atti del convegno letterario ADI-SD

Transcript

atti del convegno letterario ADI-SD
a t t i d e l c o n v e g n o l e t t erario ADI-SD
a cura di Barbara Peroni
Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia
foto di copertina: Michele Benvenuti
progetto grafico: www.miteintransigente.it
stampato da Color Print. Milano, Febbraio 2004
In questo volume sono raccolti gli ATTI del Convegno “Milano da Leggere”,
organizzato dalla associazione ADI-SD, tenutosi all’Università Statale di
Milano il 5 e 4 Dicembre 2003.
Lo scritto mantiene i caratteri della comunicazione orale, rispecchiandone l’immediatezza e la estemporaneità. E’ la trasposizione fedele di tutte le
relazioni.
Un doveroso ringraziamento va al prof. Mario G. Dutto, Direttore
Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia, che ha permesso
questapubblicazione.
Per ultimi, non certo per importanza, si ringraziano i Professori
dell’Università Statale di Milano Francesco Spera, Vittorio Spinazzola, Bruno
Falcetto che con generosa disponibilità e grande professionalità hanno presieduto rispettivamente la prima, la seconda e la terza sessione dei lavori.
Barbara Peroni, Direttivo ADI-SD
Indice
Presentazione del convegno e saluto delle autorità
-
-
-
p. 9
Raffaele Donnarumma (Scuola Normale di Pisa)
Gadda e Milano: mito e demistificazione.
-
-
-
p. 15
Pietro Cataldi (Università per gli Stranieri Siena)
Montale a Milano.
-
-
-
p. 27
Claudio Milanini (Università Statale di Milano)
Carlo Porta poeta europeo.
-
-
-
p. 38
Paolo Giovannetti (IULM Milano)
Il porto di Milano: gli spazi aggreganti della poesia.
-
-
p. 49
Roberto Bigazzi (Università di Siena)
La Milano di Verga.
-
-
-
p. 60
Giovanna Rosa (Università Statale di Milano)
"L’illustre tradizione lombarda"
-
-
-
p. 70
Vincenzo Consolo (scrittore)
La patria immaginaria: l’emigrazione impossibile.
-
-
p. 82
Mario Mentaschi (Studioso della storia postale italiana)
Vicende storico-postali della Lombardia nel 1859.
-
-
p. 93
Emanuele Zinato (Università di Padova)
La città e la bomba. Le controstorie milanesi di Bianciardi e Volponi.
p. 97
Raffaele De Berti (Università Statale di Milano)
Nascita di una metropoli. Milano sullo schermo tra realtà e immaginario.
p. 106
Francesco Varanini (Università di Pisa )
Milano tra letteratura e industria: come nell’Italia contemporanea
l’industria si fa letteratura e la letteratura si fa industria.
p. 117
7
Presentazione del convegno:
Apertura dei lavori
BARBARA PERONI
Direttivo ADI-SD
Buongiorno e benvenuti a tutti, grazie di essere intervenuti così numerosi ed interessati.
So che ringraziare è cosa rituale, ma il mio ringraziamento vorrebbe non essere un atto dovuto, non vorrebbe essere né formale né retorico.
Mi sembra invece un momento bello e prezioso trovarsi per due giorni a
lavorare in questa bellissima università.
Ringrazio il Direttore Generale dell'Ufficio Scolastico Regionale
Mario Dutto, che ha sostenuto il convegno, lo ha reso possibile, fin dal
primo momento è stato un nostro fautore.
Ringrazio il Rettore di questa università, Enrico Decleva, che ci
ospita per due giorni. Ringrazio poi la Megalibri per l'aiuto nella diffusione della notizia di quest'evento e le ragazze dell'Istituto Gentileschi che
ci aiutano nello svolgimento della organizzazione.
Vorrei spendere due parole per presentare l’ADI-SD e dire che cosa
ha significato per noi la nascita di questa associazione, sono presenti qui
tante persone del direttivo venute anche da lontano…
L’associazione è nata ufficialmente nel Febbraio del 2001, con
l’investitura dell'allora ministro De Mauro, ed è stata voluta sia da docenti
universitari, appartenenti alla cosiddetta ADI “madre”, sia da insegnanti delle
scuole superiori, in una iniziativa congiunta per “parlare insieme”, per dare
vita a un laboratorio di esperienze comuni, e condividere non solo il mestiere
di insegnanti, ma anche tutte le problematiche più nascoste, per cercare di
rispondere alla esigenza di alzare la qualità dello studio dei nostri studenti.
I presupposti ideologici condivisi, ed ogni giorno più validi, a partire
dai quali abbiamo unito le nostre forze sono stati principalmente due: fondere
insieme le energie delle università e delle scuole secondarie, (siamo convinti
che sia assolutamente necessario creare un collegamento permanente), e poi la
convinzione che la letteratura sia fondamentale nella formazione di tutti.
Quindi ci muoviamo con la fiducia nella forza della area umanistica e
nella sua vitalità per valorizzare una identità comune, nazionale, e sovranazionale. Il nostro impegno è stato in questi anni rivolto ad attività di formazi9
one ed aggiornamento, siamo diventati da un anno e mezzo una associazione
qualificata presso il MIUR, abbiamo organizzato diversi convegni nazionali;
ma forse la caratteristica più significativa è il lavoro dell’ADI-SD nelle realtà
locali (conferenze-seminari- incontri- dibattiti), sono qui tante colleghe che
rappresentano quasi tutta l’Italia a testimoniarlo.
C’è poi da un po’ di tempo la collaborazione con l’INDIRE per la
formazione on-line, assieme a molte altre attività… ma non voglio dilungarmi,
perché altro aggiungerà domani la vicepresidente dell’associazione.
Riprendendo ciò che ci ha mosso: pensiamo che insegnare sia una
scommessa: allora proviamo a vincerla. A scuola siamo abituati a sentir parlare di contratto formativo, competenze, valutazione, è un linguaggio “scolastichese” che alle volte abbiamo preso in giro, siamo però certi che se saremo
capaci di allargare le nostre competenze, aggiornarci e studiare, sapremo
insegnare meglio, sapremo trasmettere non solo nozioni, ma affrontare in
maniera seria e scientifica tutti i saperi e le possibilità dei saperi.
Due anni fa il primo passo dell’ADI-SD Lombardia era stato l’organizzare
proprio in quest’Aula Magna il convegno “Storia e storie” con l’associazione
degli storici, la CLIO, con la quale speriamo di collaborare anche in futuro. Oggi
ci presentiamo da soli ad affermare il valore della letteratura, letteratura che ci
auguriamo continui ad avere un ruolo forte, in ogni scuola, proprio perché siamo
convinti della forza del testo letterario, come depositario di Storia, di significato
con tutta la sua offerta di interpretazioni nuove e personali.
Da tutte questa premesse, è nato “Milano da leggere”. Il convegno
avrebbe l’ambizione di aprire un dibattito costruttivo, uno scambio di esperienze comuni tra insegnanti universitari e della scuola secondaria, dalle
relazioni di queste tre sessioni speriamo si potranno trarre nuove idee e
proposte ed anche forse spunti per i programmi didattici.
Oggi proponiamo un dialogo con la città di Milano e con tutto l’immaginario
collettivo ad essa legato, non certo in senso campanilistico, ma per valorizzare una
identità culturale comune alla base della nostra educazione letteraria, per poi da
Milano abbracciare gran parte della storia letteraria ed aprirci da uno spazio più ristretto ad un panorama culturale più completo, dal particolare all'universale.
Per questo non abbiamo voluto chiuderci soltanto in scrittori milanesi, ma
abbiamo cercato di scegliere tanti artisti che hanno avuto rapporti con Milano.
Milano emerge come la città dove gli scrittori, i registi, gli editori hanno
visto e vissuto turbamenti, ricchezze di esperienze, nevrosi, illusioni. La caratteristica
che accomuna tutte le relazioni che sentirete è proprio il parlare di Milano in senso
problematico. La problematicità della città, la sua cultura, i suoi spazi, Milano polo
di attrazione, ma anche di disillusione, per illustri milanesi e illustri immigrati...
Non è casuale la scelta dell’immagine della stazione centrale sul manifesto del convegno: la stazione è il punto fisso della mappa geografica dell’immaginario milanese.
Milano crocevia emblematico del rapporto tra l’intellettuale-individuo e i grandi
problemi sociali.
Chiudo leggendo una frase di Franco Loi, pubblicata pochi giorni fa
in uno dei suoi libretti dedicati alla città: “non ci deve essere assolutamente
nostalgia, perché la nostalgia è maligna, e va assolutamente evitata. Bisogna
invece cercare la memoria, perché la memoria è l’essenza della scrittura, e la
10
memoria salva le cose che vanno consegnate”. Loi si riferiva a Milano, ma
credo che si possa allargare il discorso a tutta la nostra letteratura.
Passo la parola al professor Francesco Spera che gentilmente presiederà la
prima sessione di questo convegno.
