Capitolo 1 Profili generali

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Capitolo 1 Profili generali
Edizioni Simone - Vol. 8/4 Ordinamento e Deontologia forense
Parte terzaLa deontologia forense
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Capitolo 1 Profili generali
Sommario1. Natura e interpretazione delle norme deontologiche. - 2. Autonomia
e indipendenza della professione forense. - 3. La violazione delle
norme deontologiche fa scattare la potestà disciplinare. - 4. Irrilevanza
dell’elemento soggettivo. - 5. L’avvocato-arbitro. - 6. Mediazione e
negoziazione assistita. - 7. Rapporti con i terzi. - 8. Elezioni forensi. - 9.
La testimonianza dell’avvocato. - 10. Avvocati stabiliti e abuso del diritto dell’Unione europea.
1.Natura e interpretazione delle norme deontologiche
Il nuovo codice deontologico forense, approvato dal Consiglio nazionale
forense (Cnf) il 31-1-2014 è in vigore dal 15-12-2014.
Il codice deontologico forense non ha carattere normativo, essendo costituito da un insieme di regole che gli organi di governo degli avvocati si sono date
per attuare i valori caratterizzanti la propria professione e garantire la libertà,
la sicurezza e l’inviolabilità della difesa (Cass. S.U. 15873/2013).
Le norme deontologiche:
Ambito di applicazione e
natura giuridica
—si applicano a tutti gli avvocati e a tutti i praticanti
avvocati nella loro attività, nei loro reciproci rapporti e nei rapporti con
i terzi (art. 1 cod. deont.);
—costituiscono fonti integrative del precetto legislativo, che attribuisce al
Cnf il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale, e sono
interpretabili direttamente dalla Cassazione (Cass. S.U. 26810/2007).
L’interpretazione diretta delle norme del codice deontologico da parte della
Cassazione non viola l’autonomia dell’ordine professionale. Questa autonomia,
infatti, si manifesta nell’approvazione del codice deontologico, che, una volta
emanato, costituisce un’autoregolamentazione vincolante per i singoli professionisti e per gli organi dell’ordine (Cass. 8225/2002).
La concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare è
rimessa alla valutazione dell’ordine professionale, e la Cassazione non può
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sostituirsi al Cnf nell’enunciazione di ipotesi di illecito, se non nei limiti di una
valutazione di ragionevolezza (Cass. S.U. 14617/2010).
2.Autonomia e indipendenza della professione forense
L’art. 24 del codice deontologico afferma che l’avvocato nell’esercizio dell’attività professionale ha il dovere di conservare la propria indipendenza e di
difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti esterni anche correlati a interessi riguardanti la propria sfera personale.
L’indipendenza è anche uno dei principi fondamentali del codice deontologico degli avvocati europei, approvato dal Consiglio degli Ordini forensi europei (C.C.B.E.) il 28 ottobre 1988, con le ultime modifiche introdotte il 19
maggio 2006. L’art. 2, n. 1, prevede che «i numerosi obblighi a carico dell’avvocato rendono necessaria la sua assoluta indipendenza da qualsiasi pressione
e in particolare da quelle esercitate da suoi interessi personali o da influenze
esterne. Questa indipendenza è necessaria per la fiducia nella giustizia quanto
l’imparzialità del giudice. L’avvocato deve pertanto impedire ogni attentato
alla propria indipendenza e fare attenzione a non venir meno alle norme deontologiche per compiacere i clienti, i giudici o terzi. Tale indipendenza è necessaria per l’attività giuridica come per quella giudiziaria. I consigli dati da un
avvocato al proprio cliente non hanno valore se sono impartiti per compiacerlo, per interesse personale o sotto l’effetto di una pressione esterna».
L’indipendenza dell’avvocato, dunque, è una condizione imprescindibile perché egli possa svolgere i compiti che gli ordinamenti costituzionale ed europeo
gli assegnano.
Il dovere di indipendenza deve essere interpretato in termini estensivi. Esso
implica la necessità di un atteggiamento asettico ed equidistante nei confronti
dei poteri, delle istituzioni e di ogni altro soggetto che in qualche modo tenti
di coartare la libertà professionale. L’indipendenza dell’avvocato può subire
frequenti minacce, soprattutto in un’epoca di clientelismi che troppo spesso
premia la logica compromissoria a scapito della preparazione, della competenza e della dignità professionale.
Questo dovere è senza dubbio violato, ad esempio, dall’atteggiamento di eccessivo servilismo nei confronti del magistrato che oltrepassi la soglia di una
doverosa collaborazione nell’ambito di una corretta dialettica processuale.
È superfluo ricordare l’esigenza che il professionista mantenga un atteggiamento di distacco da qualunque interesse personale o influenza particolare che
possa alterare la dignità della funzione.
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Allo stesso modo, nell’ottica del dovere di indipendenza si collocano quelle
disposizioni che sanciscono l’incompatibilità tra determinati incarichi e funzioni con la professione legale.
Fondamentale dovere dell’avvocato, inoltre, è quello di contribuire all’attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia. È, pertanto, connotata da
estrema gravità la responsabilità disciplinare dell’avvocato che falsifichi un
documento e, tacendone la falsità, lo consegni ad un collega suo difensore
affinché lo produca in giudizio come elemento di prova al fine di conseguire
un compenso non dovuto (Cnf 35/2012).
