lo Iacp, sul finire degli anni Trenta, a costruire gruppi
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di case popolarissime, alcune dei quali con funzioni quali assistenziali. Anche l’edilizia privata iniziò a costruire alloggi di dimensioni meno ampie, sia per il numero dei vani che per la cubatura, per rispondere alla
forte richiesta di abitazioni dal costo e dagli affitti contenuti.
Mentre il regime tentava un rilancio della lotta all’urbanesimo, che sfociò in norme restrittive nel 1939, alla
politica di espulsione di strati proletari dalle aree centrali si affiancò una politica di “ruralizzazione” della
classe operaia che intendeva creare, all’esterno del territorio comunale, villaggi operai con costruzioni di
tipo estensivo, il cui modello ideale era la casetta unifamiliare o di pochi alloggi, costruita con materiale
autarchico, con annesso un terreno da orto. Gli obiettivi della “ruralizzazione” erano molteplici: innanzi
tutto fornire agli operai, i cui salari restavano bassi, la possibilità di un reddito supplementare (attraverso la
produzione in proprio di ortaggi e l’allevamento di animali da cortile); tale reddito era ottenibile con il lavoro dei membri della famiglia (nel tempo libero o nei periodi di orario ridotto o disoccupazione) e in particolare delle donne, tendenzialmente emarginate dal mercato del lavoro industriale; per tale via si sarebbe
inoltre fornito un supporto concreto, una base materiale alla campagna demografica; con la ruralizzazione
si poteva infine affrontare in anticipo una serie di problemi (dall’approvvigionamento alimentare allo sfollamento), in previsione di congiunture belliche la cui eventualità non era ormai considerata remota.
Lo Iacp che nel 1930 aveva commentato le proprie realizzazioni affermando che queste non dovevano
“servire ad aggravare la piaga dell’urbanesimo”, a partire dal 1938 finalizzò i propri interventi, su “autorevole consiglio” del prefetto, al contenimento fuori del territorio comunale di quella parte della popolazione
che dalla provincia e dal circondario premeva sulla città: realizzò pertanto case popolari nei comuni di
Susa, Sant’Antonino di Susa, Pinerolo, Orbassano, Grugliasco, Venaria, Settimo. Non si trattava soltanto
di “provvedere di una casa decorosa per gli... abitanti di questi comuni” ma occorreva favorire nei centri
rurali satelliti di Torino (serviti o da servire con comunicazioni tramviarie o filotramviarie comode e a basso
prezzo) l’afflusso delle masse operaie che lavoravano negli stabilimenti cittadini.
Quanto alla “ruralizzazione” vera e propria, di “villaggi rurali nella lontana periferia delle grandi città” a
Torino ne verrà realizzato uno solo, a Testona di Moncalieri, costituito da casette di due alloggi, per famiglie numerose, ciascuno dotato di un appezzamento di terreno di circa 200 metri, da destinare a orto; un
secondo, ambizioso progetto di “centro semi-rurale organico” in regione Bertolla fu realizzato in tono minore solo nel dopoguerra. Benché gli obiettivi della “ruralizzazione” fossero allettanti per il regime, i costi
di operazioni di quel tipo impedirono vaste realizzazioni.
Di fronte alla necessità del momento, lo Iacp costruì blocchi intensivi a carattere “popolarissimi” o “minimo” in prossimità delle nuove aree industriali ai margini del territorio comunale, a Mirafiori, al Lingotto,
a Regio Parco e a Bertolla.
Nonostante quest’ultimo indirizzo dell’edilizia popolare, alla fine del ventennio fascista il problema della
casa era lungi dall’essere risolto, e la sperequazione delle condizioni abitative risultava quanto mai grande.
Un’inchiesta del 1942 sul grado di affollamento mostrò che, mentre la situazione tendeva a stabilizzarsi
su livelli superiori alla media, ma non gravissimi, in alcuni dei vecchi borghi operai a ridosso della zona
centrale, gli indici più alti di sovraffollamento si avevano ora nelle aree più esterne (Villaretto, Bertolla, Lucento, Mirafiori) oltre che nelle barriere meno interessate dalla diversificazione della composizione sociale
(Barriera di Milano, Madonna di Campagna, Borgo Vittoria): In queste zone e nelle vecchie soffitte del
centro (che costituivano una grossa parte delle abitazioni di un solo vano) andavano a stabilirsi gli ultimi
arrivati, gli immigrati clandestini che non potevano richiedere la residenza e accedere ai servizi assistenziali, ma che andavano a ingrossare le fila dell’offerta di manodopera in un mercato del lavoro ben poco
favorevole ai prestatori d’opera.
In conclusione, negli anni tra le due guerre, mutamenti sociali originati dall’urbanizzazione e fattori indotti
dalla politica fascista concorsero all’indebolimento delle reti di relazione e al restringimento degli spazi di
socialità autonoma, innescando il processo, destinato a compiersi nell’ultima fase di sviluppo urbano negli
anni del miracolo economico, che porterà alla scomparsa delle barriere come specifico territorio operaio.
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