Progetto e costruzione di un apparato per la realizzazione di

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Progetto e costruzione di un apparato per la realizzazione di
Università degli studi di Trieste
FACOLTÀ DI SCIENZE MATEMATICHE, FISICHE E NATURALI
Corso di Laurea in Fisica
Progetto e costruzione
di un apparato
per la realizzazione di ologrammi
Tesi di Laurea triennale in Fisica
Laureando:
Nevio Daneluz
Relatore:
Chiar.mo Prof.
Edoardo Milotti
Sessione Straordinaria
Anno Accademico 2008/2009
2
Indice
Introduzione
1
1 Teoria
3
2 Tecniche olografiche e tipi di ologrammi
9
2.1
Classificazioni generali possibili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
2.2
Metodi diretti per la registrazione olografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
11
2.2.1
Ologramma fuori asse (di Leith-Upatnieks) . . . . . . . . . . . . . . .
12
2.2.2
Ologramma a riflessione (di Denisyuk) . . . . . . . . . . . . . . . . . .
14
Metodi indiretti per la registrazione olografica . . . . . . . . . . . . . . . . . .
15
2.3.1
Ologramma image-plane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
16
2.3.2
Ologramma a riflessione ed a trasmissione in due passi . . . . . . . . .
17
2.3.3
Ologramma rainbow . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
20
2.3
3 Apparato sperimentale
23
3.1
Banco ottico
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
23
3.2
Laser . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
25
3.3
Filtro spaziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
27
3.4
Specchi e beam splitters . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
28
3.5
Lenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
30
3.6
Otturatore elettronico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
30
3.7
Staffe per il bloccaggio dei componenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
33
3.8
Supporti per le lastre olografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
33
3.9
Lastre olografiche e reagenti per lo sviluppo . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
34
4 Configurazioni usate, risultati
37
4.1
Ologrammi a riflessione a singolo fascio
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
37
4.2
Ologrammi a riflessione a doppio fascio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
39
4.3
Ologrammi a trasmissione a doppio fascio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
40
i
ii
4.4
Ologrammi a trasmissione a triplo fascio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
41
4.5
Ologrammi a riflessione in due passi (H1-H2) . . . . . . . . . . . . . . . . . .
42
4.6
Ologrammi a trasmissione in due passi (H1-H2) . . . . . . . . . . . . . . . . .
44
4.7
Ologrammi rainbow . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
47
4.8
Ologrammi image-plane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
47
4.9
Ologrammi a 360°
48
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5 Appendice
5.1
5.2
51
Appendice A: tecniche olografiche, complementi . . . . . . . . . . . . . . . . .
51
5.1.1
Ologramma in asse (di Gabor) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
51
5.1.2
Ologramma di Fourier (senza lenti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
52
5.1.3
Ologramma di Fraunhofer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
53
5.1.4
Ologramma di Fourier (con lenti) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
53
Appendice B: schemi elettrici dell’otturatore
elettronico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
5.3
56
Appendice C: soluzioni e procedimento per lo
sviluppo degli ologrammi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Bibliografia
57
59
Introduzione
L’olografia - dal greco holos (completa) e graphein (scrivere) - consiste in un sistema per
la registrazione e successiva visualizzazione tridimensionale di immagini e informazioni. Tale
tecnica fu ideata da Denis Gabor, premio premio Nobel nel 1971. Le numerose applicazioni
di questa tecnica nel campo della scienza, dell’ingegneria, della grafica e dell’arte hanno fatto
sı̀ che, al giorno d’oggi, quello dell’olografia risulti uno tra i campi maggiormente in via di
sviluppo nell’ottica moderna.
Per una chiara comprensione del fenomeno che sta alla base dell’olografia, può esser utile
comparare la tecnica fotografica e quella olografica.
Per esser in grado di vedere un oggetto, dobbiamo permettere ai nostri occhi di ricevere la
luce emessa dallo stesso, che siamo quindi tenuti a illuminare. La luce diffusa dall’oggetto
è quella che chiamiamo onda oggetto e contiene tutte le informazioni che riguardano la sua
forma esteriore; essa è costituita dalla sovrapposizione di tutte le onde emesse da ogni punto
dell’oggetto. Se si riuscisse a registrare questa luce e ad emetterla successivamente con un
proiettore o display, l’immagine dell’oggetto non sarebbe distinguibile dall’oggetto stesso.
Utilizzando una comune macchina fotografica per immagazzinare l’informazione dell’onda
oggetto, sulla pellicola viene registrata solamente la distribuzione delle intensità di luce che
la colpisce, mentre tutte le informazioni riguardanti fase e ampiezza vengono perse. Di conseguenza l’onda luminosa registrata - e quindi quella che viene emessa quando si riproduce
l’immagine - contiene un’informazione minore rispetto all’onda emessa dall’oggetto. Ne risulta un’immagine bidimensionale.
Nella banda radio, fino alle microonde, è possibile rivelare direttamente ampiezza e fase,
ma questo non è ancora possibile nel caso della radiazione visibile: le pellicole fotosensibili
e i sensori ottici elettronici (CMOS, CCD, fotodiodi, fotomoltiplicatori) sono in grado di
captare solamente l’irradianza della luce visibile. Per registrare ampiezza e fase dell’onda
elettromagnetica nella regione visibile è dunque necessario ricorrere ad alcuni stratagemmi.
L’olografia, in particolare, sfrutta l’interferenza della luce convertendo l’informazione di fase
e ampiezza in informazione d’irradianza.
Per realizzare un ologramma è indispensabile, in primo luogo, l’uso di una sorgente di luce
1
2
INTRODUZIONE
coerente (laser) da utilizzare per l’illuminazione della pellicola olografica e dell’oggetto in
questione. La pellicola quindi deve essere raggiunta sia dalla luce di riferimento emessa direttamente dal laser che da quella emessa dall’oggetto; queste, interferendo creano sulla pellicola una ben precisa sequenza di frange d’interferenza. È in questo schema d’interferenza
che s’immagazzina sia l’informazione sull’ampiezza dell’onda oggetto che quella riguardante
la sua fase, persa nella tecnica fotografica. L’informazione su ampiezza e fase sono contenute,
rispettivamente, nella modulazione della luminosità delle frange d’interferenza e nella distanza che le separa. Dopo aver sviluppato chimicamente la pellicola olografica, si ottiene ciò che
viene chiamato ologramma. Per riprodurre l’onda oggetto desiderata, è sufficiente inviare
all’ologramma un fascio di luce coerente il più possibile simile al fascio di riferimento utilizzato nella registrazione. La diffrazione data data dallo schema d’interferenza dell’ologramma,
permette di ricostruire l’onda oggetto desiderata, e di avere un’immagine tridimensionale
dell’oggetto di partenza.
Lo scopo di questa tesi è quello di dare una breve descrizione sperimentale di come si può
costruire ed utilizzare un apparato ottico per la realizzazione di ologrammi a trasmissione
e a riflessione in luce bianca. La tesi si aprirà con una breve trattazione teorica del metodo di registrazione olografica; si parlerà, poi, delle diverse tipologie di ologrammi; in seguito
verrà descritta la strumentazione costruita con i relativi problemi incontrati durante la realizzazione; infine, si vedranno gli ologrammi creati, discutendo di volta in volta le configurazioni
sperimentali adottate.
1
Teoria
Prima di affrontare la parte sperimentale, riassumo le basi teoriche che permettono la
registrazione di un’immagine tridimensionale con tecnica olografica.
La luce visibile è un’onda elettromagnetica con lunghezza d’onda tra i 400 ed i 700 nm circa.
In questa breve trattazione matematica considero solamente il suo campo elettrico E, che si
può descrivere nel tempo come la parte reale di una funzione oscillante del seguente tipo
E(z, t) = Ae−i(ωt−kz+ϕ) = Ae−i(ωt+Φ)
(1.1)
ω indica la frequenza angolare, k = 2π/λ è il numero d’onda, ϕ è il fattore di fase (per
le quantità complesse usiamo il carattere grassetto). Per comodità ho introdotto la fase
Φ = ϕ − kz. In questo scritto non vengono discusse le questioni relative alla polarizzazione
della luce, in quanto fortemente legate alle proprietà di coerenza della stessa.
Le emulsioni fotografiche sono rivelatori che integrano l’irradianza della luce su tempi che
sono molto più lunghi del periodo di oscillazione della luce visibile, e quindi l’annerimento di
una pellicola è funzione del valore medio dell’irradianza:
I(r) = ε0 h|E(r, t)|2 i
(1.2)
dove I(r) indica l’irradianza nel punto r e la parentesi triangolare denota la media temporale.
Per un’onda monocromatica il campo elettrico fattorizza in una parte E(r) dipendente soltanto dalla posizione e in un’oscillazione di tipo sinusoidale; quindi l’espressione per l’irradianza
diventa:
I(r) =
ε0
|E(r)|2
2
(1.3)
La descrizione degli ologrammi richiede il campo elettrico in alcuni punti dello spazio dunque
la parte temporale viene fattorizzata ed infine eliminata dall’operazione di media: possiamo
3
4
TEORIA
Figura 1.1: Onda piana incidente su un ologramma.
perciò eliminare l’esponenziale oscillante dipendente dal tempo già nella descrizione dei campi
elettrici, e semplificare in questo modo la trattazione matematica:
E(z) = Ae−i(ϕ−kz) = Ae−iΦ
(1.4)
Vediamo ora l’interferenza delle due onde sopra descritte (onda oggetto o e onda di riferimento
r) sullo strato olografico. Sia l’ampiezza complessa del loro campo elettrico che la fase
dipendono dalle coordinate x, y che delineano il piano della pellicola olografica. Possiamo
scrivere le due ampiezze sul piano dell’ologramma
o(x, y)
= |o(x, y)|e−iΦ = o(x, y)e−iΦ
(1.5)
r(x, y)
= re−iΨ = re2πiσr x
(1.6)
dove r è costante perchè assumiamo un’illuminazione uniforme; la fase Ψ dipende dall’angolo
d’incidenza δ nel seguente modo:
Ψ = −2π
sin δ
x = −2πσr x
λ
(1.7)
σr è la frequenza spaziale, ed il suo inverso corrisponde alla distanza dei fronti d’onda dell’onda di riferimento sulla pellicola olografica (σr = 1/dr ).
Prima di proseguire, precisiamo che la seguente trattazione riguarda la tipologia di ologramma
più importante, ovvero quella fuori asse a trasmissione (off-axis transmission holography).
L’intensità risultante nel piano della pellicola è data dal modulo quadro della somma delle
5
ampiezze complesse dei due campi:
I
= |r(x, y) + o(x, y)|2
= |r(x, y)|2 + |o(x, y)|2 + r∗ (x, y)o(x, y) + r(x, y)o∗ (x, y)
= r2 + o2 + ro(x, y)e−2πiσr x e−iΦ(x,y) + ro(x, y)e2πσr x eiΦ(x,y)
= r2 + o2 (x, y) + 2ro(x, y) cos[2πiσr x + Φ(x, y)]
(1.8)
Quest’espressione ci fa vedere come la distribuzione delle intensità sulla pellicola olografica contenga sia l’ampiezza dell’onda oggetto o(x, y) che la sua fase Φ(x, y). L’ampiezza
o(x, y), in particolare, modula la luminosità, mentre la fase modula la frequenza spaziale
(frange/lunghezza) σr . Nei materiali fotografici comunemente utilizzati, la trasparenza (o la
trasmissione) della pellicola diminuisce proporzionalmente all’irradianza nel punto in considerazione ed alla durata dell’esposizione τ . Possiamo scrivere il coefficiente di trasmissione
per l’irradianza come
t = t0 + γτ I = t0 + γρ
(1.9)
con t0 coefficiente di trasmissione per τ = 0, ρ densità di energia della luce (energia per unità
di superficie) nel punto, chiamata comunemente esposizione, e γ parametro negativo caratteristico del materiale fotosensibile. Inserendo l’espressione dell’irradianza I precedentemente
ricavata, possiamo esplicitare il coefficiente di trasmissione t ottenendo:
t(x, y)
=
t0 + γτ (r2 + o2 (x, y) + ro(x, y)e−2πiσr x e−Φ(x,y) +
+ro(x, y)e2πiσr x eΦ(x,y) )
(1.10)
che costituisce la funzione di trasmissione registrata sull’ologramma vero e proprio (ovvero
lo schema d’interferenza). Per la ricostruzione dell’immagine tridimensionale dell’oggetto di
partenza, si deve illuminare l’ologramma appena creato con un fascio uguale a quello usato
come riferimento nella registrazione r(x, y). Ovviamente tale fascio può differirne per quanto
riguarda l’ampiezza, che essendo sempre un fattore comune nelle espressioni non influisce nel
ragionamento, bensı̀ solamente nella visibilità finale dell’immagine olografica. L’ologramma
t(x, y) agisce su tale onda di riferimento semplicemente come un filtro, e l’ampiezza complessa
u della luce che ne emerge è data dal prodotto
u(x, y) = r(x, y)t(x, y)
(1.11)
Dalla 1.11 e dalle equazioni precedenti, si ricava:
u(x, y)
=
(t0 + βτ r2 )r(x, y)
+γτ o2 (x, y)r(x, y)
+γτ r2 o(x, y)
+γτ r2 o∗ (x, y)e4πiσr x
(1.12)
6
TEORIA
Il primo termine indica una riduzione dell’intensità luminosa dell’onda di riferimento.