Inoltre, nell’esercizio della propria attività l’avvocato:
— vigila sulla conformità delle leggi ai principi della Costituzione, nel rispetto della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e dell’ordinamento comunitario;
— garantisce il diritto alla libertà e alla sicurezza e all’inviolabilità della difesa; in applicazione di questo principio, è disciplinarmente rilevante il comportamento dell’avvocato
che compia atti contrari all’interesse del proprio assistito. Nel caso affrontato da Cnf
194/2012 è stata ritenuta rilevante, sul piano disciplinare, la condotta dell’avvocato il
quale, incaricato della difesa e assistenza di un assistito assoggettato, contro il suo
volere, a trattamenti psichiatrici obbligatori, invece di procedere ai necessari atti giudiziari valutando adeguatamente e con il supporto medico-scientifico indispensabile la
reale situazione del paziente, per assisterlo con la necessaria perizia e competenza nel
miglior modo possibile, si era adoperato esclusivamente in via stragiudiziale, richiedendo anche l’intervento di associazioni, aventi scopi non scientifici, per aiutarlo a sottrarsi
alle cure psichiatriche, ritenute ideologicamente distruttive, e di fatto lasciandolo privo di
difesa tecnica;
— assicura la regolarità del giudizio e del contraddittorio.
3.La violazione delle norme deontologiche fa scattare la potestà
disciplinare
Agli organi disciplinari spetta la potestà di infliggere sanzioni adeguate e proporzionate alla violazione delle norme deontologiche.
Le sanzioni:
—devono essere adeguate alla gravità dei fatti;
—devono tenere conto della reiterazione dei comportamenti nonché delle
specifiche circostanze, soggettive e oggettive, che hanno concorso a determinare l’infrazione (art. 21 cod. deont.).
Il lungo tempo trascorso dai fatti e il successivo comportamento corretto
dell’incolpato possono mitigare la sanzione (Cnf 76/2013).
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Oggetto di valutazione è il comportamento complessivo
dell’incolpato, e quando sono mossi vari addebiti in uno
stesso procedimento, la sanzione deve essere unica (art. 3 cod. deont.).
Qualora il consiglio territoriale infligga distinte sanzioni per ciascuno degli
addebiti, se in sede di appello risulta confermata la responsabilità dell’incolpato è facoltà del Cnf correggere la motivazione e procedere alla valutazione
complessiva delle condotte contestate ai fini dell’irrogazione dell’unica sanzione ritenuta congrua (Cnf 52/2013).
Inoltre, la mancanza di un’adeguata motivazione non costituisce motivo di
nullità della decisione del Consiglio dell’ordine territoriale, in quanto alla
motivazione carente il Cnf può apportare le integrazioni necessarie. Il Cnf,
infatti, è competente quale giudice d’appello, di legittimità e di merito, per cui
l’eventuale inadeguatezza, incompletezza o assenza della motivazione della
decisione di primo grado può trovare completamento nella motivazione della
decisione in secondo grado, in relazione a tutte le questioni sollevate nel giudizio, essenziali o accidentali (Cnf 26/2015).
Unicità della sanzione
La riunione di procedimenti disciplinari a carico di uno stesso incolpato, ai fini di una valutazione complessiva del suo comportamento, non è esclusa dalla anteriorità dell’una condotta rispetto all’altra, se i procedimenti sono maturi per la decisione nel medesimo periodo (Cnf 52/2013).
Ai fini del trattamento sanzionatorio il consiglio territoriale è tenuto a operare
un bilanciamento tra la gravità dei fatti addebitati e i concorrenti criteri
di valutazione, quali ad esempio l’assenza di precedenti disciplinari (Cnf
145/2012, 45/2012, 6/2012) e la rimediabilità delle conseguenze del comportamento dell’incolpato.
In questo giudizio di bilanciamento è ovvio che alcune
condotte rivestano maggiore gravità di altre. Ad esempio,
aver omesso l’adempimento del mandato e, ciononostante, avere fornito false assicurazioni alla parte assistita senza averne verificato la corrispondenza alla realtà, integra sempre una violazione dei doveri
essenziali dell’avvocato, anche qualora abbia affidato a collaboratori compiti
che avrebbe dovuto svolgere personalmente o far svolgere sotto la sua personale responsabilità nello studio verificandone l’esecuzione attentamente e
costantemente. Non si tratta di una sorta di «responsabilità oggettiva», ma di
responsabilità personale per doveri che fanno carico a colui al quale il mandato è stato conferito e lo ha accettato.
La gravità dell’inadempimento del mandato può avere rilevanza solo ai fini dell’adeguatezza della sanzione ma non ai fini della configurazione della violazione e
della sussistenza della responsabilità, qualora i fatti siano provati (Cnf 161/2011).
L’omissione del mandato
costituisce sempre violazione deontologica
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Nell’esercizio dell’attività professionale all’estero, l’avvocato italiano deve rispettare le norme deontologiche interne e quelle del Paese in cui viene svolta l’attività.