FRANCESCO SPERA
Presidente del Corso di Laurea in Lettere dell’Università Statale di Milano
Do il benvenuto ai partecipanti al convegno “Milano da leggere”, anche a nome del
Magnifico Rettore dell’Università degli studi di Milano, professor Enrico Decleva,
e del Preside della facoltà di Lettere e filosofia, professor Fabrizio Conca. Il mio è
un messaggio di saluto e di augurio di buon lavoro, ma anche di vivo apprezzamento
per questa iniziativa. Come università auspichiamo che queste esperienze possano
continuare e incrementarsi, proprio perché riteniamo fondamentale un rapporto sempre più stretto con il mondo della scuola. Le vicende di questi ultimi anni di fatto
hanno già facilitato un irreversibile avvicinamento, dal momento che università e
scuola cooperano alla nuova esperienza della SSIS, alla scuola per la formazione dei
docenti. E quando si lavora insieme, ci si conosce di più e si innesca un processo
positivo che induce a ulteriori collaborazioni. La SSIS era nata tra difficoltà e scetticismo, imponendo all’università carichi di lavoro, dal punto di vista della qualità
e quantità, imprevisti e molto impegnativi. Dopo alcuni anni di rodaggio si può dire
che il meccanismo ormai funziona a pieno regime e con risultati molto buoni. Non
voglio dire che tutti i problemi siano stati risolti, ma siamo certamente soddisfatti
del progressivo processo di miglioramento che verifichiamo anno per anno grazie
all’impegno convinto dei docenti universitari e dei docenti scolastici che collaborano
con noi. Si ricordi che nella nostra facoltà abbiamo numeri molti alti di iscritti: tre
indirizzi per una decina di abilitazioni e circa settecento specializzandi per anno, che
richiedono il coinvolgimento, a vario titolo, di oltre cento docenti strutturati. È un
fenomeno quindi estremamente rilevante e d’importanza strategica per la facoltà.
D’altra parte questi numeri ci hanno portato a intrecciare rapporti con molte scuole
lombarde e a coinvolgere moltissimi docenti di scuola media inferiore e superiore:
alcuni sono ufficialmente “comandati” per seguire specificamente il tirocinio, altri
collaborano in moduli e laboratori, altri ancora accolgono gli specializzandi nei loro
istituti per calarli nel vivo dell'attività didattica.
L’irruzione della SSIS nella vita universitaria ha avuto anche ulteriori
conseguenze, in particolare ha favorito un risveglio di interesse nei confronti dello
sbocco professionale prevalente per alcuni corsi di laurea, come ad esempio Lettere.
Non a caso proprio nell’attuale triennio di Lettere abbiamo istituito laboratori
sull’insegnamento e sull’istituzione scolastica che hanno avuto un notevole successo,
a dimostrazione che anche gli studenti sono interessati ad ascoltare presidi e docenti
chiamati a illustrare i caratteri essenziali di una didattica moderna, il profilo della
professione, i problemi generali della scuola in un periodo di profondi mutamenti.
11
Difatti oggi emerge un parallelismo significativo fra scuola e università, che stanno
vivendo una situazione di trapasso, che possiamo definire - senza entrare nel
merito - di travagliata trasformazione. Questa condizione parallela credo che abbia
avvicinato i due mondi e abbia migliorato l’approccio universitario alla didattica. La
riforma del cosiddetto 3+2, il triennio di base e il biennio specialistico, ha comportato il ricorso a diverse modalità didattiche (non più soltanto la lezione frontale
e qualche seminario). Il docente ha preso atto della necessità di dover calibrare il
proprio intervento secondo il diverso discente che gli sta di fronte e secondo gli obiettivi che quel determinato corso si propone. Naturalmente i professori universitari
vogliono essere insieme docenti e ricercatori, secondo un binomio inscindibile che è
peculiare dell’università (e in questi tempi, con le difficoltà in cui si dibatte la ricerca,
è ancora più obbligatorio ribadire questo principio).
All’università si viene per studiare perché luogo per eccellenza del sapere
(e tale deve restare), ma è altrettanto vero che il frutto della ricerca del docente
universitario deve essere trasmesso al discente nel modo più persuasivo, accessibile alle sue effettive potenzialità. Anche l’università ha scoperto insomma che
bisogna porre al centro dell’attenzione lo studente, uno studente parecchio mutato
rispetto al passato. Tale cambiamento si riscontra perché è cambiata la scuola
superiore, ma perché soprattutto è cambiata e cambia la società in cui viviamo. La
scuola ha scoperto e ha dovuto fare i conti con questo soggetto che è lo studente
attuale ben prima, ma le nuove leve sono ormai arrivate anche all’università: con
la riforma del quinquennio si mira appunto a migliorare il percorso, a calibrare
l’insegnamento mirando verso obiettivi ben individuati e definiti.
Questo processo in atto è tanto più vero rispetto all’insegnamento della letteratura italiana. Il docente di letteratura italiana per anni è vissuto di rendita, grazie
all’importanza che ha sempre avuto la materia in ogni ordine e grado, ma chiunque
vive nella scuola e nell’università sa che oggi gli equilibri tendono a mutare e che
da un po’ di tempo questo ruolo da protagonista va difeso e riconquistato.
Un’associazione come l’ADI dovrà avere anche questo fra i suoi obbiettivi,
promuovendo uno sforzo difensivo della nostra materia ma anche costruttivo, sperimentando e proponendo vie nuove di ricerca e insegnamento. Ogni ricercatore che
insegna avrà come meta prioritaria la ricerca, ma dovrà anche porsi il problema della
più efficace mediazione dei risultati ottenuti. Il convegno sulla “Milano da leggere”
avrà quindi dei risultati scientifici sicuramente garantiti, ma offrirà anche spunti
utili a una rielaborazione didattica di tali risultati. Superfluo ricordare l’importanza
di Milano come città fondamentale per la cultura italiana, che dal Settecento in poi
diventa la città della letteratura (pensiamo agli autori milanesi, ai movimenti che vi
nascono, alle case editrici, ai periodici), ma altrettanto meritevole l’idea di un approccio critico alternativo, che privilegia lo spazio e il tempo, che affronta la fenomenologia storico-culturale di una grande città come Milano, motore trainante del nostro
paese (e per questo tema e per il bel titolo dobbiamo ringraziare la professoressa
Peroni che ha promosso il convegno). Da un lato si dà conto della rappresentazione
della città nei diversi generi letterari, l’attività degli scrittori, il dibattito degli ambienti intellettuali, dall’altro si propongono percorsi critici originali e innovativi, che
possono essere ripresi a qualsiasi livello di insegnamento. Ogni discorso critico è
tanto più convincente se permette un dialogo proficuo con il lettore, tanto più con il
lettore esperto che appartiene alla comunità intellettuale come ricercatore e docente.
12
L’augurio è che ciascun partecipante al convegno possa insomma reinterpretare i risultati qui esposti e rielaborarli ai fini critici e didattici del contesto
in cui opera. La critica letteraria deve essere pensata come un dialogo, che in
partenza riguarda sì gli addetti ai lavori, ma con l’obbiettivo sostanziale di allargare il pubblico, per permettere un’esperienza autentica di letteratura anche ai
lettori più giovani, ai lettori di domani.
MARIO G. DUTTO
Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia
Non ho voluto mancare all’inizio dei lavori di questo convegno; non intendo
rubare del tempo, però mi sembra doveroso portare alla vostra attenzione la
consapevolezza di come l’amministrazione sostenga l’azione delle associazioni
professionali degli insegnanti.
Desidero innanzitutto ringraziare la professoressa Barbara Peroni per
aver organizzato un evento di questo livello: abbiamo dialogato e abbiamo cercato di dare il nostro supporto all’iniziativa.
Noi riteniamo che sempre più lo sviluppo e la crescita professionale
degli insegnanti passi attraverso la partecipazione a quelle che sono le comunità scientifiche dei diversi campi della conoscenza ed è con molto piacere che
vedo presenti in sala non solo come ospiti, ma come partecipanti, gli studenti.
Moltiplicare le occasioni in cui ricercatori, docenti universitari, si incontrano
con gli insegnati delle scuole superiori e con gli studenti significa creare una
comunità aperta. In questo credo che l’ADI sezione didattica sia antesignana di
ciò che vorremmo essere una tendenza più diffusa.
Guardiamo con molto interesse al fatto di aver scelto Milano come punto di
attenzione. I miei collaboratori in diversi campi hanno messo in opera iniziative per
accrescere il senso di appartenenza a questa città: abbiamo varato due edizioni di un
progetto chiamato “Molteplicittà”, che porta studenti delle scuole secondarie superiori all’interno della città per scoprire la ricchezza di Milano e per accrescere anche
l’idea di appartenere ad una grande città di cultura, di esperienza e di tradizione;
quindi il nostro sostegno a questo convegno è stato convinto fin dall’inizio.
Questo convegno mette al centro Milano, la percezione della città attraverso le pagine letterarie ed invita a leggere Milano attraverso queste pagine:
credo sia l’esempio di un buon costume, di come si possa fare cultura e di come
si possano aiutare nuove generazioni ad entrare in sintonia con chi lavora nel
campo della ricerca, soprattutto letteraria, e sia anche una occasione per noi
come amministrazione di dimostrare come si possano sostenere questi processi
senza pensare di monopolizzarli o governarli rigidamente.
Devo in qualche misura anche complimentarmi con i professori della
scuola secondaria superiore: noi abbiamo qualche risultato di un progetto di
valutazione sull’apprendimento degli studenti e per la lingua Italiana abbia13
mo buoni risultati, direi quasi ottimi, in confronto ad altre realtà italiane. In
quest’ottica confermo la nostra disponibilità a sostenere iniziative, perché no
anche periodiche, una sorta di appuntamento annuale che potrebbe rinnovarsi,
nei termini in cui è stato organizzato quello di oggi, su temi simili. Se può
essere utile possiamo anche intervenire per sostenere la diffusione degli atti e
dei prodotti di un Convegno di questo genere, data la rilevanza del tema, ma
soprattutto data la qualità degli esperti che terranno le relazioni.