Il secondo termine è generalmente piccolo, in quanto durante la registrazione o(x, y) < r(x, y).
A differenza del primo che è costante (r(x, y) = cost) questo varia lentamente nel piano (basse
frequenze spaziali) e crea un’alone luminoso attorno all’immagine dell’oggetto. Questi primi
due termini formano l’ordine di diffrazione zero.
Il terzo termine riporta l’onda oggetto moltiplicata per un fattore costante, ed è questo che
permette la visione dell’immagine olografica dell’oggetto. Tale onda è divergente nella direzione dell’osservatore, e quindi crea un’immagine virtuale dal lato opposto di costui (nella
posizione originale dell’oggetto). Tale immagine è virtuale in quanto l’onda non converge in
un’immagine reale (quindi non si può proiettare su di uno schermo). Questo rappresenta il
primo ordine di diffrazione.
Il quarto termine contiene il complesso coniugato dell’onda oggetto, e rappresenta l’ordine
di diffrazione -1. Quest’onda non è più divergente come per il terzo termine, bensı̀ convergente, creando cosı̀ un’immagine coniugata reale dalla parte dell’osservatore (che può essere
proiettata su uno schermo). Nell’onda coniugata la fase cambia segno rispetto a quella non
coniugata o, e la prospettiva cambia in modo da trasformare una superficie da concava a
convessa, e viceversa. Questa immagine reale è chiamata pseudoscopica al contrario della
normale immagine che è chiamata ortoscopica. Di solito in olografia vengono create quasi
sempre due immagini, quella normale e quella coniugata. Per quanto riguarda la posizione di
tale immagine, notiamo che l’onda oggetto coniugata è moltiplicata per un fattore costante
e per un’esponenziale complesso; quest’ultimo fa sı̀ che l’immagine stia ad un angolo che è
doppio rispetto all’angolo d’incidenza misurato rispetto all’onda di riferimento. A causa di
questo fattore esponenziale, la posizione geometrica dell’immagine reale risulta molte volte
sfavorevole. Dato che questa è l’unica immagine che può esser utilizzata come “nuovo oggetto” nell’olografia a due stadi, si è cercato un modo di riprodurla che consenta una maggior
accessibilità. In particolare si è ottenuto ciò invertendo la direzione dell’onda di riferimento.
Lo stesso effetto può esser ottenuto ruotando l’ologramma di 180 attorno ad un’asse perpendicolare alla direzione del fascio di riferimento. Matematicamente possiamo scrivere l’onda
di riferimento invertita come
0
r0 (x, y) = re−iΨ
(1.13)
dove
Ψ0 = −2π
sin(δ + π)
sin δ
x = 2π
x = 2πσr x = −Ψ
λ
λ
(1.14)
Quindi:
r0 (x, y) = re2πiσr x = (reiΨ )∗ = r∗ (x, y)
(1.15)
7
Dunque r0 (x, y) non è altro che la precedente espressione di r(x, y) complessa coniugata.
L’onda ricostruita sarà perciò:
u0 (x, y) = r∗ (x, y)t(x, y)
(1.16)
Da cui:
u0 (x, y)
=
(t0 + βτ r2 )r∗ (x, y)
+γτ o2 (x, y)r∗ (x, y)
+γτ r2 o(x, y)e4πiσr x
+γτ r2 o∗ (x, y)
(1.17)
I tre ordini di diffrazione possono essere interpretati come i precedenti. Come si può vedere
i primi due termini sono equivalenti a quelli ricavati utilizzando come onda di riferimento
r anziché r∗ , con la differenza che qui la direzione dell’onda di riferimento è opposta. Nei
rimanenti due termini invece si può notare come il fattore esponenziale (quello che precedentemente era responsabile della scomoda posizione dell’immagine reale pseudoscopica) si sia
spostato dal quarto al terzo termine, andando cosı̀ ad influire sulla posizione dell’immagine
virtuale ortoscopica anziché su quella della reale pseudoscopica data dall’onda oggetto coniugata. In questo modo viene proiettata un’immagine reale nella posizione in cui originariamente era presente l’oggetto, immagine che può essere usata come nuovo oggetto nell’olografia
a due stadi.
2
Tecniche olografiche e tipi di ologrammi
Vediamo ora che diverse tipologie di ologrammi esistono, in che cosa si differenziano l’una
dall’altra e che schemi ottici sono utilizzati per la loro realizzazione.
2.1
Classificazioni generali possibili
La classificazione degli ologrammi è solitamente basata sul sistema adottato per la visualizzazione dell’immagine olografica che essi contengono. Si hanno ologrammi a trasmissione
se tale immagine è riprodotta osservando la luce trasmessa, ed ologrammi a riflessione se essa
è visibile osservando la luce riflessa.
Un’altra distinzione viene fatta in base al sistema tramite il quale la figura di diffrazione
dell’ologramma riesce a costruire l’immagine olografica. Nella maggior parte dei casi, lo strato fotosensibile dopo lo sviluppo chimico è formato da frange opache costituite da piccoli
grani d’argento e frange trasparenti. Durante la ricostruzione la luce di riferimento inviata
viene diffratta dalla figura d’interferenza: le frange scure assorbono la luce mentre quelle
chiare la lasciano passare. Un ologramma che produce l’immagine in questo modo è detto
ologramma in ampiezza (amplitude hologram) in quanto il compito del reticolo di diffrazione
è quello di modulare l’ampiezza puntuale dell’onda di riferimento entrante. A causa della loro
bassa efficienza però, gli ologrammi in ampiezza sono sottoposti molte volte ad un processo
che li rende in grado di modulare la fase dell’onda anziché l’ampiezza, aumentandone cosı̀ l’efficienza. Il metodo più comune consiste nell’immergere l’ologramma in un bagno sbiancante,
in grado di convertire grani d’argento in un alogenuro d’argento translucido dall’alto indice di
rifrazione. In alternativa l’argento può esser rimosso completamente dall’emulsione adottando
altri bagni chimici. L’immagine di diffrazione ottenuta è dunque formata da aree adiacen9
10
TECNICHE OLOGRAFICHE E TIPI DI OLOGRAMMI
Figura 2.1: Rappresentazione di un ologramma volumetrico a trasmissione (a) e di un
ologramma volumetrico a riflessione (b).
ti aventi differente indice di rifrazione, e quello che prima era un ologramma in ampiezza è
trasformato in questo modo in un ologramma in fase (phase hologram).
Una terza caratteristica che permette di distinguere gli ologrammi è lo spessore d dell’emulsione, comparato alla distanza media tra le frange d’interferenza dg dell’ologramma.
Se d dg si parla di ologrammi sottili, mentre nel caso d dg di ologrammi spessi o
volumetrici. Lo spessore dell’emulsione olografica gioca un ruolo molto importante nell’efficienza di diffrazione, ovvero nella luminosità dell’immagine ricostruita. Ologrammi sottili in
genere hanno una bassa efficienza di diffrazione mentre ologrammi spessi riescono a generare un’immagine molto luminosa. Gli ologrammi sottili in ampiezza presentano un’efficienza
massima del 6.25%, valore che si può ottenere dal rapporto tra le intensità delle onde diffratte
nel primo ordine di diffrazione e l’intensità dell’onda entrante. Gli ologrammi sottili in fase
invece hanno un assorbimento di luce molto minore a causa della rimozione dei grani d’argento opachi che costituivano le frange scure della figura d’interferenza. Possiamo scrivere la
trasmissione dell’ologramma (complessa) come
t(x) = t(x)eiΦ(x)
(2.1)
Negli ologrammi in ampiezza quella ad esser modulata è t(x), mentre Φ(x) rimane costante.
Negli ologrammi in fase invece accade esattamente l’opposto, ovvero t(x) è costante e Φ(x)
modulata con una funzione periodica (seno-coseno). Si può vedere che per tali ologrammi
l’efficienza massima è del 33.9%.
La prima registrazione di un ologramma spesso fu eseguita da Denisyuk nel 1962. A differenza degli ologrammi sottili, in questo caso lo spessore dello strato di emulsione riveste un
ruolo fondamentale. Il parametro più importante per la classificazione è il rapporto tra la
distanza delle righe o piani d’interferenza e lo spessore del layer fotosensibile.
La figura 2.1 riporta un esempio di un ologramma spesso a trasmissione e di uno spesso a
riflessione. La distanza particolare dei piani reticolari (zone scure) che agiscono da spec-
2.2 Metodi diretti per la registrazione olografica
chi semitrasparenti, dipende fondamentalmente dall’angolo formato tra l’onda di riferimento
e l’onda oggetto durante la registrazione. La prima figura (a) riguarda un ologramma a
trasmissione, e come tale possiede piani reticolari perpendicolari (o vicini alla posizione perpendicolare) allo strato fotosensibile. Tale disposizione dei piani è generata quando le due
onde colpiscono lo strato dallo stesso lato; la loro differenza di cammino infatti si mantiene
pressocchè costante lungo tutto lo spessore dell’emulsione, facendo si che esse interferiscano
dando sempre la stessa intensità luminosa. La seconda figura (b) riguarda invece un ologramma a riflessione. In esso i piani reticolari sono approssimativamente paralleli allo strato
fotografico. Questo perchè le due onde che generano la figura di diffrazione provengono dai
due lati opposti, e quindi uno spostamento nella direzione perpendicolare al piano implica
una grande differenza di cammino delle due onde, con conseguente variazione d’intensità luminosa. In figura è rappresentata anche la costruzione dell’onda oggetto attraverso l’invio di
un’onda di riferimento.
2.2
Metodi diretti per la registrazione olografica
Per registrare un ologramma è necessario far interferire tra loro due fasci di luce, quello
proveniente dall’oggetto e quello di riferimento. In tal modo si registra nell’immagine d’interferenza tutte le informazioni riguardanti l’onda oggetto. In base alla direzione di provenienza
delle due onde ed alla posizione della lastra olografica rispetto a quella dell’oggetto, possono
essere definiti diversi metodi olografici, aventi ognuno delle specifiche proprietà. Analizzeremo
in primo luogo quelli che prendono il nome di metodi diretti ovvero che non usano nessun’immagine intermedia generata da lenti od altri ologrammi durante la registrazione. Possiamo
schematizzare la sovrapposizione dell’onda oggetto e l’onda di riferimento con la figura 2.2.
In figura 2.2a possiamo vedere i fronti d’onda creati dall’interferenza di un’onda di riferimento sferica e un’onda oggetto anch’essa sferica (consideriamo l’oggetto come puntiforme). La
figura 2.2b riporta invece lo stesso fenomeno d’interferenza nel quale si è usata come riferimento un’onda piana. In funzione della posizione in cui collochiamo lo strato fotosensibile,
possiamo definire i seguenti tipi di ologrammi:
ˆ Ologramma in asse (di Gabor)
ˆ Ologramma fuori asse (di Leith-Upatnieks)
ˆ Ologramma di Fourier (senza lenti)
ˆ Ologramma di Fraunhofer
ˆ Ologramma a riflessione (di Denisyuk)
11
12
TECNICHE OLOGRAFICHE E TIPI DI OLOGRAMMI
Figura 2.2: Frange d’interferenza durante la registrazione di ologrammi di un oggetto puntiforme O. 1 Ologramma in asse di Gabor; 2, 2’ Ologrammi fuori asse di Leith-Upatnieks
(sottili); 2” Ologramma fuori asse (spesso); 3 Ologramma di Fourier (senza lenti); 4 Ologramma di Fraunhofer; 5 Ologramma a riflessione di Denisyuk (spesso); 5’ Ologramma
a riflessione (transizione spesso-sottile). Figura tratta da: [1]
Di queste, le tipologie di ologrammi che ho testato sperimentalmente sono quella fuori asse
e quella a riflessione. Nel seguito si riporta una descrizione di tali due tecniche olografiche,
lasciando all’appendice A le rimanenti.
2.2.1
Ologramma fuori asse (di Leith-Upatnieks)
Questo tipo di ologramma nasce dalla necessità di ovviare al problema riguardante la
sovrapposizione di immagine reale e virtuale presente negli ologrammi in asse (vedi appendice A). Si è pensato cosı̀ di traslare la pellicola fotografica o l’oggetto dalla posizione assiale
assunta in precedenza (posizione 2 o 2’ di figura 2.2). Anche qui, come nell’olografia di Gabor,
si formano due immagini, quella reale quella virtuale, ma anziché risultare sovrapposte alla
vista dell’osservatore, ora giacciono su due posizioni angolari diverse.
Il generico set-up per l’olografia fuori asse è raffigurato nella fig 2.3. La condizione necessaria per produrre tali ologrammi è che l’angolo tra il fascio di riferimento e la congiungente
pellicola-oggetto sia diverso da zero; solo cosı̀ è permessa la separazione dei tre ordini di
diffrazione al momento della ricostruzione dell’immagine. Se a primo acchito questa può
apparire una condizione sperimentalmente scomoda, ci si rende subito conto che è proprio il
contrario. Solo cosı̀ infatti si possono produrre ologrammi di oggetti opachi alla luce.