In caso di contrasto fra le due normative prevale quella del Paese ospitante,
purché non confligga con l’interesse pubblico al corretto esercizio dell’attività
professionale.
L’avvocato straniero, nell’esercizio dell’attività professionale in Italia, è tenuto al rispetto delle norme deontologiche italiane (art. 3 cod. deont.).
Le sanzioni disciplinari, elencate dettagliatamente dal­
Le sanzioni disciplinari
l’art. 22 cod. deont., sono:
—l’avvertimento, che consiste nell’informare l’incolpato che la sua condotta non è stata conforme alle norme deontologiche e di legge, con invito ad
astenersi dal compiere altre infrazioni; può essere deliberato quando il fatto contestato non è grave e vi è motivo di ritenere che l’incolpato non
commetta altre infrazioni.
—la censura, ossia il biasimo formale, che si applica quando la gravità dell’infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato e il suo
comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un’altra infrazione;
—la sospensione, consistente nell’esclusione temporanea, da 2 mesi a 5 anni,
dall’esercizio della professione o dal praticantato e si applica per comportamenti e responsabilità gravi o quando non sussistono le condizioni per
irrogare la sola sanzione della censura;
—la radiazione, ovvero l’esclusione definitiva dall’albo, elenco o registro. La
radiazione impedisce l’iscrizione a qualsiasi altro albo, elenco o registro, fatto
salvo quanto previsto dalla legge, ed è inflitta per violazioni molto gravi che
rendono incompatibile la permanenza dell’incolpato nell’albo, elenco o registro.
Aumenti e diminuzioni
Nei casi più gravi la sanzione disciplinare può essere aumentata, nel suo massimo:
— fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per 2 mesi, nel caso sia
prevista la sanzione dell’avvertimento;
— fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale non superiore a 1 anno, nel
caso sia prevista la sanzione della censura;
— fino alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale non superiore a 3 anni, nel caso
sia prevista la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale fino a 1 anno;
— fino alla radiazione, nel caso sia prevista la sanzione della sospensione dall’esercizio
dell’attività professionale da 1 a 3 anni.
Nei casi meno gravi, invece, la sanzione disciplinare può essere ridotta:
— all’avvertimento, nel caso sia prevista la sanzione della censura;
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— alla censura, nel caso sia prevista la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale fino a 1 anno;
— alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale fino a 2 mesi, nel caso sia prevista la sospensione dall’esercizio della professione da 1 a 3 anni.
Nei casi di infrazioni lievi e scusabili all’incolpato è fatto un richiamo verbale, non avente
carattere di sanzione disciplinare.
4.Irrilevanza dell’elemento soggettivo
La responsabilità disciplinare discende dalla inosservanza dei doveri e dalla
volontarietà della condotta, anche se omissiva.
È irrilevante la consapevolezza dell’illegittimità della propria condotta, essendo sufficiente la volontarietà dell’azione che ha portato al comportamento
deontologicamente scorretto, mentre l’intensità del dolo rileva solo per la
misura della sanzione (Cnf 148/2013).
La natura dell’illecito disciplinare prescinde, pertanto, dall’elemento soggettivo,
poiché per fondare la responsabilità deontologica è sufficiente l’elemento psicologico della suitas della condotta, intesa come volontà dell’atto da compiere
(Cass. 39/2013). Il dolo, invece, denotando una più intensa volontà di trasgressione del comando deontologico, rileva, come accennato, nella determinazione
della misura della sanzione. Anche la negligenza del comportamento è motivo
di responsabilità, perché dimostra che non si sono adottati tutti gli accorgimenti necessari e, in ogni caso, quelli richiesti nel caso concreto (Cnf 177/2012).
5.L’avvocato-arbitro
L’art. 61 cod. deont. stabilisce che l’avvocato chiamato a svolgere la funzione di
arbitro è tenuto a improntare il proprio comportamento a probità e correttezza
e a vigilare affinché il procedimento si svolga con imparzialità e indipendenza.
La norma impone l’indipendenza e l’imparzialità dell’arbitro senza distinzione
tra arbitro rituale e irrituale, né tra il ruolo di presidente o di arbitro di parte,
cosicché l’arbitro non soltanto deve essere indipendente e imparziale, ma deve
anche apparire tale, affinché possa svolgere la sua funzione in un ruolo di
terzietà, con il necessario distacco dalle parti e dai loro difensori.
L’avvocato non può assumere le funzioni di arbitro quando:
—abbia in corso, o abbia avuto negli ultimi due anni, rapporti professionali
con una delle parti; pertanto, pone in essere un comportamento deontolo-
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gicamente rilevante l’avvocato che assuma la funzione di arbitro pur essendo il difensore di una delle parti in un altro procedimento (a nulla rilevando
che egli non abbia concretamente svolto funzioni difensive ma sia stato un
semplice domiciliatario: Cnf 269/2004) o che, nominato arbitro unico, non
comunichi di aver assunto in precedenza un incarico professionale da una
delle due parti in causa (Cnf 229/2001);
—ricorre una delle ipotesi di ricusazione degli arbitri previsti dal codice di
procedura civile;
—una delle parti sia assistita, o sia stata assistita negli ultimi due anni,
da un suo socio o associato o da un avvocato che eserciti negli stessi
locali.
