il piacere di piacersi - Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano

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il piacere di piacersi - Liceo Classico Ugo Foscolo di Albano
IL PIACERE DI PIACERSI
di Gabriele Candelori, Carlotta Centra, Matilda Cherici, Rosanna Maselli e Arianna Samuele
A.S. 2013/2014 classe VD
COLLOQUI FIORENTINI XIII EDIZIONE
Francesco Paolo D’Annunzio e Luisa De Benedictis sono il padre e la madre, Gabriele è il figlio e
nasce a Pescara il 12 marzo del 1863, di venerdì, sotto il segno dei pesci. Un’infanzia felice quella
di Gabriele, disceso in Abruzzo quattro anni dopo Anna, la sorella maggiore, due anni dopo Elvira,
quattro anni prima di Antonio e due prima di Ernestina. Dei cinque fratelli, era il re: per legge salica
come primo dei maschi, e per virtù, essendo nato giusto nel mezzo. Degli amici e delle amiche era il
signore e padrone assoluto, perché vantava il privilegio dell’intelligenza nei confronti dei primi, e
una spiccata e precocissima capacità amatoria nei confronti delle seconde. Vivacità e intelligenza
colpiscono il padre Francesco Paolo e lo inducono ad assicurare un’educazione adeguata all’ormai
undicenne terzogenito. Così, alla vigilia dell’anno scolastico 1874-75, Gabriele abbandonava
Pescara e la paterna villa del Fuoco per Prato e il collegio Cicognini. Ancora collegiale, pubblica la
prima raccolta poetica, che suscita grande interesse e gli procura le prime amicizie: il critico
Giuseppe Chiarini, amico di Carducci, e la cerchia degli amici abruzzesi cui fu sempre legatissimo
come il musicista Paolo Tosti. Dal 1881 si trasferisce a Roma, iscrivendosi alla facoltà di lettere.
Ma la brillante vita capitolina lo distoglie dagli studi regolari. Fu un precocissimo poeta e prosatore,
giornalista mondano e letterario nonché frequentatore dell’alta società. Quando D’Annunzio,
giovanissimo, entra nelle scene letterarie, vige la cultura dell’estetismo, alla quale egli si conforma
in tutto, sia nelle opere, preziose da ogni punto di vista (stile, linguaggio, contenuti), che nella vita
privata: l’abbigliamento elegantissimo, i celebri amori con donne belle, note e spesso stravaganti, le
case lussuose, stipate di arredi e oggetti come musei, gli sport mondani e audaci; dai cavalli, alle
corse dei cani e tempestivamente dall’automobile all’aereo (la parola “velivolo” è una sua
invenzione) seguendo in modo progressivo lo sviluppo tecnologico. Se D’Annunzio scrittore è
sempre minacciato nella sua autenticità dall’estetismo, D’Annunzio uomo, salottiero, dandy, snob,
vi è completamente immerso. “Io ho per temperamento […] – scrive – il bisogno del superfluo […]
ho voluto divani, stoffe preziose, tappeti di Persia, piatti giapponesi, bronzi, avori, ninnoli, tutte
quelle cose inutili e belle che io amo con una passione profonda e rovinosa”.
“Chi mai oggi e nel secolo, o nei secoli, potrà indovinare quel che di me ho io voluto
nascondere?”