Il set-up descritto (fig 2.3) genera come già noto, degli ologrammi a trasmissione. La formazione di una figura di diffrazione sottile o spessa dipende dallo spessore del layer olografico,
2.2 Metodi diretti per la registrazione olografica
Figura 2.3: Olografia fuori asse
dalla spaziatura reticolare (dipendente dalla direzione delle due onde che interferiscono) e dalla direzione dei piani del reticolo formato, ma possiamo già anticipare che nella pratica la
maggior parte dei casi l’ologramma a trasmissione prodotto sarà sottile. Per la ricostruzione
dell’immagine è necessario illuminare l’ologramma con luce monocromatica avente lunghezza di coerenza sufficientemente grande (in funzione della vicinanza o meno dell’immagine
olografica dalla lastra). Nel caso si usi della luce bianca come riferimento, ogni componente cromatica dello spettro verrà diffratta dal reticolo con angolo diverso, dipendente dalla
lunghezza d’onda della luce. A causa di ciò non sarà ricostruita una sola immagine olografica ben delineata (come nel caso si usi luce monocromatica) bensı̀ immagini adiacenti di
colore diverso, con spostamento laterale dipendente dalla profondità dell’immagine. L’osservatore vedrà dunque una sorta d’immagine olografica totalmente sfumata contenente tutti i
colori dello spettro visibile in sequenza. Se invece si adotta una particolare configurazione
adeguata alla produzione di ologrammi a trasmissione spessi, si può verificare che in tal caso la
trasmissione dei piani d’interferenza si somma costruttivamente soltanto per una ben definita
lunghezza d’onda della luce incidente (non necessariamente quella usata per la registrazione
in quanto nel processo di sviluppo chimico potrebbe esser avvenuta una compressione o dilatazione dei piani). Questo implica che anche illuminando l’ologramma con luce bianca, si
ottiene comunque un’immagine ben definita, e non più diverse immagini colorate sovrapposte.
Questi effetti diventano più evidenti su ologrammi aventi piani d’interferenza maggiormente
angolati rispetto alla superficie dell’ologramma. Più essi sono paralleli a tale superficie, e
più la ricostruzione con luce bianca garantisce ottimi risultati visivi. Generalmente il limite tra costruzione con luce bianca e costruzione con luce monocromatica, è fissato ad un
angolo dei piani reticolari di 45°. Da notare che in tal caso l’immagine reale (coniugata)
13
14
TECNICHE OLOGRAFICHE E TIPI DI OLOGRAMMI
Figura 2.4: Olografia a riflessione
non sarà prodotta in quanto dovrebbe giacere ad un angolo doppio rispetto a quello formato
dall’onda di riferimento con l’onda oggetto (quindi a 90° misurati dalla normale al layer olografico). Come conseguenza utile però si avrà un incremento nell’efficienza nella diffrazione
per l’immagine virtuale, che apparirà più luminosa e brillante.
2.2.2
Ologramma a riflessione (di Denisyuk)
Gli ologrammi a riflessione, ovvero con immagine ricostruibile dalla luce riflessa, hanno
una grande importanza soprattutto nel campo della grafica e delle arti. Per riprodurre l’immagine olografica nella maggior parte dei casi è sufficiente usare una luce bianca ed illuminare
l’ologramma dalla parte dell’osservatore, cercando la posizione più simile a quella che aveva
la luce di riferimento al momento della registrazione. In questo modo osservatore e sorgente
luminosa stanno dalla stessa parte, e l’ologramma può comodamente esser appeso ad una
parete come se fosse un quadro (cosa non possibile con un ologramma a trasmissione). Per
quanto riguarda la fase di registrazione, per ottenere un ologramma a riflessione è necessario
che l’onda di riferimento e l’onda oggetto incidano sul layer olografico dal lato opposto (posizione 5 e 5’ in figura 2.2).
Di notevole importanza è il set-up messo a punto da Denisyuk nel quale il layer olografico
è posizionato tra la sorgente e l’oggetto. Come conseguenza di ciò si ha la creazione di un
ologramma spesso (per eccellenza) con piani reticolari che giacciono approssimativamente
paralleli al piano dello strato fotosensibile. Possiamo anche stimare il numero di piani reticolari contenuti nello spessore di un comune ologramma a riflessione (con spessore dello strato
fotosensibile di 6 µm circa) notando che nel caso si usi un laser He-Ne (λ = 633 nm) la
distanza dei piani reticolari è di circa λ/2 = 300 nm, e quindi sono creati circa 20 piani
reticolari.
Per gli ologrammi a riflessione la teoria vista precedentemente per l’olografia fuori asse non
può esser applicata. I reticoli spessi infatti hanno un comportamento totalmente diverso da
2.3 Metodi indiretti per la registrazione olografica
quelli sottili, ed a causa della sua notevole complessità tale teoria non verrà trattata in questo
scritto.
La particolarità degli ologrammi a riflessione è che l’immagine virtuale dell’oggetto è formata
dalla luce riflessa dai piani reticolari. Tra tutta la luce riflessa dai piani reticolari, solo quella
di una certa lunghezza d’onda si trova in condizioni di sfasamento tale da dar luogo ad interferenza costruttiva. In questo modo noi vediamo una sola immagine olografica nitida e ben
definita anche illuminando l’ologramma con luce bianca, ed anzi è possibile che illuminandolo
con la luce del laser utilizzato per la registrazione non si riesca a veder alcun ologramma. Tale
lunghezza d’onda riflessa dipende dalla distanza reciproca dei piani reticolari, che dipende a
sua volta dalla lunghezza d’onda del laser usato e dalle soluzioni di sviluppo e sbiancamento.
Da qui il nome ologrammi in luce bianca attribuito spesso agli ologrammi a riflessione. In
figura 2.4 riportiamo schematicamente la tecnica utilizzata per la registrazione e successiva
ricostruzione di ologrammi a riflessione.
Nel caso si vogliano ottenere degli ologrammi a riflessione aventi piani reticolari obliqui rispetto a quelli usuali (considerati paralleli allo strato fotosensibile) si può usare la posizione 5’ di
figura 2.2. In questo caso la selezione in lunghezza d’onda operata dalla riflessione dei piani
reticolari è meno marcata e il comportamento della figura d’interferenza si avvicina a quello
di un ologramma sottile. Per distinguere tale tecnica che origina ologrammi a riflessione,
da quella per creare ologrammi a trasmissione fuori asse (aventi simile inclinazione dei piani
reticolari), questa è spesso chiamata olografia con fascio di riferimento invertito”.
2.3
Metodi indiretti per la registrazione olografica
Finora sono stati presi in considerazione i principali metodi olografici diretti, ovvero quelli
in cui durante la registrazione l’onda oggetto colpisce direttamente l’ologramma senza alcuna modifica dovuta alla presenza di componenti ottici. Una delle caratteristiche di questa
tecnica è che l’immagine normale (ortoscopica) appare virtualmente (quindi è visibile) ed è
al di là della lastra olografica durante l’osservazione.
Ora invece vediamo delle tecniche olografiche che durante la registrazione fanno uso di componenti ottici quali lenti oppure di ologrammi master. Alcune di esse permettono di creare
un’immagine olografica virtuale in fronte all’ologramma, visibile come uscente dalla pellicola
fotografica verso l’osservatore. Per ottenere questo effetto è usata al posto di un oggetto,
un’immagine tridimensionale creata da una lente o da un altro ologramma. Per tale motivo
questo tipo di ologrammi sono chiamati ologrammi immagine. Queste tecniche rivestono un
ruolo importante soprattutto in applicazioni grafiche, artistiche, e nello sviluppo di display
olografici. Gli ologrammi prodotti in questo modo si dividono in:
15
16
TECNICHE OLOGRAFICHE E TIPI DI OLOGRAMMI
Figura 2.5: Olografia image-plane
ˆ Ologramma image-plane
ˆ Ologramma a trasmissione o riflessione in due passi (di Leith-Upatnieks)
ˆ Ologramma rainbow
ˆ Ologramma di Fourier (con lenti)
Anche qui come nella sezione precedente si riportano solamente le descrizioni delle diverse
tipologie di ologrammi sperimentate personalmente, lasciando all’appendice A l’olografia di
Fourier (con lenti) della quale non si è fatto uso.
2.3.1
Ologramma image-plane
Per la creazione di un ologramma image-plane si fa uso generalmente di una grande lente
biconvessa, posta in modo tale da proiettare l’immagine reale dell’oggetto sul piano della pellicola fotografica. Si posiziona - nel seguente ordine - oggetto, lente, e strato fotosensibile, in
modo che sia soddisfatta l’equazione delle lenti sottili 1/f = 1/q + 1/p. Anche in questo caso
possiamo vedere l’immagine reale creata dalla lente ponendo uno schermo bianco al posto
2.3 Metodi indiretti per la registrazione olografica
della pellicola olografica, e variando leggermente la distanza tra la lente e la pellicola siamo
in grado di decidere la posizione in cui vogliamo venga registrata l’immagine dell’oggetto.
Variando le lunghezze p e q è possibile ingrandire o rimpicciolire l’immagine dell’oggetto in
questione, adattandola alle dimensioni della lastra sensibile usata.
I vantaggi nel registrare un’immagine dell’oggetto anziché l’oggetto reale in questo caso consistono nella possibilità di porre l’immagine dell’oggetto parzialmente oltre e parzialmente
dietro alla pellicola fotografica. Col piano dell’ologramma posto a metà dell’immagine (in
modo da tagliarla in due), la differenza massima del cammino ottico della luce è minore
rispetto alle altre tecniche in cui l’oggetto è interamente dietro allo strato sensibile, e quindi
è richiesta una minor lunghezza di coerenza della luce nella ricostruzione dell’immagine (sia
che si tratti di ologramma a trasmissione, che a riflessione). Se la profondità dell’oggetto
non è grande e l’ologramma è del tipo a trasmissione, può esser utilizzata per la riproduzione
anche una sorgente non propriamente monocromatica come un led colorato. Un altro vantaggio di questi ologrammi sta nella luminosità e brillantezza, mentre lo svantaggio principale
è legato all’angolo di osservazione limitato fortemente dall’apertura della lente usata. Per
la ricostruzione è necessario invertire la direzione dell’onda di riferimento (sia nel caso di
ologramma a trasmissione che a riflessione), pertanto è consigliabile usare un’onda piana al
posto di un’onda sferica come riferimento (preservando cosı̀ la scala dell’immagine olografica).
Uno schema esemplificativo è riportato in figura 2.5.
2.3.2
Ologramma a riflessione ed a trasmissione in due passi
Vediamo ora come possiamo creare degli ologrammi immagine senza l’uso di alcuna lente,
facendo uso altresı̀ della tecnica di registrazione olografica a due passi. Con questo sistema
i vincoli sull’angolo di osservazione che prima erano dettati dal diametro della lente e dalla
sua distanza dalla pellicola olografica, sono sostituiti da quelli imposti dalle dimensioni dell’ologramma madre ed ancora dalla sua distanza dalla pellicola. Per creare un ologramma in
due passi è innanzitutto necessario creare un’immagine reale dell’oggetto in questione (senza
l’uso di alcuna lente); creiamo cosı̀ un ologramma fuori asse a trasmissione, come da figura
2.6, che chiamiamo master o ologramma H1. La sua ricostruzione abbiamo visto che crea
un’immagine virtuale ortoscopica ed una immagine reale pseudoscopica. Ora utilizziamo tale
immagine reale per sostituire l’onda oggetto nella registrazione dell’ologramma relativo al
secondo passo, che chiamiamo ologramma H2. È in questo modo che con l’olografia a due
passi si crea un ologramma di un’immagine olografica. Usando questa tecnica è possibile
creare immagini reali ortoscopiche, questo perchè l’immagine pseudoscopica di un’immagine
pseudoscopica è ortoscopica. La figura 2.6 schematizza la costruzione di un ologramma H2
a trasmissione. Come abbiamo visto, per la creazione di un ologramma H2 a riflessione, è
17
18
TECNICHE OLOGRAFICHE E TIPI DI OLOGRAMMI
Illuminazione
oggetto
x
Oggetto
Onda
oggetto
z
Onda di
riferimento
Registrazione
ologramma Master (H1)
x
Ologramma H1
Immagine virtuale
ortoscopica
z
Onda di
riferimento
Registrazione
ologramma H2
x
Layer fotosensibile H2
Immagine reale
pseudoscopica
Onda di
riferimento
x
Immagine reale
ortoscopica
Immagine
virtuale
pseudoscopica
Onda di
riferimento
Ologramma H2
Ricostruzione dell'immagine
reale ortoscopica
Figura 2.6: Olografia a due passi; primo metodo
2.3 Metodi indiretti per la registrazione olografica
Illuminazione
oggetto
19
x
Oggetto
Onda
oggetto
z
Onda di
riferimento
Registrazione
ologramma Master (H1)
x
x
Ologramma H1
Layer
fotosensibile
H2
Onda di
riferimento
z
Onda di
riferimento
Immagine reale
pseudoscopica
Registrazione
ologramma H2
x
Ologramma
H2
Onda di
riferimento
Osservatore
Immagine
virtuale
ortoscopica
Ricostruzione
Figura 2.7: Olografia a due passi; secondo metodo
necessario invertire la direzione dell’onda di riferimento durante la registrazione (rispetto a
quella usata per la creazione di un ologramma a trasmissione) facendo collidere le due onde
dai due lati opposti della lastra fotosensibile. Per la ricostruzione dell’ologramma a riflessione
H2 cosı̀ ottenuto è necessario infine invertire la direzione dell’onda di riferimento usata nella
registrazione. Solo cosı̀ si formerà un’immagine virtuale ortoscopica che potrà esser vista da
un osservatore.