Ho detto che non intendo rubare altro tempo, noi saremo sempre al vostro
fianco, anche se mi devo scusare di non poter ascoltare le relazioni e partecipare
personalmente ai lavori.
14
RAFFAELE DONNARUMMA
Gadda e Milano: mito e demistificazione
Gadda milanese?
Sulla milanesità di Gadda esiste un vero mito storiografico. Già i primi
recensori notavano, in lui, un’anima lombarda, in cui si univano una cultura
scientifica e positivistica, formatasi al Politecnico; un risentimento satirico e
realistico da far risalire a Parini e Porta; una severità morale di ascendenza
manzoniana; e una tensione stilistica che richiamava quella Scapigliatura che,
com’è noto, è fenomeno essenzialmente lombardo, seppure con una propaggine
piemontese. C’è, in questo mito, una buona dose di verità; ma c’è anche qualche
non lieve forzatura. Da un lato, Gadda aveva poco o nulla a che fare con i Dossi,
i Faldella e i Cagna cui lo si apparentava e che, anzi, si andò a leggere solo
dopo che gli vennero indicati come suoi predecessori. La sua formazione letteraria era anzi robustamente nazionale e se metteva insieme Manzoni, Carducci
e d’Annunzio “come schegge d’una bomba” [SGF I 505], era proprio per
omaggio ai padri di una patria non solo letteraria. Del resto, Gadda è sin dagli
esordi uno scrittore europeo, per capire il quale gioveranno ben più Shakespeare,
Dostoevskij o Zola che non Carlo Porta o l’abate Parini; è uno scrittore attento
come pochi alla grande cultura contemporanea, se il suo precoce ed eccezionale
interesse per Freud si innesta su una base di psicologia positivitica in cui concorrono anche autori lombardi (come Paolo Mantegazza), ma che si svincola da
quei modelli per acquistare subito libertà critica e intellettuale.
Quanto poi al razionalismo di eredità illuministica e al moralismo,
pochi scrittori come Gadda sono stati insofferenti di perbenismi e sedotti
dalle ragioni dell’irrazionale.
D’altro lato, che idea di milanesità presuppone il mito? Un’idea che,
a dire il vero, non pecca per oltraggio al luogo comune: Gadda sarebbe milanese non solo per essersi formato in questa città e per aver contratto un debito
permanente con la sua cultura, ma per razionalismo, moralità, risentimento,
amore delle verità quadrate e generosa insofferenza dell’approssimazione e
dell’irresponsabilità. Sarà un caso che i più convinti fedeli del mito operino
a Milano e in Lombardia? Non ci sarà, in questa costruzione, un sospetto di
interesse privato in atto pubblico? E soprattutto, il mito regge alla lettura
15
di Gadda senza lenti lombarde? Naturalmente, nessuno ha potuto ignorare
la presenza, così ingombrante, del livore antimilanese e antilombardo di
Gadda: ma è parso più utile leggere oltre la lettera, e cercare persino in una
talvolta astiosa satira antimeneghina l’espressione di un’autentica, profonda
milanesità. Il prezzo è stato, però, la rimozione di quella stessa, scomoda
lettera. Così, il mito della milanesità ideale e metaforica di Gadda è diventato un risarcimento contro il suo antimilanesismo anche troppo reale e letterale: dal quale, invece, mi sembra necessario partire.
Inutile, infine, evadere la più semplice, la più brutale delle domande: a chi serve un Gadda milanese? O più precisamente: serve alla scuola
un Gadda milanese? Riterrei un arbitrio imporlo anche solo all’interno di
una città che ha conosciuto e conosce un’immigrazione così massiccia,
dall’Italia e ora dall’Africa e dall’Asia. Un’identità milanese tanto localistica e tanto legata a un certo passato sarebbe, per chi ha altre origini,
una falsificazione: indurrebbe o a un rifiuto polemico e difensivo, o a un
conformismo dettato dal senso di inferiorità, o a un misto di sentimenti, in
cui poco spazio avrebbe un’intelligenza serena. Se poi uscissimo dalla città,
allora ci dovremmo scontrare con tre difficoltà almeno: in primo luogo, la
cultura della Milano tra fine Ottocento e inizio Novecento potrà risultare
distante quanto quella della Firenze di Dante e, in più, non riuscirà a vantare altrettanti motivi di fascino; in secondo luogo, il dialetto lombardo
che Gadda usa e che è orgogliosamente rivendicato dai suoi mitografi è dei
meno esportabili (a differenza, poniamo, del romanesco del Pasticciaccio);
infine, - siamo franchi - c'è da sospettare che in questi anni Milano non
desti sempre, nel nostro paese, entusiasmi diretti e simpatie immediate. Un
pregiudizio, certo; ma un pregiudizio col quale bisogna pure fare i conti. Per
uno studente di scuola superiore, allora, il mito della milanesità di Gadda
sarà più un ostacolo che un incentivo alla sua lettura, più una difficoltà da
superare che un punto d’arrivo.
Le questioni intorno alle quali ci stiamo muovendo sono ovviamente
capitali; e la scuola le affronta con radicalità, proprio perché non può nascondersi dietro la maschera del disinteresse e della scientificità accademiche. Così, non
possiamo ignorare che il mito milanese provochi associazioni ovvie e irriflesse
con l’attualità, in uno studente di scuola superiore come in chiunque. Non voglio
entrare qui nella questione strettamente politica; se non altro perché Milano ha
dato al parlamento nazionale non solo la Lega di Bossi, ma anche un movimento
tutt’altro che regionalista come Forza Italia di Berlusconi (cognome, per altro,
citato da Gadda fra i più milanesi). E lasciamo stare che questa stessa regione in
cui, pochi anni fa, qualcuno minacciava la secessione, era stata nel secolo precedente una delle massime protagoniste del processo unitario (anche se, è bene
ricordarlo, i modi e l’estensione che si sarebbero voluti dare a quel processo non
collimavano perfettamente con quelle che ne furono le forme reali). Il nostro
primo compito, dunque, sarà conservare il senso della distanza storica, evitando
sovrapposizioni indebite e confusioni. La Milano di Gadda è per lo più la Milano
fra le due guerre: anche quando ci sembrerà che i problemi di allora siano quelli
di oggi, occorrerà distinguere, e fermarci a chiedere se quell’identità sia reale o
solo apparente.
16
C’è poi una questione culturale anche più vasta e complessa. Credo
che l’attenzione alla geografia della letteratura, necessaria per intendere
intere epoche della nostra storia, non sia lo strumento più adatto a capire il
secolo concluso; e se esprime il bisogno di definire la propria identità in una
generazione ora matura, forse può essere sentito come poco urgente da chi ha,
diciamo, trent’anni e meno, e si è formato in un clima decisamente (anche se
non solo salutarmente) internazionale. Non dispongo di dati sociologici: sospetto però che un diciottenne, ammesso che senta il bisogno di dichiararsi milanese, intenderebbe l’aggettivo in tutt’altro senso da quelle probe virtù civiche
attribuite sopra alla milanesità di Gadda. Riconoscere le proprie radici locali
è sempre necessario; ma richiede onestà, per non diventare un atto parziale
o addirittura mistificatorio. Possiamo anche credere, nietzscheanamente, che
ogni tradizione sia inventata; ma qualcuna lo è un po’ troppo, o in modo un po’
troppo interessato. Il localismo appartiene, spesso, a questa seconda categoria;
e altrettanto spesso ha come obbiettivo polemico l’integrazione. Certo, appunto
l’integrazione sembra la strada più difficile: società realmente multietniche,
come quella statunitense, sembrano avere presa la via di una convivenza forzata,
in cui i singoli gruppi etnici e religiosi rivendicano la loro autonomia con più
forza di quanto non cerchino il dialogo. E’ un modello che fa di necessità virtù,
e che cerca di trasformare l’esclusione patita e il razzismo subito in scelta di
separatezza e volontà di autoaffermazione. Ma è questo che vogliamo?
Molti dubbi, dunque, a cui non possono essere date risposte sempliciste.
Almeno, evitiamo qualche equivoco. Il rapporto fra globalizzazione e localismo (una variante di quello che, altrimenti, chiamano comunitarismo) è troppo
organico e fitto per consentire la liquidazione di uno dei due termini. Non si
vive a Milano come si vive a Roma, a Napoli o a Palermo, ma neppure a Pavia
o a Brugherio; e, a dirla tutta, non si vive a Quartoggiaro come si vive a Brera.
Certo anche quando ci trasferiamo in una città diversa da quella in cui siamo
nati e cresciuti, il suo passato agisce su di noi. Eppure, quel passato è in genere
più contraddittorio di come vorrebbero immaginarlo i localisti; e il presente,
in qualche misura, più in tensione con esso. Oggi parleremo soprattutto di una
Milano del passato, per farla reagire sia con il mito di un Milano scomparsa, sia
con le immagini diverse e contrastanti che noi, oggi, abbiamo di Milano. Resta
la libertà di ognuno; e resta la necessita di scegliere fra un’idea di cultura come
spazio dell’affermazione di un sè individuale o collettivo, e un’idea di cultura
come spazio aperto di incontri e conflitti.
Una brutta e mal combinata città.