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Il laboratorio tecnico e linguistico dannunziano è eccezionalmente ricco e fastoso: lo stile è sempre
elevato e nobile, dominato anche in prosa da una spiccata volontà di ritmo e musicalità; il lessico è
aulico e arcaico, ed è alimentato regolarmente dalla perlustrazione dei vocabolari, strumento
apprezzatissimo da D’Annunzio. La sua scrittura è caratterizzata da materiali che usa riplasmare e
fare propri e può risultare molte volte stucchevole per l’eccesso di magniloquenza e di oratoria,
nonché per la presenza di temi già trattati quali il superuomo e la retorica patriottica, ma altre volte
dà risultati aerei e musicali. Il linguaggio dannunziano riflette inoltre la vita privata del poeta, che
abbandona la propria “sobria ebrietà” per farsi coinvolgere da una vita di lussi ed eccessi, per
vivere la vita umana a livello del suo ideale assoluto. Raramente si abbassa al quotidiano; sono
pochi i momenti in cui mette in luce il suo vero essere, il bisogno di recuperare quella vita pacata e
severa, agreste e rurale, per fuggire un’esistenza irregolare e disordinata, segnata precocemente dal
genio. Fa brevi accenni, come dei sospiri, un attimo di sfogo in cui sembra voler abbandonare tutto
ciò che fino a poco prima gli sembrava strettamente necessario: “ io sono un animale di lusso; –
scrive – e il superfluo m’è necessario come il respiro”. Nel primo dei sette Sogni di terre lontane,
Settembre, arriva addirittura ad affermare “Ah perché non son io co’ miei pastori?”, dimostrando di
avere nostalgia non solo di una vita tranquilla e semplice, ma caratterizzata anche dal contatto con
la natura e con gli animali. In questo verso non ci sono parole auliche e fastose, com’è semplice il
desiderio che lui mostra, anche il linguaggio sembra riflettere questa sua volontà di ritorno alla
normalità, usando parole di sapore quasi quotidiano.
CONSOLAZIONE
Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.
Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancóra per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
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che vela certe cose del passato.
Ancóra qualche rose è ne' rosai,
ancóra qualche timida erba odora.
Ne l'abbandono il caro luogo ancóra
sorriderà, se tu sorriderai.
Ti dirò come sia dolce il sorriso
di certe cose che l'oblìo afflisse.
Che proveresti tu se fiorisse
la terra sotto i piedi, all'improvviso?
Tanto accadrà, ben che non sia d'aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento
sol di settembre; e ancor non vedo argento
su 'l tuo capo, e la riga è ancor sottile.
Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po' di sole,
un po' di sole su quel viso bianco.
Bisogna che tu sia forte; bisogna
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che tu non pensi a le cattive cose...
Se noi andiamo verso quelle rose,
io parlo piano, l'anima tua sogna.
Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.
Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
In una vita semplice e profonda
io rivivrò. La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.
Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
Io parlo. Di': l'anima tua m'intende?
Vedi? Ne l'aria fluttua e s'accende
quasi il fantasma d'un april defunto.
Settembre (di': l'anima tua m'ascolta?)
ha ne l'odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l'odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.
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Sogniamo, poi ch'è tempo di sognare.
Sorridiamo. È la nostra primavera,
questa. A casa, più tardi, verso sera,
vo' riaprire il cembalo e sonare.
Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
allora, qualche corda; qualche corda
ancora manca. E l'ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l'ava.
Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m'odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po' passate,
sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suono sarà velato, fioco,
quasi venise da quell'altra stanza.
Poi per te sola io vo' comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
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grazia che sia vaga e negletta alquanto.
Tutto sarà come al tempo lontano.
L'anima sarà semplice com'era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l'acqua al cavo de la mano.
Terza poesia dell’Hortulus Animae, risale al 1891. Rivolta alla madre, cui il poeta immagina di fare
visita, è un testo centrale della raccolta in quanto contiene un repertorio di buoni sentimenti
destinato a ripresentarsi come dominante nella poesia crepuscolare. Il clima culturale che distingue
questo testo, diffuso un po’ in tutto il Poema paradisiaco è quello dei simbolisti e post-simbolisti
francesi (Verlaine, Laforgue ecc.).
Questa poesia è rappresentativa del gusto del Poema paradisiaco, sia per i temi (ricerca
dell’innocenza nella casa dell’infanzia) sia per l’uso del registro basso ma anche astutamente
musicale. Ripetizioni, punti di sospensione e parentesi, provocano un effetto di languore e
rallentamento stilistico. Si registra un uso fittissimo di ripetizioni e anafore, quali il “vieni;
usciamo” del verso tre, che torna preciso al verso cinque, ma anche in parte ridotto al solo
“usciamo” al verso diciotto. Altrettanto interessante è la frequenza delle interrogative; la prima
interrogazione, ai vv. 15-16, sembra suggerire quasi la tenera-scherzosa ipotesi di un settembre che
sembra somigliare ad aprile. Le domande che seguono, più brevi e realistiche, si accordano meglio
con l’atmosfera generale, cercando ascolto e comunicazione presso la stanca e provata
interlocutrice.