Uno svantaggio del set-up appena descritto e raffigurato in fig 2.6 sta nello spostamento
laterale dell’immagine reale pseudoscopica di H1, che però può essere rimediato con l’accorgimento descritto nel seguito. L’alternativa frequentemente usata per la creazione di
un’immagine olografica reale (che quindi può essere registrata su un secondo ologramma H2)
20
TECNICHE OLOGRAFICHE E TIPI DI OLOGRAMMI
è raffigurata in fig 2.7. Dopo aver creato l’ologramma H1 a trasmissione, come nel caso
appena visto, anziché illuminarlo come di consueto, viene ruotato di 180° (su un’asse normale al fascio). Questa rotazione avrà gli stessi effetti dell’inversione di direzione dell’onda di
riferimento, e come analizzato nella sezione teorica, si otterrà la ricostruzione di un’immagine
reale pseudoscopica capovolta nella posizione originale dell’oggetto (e non più molto angolata
come nel caso precedente). Si noti che nell’immagine 2.7 è stato aggiunto un piccolo segno
marcatore per distinguere un lato della pellicola dall’altro e poter dunque apprezzarne la
rotazione di 180°.
Di solito, per quanto riguarda le applicazioni grafiche ed artistiche di tale tecnica olografica,
si usa posizionare il la pellicola fotosensibile dell’ologramma H2 in un piano a cavallo dell’immagine olografica reale e quindi registrare tale immagine reale pseudoscopica dell’ologramma
master su H2. Esempi di ologrammi a riflessione in due passi si possono trovare principalmente in gallerie artistiche – olografiche. Per quanto riguarda l’illuminazione sono usate di
frequente lampadine ad incandescenza (alogene in particolare) a 12V , posizionate in modo
tale che l’angolo d’incidenza della luce si avvicini il più possibile a quello che aveva il fascio
di riferimento durante la registrazione dell’ologramma H2.
2.3.3
Ologramma rainbow
Gli ologrammi rainbow sono particolari ologrammi a trasmissione che permettono la ricostruzione dell’immagine usando luce bianca. Come negli altri ologrammi a trasmissione
anche qui le diverse componenti cromatiche della luce sono diffratte con angoli diversi, ma
tramite un piccolo accorgimento si può osservare le immagini una alla volta anziché tutte
assieme sovrapposte. In particolare ciascuna delle immagini olografiche prodotte è visibile
da un’angolazione diversa, quindi ruotando leggermente l’ologramma si è in grado di vedere
l’immagine con colore ogni volta diverso dipendente dall’angolo d’osservazione.
La tecnica per la registrazione degli ologrammi rainbow consiste in due passi. Nel primo passo viene creato un ologramma a trasmissione fuori asse col metodo usuale. Successivamente
lo si ruota di 180° come nel caso precedente, in modo da proiettare in avanti un’immagine
reale pseudoscopica. A questo punto si fissa tale ologramma master sull’apposito supporto,
montando assieme un’apertura orizzontale (fessura) dietro all’ologramma (sul lato da cui
esce la luce). Facendo questo molta dell’informazione originale dell’ologramma viene persa
(praticamente tutta la parte di H1 che non rientra nella fessura non gioca alcun ruolo, perciò
tutta la ricostruzione è dovuta solamente dalla strisciolina non oscurata). Come risultato
l’immagine ricostruita perde la parallasse verticale, ovvero la sensazione tridimensionale della dimensione verticale. Di solito questo non viene notato dall’osservatore perchè i nostri
occhi sono orientati orizzontalmente. Infine la pellicola fotosensibile di H2 viene posizionata
2.3 Metodi indiretti per la registrazione olografica
Illuminazione
oggetto
21
x
Oggetto
Onda
oggetto
z
Onda di
riferimento
Registrazione
ologramma Master (H1)
x
Ologramma H1
Fenditura
Onda di
riferimento
x
Layer
fotosensibile
H2
z
Onda di
riferimento
Immagine reale
pseudoscopica
Registrazione
ologramma H2
Onda di
riferimento
(monocromatica)
x
Ologramma
Rainbow
Osservatore
Immagine
virtuale
ortoscopica
Ricostruzione con luce monocromatica
luce bianca
x
Ologramma
Rainbow
rosso
Immagine
virtuale
ortoscopica
blu
Ricostruzione con luce bianca
Figura 2.8: Olografia rainbow
Osservatore
22
TECNICHE OLOGRAFICHE E TIPI DI OLOGRAMMI
a cavallo dell’immagine reale prodotta (si noti che viene prodotta tutta l’immagine reale di
H1 anche se la maggior parte di esso è oscurato) registrando cosı̀ l’ologramma H2 (figura
2.8). In questo modo sull’ologramma H2 viene registrata sia l’informazione dell’immagine
pseudoscopica reale di H1 (senza parallasse verticale) che la larghezza della slitta usata. Per
ricostruire l’immagine dell’ologramma rainbow H2 è necessario illuminarlo con luce bianca mediante un fascio di direzione opposta a quello usato nella registrazione; si crea cosı̀
un’immagine ortoscopica virtuale da quella pseudoscopica reale registrata. Come tutti gli
ologrammi creati in due passi però l’angolo visuale dell’ologramma H2 è abbastanza ridotto.
Questo perchè esso è stato creato da un ologramma master H1 e non da un oggetto vero.
In pratica, quando si osserva H2, si deve tener conto che è come se si stesse osservando H2
attraverso H1, ovvero si deve immaginare di aver l’ologramma H1 davanti ad H2 (alla stessa
distanza adottata nella registrazione di H2), e quindi solo guardando attraverso entrambe
le lastre è possibile osservare l’immagine olografica di H2. Appena la linea di mira esce dal
profilo immaginario di H1, non si vede più alcuna immagine su H2. In questo caso, avendo
oscurato quasi completamente H1 a causa della fenditura nella registrazione di H2, l’angolo
visuale di quest’ultimo sarà ancora più ridotto. Anche qui possiamo guardare l’ologramma
solamente attraverso una fenditura immaginaria uguale ed alla stessa distanza di quella usata nella registrazione. Solo cosı̀ riusciamo a veder l’immagine olografica di H2. Tutta la
luce diffratta da H2 è concentrata nel solo angolo visibile, quindi in questa fenditura fittizia
è raccolta una grande intensità luminosa. Quando però viene usata luce bianca per la ricostruzione, a causa della diversa lunghezza d’onda delle sue componenti si ha la creazione
di più immagini olografiche, ognuna con una posizione angolare diversa. In particolare è
come se si potesse osservare l’ologramma H2 non più attraverso una sola fenditura, bensı̀
attraverso più fenditure contigue; in ciascuna di esse possiamo vedere l’immagine olografica
di un diverso colore (relativo appunto alla lunghezza d’onda della luce che ci consente la
visione da quella prospettiva). Muovendo la testa nella direzione verticale, un osservatore
vedrà immagini successivamente di color rosso, arancio, giallo, verde e blu, ovvero nei colori
spettrali (i.e. i colori dell’arcobaleno, da cui il nome).
3
Apparato sperimentale
Passiamo ora alla parte più propriamente sperimentale della tesi, discutendo le apparecchiature ed il materiale necessari per la realizzazione delle più comuni tipologie di ologrammi.
Sono necessari in particolare:
ˆ Un banco ottico
ˆ Un laser
ˆ Due filtri spaziali
ˆ Alcuni specchi e beam splitters
ˆ Due lenti biconvesse di notevole apertura
ˆ Un otturatore elettronico
ˆ Alcune staffe per il bloccaggio dei componenti sul banco
ˆ Due supporti per lastre olografiche
ˆ Delle lastre olografiche e i reagenti per lo sviluppo
3.1
Banco ottico
La stabilità meccanica del set-up ottico durante la registrazione di un ologramma è di
importanza fondamentale. In tale operazione infatti vengono registrate sul layer olografico
delle frange d’interferenza, il cui movimento è molto sensibile a piccole variazioni del cammino ottico delle onde che interferiscono. Per esempio è possibile vedere che anche vibrazioni
23
24
APPARATO SPERIMENTALE
con ampiezza dell’ordine di λ/20 ≈ 30 nm danno come conseguenza un evidente abbassamento del contrasto delle frange d’interferenza, influendo sulla luminosità dell’ologramma
finale. L’unico caso in cui è possibile evitare l’uso di un banco ottico (molte volte scomodo
e fastidioso) è quello in cui al posto di usare un comune laser continuo a gas venga usato un
laser impulsato ad alta potenza. In questo modo infatti si potrà ridurre il tempo di esposizione dai 10-60 secondi usuali (con laser He-Ne da 10 mW) a qualche decina di nanosecondi
(laser a rubino) riuscendo in tal modo a ritrarre anche oggetti non perfettamente fermi o
addirittura in movimento. Chiaramente le pellicole fotografiche da utilizzare in questo caso
devono avere una sensibilità molto maggiore rispetto a quelle utilizzate con un laser continuo
a gas, per compensare i 9 ordini di grandezza nella differenza dell’esposizione. In tutti gli
altri casi anche le più piccole vibrazioni a bassa frequenza del pavimento o dell’edificio in cui
si sta operando possono causare un evidente calo nella visibilità delle frange d’interferenza
dell’ologramma (nel migliore dei casi) o il totale fallimento del processo di registrazione olografica. È quindi necessario usare tavoli antivibrazioni provvisti di opportuni isolatori che
smorzino e riducano le vibrazioni sempre presenti nel terreno. Possibili cause di vibrazioni
possono essere: automobili o mezzi pesanti in moto nelle vicinanze, condizionatori accesi o
movimento di persone nell’ambiente in cui si sta operando, rumori o suoni intensi.
Un banco ottico è solitamente costituito di due parti: un piano di lavoro molto rigido, pesante ed in grado di assorbire le vibrazioni, e degli isolatori, che posti appena sotto ad esso,
riducono la trasmissione delle vibrazioni del terreno. Nel mio caso ho deciso di usare, come
banco, una lamiera d’acciaio delle dimensioni di 2000 × 1000 mm e spessore 45 mm, avente
un peso complessivo di circa 700 kg. Per sorreggerla ho costruito due cavalletti in acciaio
dell’altezza di circa 80 cm, sopra ai quali ho posizionato 4 isolatori in gomma antivibrazione
(gli stessi usati comunemente per fissare il motore al telaio nelle macchine per il movimento
terra). Sul banco ho praticato 200 fori filettati M 8 posizionati secondo un reticolo quadrato con passo pari a 100 mm, necessari per un successivo bloccaggio dei componenti ottici.
Infine ho verniciato il tutto di color nero opaco, per evitare riflessioni spurie nella fase di
registrazione olografica.
Per provare la stabilità del banco ed osservarne il comportamento in seguito a sollecitazioni
esterne volute (leggera pressione sul banco, salti sul pavimento, passaggio di automobili nelle
vicinanze ecc...) ho allestito un interferometro di Michelson, che se da un lato ha messo
in evidenza la sensibilità estremamente alta alle sollecitazioni esterne, dall’altro ha rivelato
un’ottima stabilità in condizioni normali di non sollecitazione. Nelle sperimentazioni eseguite
successivamente si sono riscontrati raramente problemi dovuti alla presenza di vibrazioni (2
casi su 20 circa), pertanto possiamo considerare questo banco appena sufficiente all’impiego
richiesto.
3.2 Laser
25
2000
1000
M8
100
800
100
Figura 3.1: Banco ottico
Possibili miglioramenti riguardano un ulteriore isolamento del banco tramite un secondo strato di isolatori in gomma o camere d’aria; in tal caso si dovrebbe costruire una struttura a
sandwich con un secondo piano, in modo da porre isolatori o camere d’aria nel mezzo. Si
riporta nel seguito un disegno dello stesso. È bene ricordare però che l’acciaio usato per la
realizzazione di questo banco non costituisce il materiale migliore che si possa adottare per
tale impiego, in quanto soggetto a dilatazioni piuttosto rilevanti dovute a variazioni di temperatura, e non propriamente rigido. Si otterrebbero risultati più sicuri adottando un banco
in marmo o meglio granito nero, provvisto di fori con tasselli filettati per il bloccaggio dei
componenti. Dall’altro lato però, dati i tempi d’esposizione relativamente brevi (dell’ordine
del minuto) e la grande massa del banco (700 kg), movimenti relativi dei componenti dovuti
a variazioni termiche durante l’esposizione sono praticamente impercettibili.
Un test interessante che potrebbe esser effettuato sul banco per verificarne ulteriormente
la stabilità e l’efficienza nello smorzare le vibrazioni consiste nel registrare tramite un sensore ottico, lo spostamento delle frange d’interferenza di un interferometro di Michelson in
funzione del tempo, in seguito a sollecitazioni indotte. In questo modo potremmo misurarne la frequenza di risonanza, la costante elastica e di smorzamento a diverse frequenze di
sollecitazione.
3.2
Laser
Il laser che ho usato per la realizzazione degli ologrammi è di tipo continuo a gas He-Ne
prodotto dalla Melles Griot, modello 05-LHP-928 (2004). La lunghezza d’onda della sua
luce è di 632.8 nm e con 75 mW dichiarati dalla casa è uno dei modelli di maggiore potenza
26
APPARATO SPERIMENTALE
LASER
Figura 3.2: Laser He-Ne
prodotti. Personalmente l’ho acquistato presso un laboratorio di ottica degli Stati Uniti come
apparecchiatura usata, e la sua potenza residua misurata risulta essere di circa 38 mW. Il
corpo del laser ha sezione rettangolare e lunghezza di circa 1 metro. Per il suo posizionamento
sul banco ottico ho costruito un supporto rigido e stabile poggiante su 3 piedi, che consente
di ottenere un’altezza del fascio di circa 17 cm; è inoltre regolabile in altezza ed inclinazione
e di facile fissaggio al banco.