Di tirate e di sarcasmi contro Milano, l’opera di Gadda trabocca.
“Milano è una brutta e mal combinata città”, sentenzia Libello (1938) prima
di accanirsi contro una “bruttezza” architettonica neppure scompagnata da una
certa tristezza climatica. Palazzi sbilenchi, mal divisi, dal retro e dalle fiancate
indecorose, rivelano una schiavitù alla “necessità economica”, un “troppo fiducioso abbandono e trascuranza dei valori non tangibili dell’intelletto”: a vincere
sono un’ottusa acquiescenza al senso comune (“èm semper fà inscì’”) e un individualismo renitente alla “disciplina organizzatrice” (“mì foo come voeri mì”)
[SGF I 87, 89, 91, 92].
17
Incultura, pressappochismo, e soprattutto mancato senso del bene pubblico: Milano appare a Gadda come l’anti-utopia, la città reale deformata
dall’assenza di valori razionali, etici, civili. Su quei valori, tuttavia, non
bisogna farsi troppe illusioni. Da un lato, Gadda contrappone a questo disordine la risistemazione di via Dante, del Foro Bonaparte e di piazza Castello
avvenuta fra 1875 e 1895 e che rimanda al decoro di un’Italia umbertina, che
non so quanti, fra i presenti, rimpiangeranno; dall’altro, plaude ai “nuovi
edifici a portici di piazzale Fiume”, esempio di risistemazione urbanistica
fascista. Perché appunto nella disciplina, nel dirigismo e nel nazionalismo
fascista il Gadda di questi anni crede. Tanto che, in un articolo del 1936
(Anno XIV, restauri del Duomo), non esita a celebrare l’“alto e illuminato
consiglio del Duce”, promotore dei lavori:
“La Milano fascista anno XIV, e seguenti, è lieta e fiera di recare i nuovi
marmi alla sua “chiesa maggiore” nell’unita e nella perfetta egualità delle
anime [SGF I 807];”
come a dire che solo il Duce può porre freno all’individualismo miope che
ha devastato la città, riportandola a quel senso di comunità civile che aveva
conosciuto, addirittura, nei secoli in cui il Duomo nasceva (del resto, in
Immagine di Lombardia la Milano che fa “Duca il suo condottiero” Franceso
Sforza, sembra preludere non solo allo “stato rinascimentale italiano” [SGF
I 858], ma allo stato corporativo fascista).
“Sono Uggia e Cattivo Gusto ad aver presieduto alla fisionomia della
città”, ci spiega Pianta di Milano - Decoro dei palazzi (1936). Così, da un lato ci
troviamo gli edifici sbilenchi, dissimmetrici e diseguali di una moda cosiddetta
razionale, e che a Gadda pare sommamente irrazionale; dall’altro una passione
esotico-storicista che crea bizzarrie antifunzionali come il cosidetto Kremlino
alla Città degli Studi, presso il Nuovo Politecnico, e che ricorda le ville satireggiate nella Cognizione del dolore. Nell’Uggia e nel Cattivo Gusto, allora, sono
degenerati quella razionalità e quella tradizione che Gadda vorrebbe rinnovati,
e che l'incultura seppelisce. Ma per colpa di chi?
Il Robespierre della borghesia milanese.
Gadda non ha dubbi: la responsabilità dei mali di Milano va attribuita,
anzitutto, alla sua borghesia, di cui egli aspirava ad essere, in una lettera, “il
Robespierre” [LAM 46]. Le virtù che il luogo comune riconosce ai lombardi sono
virtù eminentemente borghesi: operosità, buon senso, volontà di benessere, fattività;
ma sono tutte virtù di cui Gadda denuncia il rovescio, e fa vedere i mali. Il buon
senso è spesso acquiescenza al senso comune; la volontà di benessere si traduce in
ottusità bottegaia e mercantile; la fattività diventa un po’ troppo spicciativa e testarda
(come in Adalgisa: “era di quelle meravigliose donne lombarde che il proprio vigor
di cervello manifestano in pragma (le idee per loro sono atti), cioè in una prescienza
vittoriosa d'ogni obiezione: col postulare dovunque, davanti a chiunque, la certezza
nella propria infallibilità” [RR I 500]). Persino uno scritto nato per una destinazione
francamente celebrativa, e intitolato semplicemente Milano (1953), elogiando civiltà,
operosità, giusta volontà di guadagno, non può trattenersi dal notare che la “discip18
lina” milanese è “talora opaca” [SGF II 1075], e dal lamentare una certa indifferenza
per la complessità del “mondo delle circostanze morali” [SGF II 1077]. Quella milanese, insomma, è una “società laboriosa, ma non colta” [SGF I 88]. L’indagine sulle
forme della pseudo-cultura borghese è, anzi, uno dei soggetti prediletti da Gadda. I
Cavigioni dei Ritagli di tempo, tutti con il “bernoccolo dell’ingegneria”, sono “entusiasti” del Guerin Meschino, un modesto giornaletto che ospita anche poesie in un
milanese un po’ improbabile, da assaporare nella quiete sonnacchiosa del prostprandio. Quanto a letture, non siamo messi meglio. Usciti da una formazione scolastica
“un po’ troppo greve di classicità”, si buttano a capofitto in libri d'intrattenimento,
non privi di pretese e non esenti da qualche prurigine:
Un posto nel mondo, di Virgilio Brocchi, La collana della regina (Maria Antonietta,
beninteso), di Luigi Pedrazzi, Les mèmoires d’une femme de chambre di Octave
Mirabeau, e Il dramma di Mayerling d’un paio di dozzine di drammaturghi e storiografi specializzati in mayerlingheria. [RR I 412].
Ciò che identifica la borghesia milanese è tuttavia, per Gadda, la sua predilezione associazionistica, che si divide fra attività filantropiche e culturali, fra
società Patriatica e Famiglia Artistica Meneghina, fra Tazzinetta Benefica e Circolo
Filologico. Non può mancare la musica: anche se, alla Scala, saranno preferiti teatri
meno eletti, come il Fossati e il Carcano in cui si esibisce la giovane Adalgisa; oppure
i Concerti del Conservatorio, che, con i loro programmi novecentisti suscitano una
pressoché unanime esecrazione:
“La sala “risfolgorava di luci” (negli occhi). Ivi la società musogonica
della città industre, aja di laboriosi pupilli, dopo le molte buone opere, s’aduna
a purgare le sue indigestioncelle farisaiche, i suoi peccatuzzi stitici, col porger
orecchio a quegli altri peccati, un po’ più cipperimerli per fortuna, di Luigi
Dallapiccola o di Igor Strawinski. “Oportet un eveniant scandala”. Il semiarabo
giapponese dal nome cileno fornisce agli imbottiti melomani e melomanesse
del Quadronno e del Pasquirolo quel zinzino di scandolo che ci vuole, giusto,
per potersi decentemente scandolezzare. Nonché indignare, compiacere, inorgoglire. Da potersi congratulare l’un l’altro della propria apertura d’ali. Da poter
fremere od allibire secondo grossezza, trasecolare, sudare.” [RR I 456]
Approvazione o biasimo, non fa differenza: il concerto, come qualunque
occasione culturale, è sottomesso al bisogno di affermare la propria identità, in quanto identità di gruppo. Non si tratta solo di quel filisteismo e di quell’opportunismo
borghesi che si denunciavano almeno da un secolo. La questione non è solo il conformismo sociale, che riduce la cultura a mero ornamento e a fasto di rappresentanza;
né un puro prolungamento dello spirito pratico (quello che promuove “studio delle
lingue (che oggi è la base)” [RR I 412]). Concerti, ritrovi, associazioni sono riti in cui
la borghesia milanese celebra il proprio essere “tribù” (questa la parola che ricorre
nell’Adalgisa), il proprio condividere valori o disvalori, il proprio riconoscersi come
ceto solidale e compatto.
Dunque la “metropoli industre” rivela, inaspettatamente, un carattere provinciale? Dunque la borghesia milanese è, anzitutto, una “somaresca tribù” [RR I
491] che con le sue chiacchiere si seppellisce nella propria ristrettezza di vedute (o
19
“larghezza di vedute”, dice Gadda con ironica antifrasi? [RR I 475 n. 33]) Parrebbe
proprio di si: tanto che la sua violenza non esita a fare vittime fra i renitenti a conformarsi al suo spirito. Cosi, se Adalgisa, censurata per le sue origini popolari, trova
comunque una sua autonomia, Elsa, moglie di un uomo opaco e ottuso come Gian
Maria Cavigioli, soccombe al peso delle convenzioni, e cerca uno scampo nel tradimento con il garzone Bruno (più che nell’Adalgisa, nell’incompiuto Fulmine sul 220
da cui l’Adalgisa è tratta).