In ogni caso, l’avvocato deve comunicare alle parti ogni circostanza di fatto e ogni rapporto con i difensori che possano incidere sulla sua indipendenza, al fine di ottenere il consenso delle parti stesse all’espletamento dell’incarico.
Nel corso del procedimento l’avvocato-arbitro:
—deve comportarsi in modo da preservare la fiducia in lui riposta dalle
parti e deve rimanere immune da influenze e condizionamenti esterni di
qualunque tipo;
—deve mantenere la riservatezza sui fatti di cui venga a conoscenza in ragione del procedimento arbitrale;
—non deve fornire notizie su questioni attinenti al procedimento;
—non deve rendere nota la decisione prima che questa sia formalmente comunicata a tutte le parti.
Dopo la cessazione dell’incarico arbitrale l’avvocato non può intrattenere
rapporti professionali con una delle parti se non sono trascorsi almeno due anni
dalla chiusura del procedimento e se l’oggetto dell’attività non è diverso da
quello del procedimento stesso. Tale divieto riguarda anche i professionisti
soci, associati o che esercitino negli stessi locali.
La violazione dei divieti che fanno capo all’avvocato-arbitro, previsti dal codice deontologico, comporta la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi, oppure da sei mesi a un anno se l’avvocato assume
la funzione di arbitro quando abbia in corso, o abbia avuto negli ultimi due
anni, rapporti professionali con una delle parti o ricorra un’ipotesi di ricusazione degli arbitri (art. 61, co. 8, cod. deont.).
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6.Mediazione e negoziazione assistita
A) L’avvocato mediatore
L’avvocato può svolgere la funzione di mediatore rispettando gli obblighi
dettati dalla normativa in materia e le previsioni del regolamento dell’organismo
di mediazione, nei limiti in cui non contrastino con quelle del Codice deontologico (art. 62, co. 1, cod. deont.).
La norma, però, vieta all’avvocato di assumere la funzione di mediatore se non
ha un’adeguata competenza, se ha o ha avuto, negli ultimi due anni, rapporti
professionali con una delle parti o se una delle parti è o è stata assistita, negli
ultimi due anni, da un professionista socio dell’avvocato o con lui associato o
che eserciti l’attività forense negli stessi locali, nonché di intrattenere rapporti
professionali con una delle parti se non è passato un biennio dalla definizione
del procedimento di mediazione e se l’oggetto dell’attività non è diverso da
quello del procedimento stesso.
Infine, è fatto divieto all’avvocato di consentire che l’organismo di mediazione abbia sede, a qualsiasi titolo, presso il suo studio o che quest’ultimo abbia
sede presso l’organismo di mediazione.
L’art. 1 D.Lgs. 28/2010 definisce la mediazione come
«l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo
imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un
accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa».
A sottolineare l’importanza dell’imparzialità del mediatore è il comma 2 dell’art.
3, secondo cui il regolamento scelto dalle parti e applicato al procedimento di
mediazione deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento e
modalità di nomina del mediatore che ne assicurino l’imparzialità e l’idoneità
al corretto e sollecito espletamento dell’incarico.
È dunque di palese evidenza il carattere di imparzialità che deve connotare la
figura del mediatore e, quindi, la differenza che intercorre tra questa attività e
quella svolta dall’avvocato: mentre quest’ultimo è il professionista che tutela
gli interessi esclusivi della parte che lo ha nominato, il mediatore aiuta le parti a raggiungere un accordo amichevole o conciliativo; è neutrale, non curando,
al contrario dell’avvocato, gli interessi dell’una o dell’altra.
Lo stesso D.Lgs. 28/2010 individua a carico del mediatore una serie di preclusioni di carattere generale (art. 14) che prescindono dall’attività professionale
eventualmente svolta (ad esempio, di avvocato). Al mediatore e ai suoi ausiliari è fatto divieto di assumere diritti o obblighi connessi, direttamente o indi-
La nozione di mediatore
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rettamente, con gli affari trattati, fatta eccezione per quelli strettamente inerenti alla prestazione dell’opera o del servizio; è fatto divieto anche di percepire
compensi direttamente dalle parti. Al mediatore è fatto obbligo, tra l’altro, di
sottoscrivere, per ciascun affare per il quale è designato, una dichiarazione di
imparzialità secondo le formule previste dal regolamento di procedura applicabile, e di informare immediatamente l’organismo e le parti delle ragioni di
possibile pregiudizio all’imparzialità nello svolgimento della mediazione.
Il Cnf, con l’art. 62 del Codice deontologico, ha inteso tutelare e garantire tale imparzialità. E lo
ha fatto individuando alcune situazioni che, se si verificassero, sarebbero in grado di minarla.
In altri termini, preso atto della scelta legislativa di consentire anche agli avvocati di svolgere attività di mediazione, il Cnf ha dovuto dettare le regole alle quali l’avvocato, che intende
affiancare alla propria attività professionale di difensore di una delle parti litiganti anche
quella di mediatore, si deve attenere per evitare un conflitto che ridonderebbe negativamente sulla sua figura e a discapito degli utenti delle prestazioni.