Per quanto riguarda la coerenza della luce impiegata, cominciamo col darne una breve
definizione. Col termine coerenza indichiamo quanto l’onda teorica con cui approssimiamo
la luce emessa dal laser segue le variazioni statistiche di fase ed ampiezza di un’onda ideale.
È una grandezza fondamentale in quanto è quella che permette l’osservazione degli effetti
d’interferenza, alla base della tecnica olografica. In particolare possiamo distinguere due tipi
di coerenza, quella spaziale e quella temporale. La coerenza spaziale descrive la correlazione
dell’ampiezza del campo in due differenti punti ad un istante di tempo fissato ed è definita
come la differenza di cammino che devono aver due onde affinché la loro interferenza crei delle
frange con un contrasto del 37%. La coerenza temporale invece si riferisce alla correlazione
dell’ampiezza del campo nel medesimo punto in istanti di tempo successivi l’un l’altro. Per
fornire un’idea indicativa, la luce bianca emessa da una lampadina ad incandescenza (che
contiene l’intero spettro) ha una lunghezza di coerenza di circa 1 µm, mentre per la luce
emessa da questo laser, tale lunghezza è di circa 50 cm. Il laser usato ha un diametro del
fascio di 1.23 ±10% mm, oscilla in un singolo modo trasversale (> 90% TEM00 ) ed ha perciò
un profilo del fascio gaussiano. La sua divergenza è di 0.66 ± 10% mrad e la polarizzazione
della luce (molto importante in olografia, ma non essenziale) è di 500 : 1.
3.3 Filtro spaziale
27
Figura 3.3: Filtro spaziale
3.3
Filtro spaziale
Per esser utilizzato in olografia il fascio laser avente diametro di circa 1 mm deve essere
espanso con un sistema di lenti, in modo da permettergli d’illuminare uniformemente tutta
l’area occupata dalla lastra olografica. Per ottenere ciò si utilizzano lenti biconvesse di piccole
apertura e lunghezza focale (entrambi dell’ordine del millimetro), oppure più semplicemente
un obiettivo da microscopio. A questo punto però sorge un problema: il fascio laser allargato
mostra una sovrapposizione di strutture d’interferenza irregolari causate dalla diffrazione di
piccoli granelli di polvere sempre presenti nell’ottica usata. Quando andiamo ad espandere
il fascio infatti possiamo notare diverse macchie di luce d’intensità diversa, anelli concentrici
alternativamente chiari e scuri delle dimensioni di qualche centimetro, segno di queste interferenze spurie. Per pulire il fascio in modo da aver un’illuminazione uniforme su una grande
area si usa filtrare il fascio tramite un piccolo diaframma, detto filtro spaziale. Questo consiste sostanzialmente in un pinhole (solitamente di diametro dai 10 ai 40 µm) posizionabile
con grande accuratezza nelle vicinanze del fuoco della lente utilizzata per far divergere il fascio (nel mio caso un obiettivo di microscopio da 40×). Tale pinhole deve avere un diametro
leggermente superiore a quello dello spot nel fuoco, e la sua particolare posizione permetterà
solamente il passaggio del modo fondamentale del laser (T EM00 ). La luce diffusa dai granelli
di polvere infatti, avendo un grande angolo di diffrazione (ovvero grande frequenza spaziale)
non riuscirà a passare il pinhole. In altre parole il filtro spaziale compie un’operazione di
filtraggio in frequenza sulla trasformata di Fourier del fascio, che viene compiuta dalla lente.
Nella pratica è necessario il più delle volte porre un filtro spaziale ogni volta che il fascio
viene espanso per illuminare la lastra olografica o l’oggetto in questione, garantendo un’illu-
28
APPARATO SPERIMENTALE
fs.jpg
Figura 3.4: Principio di funzionamento di un filtro spaziale
minazione uniforme. Dall’altro lato però se l’illuminazione della lastra olografica dev’essere
necessariamente omogenea (pena la realizzazione di un ologramma a chiazze più o meno esposte), quella dell’oggetto permette margini più ampi. Personalmente, dopo le prime prove,
ho deciso di acquistare 2 soli filtri spaziali, entrambi con pinhole del diametro di 25 µm (ideali
per esser utilizzati con obiettivi dai 10 ai 40 ingrandimenti). In particolare con 2 filtri spaziali
è possibile realizzare ottimi ologrammi a trasmissione o riflessione a 3 fasci (non filtrando
dunque uno dei due fasci d’illuminazione dell’oggetto), ed è attuabile inoltre la tecnica olografica a due passi vista precedentemente (che necessita l’illuminazione uniforme di due lastre
olografiche allo stesso tempo).
I due filtri spaziali che ho utilizzato sono stati costruiti dalla casa produttrice Newport
(modello 910A, pinhole PH-25), sono predisposti per l’utilizzo con i più comuni obiettivi
da microscopio ed inglobano tre regolazioni micrometriche (x, y, z) per quanto riguarda la
posizione del pinhole, più due regolazioni angolari dell’insieme filtro-obiettivo. Per un agevole
allineamento di tali filtri sarebbe risultato utile possedere altre due regolazioni micrometriche
d’insieme, orientate sui due assi perpendicolari al fascio laser; dopo aver acquisito un po’ d’esperienza ed abilità nell’allineamento però ho potuto constatare che anche in loro assenza è
stato possibile raggiungere la configurazione voluta. Si può notare inoltre la presenza di un
diaframma con apertura regolabile sul lato obiettivo, utile per ridurre l’accettanza angolare
della luce entrante.
Per il posizionamento e fissaggio di tali filtri sul banco ottico, ho costruito 2 supporti in
acciaio regolabili manualmente in altezza.
3.4
Specchi e beam splitters
Sia gli specchi che i due beam splitter che ho usato in queste applicazioni sono materiali
a bassissimo costo acquistati presso comuni vetrai o trovati in apparecchiature fuori uso. Per
3.4 Specchi e beam splitters
Figura 3.5: Specchi e beam splitter
quanto riguarda i beam splitter, ho utilizzato un vetro semitrasparente reperito da un vetraio,
che a differenza di un comune vetro si presenta più scuro alla vista, e quindi con un indice
di trasmissione minore ed indice di riflessione maggiore. Nel caso non si riesca a reperire un
tale vetro, è possibile utilizzarne uno comune di qualsiasi tipo, facendo attenzione che abbia
spessore costante ovvero che le due superfici siano parallele.
Nel mio caso, avendo realizzato ologrammi con tecniche aventi al massimo 3 fasci, il numero
di beam splitters strettamente necessari è soltanto 2. C’è da sottolineare però che talvolta
può risultare comodo ridurre l’intensità del fascio di riferimento (che va ad incidere sulla
lastra olografica) affinché onda oggetto ed onda di riferimento risultino il più possibile simili
in intensità; questo per ottenere il miglior contrasto nelle frange d’interferenza prodotte sulla
lastra e quindi un ologramma più luminoso. Può risultare utile perciò un terzo beam splitter
posizionato in modo a sottrarre potenza al fascio di riferimento.
A differenza dei beam splitter, per quanto riguarda gli specchi sono ricorso ad apparecchiature ottiche guaste quali dei vecchi scanner per pc. Questi al loro interno contengono parecchi
specchi argentati biriflettenti di alta qualità. In particolare possono esser utilizzati dal lato
del ricoprimento metallico, evitando cosı̀ il problema della doppia riflessione data dallo strato
di vetro, che si avrebbe utilizzando un volgare specchio.
Sia per i 2 beam splitters che per i 5 specchi utilizzati, ho costruito dei supporti in acciaio aventi regolazione in altezza (grossolana) ed in inclinazione (a due assi, tramite viti
micrometriche) come da figura 3.5.
29
30
APPARATO SPERIMENTALE
Figura 3.6: Lente biconvessa φ 110 mm
3.5
Lenti
Per la realizzazione degli ologrammi a due passi abbiamo visto come sia necessario illuminare l’ologramma master con un’onda piana. Per ottenerla utilizziamo l’onda sferica
uscente da un filtro spaziale, e la facciamo passare attraverso una lente d’ingrandimento
posta ad una distanza uguale alla sua lunghezza focale. Le lenti che ho utilizzato a tale
scopo sono entrambe biconvesse, hanno un diametro rispettivamente di 100 e 110 mm ed una
lunghezza focale di 230 e 340 cm. Per il loro posizionamento ho costruito due supporti di
forma cilindrica simili ai precedenti, aventi ciascuno un anello in acciaio in grado d’ospitare
la lente. Per bloccare quest’ultima ho utilizzato tre viti in plastica disposte a 120° l’una
rispetto all’altra.
3.6
Otturatore elettronico
I requisiti fondamentali a cui deve rispondere l’otturatore che andremo ad usare sono i
seguenti:
ˆ Velocità: la velocità richiesta non è molto alta in quanto i tempi d’esposizione come
vedremo, vanno dai 6 ai 60 secondi circa. Tempi d’apertura e chiusura intorno ai
0.2 − 0.5 secondi dunque sono più che accettabili.
ˆ Non indurre vibrazioni apprezzabili: questo è senza dubbio il requisito di maggiore
importanza in quanto eventuali vibrazioni indotte sul banco olografico all’apertura
dell’otturatore, causerebbero il movimento delle frange d’interferenza dell’ologramma,
con conseguente calo di contrasto e luminosità dello stesso.
3.6 Otturatore elettronico
Figura 3.7: Otturatore elettronico
ˆ Poter esser azionato a distanza: per il motivo appena citato non è consigliabile l’azion-
amento manuale dell’otturatore sul banco, in quanto è possibile vedere che solamente
toccando quest’ultimo con un dito, s’introducono spostamenti notevoli delle frange d’interferenza qualora si costruisca un interferometro di Michelson. È consigliabile perciò
un azionamento a distanza via cavo o wireless.
Per la realizzazione pratica dell’otturatore ho tentato personalmente diversi sistemi: il primo
riguardava l’utilizzo di un otturatore elettronico di una fotocamera digitale, molto veloce
(millisecondo), facile da comandare (impulso rettangolare in tensione), molto leggero e ottimo dal punto di vista delle vibrazioni. Dall’altro lato però, essendo costruito in plastica
nera, la potenza del fascio laser riuscı̀ a bucarlo completamente, fondendo la plastica. Per
il secondo tentativo mi sono servito invece di un tipico sistema a lancetta: in particolare ho
utilizzato un piccolo disco di alluminio anodizzato nero, in cui ho praticato un foro fuori asse
per il passaggio del fascio laser. Un piccolo motorino elettrico ne causava la rotazione di 180°,
bloccando o lasciando passare il fascio laser attraverso il foro. Dopo qualche prova ho dovuto
scartare anche questa soluzione in quanto la luce riflessa all’indietro dal disco metallico era
troppa, e non essendo schermato a dovere tale luce raggiungeva la pellicola anche ad otturatore chiuso.
Come ultima e definitiva soluzione ho optato per mantenere il precedente concetto di sistema a lancetta, azionando però il meccanismo tramite il movimento della testina di un hard
disk di un vecchio computer. Ho chiuso il sistema in un piccolo contenitore in acciaio nero,
praticando un foro del diametro di 5 mm per il passaggio del fascio laser. Al suo interno ho
foderato la superficie con del velluto nero, per assorbire eventuali riflessioni e dunque far uscire all’indietro la minor quantità di luce possibile ad otturatore chiuso. Dopo aver fissato due
finecorsa in prossimità della testina dell’hard disk è bastato comandare il suo avvolgimento
con una tensione di ±5 V per causarne la rotazione e quindi l’apertura e chiusura dell’ot-
31
32
APPARATO SPERIMENTALE
Figura 3.8: Segnali in tensione relativi alla modulazione dei due canali
turatore. I vantaggi di questo sistema consistono in una notevole velocità dell’otturatore
(centesimo di secondo) ed una bassissima intensità di luce riflessa. Dall’altro lato però tale
sistema risulta piuttosto violento e quindi origine di piccole vibrazioni. Per risolvere anche
questo problema ho deciso di montare il tutto su un apposito supporto provvisto di gommini
antivibrazione (sottratti da alcuni hard disk). Tale soluzione si è rivelata ottima in quanto
dopo averlo testato sul banco assieme ad un interferometro di Michelson ho potuto constatare
la totale assenza di vibrazioni indotte da esso. Per quanto riguarda il sistema di comando
dello shutter ho deciso di adottarne uno senza fili, precisamente a raggi infrarossi, costruendo
dunque un telecomando ed un ricevitore a due canali (aperto/chiuso). Per quanto riguarda
il telecomando, ho costruito un circuito oscillante con tre oscillatori astabili (NE555) tarati
rispettivamente sulle frequenze di 38 kHz (portante), 500 Hz (modulante del primo canale)
e 5 kHz (modulante del secondo canale). Alla pressione di uno dei due tasti vengono attivati
contemporaneamente l’oscillatore relativo alla portante e quello della rispettiva modulante.
Tale segnale andrà ad alimentare infine un diodo led all’infrarosso tramite un transistor.