Questo spirito tribale, del resto, coinvolge tutta la Milano dirigenziale e perciò non risparmia neppure quell’aristocrazia su cui Gadda torna più
volte. E’ vero che, fra borghesia e aristocrazia, permangono delle distanze. La
contessa Eleonora Vigoni (una delle peggiori malelingue, persecutrice sia di
Adalgisa, sia di Elsa) ha una cultura più scelta: la scopriamo così ammiratrice
di Longfellow, Tennyson, Coleridge; eppure, nei suoi accessi di pruderie,
leggendo Swinburne tollera l’ode a Mazzini, ma rabbrividisce “all’idea delle
Lesbie, Faustine, Dolores, Erodiadi, Bersabee e Marie Stuarde varie, di cui
non finiva più, viceversa, d’ingolosirsi la magistrale spasmofilia o algolagnia
del poeta” [RR I 546]. Il conte Agamennone Brocchi, in San Giorgio in casa
Brocchi, non si accontenta di feuilleton, e scrive per il nipote un’Educazione
razionale della gioventù secondo i concetti etici moderni trombonescamente
ispirata a Cicerone. Ma con i loro limiti, i nobili gaddiani non si sottraggono
allo senso tribale della borghesia, cui, anzi, appaiono costantemente confusi:
così, Gian Maria Cavigioli è un “nobiluomo cioccolatiere” [RR I 494], ben
poco distinguibile dai suoi concittadini meno blasonati; e così altri conti e contesse che compaiono nelle pagine dell’Adalgisa o altrove. Neppure la vecchia
aristocrazia, infatti, dimostra una sensibilità culturale vera: il conte Brocchi,
incappato nella Triennale di arte contemporanea, si trova a censurare inorridito
quell’arte novecentesca di cui lo stesso narratore, del resto, ci dà un’immagine
satirica e irresistibilmente comica; mentre la contessa Brocchi, tutta presa da un
terrore bigotto per i mali del secolo, cerca inutilmente di preservare il figlio dal
contagio. La tribù della Milano aristocratico-borghese, insomma, elabora unita
un sistema educativo repressivo, perbenista, conformista.
E’ vero che, di fronte a queste chiusure, i ceti popolari si presentano
talvolta come portatori di valori alternativi: basti pensare, per restare in
Casa Brocchi, a Jole, la cameriera con cui il diciannovenne Luigi scopre i
diritti dell’istinto (o l’orrore del peccato, secondo la madre); o soprattutto
ad Adalgisa che, sebbene faccia di tutto per apparire una “vera signora”,
conserva tuttavia la forza spicciativa e talvolta brutale della popolana. In
ogni caso, Gadda è piuttosto estraneo a tentazioni populiste. La Milano
popolare non è una Milano da idillio. Bruno, il garzone dell’Adalgisa,
è simpaticamente canagliesco, ma pur sempre canagliesco. Gildo nella
Meccanica è addirittura un mezzo teppista, animato da un odio di classe
socialista che Gadda non manca di satireggiare, sino a farne un imboscato
nella Grande Guerra. Quanto a suo cugino Luigi Pessina, che invece in
guerra parte, per morire di tubercolosi, ha un’onestà che Gadda trova un po’
ridicola: socialista autodidatta, formatosi alla Società Umanitaria, ci appare
incrostato di luoghi comuni filantropici e hughiani. Che la moglie Zoraide
finisca per tradirlo con l’aitante Velaschi, che invano i genitori nobili imbo20
rghesiti hanno tentato di sottrarre alla chiamata al fronte, appare alla fine
come il frutto necessario di una sorta di darwinismo sociale. Così alla fine,
con una specie di amaro compenso simbolico, il giovane ricco, bello, forte
e spregiudicato ha la meglio sul popolano buono, onesto, e malato.
Storia senza nostalgie
Il mito di una Milano popolare vitale e ribelle contro una Milano borghese asfissiante e repressiva non ha dunque corso. Nè ha corso un altro mito,
che pure si insinua: quello di una Milano del passato superiore a quella del
presente, abbrutita e infelice. Gadda ammette l’elegia della città che cambia e
scompare - come la Parigi del Cygne di Baudelaire - solo a patto di smorzarla
ironicamente prima, e di negarla narrativamente poi. Così, nell’Adalgisa il
rimpianto per la Milano d’anteguerra è un riflesso anzitutto della giovinezza
scomparsa del narratore, su cui stinge il lutto per gli amici che nella guerra sono
caduti. Quella stessa, del resto, è la Milano contro la quale si è battuta Adalgisa;
o quella delle stoltezze socialiste e delle trame da imboscati della Meccanica;
o ancora, quella dell’“epoca positivistica” (1895-1905), ricordata da una lunga
nota dell’Adalgisa per ritrarne più la desuetudine che i meriti [RR I 553-557], e
riassunta dalle buffe manie collezionistiche e dall’ingenuo scientismo di Carlo
Biandronni, il ragioniere sposato sempre da Adalgisa. Il rimpianto della Milano
umbertina (che, come abbiamo già visto, si salva dalla requisitoria di Libello)
ha certo un significato politico in quanto celebrazione, da parte di un conservatore, di un ordine e di un decoro borghese che il fascismo non saprà restaurare
davvero; e perciò il ricordo di Bava Beccaris può tornare, per il narratore della
Meccanica (non per i suoi personaggi), senza troppe censure [RR II 498]. Ma
è anche il rimpianto di un’infanzia di cui Gadda sa eccezionalmente ritrarre il
senso di avventurosa scoperta, senza nasconderne gli aspetti scomodi e scandalosi. Così Una tigre nel Parco rievoca i giochi infantili al Parco Sempione,
luogo avventuroso per le testimonianze del passato spagnolo e asburgico e per
gli incontri amorosi fra cameriere e soldati; ma smaschera anche le radici della
nevrosi del narratore, rivelandone le perversioni precoci.
La storia, insomma, non sembra consentire altre nostalgie che quelle
private e individuali. Non è del resto un caso che soprattutto la Meccanica, ma
in parte pure l’Adalgisa, si presentino come racconti storici: è ancora che per
l’ambientazione in un passato abbastanza prossimo (1914-1916 e 1931), per la
tendenza a scivolare in epoche anteriori e per l’esibizione di quello scrupolo
documentario e di quella felicita digressiva che il racconto storico richiede. Se
proprio deve cercare una stagione mitica del passato milanese, allora Gadda
celebra il ruolo che Milano ha avuto nel Risorgimento, o retrocede nei secoli,
giungendo al medioevo comunale e all’età sforzesca.
Eppure, sprofondando ulteriormente, anche il passato mitico acquista
tratti problematici. Quali rapporti intrattengono Milano e la Lombardia con la
loro preistoria celtica, con la loro antichità longobarda? Nell’Adalgisa, “ “i clan
del’antica gente”, propri, cioè, dell’antica società gallica. E aggiungi le “fare”
(èlites etniche, aggruppamenti de’ nuovi venuti, in ogni borgo o città) degli
invasori longobardi” [RR I 447, n. 42]: come a dire che lo spirito di consorteria
fa parte del patrimonio storico-genetico della città. Ma il problema è affrontato
21
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
22
PIETRO CATALDI
Montale a Milano
“Abbiamo fatto del nostro meglio per peggiorare il mondo”.
Nel titolo di questo intervento figura, come vedete, una “a”: “Montale
a Milano”. Già il titolo indica dunque come la condizione di Montale sia stata
molto diversa da quella di Gadda, non solo perché Montale non era milanese, ma
anche perché Montale è vissuto a Milano, dirò qui subito, come potrebbe esser
vissuto in una qualunque altra città, come uno straniero e come un estraneo;
indipendentemente dal fatto che abbia stabilito poi rapporti abbastanza stretti
con le varie istituzioni cittadine (basti pensare al <<Corriere della sera>> e alla
Scala), ritagliandosi uno spazio protetto e appartato.
All’interno della annosa, eterna questione della autonomia o eteronomia
dell’arte, ovvero della purezza della poesia e delle sue radici, si colloca anche la
piccola questione specifica di quanto un poeta sia influenzato dai luoghi in cui vive.
Io non so se Montale sia stato soltanto, oltre che un grande poeta, un individuo baciato dal destino, o un astuto, abilissimo formulatore del proprio destino esistenziale.
Quel che è certo è che guardando alla vita di Montale ci si accorge di come tutti gli
elementi apparentemente occasionali e contingenti che la riguardano vadano poi
a intersecarsi con la sua ricerca poetica, fino a diventarne vere e proprie funzioni
interne.
È stato spesso osservato che le grandi figure femminili che presiedono
alla poesia di Montale rappresentano molto bene le esigenze che stanno alla base
della sua ricerca. Ciò è vero già per Arletta, figura della giovinezza, ispiratrice
latente ma operosissima del primo libro, e che continua poi a riemergere come fanciulla morta, come Silvia (o come Nerina) leopardiana in tutta l’opera successiva.
Arletta è la figura di una inadeguatezza a vivere che molto bene serve la ricerca di
Montale all’altezza degli Ossi di seppia, libro dell’indecisione esistenziale e del
destino monco. Quando poi Montale negli anni Trenta si avvicina a una poesia più
intellettualmente impegnata, e anzi individua nella poesia uno degli argini possibili, per la civiltà e per la cultura, rispetto alla barbarie fascista e nazista, e poi alla
guerra, ecco che incontra una ebrea americana studiosa di Dante, Irma Brandeis, da
lui ribattezzata Clizia (la ninfa amata da Apollo). E di nuovo la funzionalità della
27
vita all’arte è tale da suscitare quasi il sospetto di uno scambio impuro, o insomma
di una pretestuosità. C’è poi una terza figura femminile, cui Montale si avvicina
alla fine degli anni Quaranta, la Volpe, cioè la poetessa Maria Luisa Spaziani; e
questa è una figura molto diversa dalle precedenti: è una figura di vitalità, di carnalità, adattissima a costituire l’argine anche ideologico davanti al rischio estremo
delle esperienze di Auschwitz e di Hiroshima, e anche al cospetto della sfiducia
di Montale nei confronti della cultura e della civiltà. C’è infine Mosca, la moglie
Drusilla Tanzi, donna-insetto dalle minime doti di chiaroveggenza, adattissima ad
attraversare l’inferno dell'insensatezza del tardo capitalismo.