Legittima è dunque la preoccupazione di salvaguardare la dignità, la correttezza e la trasparenza di comportamento che non solo il singolo utente ma l’opinione pubblica in generale
ha ragione di pretendere da chi svolge l’attività di avvocato e che sono suscettibili di essere
inquinati da un uso strumentale dell’attività di mediazione per l’acquisizione, per via traversa,
di vantaggi economici sul piano della professione forense.
L’eventuale violazione delle regole, così come di qualsiasi altra disposizione
del codice deontologico, non si riverbera sull’attività esercitata dall’avvocatomediatore in sede di mediazione o in un’aula di giustizia ma ha riflessi solo sul
piano disciplinare.
B) L’avvocato-negoziatore
Il nuovo istituto della negoziazione assistita ha fatto ingresso con il D.L.
132/2014, convertito in L. 162/2014, contenente «Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia
di processo civile».
Unitamente al trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti pendenti,
la nuova procedura di negoziazione assistita mira a portare fuori i contenziosi dalle aule dei tribunali, bloccando a monte l’afflusso dei processi costituendo un’alternativa stragiudiziale all’ordinaria risoluzione dei conflitti.
La negoziazione assistita consiste nell’accordo (convenzione di negoziazione) tramite il quale le parti in lite convengono di «cooperare in buona fede e
lealtà» per risolvere in via amichevole una controversia tramite l’assistenza di avvocati.
La convenzione:
a) deve contenere il termine concordato dalle parti per l’espletamento della
procedura, che non può essere inferiore a un mese e superiore a tre (salvo
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proroga di 30 giorni su richiesta concorde delle parti), nonché l’oggetto
della controversia, che non può riguardare né i diritti indisponibili né
materie di lavoro;
b) deve essere redatta, a pena di nullità, in forma scritta;
c) deve essere conclusa con l’assistenza di uno o più avvocati, i quali certificano l’autografia delle sottoscrizioni apposte all’accordo sotto la propria
responsabilità professionale.
L’iter procedimentale delineato dal legislatore d’urgenza si
apre con l’informativa da parte dell’avvocato al proprio
cliente sulla possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita.
La parte che sceglie di affidarsi alla nuova procedura invia alla controparte,
tramite il proprio legale, l’invito a stipulare la convenzione di negoziazione.
Tale invito:
a) deve essere sottoscritto;
b) deve indicare l’oggetto della controversia;
c) deve contenere l’avvertimento che in caso di mancata risposta entro 30
giorni o di rifiuto ciò costituirà motivo di valutazione da parte del giudice
ai fini dell’addebito delle spese di giudizio, della condanna al risarcimento
per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. e di esecuzione provvisoria ex art. 642 c.p.c.
Altro effetto decorrente dalla comunicazione dell’invito è quello di interrompere il decorso della prescrizione (analogamente all’ordinaria domanda
giudiziale) e la decadenza; quest’ultima, però, è impedita per una sola volta
e, in caso di rifiuto, mancata accettazione dell’invito o mancato accordo, da
questo momento ricomincia a decorrere il termine per la proposizione della
domanda giudiziale.
Se l’invito è accettato si giunge allo svolgimento della negoziazione vera e
propria, la quale può avere:
a) esito positivo, e l’accordo è sottoscritto dalle parti e dagli avvocati;
b) esito negativo, e in questo caso gli avvocati dovranno redigere la dichiarazione di mancato accordo.
L’accordo costituisce titolo esecutivo e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e
deve essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell’art. 480, co. 2, c.p.c.
Il procedimento
Accanto alla negoziazione facoltativa il legislatore ha
previsto anche ipotesi di negoziazione assistita obbligatoria per le azioni riguardanti il risarcimento del danno da circolazione
di veicoli e natanti e per le domande di pagamento a qualsiasi titolo di som-
La negoziazione obbligatoria
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me, purché non eccedenti 50.000 euro e non riguardanti controversie assoggettate alla disciplina della c.d. «mediazione obbligatoria».
Nei suddetti casi l’art. 3 D.L. 132/2014 dispone che «l’esperimento del procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della domanda giudiziale».
L’improcedibilità deve essere eccepita, non oltre la prima udienza, dal convenuto, a pena
di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice. Qualora, la negoziazione assistita sia già
iniziata ma non conclusa, il giudice provvederà a fissare l’udienza successiva dopo la
scadenza del termine fissato dalle parti per la durata della procedura di negoziazione e indicato nella convenzione stessa. Qualora, invece, la negoziazione non sia ancora stata
esperita, il giudice, oltre a provvedere alla fissazione dell’udienza successiva assegna
contestualmente alle parti un termine di quindici giorni per la comunicazione dell’invito. Va da sé che se l’invito è seguito da un rifiuto o da una mancata risposta entro trenta
giorni dalla ricezione, ovvero quando è decorso il termine per la durata della negoziazione
concordato dalle parti, la condizione di procedibilità può considerarsi avverata.
L’art. 6, D.L. 132/2014, conv. in L. 162/2014, si occupa
La negoziazione in materia di separazione e didella negoziazione assistita in materia di separazione
vorzio
e divorzio.