Per quanto riguarda il ricevitore invece, ho utilizzato un fotodiodo della famiglia TSOP (quelli
presenti usualmente nei televisori) che integra in un unico corpo un filtro infrarossi, un fotodiodo amplificato, ed un filtro in frequenza centrato sui 38 kHz precedentemente citati. Per
decodificare le due modulanti del segnale ricevuto ho usato due circuiti integrati decodificatori
di tono (NE567) centrati rispettivamente sulle frequenze di 500 Hz e 5 kHz, collegati poi ad
un circuito del tipo latch S-R. In questo modo ho ottenuto un sistema bistabile comandato a
distanza. Per finire, servendomi di 4 transistor collegati a ponte H ho trasformato il segnale
precedente nelle due tensioni desiderate (+5 V e -5 V) necessarie per il controllo della testina
dell’hard disk. Si riportano in appendice B gli schemi dei due circuiti realizzati.
3.7 Staffe per il bloccaggio dei componenti
Figura 3.9: Staffe per il bloccaggio dell’ottica.
3.7
Staffe per il bloccaggio dei componenti
Per evitare che l’ottica presente sul banco subisca spostamenti (anche micrometrici) a
causa della non perfetta aderenza al banco, è bene provvedere al fissaggio di ciascun componente su di esso tramite opportune staffe metalliche. Questo è reso possibile dalla serie di fori
filettati presenti sul banco ottico. Personalmente ho deciso di disegnare due diversi tipi di
staffe: il primo da utilizzare con i componenti ottici aventi supporto a base circolare (specchi,
beam splitter, lenti, otturatore, filtri spaziali), ed un secondo tipo per fissare supporti diversi
come quello relativo al laser, alle lastre olografiche, ecc. Data la forma piuttosto complessa di
queste staffe, ho pensato di farle tagliare appositamente da una ditta specializzata in taglio
al plasma. Se ne riporta un disegno tecnico in figura 3.9.
3.8
Supporti per le lastre olografiche
Le comuni lastre olografiche sono costituite in genere da un vetro trasparente (di spessore dai 2 ai 4 mm) su cui è stato depositato uno strato molto sottile (6 µm circa) di gel
fotosensibile. Per il loro posizionamento è necessario dunque un supporto di modeste dimensioni, rigido e molto stabile e che consenta di poter fissare lastre di diverse dimensioni. In
genere è conveniente posizionare le lastre olografiche su piani perpendicolari al banco ottico.
I primi supporti che ho realizzato sono costituiti da un’intelaiatura metallica rettangolare
e permettono di fissare verticalmente lastre aventi dimensioni massime di 200 × 180 mm,
sono in acciaio, pesano circa 2 kg e poggiano su una grossa e pesante base rettificata. Se
ne riporta un disegno in figura 3.10a. Il difetto di tali supporti però consiste nel necessitare
di volta in volta di una regolazione ad hoc in funzione delle dimensioni della lastra che si
sta utilizzando, manovra rivelatasi piuttosto scomoda e laboriosa in fase di registrazione. Le
lastre olografiche che ho utilizzato infatti non possiedono tutte le stesse dimensioni ma si
discostano di 4-5 mm l’una dall’altra. Ho deciso pertanto di costruire un secondo tipo di
supporto, provvisto di due guide cilindriche verticali che permettono di regolare i punti di
fissaggio della lastra olografica quasi istantaneamente. In conclusione possiamo affermare che
questo componente si è rivelato molto stabile, pratico e più funzionale del precedente.
33
34
APPARATO SPERIMENTALE
Figura 3.10: Supporti per le lastre olografiche.
a) Prima realizzazione; b) Seconda
realizzazione.
3.9
Lastre olografiche e reagenti per lo sviluppo
Una delle scelte a cui ci si trova di fronte prima di effettuare la registrazione olografica
riguarda il tipo di supporto fotosensibile da utilizzare. Le possibilità sono sostanzialmente
due: pellicole o lastre olografiche. La differenza tra le due sta solamente nel tipo di substrato su cui è stato depositato lo strato di gel fotosensibile, che nel primo caso consiste
in un sottile foglio flessibile di acetilcellulosa mentre nel secondo in comune vetro trasparente. Per quanto riguarda i rispettivi vantaggi e svantaggi, possiamo dire da un lato che
le pellicole olografiche risultano più scomode in quanto, data la loro flessibilità, necessitano
di un fissaggio a sandwich durante l’esposizione. Tale operazione viene fatta generalmente
utilizzando due vetri, aventi dimensioni leggermente maggiori della pellicola olografica. Per
tener ben pressati tra loro i due vetri, con la pellicola nel mezzo, si usano in genere delle
mollette in acciaio. Questo sistema però presenta il problema dato dalla presenza di più
interfacce vetro-aria e pellicola-aria, entrambe alla causa di riflessioni spurie non trascurabili.
Per risolvere tale questione vengono utilizzati in genere dei liquidi intex-matching tra i due
vetri e la pellicola, aventi indice di rifrazione simile a quello del vetro (n = 1.5). Degli esempi
di sostanze utilizzate a tale scopo sono glicerolo, paraffina liquida, tetracloruro di carbonio,
xilene, white spirit (molto raccomandato per la sua grande tensione superficiale). Come
3.9 Lastre olografiche e reagenti per lo sviluppo
dicevamo, questo è il principale svantaggio dovuto alle pellicole olografiche. Le lastre infatti,
avendo lo strato fotosensibile depositato direttamente su vetro, non hanno bisogno di alcun
liquido index-matching, sono di per sé rigide, e quindi possono esser fissate solamente agli
estremi tramite per esempio due morsetti.
Dall’altro lato però, se le lastre olografiche sono molto più comode da usare, esse presentano
usualmente un costo doppio-quadruplo rispetto alle pellicole olografiche. Altresı̀ le lastre
vengono prodotte in dimensioni piuttosto limitate mentre le pellicole sono prodotte anche a
rotoli aventi larghezza di 1–1.5 metri e lunghezza molto maggiore.
Personalmente nelle realizzazioni olografiche che ho compiuto, ho sempre utilizzato per comodità delle lastre olografiche. Inizialmente acquistai alcune lastre olografiche dalla casa
produttrice lituana Slavich (www.geola.com) in particolare della tipologia PFG-01, aventi le
seguenti caratteristiche:
Tipo: PFG-01
Sostanza: bromuro d’argento
Regione spettrale: 600-660 nm
Dimensione media dei grani: 40 nm
Potere risolutivo: > 3000 linee/mm
Spessore coating: 2.5 µm
Esposizione ottimale: 110 µJ/cm2
Le soluzioni utilizzate per lo sviluppo e lo sbiancamento sono riportate in appendice.
Dopo aver realizzato 6-7 ologrammi con tali lastre, non fui particolarmente soddisfatto dei
risultati ottenuti (ologrammi molto scuri e poco definiti) e cercai dunque di trovare una
soluzione a questo problema. Dopo aver constatato la stabilità dell’ottica ed aver scongiurato problemi legati a vibrazioni, decisi di ripiegare su un altro tipo di lastre olografiche
prodotte amatorialmente da un appassionato di olografia conosciuto tramite la rete internet
(sig. Perrucci Cristiano), dimostratesi in seguito di qualità molto superiore alle precedenti:
Tipo: HRM-650-2
Sostanza: bromuro d’argento
Regione spettrale: 620-670 nm
Dimensione media dei grani: 10 nm
Potere risolutivo: > 5000 linee/mm
Spessore coating: 7 µm
Esposizione ottimale: 2 mJ/cm2
Gli ottimi risultati che ho ottenuto con tali lastre mi hanno permesso di sperimentare diverse
tecniche olografiche, sia per la realizzazione di ologrammi sottili che spessi, a trasmissione ed
a riflessione.
35
4
Configurazioni usate, risultati
Gli ologrammi che personalmente ho realizzato sono:
ˆ A riflessione a singolo fascio, fuori asse (in luce bianca)
ˆ A riflessione a doppio fascio, fuori asse (in luce bianca)
ˆ A trasmissione a doppio fascio
ˆ A trasmissione a triplo fascio
ˆ A riflessione in due passi (H1-H2) (in luce bianca)
ˆ A trasmissione in due passi (H1-H2)
ˆ Rainbow
ˆ Image-Plane
ˆ Ologrammi a 360°
4.1
Ologrammi a riflessione a singolo fascio
La tecnica olografica a singolo fascio per la realizzazione di ologrammi a riflessione può
essere considerata senza dubbio la procedura più semplice. Non sono necessari né specchi né
beam splitter, e le condizioni di stabilità richieste per il banco ottico sono meno stringenti
rispetto a tecniche a più fasci. Il set-up sperimentale che ho adottato è riportato in figura
4.1.
In genere la lastra olografica è posizionata entro il fascio espanso ad un angolo di circa 30°.
Questo lo si fa per permettere all’osservatore di guardare l’ologramma da di fronte in modo
37
38
CONFIGURAZIONI USATE, RISULTATI
OGGETTO
FS1
SCHERMO
BIANCO
He-Ne LASER
LASTRA
OLOGRAFICA
OTTURATORE
Figura 4.1: Configurazione per ologrammi a riflessione a singolo fascio.
Figura 4.2: Ologramma a riflessione a singolo fascio.
da non esser ostruito dalla sorgente di luce che lo illumina; in questo caso, per una visione
ottimale dell’ologramma, la sorgente di luce bianca dovrà esser posta a destra dell’osservatore.
Offre dei vantaggi rispetto alla tecnica con lastra a 90° in quanto in questo modo l’onda di
ricostruzione che viene riflessa dalla lastra procede in una direzione diversa rispetto all’onda
oggetto, non abbagliando l’osservatore come succederebbe invece con lastra normale all’asse
ottico. In figura 4.2 è riportato un ologramma ottenuto con tale tecnica.
L’oggetto è posto dietro la lastra, in modo che sia illuminato il più possibile dal laser. In
questo tipo di ologrammi l’onda di riferimento funge anche da illuminazione dell’oggetto,
in quanto la luce oltrepassa per la maggior parte la lastra fotosensibile. Da notare che la
differenza nel cammino ottico tra il fascio di riferimento e quello dell’oggetto è in questo caso
doppia rispetto alla distanza tra oggetto e lastra fotosensibile, pertanto per stare entro la
4.2 Ologrammi a riflessione a doppio fascio
39
OGGETTO
LASTRA
OLOGRAFICA
FS1
FS2
M2
M1
BS1
He-Ne LASER
OTTURATORE
Figura 4.3: Configurazione per ologrammi a riflessione a doppio fascio.
lunghezza di coerenza del laser L (20-30 cm), l’oggetto non dev’esser posto ad una distanza
maggiore di L/2 dalla lastra.
4.2
Ologrammi a riflessione a doppio fascio
La configurazione per produrre questo tipo di ologrammi si complica un poco rispetto alla
precedente a causa dell’uso di due fasci anziché uno solo. Si utilizza cosı̀ un beam splitter,
due specchi e due filtri spaziali. In tal caso uno dei due fasci ha la sola funzione d’illuminare
l’oggetto, mentre l’altro fa sia da onda di riferimento che da ulteriore illuminazione dell’oggetto. Per la messa a punto del set-up sperimentale si deve far molta attenzione al cammino
ottico dei due fasci, in quanto per ottener un’ottimale figura d’interferenza sulla lastra, essi
dovranno aver la medesima lunghezza, o comunque la loro differenza dovrà stare entro la
lunghezza di coerenza del laser.
Importante è saper dosare opportunamente le due intensità dei fasci; per ottener un ologramma luminoso, e quindi con righe d’interferenza molto ben contrastate, è necessario che l’onda
oggetto e l’onda di riferimento che interferiscono sulla lastra abbiano intensità comparabili.
Dato che di solito l’intensità di luce diffusa dall’oggetto è molto minore rispetto a quella
inviatagli, è consigliabile illuminare l’oggetto con maggiore potenza di quanta se ne usi per
l’onda di riferimento (in proporzione, 70-80% sull’oggetto e 30-20% come riferimento). Si
riporta un disegno della configurazione sperimentale utilizzata in figura 4.3.
40
CONFIGURAZIONI USATE, RISULTATI
OGGETTO
LASTRA
OLOGRAFICA
FS2
M2
FS1
M1
BS1
He-Ne LASER
OTTURATORE
Figura 4.4: Configurazione per ologrammi a trasmissione a doppio fascio.
4.3
Ologrammi a trasmissione a doppio fascio
La configurazione che ho utilizzato per la realizzazione di ologrammi a trasmissione a
doppio fascio è riportata in figura 4.4.
Dalla figura è evidente che onda oggetto e onda di riferimento colpiscono la lastra olografica
sullo stesso lato a differenza del set-up a riflessione precedente. Anche qui, come gia detto, è
bene aggiustare il rapporto delle intensità dei due fasci in modo che l’oggetto sia illuminato
con una potenza almeno doppia rispetto a quella diretta verso la lastra (beam splitter 70:30).
Questo set-up che utilizza un solo fascio per illuminare l’oggetto non è particolarmente indicato per ottenere un ottimo ologramma (per esempio da usare come master nell’olografia a
due passi), in quanto parte dell’oggetto rischia di restare nella zona d’ombra e quindi di non
emettere sufficiente luce. È utile comunque nei primi esperimenti di produzione di ologrammi
a trasmissione, in quanto necessita di pochi componenti. Gli ologrammi a trasmissione, a
differenza di quelli in luce bianca, possono avere una grande profondità. In particolare è possibile uguagliare il cammino ottico dei due fasci anche collocando l’oggetto molto distante dalla
lastra, quindi la lunghezza di coerenza richiesta non è necessariamente grande. L’immagine
dell’ologramma è ricostruita usando la radiazione monocromatica del laser con cui lo si ha registrato, oppure una qualsiasi altra sorgente di luce monocromatica coerente (in tal caso però
l’immagine ricostruita sarà affetta da uno spostamento laterale proporzionale alla differenza
tra la lunghezza d’onda usata per la registrazione e quella usata per la ricostruzione).