Ora, queste figure femminili hanno anche una relazione con i luoghi.
Come è noto, la vita di Montale è segnata da tre dimensioni spaziali: quella
giovanile in Liguria, tra la città natale Genova e le Cinque Terre, quella della
maturità a Firenze tra il ‘27 ed il ‘48 e infine quella della maturità avanzata e della
vecchiaia a Milano a partire dal ‘48 e fino alla morte nell’‘81. Ebbene, queste
tappe geografiche costituiscono anche tappe della ricerca poetica montaliana,
dalla Liguria degli anni Dieci e Venti riversata negli Ossi di seppia, dove Genova
offre quanto basta per aperture cittadine in chiave espressionistica (come in alcune
strofe di Incontro), alla Firenze solariana imbevuta di umanesimo e di cultura che
fa da sfondo e da presupposto alle Occasioni (sono quegli anni Trenta nei quali
Montale dirigeva il prestigioso Gabinetto Vieusseux), alla Milano del secondo
dopoguerra e del miracolo economico, che contiene faticosamente il dibattersi del
poeta tra l’esigenza di trovare un’alternativa alla civiltà occidentale e quella di
tutelarne con scetticismo e ironia i pochi valori che contano. Ecco allora gli abbinamenti Arletta-Liguria, Clizia-Firenze; e quello, più complesso e meno scontato,
che associa Milano tanto alla vitalistica Volpe quanto alla difensiva Mosca.
Ed eccoci, anche, al nostro tema: Montale a Milano. Un tema che propone
subito un enigma: perché Montale, finita la guerra e subito tramontato il breve
periodo di impegno nel Partito d’Azione, si trasferisce a Milano? È quel ‘48 che
vede Montale richiudersi nel suo scetticismo sostanzialmente apocalittico, nel suo
disinteresse per la storia, nel suo antistoricismo radicale e costitutivo; quel ‘48
che vede giungere con L’anguilla a maturazione la rinuncia ai valori della cultura
e della civiltà, la rinuncia alla difesa della funzione intellettuale e civile, a tutto
vantaggio dei valori bassi della corporalità e delle pulsioni sessuali; un momento in
cui la scelta di trasferirsi in una metropoli intrisa di modernità e di sentimento del
progresso appare tutt'altro che ovvia e ragionevole. È interessante vedere, per esempio, la scelta del tutto opposta, e assai più conseguente, compiuta dal corregionale
Sbarbaro, che si ritira in un paese ligure, Spotorno, per appartarsi anche fisicamente
dalla dilagante inautenticità, dall’alienazione e dalla omologazione della civiltà di
massa. Montale fa una scelta opposta rispetto a Sbarbaro: entra inaspettatamente in
un faustiano grande mondo, trasferendosi a Milano per lavorare al << Corriere della
sera >>, per la prima volta sottratto alle situazioni diversamente protette ed appartate,
ma in ogni caso protette ed appartate, costituite fino a quel momento dalla Liguria e
da Firenze (quella della torre d'avorio di << Solaria >> e di <<Letteratura >>); si getta
nel cuore di quel mondo del neocapitalismo, della società di massa, per il quale in
tutti i suoi scritti e nella sua poesia dichiarava il proprio dispetto e il proprio terrore.
Riflettere sui termini di questa scelta imprevista e audace, e magari contribuire a
comprenderne le ragioni, è lo scopo di questo mio intervento oggi.
28
Montale si trasferisce a Milano nel gennaio del ‘48 per lavorare
al << Corriere della sera >> , dove condivide la stanza con Indro Montanelli.
Vive all’hotel Ambasciatori fino all’ottobre del ‘51, per quasi quattro anni,
benché nelle lettere non smetta di lamentarsi della difficile situazione di
dover vivere in albergo, senza poter avere libri e un luogo adeguato dove
studiare. Si trasferisce poi in via Bigli 11, e quindici anni dopo, nel ‘67, al
numero 15. A Milano nel ‘61 riceve la laurea honoris causa.
Il rapporto con Milano è per alcuni aspetti un rapporto non facile, e proprio
su quel versante dell’efficienza che costituisce una tradizione e un vanto della città.
Vale la pena a questo proposito di ricordare un episodio piuttosto divertente. Quando
si era trasferito a Firenze nel ‘27, Montale aveva impiegato poco più di tre mesi per
avere la residenza. Invece a dieci anni dal trasferimento a Milano e nonostante reiterate richieste non è ancora riuscito a ottenere la residenza. Scrive quindi nel ‘58 sul
<< Corriere della sera >> un articolo rivolto al sindaco di Milano, intitolato << Elzevirino.
Lettera al Sindaco >>, in cui innanzitutto spiega come la residenza sia necessaria per
questioni connesse al diritto d’autore; e poi:
“[...]Fra i documenti richiesti: la cittadinanza Italiana. Niente di più facile, perché
io sono ufficiale dell’esercito italiano, e come giornalista sono iscritto all’albo di
Milano, tra i professionisti.
A Milano risiedo da dieci anni, a Milano pago tutte le mie tasse, compresa quella
di famiglia, ma Milano non mi rilascia l’ambìto documento perché non risulto alla
anagrafe: e l’anagrafe (dopo che io ho fatto coda più volte ai suoi inameni sportelli,
compilato moduli ecc.) ha sempre respinto le mie domande con la motivazione che
io non avevo giustificato le ragioni che mi hanno fatto eleggere la residenza milanese. S’intende che se io facessi ulteriori code dinanzi agli sportelli comunali e se
dimostrassi con testimonianze e documenti che non sono un morto di fame e che
la città di Milano può annettermi fra i suoi cittadini senza pericolo per la pubblica
incolumità, io riuscirei a spuntarla.
Ma la vita è breve, onorevole Sindaco prof. Ferrari, e io sono all’estremo
delle mie forze. Resterò così apolide, senza diritto di voto, finché la suprema Autorità
comunale non verrà in mio soccorso. Io spero ancora che il Sindaco (che io rappresento nel Consiglio d’amministrazione della Triennale) abbia pietà di me. Dopo
tutto il prof. Ferrari non è solo un Sindaco: è anche un uomo di scienza e un uomo di
cuore.”
Si tratta di un vistoso incidente dell’efficienza meneghina che senza dubbio divertiva molto Montale. Non sono peraltro riuscito a sapere quanto tempo sia
poi occorso a Montale per ottenere la residenza così appassionatamente rivendicata.
In ogni caso, l’ironia un po’ sorniona percepibile nell’articolo del <<Corriere>> apre
forse a temi meno occasionali di quanto possa apparire: i temi della omologazione
e dell’efficienza economica come misura del valore, cioè i temi della civiltà neocapitalistica di massa. Non essere riconosciuto quale artista perché schiacciato in
un meccanismo burocratico impersonale implica l’annullamento nella folla; dover
dimostrare la propria degnità civile e sociale in nome di parametri economici (dover
dimostrare di non essere “un morto di fame”) implica quel trionfo dell’homo oeconomicus a danno di tutte le forme del valore storicamente abbracciate dal poeta e
29
in grado di suscitare il suo riconoscimento. Potremo, volendo, osservare per inciso
come l’elzevirino rivolto al sindaco costituisca un modo obliquo per rivendicare tuttavia a sé una nicchia di eccezionalità, secondo l’abito tipico del nostro
autore; ma questo non è in ogni caso l’aspetto più interessante dell’episodio. Il
quale apre uno spiraglio sullo stato d’animo del poeta nei confronti della sua
nuova residenza milanese, che lo costringe a misurarsi con il nocciolo della
spersonalizzazione e lo induce, abbiamo letto, a tentazioni di estraneità (“resterò
apolide, senza diritto di voto”).
Per Montale Milano è la tana del lupo, la capitale di quella civiltà fuggita da
Sbarbaro a Spotorno; Milano è il cuore, in Italia, di quella forma nuova della
civiltà occidentale che tanto profondamente respingeva e interessava Montale:
solo lì infatti potevano nascere le riflessioni sulla civiltà di massa poi per lo più
raccolte in Auto da fé. Milano sarà presto la città del miracolo economico, la
città del boom, la metafora del neocapitalismo, mise en abyme del consumismo
e della omologazione di massa, il luogo dove è possibile riconoscere davvero il
destino generale dell’Occidente. Di qui, anche, il rapporto ambivalente stabilito
da Montale con Milano, città che rappresenta l’incarnazione più schietta di quel
mondo che egli rifiuta, ma che proprio per questo costituisce anche la punta di
un processo con il quale è necessario confrontarsi.
È interessante ricostruire lo spazio che Milano occupa nell’immaginario montaliano
risalendo a una lettera che pure precede di più di vent’anni il trasferimento. È una
lettera del ‘26 a Sergio Solmi. Montale, che non si è ancora trasferito a Firenze e
attraversa un periodo di dure difficoltà anche economiche, deve vivere di collaborazioni editoriali e giornalistiche occasionali; al colmo della disperazione, si rivolge
all’amico con queste parole:
“salvo novità io m'impiegherò a Milano, in Agosto o Settembre - se troverò posto.”