La norma prevede che tramite la convenzione di negoziazione assistita (da almeno
un avvocato per parte) i coniugi possono raggiungere una soluzione consensuale
di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del
matrimonio nonché di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio.
Se non ci sono figli, l’accordo è sottoposto al vaglio del p.m., il quale, se non
ravvisa irregolarità, comunica il nulla-osta agli avvocati.
Se, invece, ci sono figli, il p.m., al quale va trasmesso l’accordo concluso entro
10 giorni, lo autorizza solo se risponde al loro interesse. Qualora ritenga che
l’accordo non risponda all’interesse dei figli, lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, il quale dispone la comparizione delle parti,
provvedendo senza ritardo.
Una volta autorizzato, l’accordo è equiparato ai provvedimenti che definiscono gli analoghi procedimenti giudiziari.
Dopo la sottoscrizione della convenzione di negoziazione l’avvocato ha l’obbligo di trasmetterne copia autentica entro 10 giorni, pena una sanzione amministrativa pecuniaria da 2.000 a 10.000 euro, all’ufficiale di stato civile per
tutti gli adempimenti necessari (trascrizione nei registri di stato civile, annotazioni sull’atto di matrimonio e di nascita e comunicazione all’ufficio anagrafe).
Infine, l’art. 12, D.L. 132/2014, conv. in L. 162/2014,
Separazione e divorzio
«fai da te»
prevede la separazione e il divorzio «fai da te». La norma,
infatti, consente ai coniugi di recarsi direttamente dall’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza di entrambi, di uno di essi o del Comune presso
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cui è iscritto o trascritto il matrimonio, per concludere «un accordo di separazione personale o di divorzio ovvero di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio».
L’ufficiale di stato civile riceve da ciascuna delle parti personalmente la dichiarazione che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del
matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo le condizioni concordate. Allo
stesso modo si procede per la modifica delle condizioni di separazione o di
divorzio.
Quindi, viene compilato e sottoscritto l’accordo, che produce gli stessi effetti dei provvedimenti giudiziali.
Questa procedura accelerata riguarda soltanto chi decide di separarsi o divorziare consensualmente e non ha figli minori, maggiorenni incapaci o economicamente non autosufficienti ovvero figli portatori di handicap grave.
Inoltre, è previsto infine un ulteriore divieto: l’accordo non può contenere
patti di trasferimento patrimoniale. In tal caso, l’unica strada possibile è
quella della negoziazione assistita davanti al legale o la tradizionale via del
tribunale.
La negoziazione assistita assegna un ruolo determinante agli avvocati, ai quali sono attribuiti determinati
poteri e doveri.
Oltre all’obbligatorietà dell’assistenza di uno o più legali (art. 2, co. 5, D.L.
132/2014), agli avvocati sono attribuiti poteri di autentica e di certificazione
delle sottoscrizioni autografe delle parti, della dichiarazione di mancato accordo nonché della conformità della convenzione alle norme imperative e
all’ordine pubblico.
Inoltre, «è dovere deontologico per gli avvocati informare il cliente all’atto
del conferimento dell’incarico della possibilità di ricorrere alla convenzione
di negoziazione assistita» (art. 2, co. 7).
Gli avvocati e le parti devono comportarsi secondo lealtà e devono tenere
riservate le informazioni ricevute nel corso della procedura, non potendole
utilizzare nell’eventuale giudizio avente il medesimo oggetto, né potendo le
stesse costituire oggetto di deposizione da parte dei difensori.
La violazione delle prescrizioni costituisce illecito disciplinare, mentre costituisce illecito deontologico per l’avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato.
Infine, l’art. 11 prevede l’obbligo per l’avvocato, di trasmettere, a fini di raccolta dati e monitoraggio, copia dell’accordo raggiunto a seguito di negoziazione al proprio Consiglio dell’ordine o a quello del luogo dove l’accordo
Il dovere deontologico di
informare il cliente
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stesso è stato concluso, mentre l’art. 6, co. 4, obbliga l’avvocato della parte a
trasmettere, entro 10 giorni, la copia dell’accordo di negoziazione in materia di separazione e divorzio all’ufficiale dello stato civile del Comune.
7.Rapporti con i terzi
L’avvocato ha il dovere di rivolgersi con correttezza e con rispetto al personale giudiziario (giudici, cancellieri, ufficiali giudiziari, etc.), al proprio personale dipendente e a tutte le persone con le quali venga in contatto nell’esercizio della professione e, nei rapporti interpersonali, deve comportarsi in modo
tale da non compromettere la fiducia dei terzi sulla sua capacità di adempiere i doveri professionali e la dignità della professione (art. 63 cod. deont.).
Così, egli è tenuto a provvedere regolarmente all’adempimento delle obbligazioni assunte nei confronti dei terzi (si pensi, ad esempio, all’obbligo di
rimborso di un finanziamento). Tale obbligo, di natura deontologica oltre che
giuridica, mira a tutelare l’affidamento dei terzi nella capacità dell’avvocato di
rispettare i propri doveri professionali e la negativa pubblicità che deriva
dall’inadempimento si riflette sulla reputazione del professionista, ma ancor
più sull’immagine della classe forense (Cnf 27/2015). Pertanto, l’inadempimento di obbligazioni estranee all’esercizio della professione assume carattere di illecito disciplinare quando, per modalità o gravità, sia tale da compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi (art. 64 ord. deont.).