4.4 Ologrammi a trasmissione a triplo fascio
41
FS3
M5
OGGETTO
FS1
LASTRA
OLOGRAFICA
FS2
M2
BS1
BS2
M4
M3
M1
He-Ne LASER
OTTURATORE
Figura 4.5: Configurazione per ologrammi a trasmissione a triplo fascio.
4.4
Ologrammi a trasmissione a triplo fascio
Tale configurazione sperimentale, a differenza della precedente, permette di ottenere degli
ottimi ologrammi a trasmissione, in quanto utilizza due fasci per l’illuminazione dell’oggetto
anziché uno solo. Come fascio di riferimento è possibile utilizzare sia un’onda sferica (figura
4.5) che un’onda piana (figura 4.7), scelta da effettuare in base all’uso a cui è volto l’ologramma che si sta costruendo. Infatti se si vuole produrre un ologramma a trasmissione fine
a se stesso, è più conveniente utilizzare un’onda sferica (in modo da riprodurre l’immagine
olografica con un normale diodo laser commerciale, senza la necessità di creare un’onda piana
mediante una lente), mentre se si vuole utilizzare successivamente tale ologramma nell’olografia a due passi, vedremo che è conveniente utilizzare un’onda piana.
Come per le configurazioni precedenti, quando si posiziona l’oggetto è bene far attenzione
che la lastra olografica non abbia nessuna zona d’ombra, ovvero non raggiunta dalla luce di
riferimento. Allo scopo in genere si usa porre cartoncino bianco nel posto esatto in cui successivamente va fissata la lastra olografica, controllandone l’illuminazione. Anche qui, prima
di procedere con la registrazione è bene controllare che la lastra non sia raggiunta da luce
proveniente dalla riflessione involontaria di qualche componente ottico. In tal caso si possono
usare piccoli schermi neri per bloccare i fasci indesiderati. Da notare che i filtri spaziali qui
richiesti sono 3, uno per fascio; personalmente, avendone a disposizione solamente 2 ho dovuto lasciare senza pinhole uno dei due fasci atti all’illuminazione dell’oggetto, accettandone
quindi l’illuminazione non completamente omogenea. Dai risultati ottenuti però non si nota
42
CONFIGURAZIONI USATE, RISULTATI
Figura 4.6: Ologramma a trasmissione a triplo fascio.
alcuna imperfezione dovuta a tale fattore; se infatti la lastra per non presentare macchie di
luce sovresposte/sottoesposte ha bisogno di un’illuminazione con fascio di riferimento omogeneo (quindi filtrato spazialmente), l’illuminazione dell’oggetto è soggetta a condizioni meno
severe, permettendo l’uso del solo obiettivo per microscopio sprovvisto di filtro spaziale. In
figura 4.6 si riporta uno degli ologrammi a trasmissione a triplo fascio realizzati.
4.5
Ologrammi a riflessione in due passi (H1-H2)
Nell’olografia a due passi, come spiegato precedentemente, è necessario creare un primo
ologramma a trasmissione H1, e successivamente utilizzare questo per la registrazione di un
secondo ologramma H2. Per la realizzazione dell’ologramma master è necessario utilizzare
come fascio di riferimento un’onda piana, in modo che nella fase di registrazione di H2 si possa utilizzare l’ologramma master ruotato di 180° sull’asse normale al banco, ed illuminandolo
con la stessa onda piana proietti un’immagine reale in prossimità della lastra fotosensibile
H2. Si riporta schematicamente la configurazione per la realizzazione di H1 in figura 4.7 ed
una fotografia del set-up sperimentale in figura 4.11.
Per quanto riguarda la registrazione dell’ologramma figlio H2 (figura 4.8) si noti che l’onda di
riferimento di quest’ultimo e l’onda oggetto (che in questo caso è quella proveniente da H1)
incidono sulla lastra dai due lati opposti, permettendo quindi la creazione di un ologramma a
riflessione. È bene prestare particolare attenzione alla direzione dei due fasci di riferimento,
facendo sı̀ che ognuno illumini solamente la lastra olografica a cui è destinato. Se per esempio
il fascio di riferimento indirizzato su H2 illuminasse anche solo parzialmente l’ologramma H1,
oltre all’immagine reale su H2 si produrrebbe anche un’immagine virtuale sulla stessa linea
di mira, e verrebbe anch’essa registrata sull’ologramma H2 sovrapponendosi a quella voluta. L’osservatore di H2 vedrebbe dunque due immagini sovrapposte, una delle quali virtuale
convergente (quella voluta) mentre l’altra reale divergente (fastidiosa da vedere).
4.5 Ologrammi a riflessione in due passi (H1-H2)
FS3
43
M5
OGGETTO
L1
H1
FS1
FS2
M2
BS1
BS2
M4
M3
M1
He-Ne LASER
OTTURATORE
Figura 4.7: Configurazione per ologrammi master H1.
SCHERMO
L1
FS1
FS2
L2
H1
M4
H2
M2
SCHERMO
BS1
M3
M1
He-Ne LASER
OTTURATORE
Figura 4.8: Configurazione per ologrammi H2 a riflessione.
H1
L1
H2
FS1
FS2
M2
SCHERMO
L2
M4
BS1
M3
M1
He-Ne LASER
OTTURATORE
Figura 4.9: Configurazione per ologrammi H2 a trasmissione.
44
CONFIGURAZIONI USATE, RISULTATI
Figura 4.10: Ologramma a riflessione in due passi.
Si riporta in figura 4.12 una fotografia del set-up sperimentale adottato. Con questa configurazione è possibile produrre ologrammi a riflessione in luce bianca aventi l’immagine
olografica posizionata a cavallo della lastra, ovvero in parte sporgente anteriormente ed in
parte posteriormente. Anche in questo caso nella registrazione di H2 risulta quasi d’obbligo
gestire la potenza dei due fasci con un ulteriore beam splitter in modo da ottenere un ottimo
contrasto. In particolare si deve inviare un’onda piana su H1 molto più intensa rispetto a
quella di riferimento su H2 (rapporto 80:20). Uno degli ologrammi realizzati con tale tecnica
è riportato in figura 4.10.
4.6
Ologrammi a trasmissione in due passi (H1-H2)
A differenza del paragrafo precedente, per produrre un ologramma a trasmissione H2 da
un ologramma master a trasmissione H1 si deve far incidere i due fasci dal medesimo lato.
La configurazione sperimentale è molto simile alla precedente (molti componenti ottici possono esser tenuti esattamente nella posizione usata nel set-up precedente) con la differenza
dell’inversione di direzione dell’onda di riferimento di H2 (figura 4.9).
Come nel caso precedente, anche qui si può produrre un ologramma avente l’immagine olografica compenetrata nella lastra, ovvero con una parte in rilievo ed una in profondità. A
differenza degli ologrammi a riflessione però le righe d’interferenza prodotte sono prevalentemente normali al piano della lastra, e quindi per la visione di H2 è necessaria una sorgente di
luce monocromatica. Nel caso in cui l’immagine olografica sia situata in una posizione particolarmente vicina alla lastra, è possibile utilizzare per la visione anche un normale diodo led
monocromatico in quanto, sebbene i diodi led non emettano luce propriamente monocromatica, lo spostamento e sfuocamento dell’immagine prodotto dalla banda emessa è comunque
accettabile alla vista (a differenza del caso in cui l’immagine sia situata più in profondità).
4.6 Ologrammi a trasmissione in due passi (H1-H2)
Figura 4.11: Configurazione per ologrammi master H1 a trasmissione.
45
46
CONFIGURAZIONI USATE, RISULTATI
Figura 4.12: Configurazione per ologrammi H2 a riflessione.
4.7 Ologrammi rainbow
4.7
Ologrammi rainbow
La configurazione richiesta per la produzione di un ologramma rainbow è sostanzialmente
uguale alla configurazione necessaria per la realizzazione di un ologramma a trasmissione H2
a partire dal suo ologramma master a trasmissione H1. La sola differenza sta nell’aggiunta
di una sottile fenditura (nel mio caso di apertura 2 mm) a contatto con H1. A causa di tale
fenditura l’immagine reale che viene proiettata da H1 su H2 ha un’intensità molto bassa per
cui è opportuno riaggiustare il rapporto delle intensità dei due fasci aumentando ulteriormente la potenza del fascio di ricostruzione di H1 e diminuendo parecchio quella del fascio
di riferimento di H2 (90:10). In seguito a tale operazione la lastra H2 è sottoposta ad un’intensità luminosa molto bassa, il che richie un sostanziale aumento del tempo d’esposizione.
Personalmente i risultati che ho ottenuto con tale tecnica non sono stati particolarmente
soddisfacenti in quanto illuminando l’ologramma rainbow con luce bianca, lo scostamento
delle diverse immagini prodotto dalla larghezza dello spettro non era sufficiente a separare
angolarmente le diverse immagini. Questo penso sia dovuto alla poca profondità dell’immagine olografica rispetto alla posizione della fenditura, che non ha ridotto a sufficienza l’angolo
visuale (in questo caso vorremmo fosse appositamente molto piccolo).
4.8
Ologrammi image-plane
Per la produzione di questa tipologia di ologrammi ho utilizzato la configurazione sperimentale di figura 4.13. Tramite la lente L1 viene catturata parte della luce diffusa dall’oggetto,
che è messa a fuoco nel secondo piano focale in modo da creare un’immagine reale di quest’ultimo in prossimità della lastra olografica. Variando la distanza della lente dall’oggetto e la
distanza della lastra olografica dalla lente è possibile ottenere un’immagine reale ingrandita
o rimpicciolita rispetto alle dimensioni dell’oggetto reale. Osservando l’angolo sotto il quale
viene vista la lente da parte dell’oggetto, si nota che la luce catturata da questa è solo una
piccola percentuale di quella diffusa dall’oggetto, pertanto l’immagine reale proiettata sulla
lastra è molto tenue. Risulta dunque necessario scegliere un rapporto tra le intensità dei due
fasci molto sbilanciato, come per esempio 10:90 (10% per il fascio di riferimento, e 90% per
il fascio d’illuminazione oggetto).
Con tale tecnica è possibile registrare in un solo passo un’immagine olografica a cavallo della
lastra fotosensibile, ovvero in parte sporgente ed in parte rientrante, senza avvalersi dunque
della laboriosa tecnica a due passi. Il grande svantaggio di tale tecnica è però il ridottissimo
angolo solido sotto il quale è possibile osservare l’ologramma, che dipende esclusivamente dal
diametro della lente utilizzata e dalla sua lunghezza focale. Interessante potrebbe esser l’uso
47
48
CONFIGURAZIONI USATE, RISULTATI
OGGETTO
L1
LASTRA
OLOGRAFICA
FS2
FS1
M1
BS1
OTTURATORE
He-Ne LASER
Figura 4.13: Configurazione per ologrammi a riflessione image-plane.
di una lente di Fresnel, reperibile di grandi dimensioni ed a basso costo, sebbene la qualità di
tali lenti sia molto limitata. Più costose ma sicuramente in grado di garantire migliori risultati risulterebbero invece spesse lenti biconvesse in vetro con specifico trattamento antiriflesso
per la lunghezza d’onda del laser utilizzato.
4.9
Ologrammi a 360°
Un ologramma a 360° è una particolare tipologia di ologramma a trasmissione che permette all’osservatore di girar intorno all’ologramma in modo da poter osservare l’immagine
olografica a 360°, ovvero da davanti, dietro e lateralmente. Per la creazione di ologrammi a
360° viene utilizzata in genere una pellicola olografica rettangolare lunga e stretta, arrotolata
su se stessa in modo da creare un anello. Successivamente viene inserito al suo interno l’oggetto, ed infine s’illumina il tutto con un’onda sferica posizionata sull’asse dell’anello, come in
figura 4.14. Personalmente, non possedendo pellicole olografiche, ho cercato di metter in atto
la stessa tecnica per registrare un ologramma su 4 lastre olografiche da 50 × 50 mm. Ho
dunque progettato e costruito un supporto che mi consentisse di fissare opportunamente le 4
lastre olografiche e l’oggetto, ottenendo l’elemento di sostegno di figure 4.15 e 4.16. Da notare
che in questa configurazione a singolo fascio l’onda sferica di riferimento ha sia la funzione
di onda di riferimento (porzione di fascio che illumina direttamente le lastre) che quella di
illuminare l’oggetto posto al centro. Per un’illuminazione ottimale dell’oggetto ho ritenuto
opportuno aggiungere alla configurazione 4 specchi inclinati di 6° rispetto all’asse come visibile nella figura 4.15. La configurazione sperimentale adottata in questo caso è riportata
4.9 Ologrammi a 360°
49
Figura 4.14: Olografia a riflessione a 360°.
4 specchi
4 lastre
olografiche
Figura 4.15: Schema supporto per ologrammi a riflessione a 360°.
Figura 4.16: Supporto per ologrammi a riflessione a 360°.