In Consolazione D’Annunzio dimostra che i suoi affetti più cari sono ancora vivi in lui. Anche se si
è allontanato dal suo passato, dentro di sé tiene ancora gelosamente custoditi i ricordi d’infanzia e
questo dimostra che in realtà egli non è il vero dandy dipinto dalla critica letteraria, ma solo un
uomo costretto a celare la propria fragilità a causa di circostanze che gli impediscono di rivelare
cosa egli ha voluto realmente nascondere.
LA SERA FIESOLANA
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Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.
Laudata sii pel tuo viso di perla,
o Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!
Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
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su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ’l grano che non è biondo ancóra
e non è verde,
e su ’l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Laudata sii per le tue vesti aulenti,
o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora!
Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
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le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.
Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!
La più antica lirica di Alcyone, stesa nel 1899, è la finissima trascrizione di stati d’animo suscitati
dall’apparire della sera nella campagna di Fiesole, presso Firenze, in compagnia della Duse,
presente solo per discretissimi cenni.
Tratto mitizzante, che connota la poesia, è la devozione francescana per cui la lode alla sera
riecheggia puntualmente il “Cantico delle creature” nella ripresa laudistica e arcaizzante tramite la
forma “Laudata sii…” presente nei versi 15, 32 e 49. Questa prima sezione, in cui si colloca La
sera fiesolana, recupera in chiave decadente la poesia delle origini: nonostante, infatti, riprenda le
“Laudes creaturarum”, tuttavia si colloca in un contesto completamente diverso, già trattato in
precedenti scritti. Il ruolo di protagonista è assegnato alla sera e alla natura, indagate dal poeta con
intenzione antropomorfica: ogni aspetto naturale è dolcemente umanizzato. Ciò avviene attraverso
la profusione di numerose immagini significative dal forte richiamo mitico quali innanzitutto la
comparsa personificata della Luna e l’immagine finale della campagna che “beve” la pace notturna.
Proprio la Luna rappresenta una sorta di teofania che solo le parole del poeta-vate sono in grado di
descrivere nel momento, magico e sospeso, che ne precede il sorgere vero e proprio.
Quest’immagine ha il potere altamente significativo di produrre il refrigerio necessario a far
rifiorire la vita laddove vi era aridità ma, l’idea della “freschezza”, la connette allusivamente anche
alle “fresche” parole del poeta, che quindi assumono le medesime prerogative salvifiche. Oltre
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all’antropomorfismo l’altra chiave di lettura del testo è il francescanesimo presente nella fratellanza
delle creature naturali, nella mistica santità del paesaggio e nello stile, caratterizzato da un’attenta
cura formale, un lessico ricercato ed allo stesso tempo ricco di arcaismi, ma in particolare da una
grande musicalità.
Egli cerca dunque una fusione dei sensi e dell'animo con le forze della vita, accogliendo in sé e
rivivendo l'esistenza molteplice della natura, con piena adesione fisica, prima ancora che spirituale;
è questo il "panismo dannunziano", quel sentimento di unione con il tutto, che ritroviamo in tutte le
sue poesie più belle. La vocazione poetica si muta per la maggior parte delle volte in esibizionismo:
abbiamo allora l'esaltazione del falso primitivo, dell'erotismo o quella sfrenata del proprio io,
indicata nei due aspetti dell'estetismo e del superomismo; il poeta vorrebbe elevarsi al di sopra
della massa, vorrebbe essere l'esteta attivo, che cerca di realizzare la sua superiorità a danno delle
persone comuni ma, nel contempo, riaffiora in sé quella necessità di ritorno alle origini, di recupero
di una semplicità e serenità ormai perduta, la quale ha ceduto il posto ad una vita di eccessi senza
riuscire però nel suo intento, senza voler rinnegare se stesso, senza voler mettersi in discussione.
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