Non pare ci fossero impegni certi, ma nell’immaginario del poeta Milano è
la città in cui si trova lavoro quando si è disperati: la situazione di un normale emigrante in quegli anni. La lettera prosegue poi:
“E darò un addio alla letteratura.”
L’idea di trasferirsi a Milano implica nell’immaginario di Montale,
ventidue anni prima di trasferirsi davvero, la possibilità di trovare lavoro, un
lavoro serio, e la necessità di dare un addio alla letteratura. È forte la tentazione
di ricordare che il trasferimento pochi mesi dopo aver scritto questa lettera a
Firenze aprirà la stagione del più forte investimento sui valori della letteratura
da parte dell’autore; e che d’altra parte il trasferimento a Milano, nel secondo
dopoguerra, verrà seguito in pochi anni dalla scelta, provvisoria ma non meno
significativa, del silenzio poetico. Se Firenze presiede alla tutela, sia pure anacronistica, dei valori della letteratura, Milano è la città del lavoro e della fine
dell’arte, la città del moderno. Ma leggiamo ancora dalla lettera a Solmi:
“Vivessi mill'anni qui [a Genova], non romperò mai quella scorza di
camarille, di mafie ecc. che è infrangibile e impermeabile: almeno per me. A Milano
30
mi riuscirà più dignitoso fare lo spazzino o simil mestieri.”
La prima volta che compare l’idea di trasferirsi a Milano, Montale immagina dunque
di lasciare la letteratura e di fare lo spazzino, cioè di trasformarsi anch’egli in uomomassa; e in un momento di crisi e di disgusto per il mondo intellettuale questa idea
di abbandonare la letteratura e di scegliere Milano e un sodo mestiere socialmente
riconosciuto può apparirgli una soluzione praticabile e dignitosa.
Anche quando si sarà trasferito a Milano, Montale insisterà sempre sul valore positivo che ha per lui la vita a Milano in quanto luogo dove è possibile preservare la
dignità dell’individuo-massa, cioè la dignità di chi ha dovuto rinunciare alla propria
identità individuale, arrendendosi alla massificazione e alla omologazione. Scrive
in un articolo sul << Corriere >> nel 1968: “Milano, città che preferisco a Roma”. Il
tema del confronto fra Milano e Roma ritorna più volte negli scritti di Montale, che
osserva come in città quali Firenze e appunto Roma non sia possibile per un artista
riformare la propria identità, mentre in una città come Milano è possibile darsi una
nuova identità, e perfino trovare da lontano un rapporto più fecondo con le proprie
radici (e qui il nome almeno di Verga non può mancare). Inoltre, si legge ancora:
“Milano, città che preferisco a Roma perché è più facile mimetizzarsi e osservare
senza essere osservati.”
Milano presenta il vantaggio di essere una specola della modernità e del neocapitalismo, il vantaggio di costituire un rifugio paradossale per un poeta che addita nella
civiltà di massa il nemico dei propri valori più cari. Un po’ come per la lettera rubata
di Poe, il luogo dove è meno probabile essere scoperti è proprio quello dove si è più
esposti allo sguardo; e vivere nella grande città, nel cuore della civiltà di massa, vuol
dire diventare invisibili. È un argomento che ha la sua matrice in vari padri della
modernità; basti pensare a quella nota prosa di Baudelaire (Perdita d'aureola) in cui
il poeta elogia i benefìci paradossali della massificazione subita dall’artista, il quale,
mescolato alla folla e irriconoscibile, può godere il vantaggio dell’anonimato, cioè
conoscere veramente la vita.
Per Montale Milano costituisce allora il nascondiglio più sicuro, più
efficace della Spotorno di Sbarbaro. Questa dinamica aiuta forse a spiegare
l’ambivalenza alla quale mi sono riferito prima. E se in alcuni scritti Montale
chiama Milano “la nostra città”, in non pochi casi “la nostra città” diviene il
prototipo dell’ostilità nei confronti dell'attività intellettuale e della cultura. In
un articolo sul <<Corriere >> del 1963 (L'uomo medio di Milano) si ironizza
sull’ “uomo medio di Milano, l’uomo che possiede una macchina, esercita una
professione ma ha perduto ogni confidenza con la parola stampata”. Tornando
una volta di più sul tema della propria scelta di risiedere a Milano in un articolo sul << Corriere >> del 27 gennaio del 1970 (Vivere a Milano), Montale
ribadisce innanzitutto le ragioni comuni sottostanti al proprio caso:
“Vivo a Milano dal 1948; avevo allora cinquantadue anni. Perché ho scelto Milano a
preferenza d’altre città? Molti amici, quando vado a Roma o altrove, me lo chiedono,
tra stupiti e scandalizzati. E la mia risposta è sempre la stessa: perché a Milano ho
trovato un posto di lavoro soddisfacente.”
31
Nella parte finale dell’articolo arriva però un giudizio esplicito e complessivo sulla
città; è una paginetta che credo interessante leggere:
“Nonostante il freddo, la nebbia e lo smog Milano ha o avrebbe tutto ciò che occorre
per essere un’importante città d’arte e di cultura.”
(Ed ecco ancora i segni dell’ambivalenza di cui parlavo, anche solo nella spia di
questo “ha o avrebbe”).
“Ha molte opere d’arte, musei, biblioteche (eccellente la Biblioteca comunale), alcune università; possiede due grandi orchestre, parecchie istituzioni musicali
[…]. Tuttavia la somma di tutti questi meriti e demeriti è ben lontana dal dare un
risultato positivo. Non mancano le apparecchiature e i mezzi, è invece assente la
volontà di coordinare gli strumenti a disposizione e di dare al pubblico, anche al pubblico dei meno abbienti, quei “servizi” ch’esso avrebbe il diritto di pretendere.
Che Milano sia sempre stata una città sorda all’intelligenza non può dirsi in
alcun modo. Anche senza essere un longobardista […], e nemmeno un lombardista
(com’è il valentissimo Dante Isella), io so quanto Milano abbia contato nella storia
dell’intelligenza italiana. Lo so per averlo letto nei libri, non lo so affatto per mie
recenti esperienze personali. Tra il ‘25 e il ‘30 io venivo a Milano come si va alla
Mecca: per rendere il mio tributo a una città d’eccezione.”
Qui non si può fare a meno di inserire una chiosa cattiva, che smascheri il
margine di automitizzazione non di rado esistente in questo autore tra la verità biografica e la sua ricostruzione postuma: abbiamo ben letto, in questo caso, come proprio tra il ‘25 ed il ‘30 Montale scrivesse a Solmi della propria intenzione di trasferirsi a Milano a fare lo spazzino, esprimendo un serio disgusto del lavoro intellettuale.
Altro che rendere il proprio tributo alla Mecca di un’eccezionalità culturale!
“Ma se devo prescindere dall’enorme importanza che Milano ha nel campo
dell’industria e dell’economia, io amo questa città per l’innegabile senso civico dei
suoi abitanti, l’amo perché vivendoci riesco quasi a dimenticarmi di essere in Italia
(e non è dir poco), l’amo perché qui il sottobosco politico e pseudo culturale fa poca
presa, l’amo perché i miei amici A B C… Z, non potrebbero viverci e prosperare,”
(È un passaggio rivelatore, dal quale emerge come in un’orma o da un
negativo fotografico il senso della propria scelta di Milano per vivere. È infatti
evidente che quegli “amici A B C… Z” cui si allude in queste righe sono innanzitutto i letterati fiorentini, e che qui viene dunque ricostruita una ragione profonda
dell’allontanamento da Firenze: il rifiuto del clima culturale che dominava la città
alla fine degli anni Quaranta, sotto la riduzione di stampo ermetico della vita a letteratura).
“l’amo perché qui si può vivere senza vedere nessuno, senza essere coinvolto in qualsiasi indecoroso intrallazzo mondano, senza vergognarmi di essere al
mondo, l’amo con tutto il cuore ma non riesco ad amarla per la souplesse, l’agilità
e l’acume della sua intelligenza.”
32
Ecco che nella chiusa torna a prevalere la distanza; ma in modo, ancora, significativo.
Milano è sì la città dove è meglio vivere oggi per un poeta, ma è anche una città nella
quale un poeta, o almeno un poeta come Montale, non può davvero identificarsi. È
una città ideale per un intellettuale, ma non è o non è più una città nella quale un
intellettuale possa trovare il suo mondo. D’altra parte Montale sa bene che la Firenze
degli anni Trenta non esiste più e non può più esistere; e vede anzi l’anacronismo
sgradevole dei tentativi mistificanti di tenerla in vita compiuti dai letterati fiorentini
ancora negli anni Cinquanta e dopo. Montale sa bene - già a partire dall’immediato
dopoguerra e a maggior ragione negli anni Cinquanta e Sessanta, nel trionfo del
miracolo economico, e poi nei Settanta, nel trionfo del neocapitalismo - che una città
ideale per un intellettuale non esiste più, che una città per la cultura non può più
esistere, o almeno non nel senso in cui egli stesso la aveva intesa fino ad allora (e
diversamente non sa e non vuole immaginarla). Se Gadda, formato al <<Politecnico
>> e nato da quella cultura dell’efficienza che costituisce un’espressione tipica
della borghesia lombarda, patisce le contraddizioni e le mancanze di quella civiltà,
Montale ne rifiuta in toto le coordinate, facendole coincidere con il tramonto della
civiltà occidentale quale egli la concepisce. La comune esperienza solariana, se vale
per Gadda a rivendicare una funzione sociale e civile per la letteratura, in linea con la
tradizione illuministica della cultura lombarda, implica invece per Montale l’estrema
illusione di poter mettere un argine alla modernizzazione in corso, la quale comporta
l’inesorabile accantonamento della letteratura.