50
CONFIGURAZIONI USATE, RISULTATI
OGGETTO
FS1
He-Ne LASER
4 LASTRE
OLOGRAFICHE
OTTURATORE
Figura 4.17: Configurazione per ologrammi a riflessione a 360°.
in figura 4.17. Purtroppo il risultato che ho ottenuto con tale tecnica olografica non è stato
soddisfacente in quanto 2 delle 4 lastre olografiche, causa uno sbalzo termico hanno subito
un ritiro dello strato fotosensibile in fase d’asciugamento, con conseguente distacco dal vetro.
Sulle altre due rimaste intatte invece è stato possibile ricostruire l’immagine dell’oggetto solo
in parte, che risultava però molto tenue, poco contrastata e quasi non visibile.
Una delle possibili cause potrebbe essere legata ad un leggero movimento dell’oggetto in fase
di posa. Un’altra possibile causa di tale insuccesso potrebbe esser dovuta alla riflessione (non
voluta) della luce di riferimento da parte del supporto. Sebbene l’alloggiamento di forma
cubica all’interno del quale erano fissate le 4 lastre olografiche fosse rivestito in velluto nero
per assorbire la luce incidente, parte della luce dopo aver oltrepassato le lastre olografiche è
senza dubbio stata riflessa all’indietro su di esse, contribuendo a l’abbassamento del contrasto
dei 4 ologrammi.
5
Appendice
5.1
Appendice A: tecniche olografiche, complementi
Si riportano nel seguito le tecniche olografiche tralasciate precedentemente. I metodi
diretti comprendono l’olografia in asse, l’olografia di Fourier (senza lenti) e di Fraunhofer.
Per quanto riguarda i metodi di registrazione indiretti si riporta invece l’olografia di Fourier
facente uso di lenti.
5.1.1
Ologramma in asse (di Gabor)
Negli ologrammi in asse la sorgente, l’oggetto ed il layer olografico sono posti uno di
seguito all’altro sulla stessa linea di mira; in particolare l’oggetto dev’essere trasparente e
la superficie fotosensibile normale a tale asse. Una parte della luce emessa dalla sorgente è
assorbita e diffusa dall’oggetto (onda oggetto) mentre l’altra parte lo oltrepassa indisturbata e
costituisce l’onda di riferimento. Se prendiamo come oggetto un solo punto assiale, possiamo
vedere tale oggetto come una sorgente di onde sferiche e pertanto l’ologramma che ne risulta
è una lente a zone di Fresnel.
Lo svantaggio principale degli ologrammi in asse sta nel fatto che la loro configurazione
assiale crea un’immagine reale dell’oggetto che sta sulla stessa linea di mira di quella virtuale.
L’osservatore vede dunque due immagini una davanti all’altra, ed è inoltre abbagliato dalla
luce di ricostruzione che oltrepassa la pellicola. Per questi motivi l’olografia in asse offre
pochi interessi d’ordine pratico e costituisce più che altro una tecnica d’interesse storico.
Questo tipo d’ologramma è del tipo a trasmissione e viene dunque osservato illuminandolo
posteriormente.
51
52
APPENDICE
Figura 5.1: Olografia in asse.
Figura 5.2: Olografia di Fourier senza lenti.
5.1.2
Ologramma di Fourier (senza lenti)
L’espressione ologramma di Fourier è attribuita a quei tipi di ologrammi registrati ponendo la sorgente di luce puntiforme R e l’oggetto O sullo stesso piano, parallelo a quello della
pellicola fotografica (posizione 3 nella figura 2.2). Tale condizione geometrica può esser soddisfatta a rigore solamente per oggetti piani. Lo schema d’interferenza registrato è costituito
da una serie di iperbole (ologramma sottile) sul piano dello strato fotosensibile in quanto la
sorgente di luce usata come riferimento è puntiforme. Tali iperbole non sono altro che sezioni
normali della serie di circonferenze che negli ologrammi in asse costituiscono la cosiddetta
lente a zone di Fresnel.
La figura 5.2 riporta lo schema che permette la registrazione e ricostruzione di ologrammi
di Fourier (senza lenti). Come in tutti gli ologrammi sottili, anche in questi appaiono due
immagini durante la ricostruzione; la particolarità è che in tal caso queste sono entrambe virtuali, quindi visibili dall’osservatore come fossero due oggetti materiali. Un’immagine (quella
regolare) appare nella posizione originale dell’oggetto, mentre la sua coniugata è situata nello
5.1 Appendice A: tecniche olografiche, complementi
Figura 5.3: Olografia di Fraunhofer.
stesso piano, con simmetria puntuale rispetto alla sorgente puntiforme R.
5.1.3
Ologramma di Fraunhofer
Gli ologrammi di Fraunhofer costituiscono un particolare caso degli ologrammi di Fourier.
In particolare sono formati come i precedenti dalla sovrapposizione di onde sferiche i cui centri
hanno la stessa distanza dalla pellicola fotografica, con la differenza che in tal caso quest’ultima viene spostata molto lontano in modo che le due onde (oggetto e riferimento) possano
esser considerate piane (figura 2.2 riferimento 4). Il nome è dovuto al fatto che la diffrazione
nel campo lontano è stata conosciuta per molto tempo come diffrazione di Fraunhofer.
Questi ologrammi sono usati soprattutto per oggetti di piccola grandezza come per esempio aerosol, per i quali può esser approssimata la condizione di campo lontano con distanze
dell’ordine di pochi millimetri. Un generico set-up per la registrazione di questo tipo di ologrammi è rappresentato nella figura 5.3. In linea di principio, se consideriamo un piccolo
oggetto di raggio r0 (una particella), la condizione per la produzione di questo tipo di ologrammi è che la distanza oggetto-ologramma z0 possa essere considerata molto maggiore di
r02 /λ.
5.1.4
Ologramma di Fourier (con lenti)
Vediamo ora la realizzazione di un ologramma di Fourier tramite l’uso di una lente biconvessa. L’oggetto da olografare deve essere un oggetto piano ed è posto sul primo piano focale
53
54
APPENDICE
x
Oggetto
Onda
oggetto
z
x = -b
Onda di
riferimento
f
f
Registrazione
Ologramma
di Fourier
immagine reale coniugata
Onda di
riferimento
ordine di diffrazione 0
z
immagine reale
f
Ricostruzione
f
x
Figura 5.4: Olografia di Fourier con lenti.
della lente assieme alla sorgente puntiforme della luce di riferimento. La pellicola olografica è
posizionata invece nel secondo piano focale della lente. In questo modo lo strato fotosensibile
è colpito sia dalla luce emessa dalla sorgente (l’apertura del fascio dev’esser sufficiente per
permettere ciò) che da quella emessa dall’oggetto che possono cosı̀ interferire generando la
figura di diffrazione caratteristica dell’ologramma.
Per la ricostruzione invece la configurazione usata è diversa: l’ologramma trova collocazione
nel primo piano focale della lente, ed è illuminato in trasmissione con un’onda piana avente
stessa direzione dell’asse della lente. La luce cosı̀ viene filtrata dall’ologramma e dopo aver
oltrepassato la lente forma nel secondo piano focale le due immagini: quella primaria e quella
coniugata. Queste sono simmetriche l’una rispetto all’altra secondo l’asse ottico della lente.
L’onda di riferimento non diffratta dall’ologramma forma invece uno spot di luce assiale (sul
fuoco della lente) che rappresenta l’ordine di diffrazione zero. Si può vedere che l’immagine ricostruita rimane stazionaria quando l’ologramma viene spostato nel piano. Questo è
dovuto al fatto che la trasformata di Fourier di un tale movimento nel primo piano (indicato
successivamente con le coordinate ξ ed η) si trasforma solamente in uno spostamento in fase,
che non va ad incidere sulla distribuzione d’intensità dell’immagine ricostruita. Matematicamente possiamo descrivere la lente come un componente in grado di operare la trasformata di
Fourier dell’onda incidente. Lo strato olografico è perciò colpito dalla trasformata di Fourier
5.1 Appendice A: tecniche olografiche, complementi
55
dell’onda di riferimento r e da quella dell’onda oggetto o, indicate rispettivamente con R ed
O.
r(x, y)
= δ(x + b, y)
(5.1)
R(ξ, η)
= F {r(x, y)} = e−2πξb
(5.2)
O(ξ, η)
= F {o(x, y)}
(5.3)
L’intensità è quindi:
I
=
{O(ξ, η) + R(ξ, η)}2
=
R2 + |O(ξ, η)|2 + O(ξ, η)R∗ (ξ, η) + O∗ (ξ, η)R(ξ, η)
(5.4)
Nella quale |R(ξ, η)|2 = 1. Consideriamo ora la trasparenza in ampiezza dell’ologramma
come funzione lineare dell’intensità. Illuminando l’ologramma otteniamo in uscita:
U(ξ, η) = r(ξ, η) · (t0 + γT I(ξ, η)) = t0 + γT I(ξ, η)
(5.5)
In cui è stata presa come onda di riferimento r un’onda piana di ampiezza costante unitaria.
Al di là della lente infine abbiamo la trasformata di Fourier dell’onda entrante U :
u(x, y)
=
F {U(ξ, η)}
=
(t0 + γτ ) · δ(x, y)
Z ∞
+γτ ·
o(x0 , y 0 ) · o(x0 − x, y 0 − y)dx0 dy 0
−∞
+γτ · o(x − b, y)
+γτ · o∗ (−x + b, −y)
(5.6)
in cui possiamo riconoscere lo spot centrale (primo termine), circondato da un alone-ombra
(secondo termine), e le due immagini reali in posizione simmetrica (terzo e quarto termine).
56
APPENDICE
5.2
Appendice B: schemi elettrici dell’otturatore
elettronico
Figura 5.5: Schema elettrico del trasmettitore all’infrarosso.
Figura 5.6: Schema elettrico del ricevitore all’infrarosso.
5.3 Appendice C: soluzioni e procedimento per lo
sviluppo degli ologrammi
5.3
Appendice C: soluzioni e procedimento per lo
sviluppo degli ologrammi
Le operazioni di esposizione e di sviluppo della lastra olografica vanno eseguite, come è
ovvio pensare, in un ambiente buio, a causa della estrema sensibilità alla luce delle lastre
fotografiche usate. La sola luce consentita (per permetterci di vedere ciò che stiamo facendo)
è quella prodotta da uno o due led colorati con lunghezza d’onda di picco nella regione non
sensibile della pellicola. Personalmente ho usato un led da 5 mm e 10000 mcd di colore verde,
coperto con un foglio di carta per favorire la diffusione della luce prodotta.
Dopo l’esposizione della lastra fotografica si crea su di essa la cosiddetta immagine latente
che diventa visibile solo in segiuto alla procedura di sviluppo. Tale operazione consiste nell’immersione della lastra in una soluzione ottenuta miscelando i sali indicati nella figura
5.7. Questa soluzione, come anche le altre, deve essere contenuta in una vaschetta di plastica
(non in una vaschetta metallica). La lastra fotografica va immersa totalmente nella soluzione,
facendo attenzione che il lato con l’emulsione sia rivolto verso l’alto, e quindi non si graffi
a contatto con il fondo della vaschetta. È bene agitare lievemente la soluzione con la lastra
immersa, in modo da favorire ed uniformare lo svolgimento della reazione chimica su tutta la
superficie fotosensibile. Tale operazione va effettuata indossando dei guanti in lattice, degli
occhiali ed adottando tutte le precauzioni del caso, in quanto le soluzioni usate sono tossiche.
Il tempo richiesto per lo sviluppo della lastra a temperatura di 20°C è di circa 30 secondi.
Successivamente la lastra viene immersa in una vaschetta contenente acqua distillata, allo
scopo di rimuovere il più possibile la soluzione di sviluppo da essa. Il tempo necessario per
questa operazione è di circa 1 minuto. Ora la lastra fotografica non è più sensibile alla luce,
dunque possiamo accendere l’illuminazione ambientale.
Con questo processo otteniamo un ologramma in ampiezza, quasi completamente opaco alla
vista. Ora possiamo decidere se mantenerlo tale ed asciugarlo, oppure trasformarlo in un
più efficiente ologramma in fase attraverso il processo di sbiancamento (operazione che ho
sempre adottato nell’esecuzione dei miei campioni). I sali utilizzati per ottenere la soluzione
sbiancante sono indicati in figura 5.7.
Anche in questo caso la lastra va costantemente agitata nella soluzione per tutto il tempo
in cui resta immersa. La durata di questo processo va decisa di volta in volta in base alla
trasparenza dell’ologramma, in modo che ne risulti un ologramma completamente trasparente e tutte le aree scure del precedente sviluppo siano completamente svanite. Come ultima
operazione si sciacqua in una bacinella d’acqua corrente l’ologramma ottenuto, azione da
protrarsi per circa 4-5 minuti.
Se lo strato fotosensibile non è completamente asciutto non si è in grado di vedere alcun
57
58
APPENDICE
Figura 5.7: Soluzioni per lo sviluppo degli ologrammi.
ologramma in quanto l’emulsione ricca d’acqua è dilatata rispetto alla condizione normale
di registrazione (e quindi la lunghezza d’onda della luce che permette di veder l’ologramma
è notevolmente superiore). Si deve dunque permettere all’ologramma di asciugarsi (generalmente in posizione verticale onde evitare la formazione di aloni) possibilmente a temperatura
ambiente. È fondamentale inoltre che la lastra olografica non subisca sbalzi termici in quanto
oltre ad una possibile dilatazione o contrazione anomala della gelatina fotosensibile, è possibile che si provochi il suo distacco dalla superficie di vetro su cui è depositata, danneggiando
irrimediabile dell’ologramma.
Bibliografia
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