La violazione di tali doveri comporta la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da 2 a 6 mesi (art. 64, co. 3, cod.
deont.).
Anche la mancata corretta trascrizione della data dell’udienza in agenda denota sicuramente un comportamento negligente dell’avvocato nello svolgimento della sua attività e
del mandato professionale, che non lo può mandare esente da responsabilità disciplinare
per il solo fatto che tale colpevole dimenticanza non abbia prodotto danni alla parte assistita o non abbia avuto rilievo specifico nello svolgimento del processo.
8.Elezioni forensi
L’avvocato chiamato a far parte delle istituzioni forensi deve adempiere l’incarico con diligenza, indipendenza e imparzialità.
Se partecipa, in qualità di candidato o sostenitore di candidati, all’elezione di
organi rappresentativi dell’avvocatura, deve comportarsi con correttezza, evi-
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Parte terza La deontologia forense
tando forme di propaganda e iniziative non consone alla dignità delle funzioni.
Nella sede di svolgimento delle elezioni e durante le operazioni di voto (art.
69 cod. deont.):
—è vietata ogni forma di iniziativa o propaganda elettorale;
—è consentita soltanto l’affissione delle liste elettorali e di manifesti contenenti le regole di svolgimento delle operazioni.
La violazione, da parte dell’avvocato chiamato a far parte delle istituzioni
forensi, del dovere di adempiere l’incarico con diligenza, indipendenza e imparzialità, comporta la sanzione disciplinare della censura, mentre la violazione del divieto di propaganda comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento.
9.La testimonianza dell’avvocato
Salvo casi eccezionali, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto, e deve astenersi dal deporre sul contenuto di
quanto ha appreso nel corso di colloqui riservati con i colleghi nonché sul
contenuto della corrispondenza riservata intercorsa con questi ultimi (art. 51
cod. deont.).
L’obbligo per l’avvocato di astenersi dal deporre come testimone si fonda sulla necessità di
garantire che, attraverso la testimonianza, il difensore non venga meno ai canoni di riservatezza, lealtà e probità cui è tenuto nell’attività di difesa, rendendo pubblici fatti e circostanze
apprese a causa della sua funzione e coperte dal segreto professionale (Cnf 172/2013).
Qualora intenda presentarsi come testimone o come persona informata sui
fatti l’avvocato non deve assumere il mandato e, se lo ha assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo. La violazione di tali doveri comporta la sanzione
disciplinare della censura. È rimessa alla libera valutazione dell’avvocato la
scelta di assumere o meno la veste di testimone in un giudizio civile i cui fatti
gli siano noti, con l’obbligo, in caso positivo, di rinunciare al mandato difensivo senza più poterlo riassumere e curando di evitare che oggetto della testimonianza siano circostanze di fatto ed elementi di difesa da considerarsi coperti dal dovere di segretezza, affinché non venga arrecato pregiudizio alla
parte rappresentata (Cnf 15/2006).
Ovviamente, l’obbligo, per l’avvocato, di rinunciare al mandato senza poterlo
riassumere qualora intenda presentarsi come testimone opera soltanto nel medesimo processo che vede l’avvocato svolgere l’ufficio di difensore e si
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fonda sulla necessità di evitare la commistione di ruoli, cioè che l’avvocato si
trovi contemporaneamente a rivestire la funzione di difensore e quella di testimone nel medesimo processo; nulla invece la norma dice in relazione all’eventuale testimonianza da rendere in un processo diverso da quello nel quale
l’avvocato è difensore, non potendosi vietare in assoluto il diritto-dovere del
cittadino comune, seppure avvocato, di rendere testimonianza, salva la possibilità di avvalersi del vincolo del segreto professionale per sottarsi (Cnf 172/2013).
10.Avvocati stabiliti e abuso del diritto dell’Unione europea
In base alla normativa europea sul reciproco riconoscimento dei titoli abilitanti all’esercizio di una professione, il soggetto munito di un titolo equivalente a
quello di avvocato conseguito in un paese membro dell’Unione europea, qualora voglia esercitare la professione in Italia, dispone di due possibilità:
—chiedere al ministero della giustizia l’immediato riconoscimento del titolo,
ai sensi del D.Lgs. 206/2007, nel qual caso è tenuto al superamento di
un’apposita prova attitudinale, oppure
—avvalendosi del meccanismo di stabilimento e integrazione di cui al D.Lgs.
96/2001, chiedere l’iscrizione nella sezione speciale dell’albo degli avvocati del foro nel quale intendere eleggere domicilio professionale in Italia,
nel qual caso, dopo un triennio di effettiva attività svolta d’intesa con un
legale iscritto nell’albo italiano, avrà il diritto di essere iscritto nell’albo
ordinario con il titolo di avvocato, senza necessità di sostenere alcuna prova attitudinale (Cass. S.U. 28340/2011).
Durante il periodo dei tre anni l’avvocato rientrerà nella categoria dei cd. avvocati stabiliti, e
dunque:
— viene iscritto in un’apposita sezione dell’albo;
— nello svolgere attività giudiziale deve agire di intesa con un professionista dello Stato
ospitante abilitato a esercitare la professione con il titolo di avvocato, non sussistendo
invece alcuna limitazione rispetto all’attività stragiudiziale;
— per poter esercitare innanzi alla Cassazione e alle altre giurisdizioni superiori, oltre a
dover agire d’intesa con un professionista dello Stato ospitante, deve dimostrare di aver
esercitato la professione nella Comunità europea per almeno 12 anni, compresi quelli
eventualmente già esercitati come avvocato stabilito;
— deve rispettare le norme legislative, professionali e deontologiche dettate dall’ordinamento italiano;
— non può avvalersi del titolo di avvocato italiano;
— deve sottostare al potere disciplinare del competente consiglio dell’ordine.
Trascorsi regolarmente i tre anni l’avvocato, se dispensato dalla prova attitudinale, diventa
integrato, ossia in tutto equiparato al professionista del Paese ospitante.
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Il D.Lgs. 96/2001 ha recepito la direttiva 98/5/CE sul diritto di stabilimento, che
consente agli avvocati europei di svolgere l’attività forense in uno Stato europeo
diverso da quello nel quale gli stessi hanno conseguito il titolo professionale.
La ratio sottesa a questa normativa è quella di promuovere la libera circolazione degli avvocati europei.
A distanza di qualche tempo dal recepimento della menzionata direttiva in
Italia pare, tuttavia, che la normativa europea sia stata utilizzata soprattutto per
intenti ulteriori rispetto a quelli previsti e consentiti dal legislatore europeo.
La direttiva di stabilimento è diventata lo strumento utilizzato da parte di alcuni aspiranti avvocati italiani per eludere la disciplina interna e, in particolare,
per sottrarsi all’esame necessario per poter acquisire la necessaria abilitazione
all’esercizio della professione forense in Italia. Negli ultimi anni si è addirittura assistito alla nascita di molteplici associazioni e/o scuole volte unicamente
ad assistere il candidato nell’iter volto a ottenere il titolo abilitativo all’estero.
A tale proposito il Cnf, con ordinanza n. 1/2013, ha effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea a titolo di giudice speciale delle impugnazioni sui provvedimenti di diniego di iscrizione da parte
dei consigli dell’ordine locali, chiedendo se l’art. 3 della direttiva 98/5/CE,
volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno
Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, tenendo
conto del principio generale dell’abuso del diritto e dell’art. 4, paragrafo 2,
TUE relativo al rispetto delle identità nazionali, debba essere interpretato nel
senso di obbligare le autorità amministrative nazionali (consigli dell’ordine) a
iscrivere nell’elenco degli avvocati stabiliti cittadini italiani che abbiano realizzato contegni abusivi del diritto dell’Unione, e osti a una prassi nazionale
che consenta a tali autorità di respingere le domande di iscrizione all’albo
degli avvocati stabiliti qualora sussistano circostanze oggettive tali da ritenere
realizzata la fattispecie dell’abuso del diritto dell’Unione, fermi restando, da
un lato, il rispetto del principio di proporzionalità e non discriminazione e,
dall’altro, il diritto dell’interessato di agire in giudizio per far valere eventuali
violazioni del diritto di stabilimento, e dunque la verifica giurisdizionale dell’attività dell’amministrazione.
Con il secondo quesito il Cnf chiede se l’art. 3 della direttiva 98/5/Ce, debba
ritenersi in contrasto con l’art. 4, paragrafo 2, TUE nella misura in cui consente l’elusione della disciplina di uno Stato membro che subordina l’accesso alla
professione forense al superamento di un esame di Stato laddove la previsione
di siffatto esame è disposta dalla Costituzione di detto Stato e fa parte dei
principi fondamentali a tutela degli utenti delle attività professionali e della
corretta amministrazione della giustizia.
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Dai dati raccolti dal Cnf il 92% degli avvocati iscritti nell’albo degli avvocati
stabiliti è di nazionalità italiana. Tra questi l’83% ha conseguito il titolo in
Spagna e il 4% in Romania. I dati dimostrano con palese evidenza che l’istituto del diritto di stabilimento è per lo più utilizzato da molti come strumento
elusivo dell’esame di Stato. La «via spagnola» sembra dunque essere ancora
quella più battuta in tali fenomeni di abuso del diritto; evidentemente neanche
la recente riforma dell’accesso alla professione forense spagnola (legge
34/2006), ormai entrata a regime, ha modificato sostanzialmente la situazione,
pur rendendo meno automatico l’ottenimento del titolo di abogado.
L’ultima parola sull’annosa vicenda è pertanto affidata alla Corte di giustizia
dell’Unione europea.
Questionario
1.A quali soggetti si applicano le norme deontologiche? (par. 1)
2.A chi è affidata l’interpretazione delle norme deontologiche? (par. 1)
3.In cosa consiste l’indipendenza della professione forense? (par. 2)
4.Mediazione e negoziazione assistita (par. 6)
5.Quali obblighi deve osservare l’avvocato nei rapporti con i terzi? (par. 7)