La rassegna della abbondante produzione poetica nata negli anni milanesi
mostra un primo dato significativo: Milano è assai poco nominata. La incontriamo
una sola volta in Satura (A tarda notte) ed un’altra volta nelle “disperse”. Lo stesso poeta che negli Ossi ha tanto insistito sui caratteri del paesaggio ligure e nelle
Occasioni sui tratti umanistici (e medievali) di Firenze, ora sembra fare a meno
perfino di quel realismo fisico dello sfondo additato già dai primi lettori quale
suo tratto tipico: tra Satura, il Diario del ‘71 e del ‘72 e il Quaderno di quattro
anni emergono appena appena un grattacielo, via Solferino, via Bigli. Milano ha
dunque veramente incarnato per Montale la città ideale nel senso reclamato in una
poesia di Satura, Intercettazione telefonica (vv. 10-14):
Posso così vivere nella gloria
(per quel che vale) con fede o senza fede
e in qualsiasi paese
ma fuori della storia
e in abito borghese.
Non va d’altra parte dimenticato che le poesie degli anni milanesi
sono per lo più caratterizzate da una solitudine monologante, in cui ben
raramente il poeta interloquisce con altri, e da una solitudine rimemorante;
sono gli anni in cui viene passato contropelo il proprio passato ligure e
soprattutto fiorentino, al fine prevalente di decostruire sistematicamente i
miti della giovinezza. La residenza milanese vale, più che per il suo carattere specifico, per la capacità di rappresentare la generalità cittadina della
massificazione, cioè il punto di vista migliore da cui procedere allo sman33
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
34
CLAUDIO MILANINI
Carlo Porta poeta europeo
Carlo Porta nacque nel 1775: tre anni prima di Foscolo, dieci prima di Manzoni.
Non fu un autore precoce: scrisse i suoi capolavori tra il 1810 e il 1820, ed era al
culmine della sua stagione creativa quando la morte lo colse nel gennaio del 1821.
Cronologicamente, il componimento che inaugura la serie dei suoi grandi poemetti
aventi a protagonisti dei popolani (Desgrazzi del Giovannin Bongee, 1812) cade a
metà del ventennio intercorrente fra la prima edizione completa delle Ultime lettere
di Jacopo Ortis e la stesura iniziale dei Promessi sposi (il Fermo e Lucia).
Ricordo queste date perché vedo con piacere che partecipano a questo convegno molti studenti. Ma mi induce ad aprire il mio intervento con notazioni in sé
ovvie anche un altro motivo: nella maggior parte dei manuali, salvo lodevoli eccezioni, le pagine su Carlo Porta occupano uno spazio marginale e ambiguo. Si direbbe
che i curatori delle nostre storie letterarie, pur non nutrendo più dubbi sull’eccellenza
estetica della poesia portiana, siano ancora in grande imbarazzo all’atto di decidere
quale debba essere il luogo in cui situare la trattazione. Così del Porta si parla spesso
nei capitoli dedicati al romanticismo, e si tende a sottovalutare il peso che la tradizione illuministica ebbe nella sua formazione. Certo, nel 1817 Porta si schierò al
fianco dei futuri fondatori del << Conciliatore >> nella polemica contro i classicisti,
ma da qui a considerarlo un romantico… Caso mai possiamo riconoscere in lui un
precursore, il che è tutt’altra cosa. In parecchi manuali poi i paragrafi su Porta seguono i capitoli su Manzoni, e così si finisce col dare l’impressione che Porta avesse
tra i suoi “maestri” Manzoni, mentre è vero il contrario. Fu il Manzoni romanziere, in
effetti, a far tesoro della lezione portiana, e non solo per la scelta di attribuire la parte
di protagonisti a figure del popolo (si scorra, in particolare, il commento ai Promessi
sposi approntato da Ezio Raimondi e Luciano Bottoni, e si vedrà quanto numerosi
siano i calchi linguistici rinvianti a Porta).
Questa difficoltà di collocazione nasce da varie ragioni. Innanzi tutto,
va ricordato che Porta non ci ha lasciato né saggi critici e né testimonianze diffuse circa le letture da lui compiute durante gli anni di formazione: per tutta la
vita lavorò come amministratore e come pubblico funzionario, e alla scrittura poté
dedicarsi solo in ritagli di tempo faticosamente strappati a impegni di tutt’altro tipo.
Anche l’epistolario non ci offre informazioni decisive sugli orientamenti culturali
38
dell’autore: ha un carattere per lo più pratico e privato, fatta eccezione per qualche
lettera degli ultimi anni. Quanto alle dichiarazioni di poetica, sono poche, inserite in
testi di tenore polemico e - ciò più conta ai fini del nostro discorso - quasi tutte tarde
(il Porta che difende la tradizione milanese in una serie di sonetti contro il Giordani
ha ormai varcato la soglia dei quarant’anni, così come il Porta che partecipa alla
disputa fra classici e romantici).
Insomma, sappiamo che il poeta ebbe rapporti amichevoli con Foscolo,
Manzoni, Stendhal, Berchet, Grossi e con molti altri scrittori e uomini di cultura
che vissero a Milano durante l’età napoleonica e post-napoleonica. Sappiamo che la
grande tradizione in dialetto delle sua città (una tradizione colta, “in dialetto”, non
“dialettale”) esercitò su di lui un’influenza per taluni aspetti determinante. Sappiamo
che agli inizi dell’Ottocento frequentò - anche in qualità di attore - l’ambiente del
Teatro Patriotico, carico di spiriti giacobini (fondato nel 1796, il “Teatro Patriotico”
aveva preso sede, nel dicembre 1800, nella chiesa sconsacrata di San Damiano, a
sinistra della Scala: l’Alfieri era uno degli autori preferiti, per i suoi sentimenti libertari, così come il Monti dell’Aristodemo e del Caio Gracco). Ma ignoriamo troppe
altre cose: ad esempio, il fatto che il poemetto On striozz (noto anche col titolo On
esempi, 1816) abbia quasi sicuramente come fonte diretta il racconto in versi Aurelius
und Beelzebub del poeta amburghese Friedrich von Hagedorn (l’indicazione è di
Guido Bezzola) lascia intuire un orizzonte di interessi più vasto di quello solitamente ipotizzato. Lo stessa osservazione vale per alcuni segnali che si colgono qua
e là nell’epistolario: si pensi all’ammirazione manifestata nei confronti del teatro di
Schiller (appena tradotto da Pompeo Ferrario), o all’attenzione per opere come la
Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati uniti d’America di Carlo Botta.
Grazie alle ricerche di Isella, di Barbarisi e della Guarisco, di Bezzola e di
tanti altri studiosi, conosciamo ormai bene la vita di Carlo Porta e siamo in grado
di valutare appieno quanto sia stato intenso il confronto da lui istituito con Maggi,
Tanzi, Balestrieri, Parini, Giuseppe Bossi… Resta però il sospetto che una parte non
piccola della sua biblioteca ideale sia rimasta nell’ombra, e non mi pare affatto azzardato affermare che in questa biblioteca dovessero occupare un posto d’onore alcuni
romanzi settecenteschi, contrassegnati da un eroismo antieroico e da un linguaggio
non convenzionale: un linguaggio volto a rappresentare “in presa diretta” vicende
ispirate a fatti di cronaca, atto a dar vita a personaggi saldamente calati nel mondo
contemporaneo. Di recente Paolo Mauri, analizzando la Ninetta del Verzee (in un
capitolo della Letteratura italiana diretta da Asor Rosa per Einaudi), ha osservato
come la posizione di Porta nei confronti non tanto della prostituzione, quanto della
dignità della prostituta come persona, abbia un precedente in un romanzo di Defoe,
The fortunes and misfortunes of the famous Moll Flanders; e aggiungo che ci sono
forti analogie tra il modo in cui Ninetta ricorda come avesse perso la verginità e il
modo in cui Moll Flanders rievoca la medesima esperienza. Quanto alla mescolanza
di comicità e di tragicità, che più in generale contraddistingue la narrazione delle
disgrazie capitate ai popolani di Porta, mi sembra probabile che l’esempio di Fielding
- ma numerosi altri nomi di romanzieri potrebbero soccorrere - abbia avuto il suo
peso.
Considerazione ulteriori, circa la difficoltà di collocare l’opera di Porta
nell’ambito delle nostre storie letterarie, implicherebbero una riflessione sul concetto
di “realismo” che qui non è possibile sviluppare. Mi limito perciò a rammentare
39
come il concetto sia in sé equivoco, come non esista mimesi artistica che non sottenda un’ideologia, una Weltanschauung storicamente e individualmente determinata. In
altri termini: se si applica brutalmente al Porta - come talora è accaduto - l’etichetta di
“poeta realista” o, peggio, di “realista romantico”, si rischia di cadere in semplificazioni approssimative che non ci aiutano né a cogliere la complessità della sua ricerca
poetica né a individuare la trama di rapporti da cui trasse alimento.
Il punto è che tutte le poesie di Porta nascono da una humus ricca e stratificata. A dimostrazione di ciò, mi soffermerò - prima di passare a una rapida rassegna
di alcuni tra i più noti capolavori portiani - su due testi diversissimi: il frammento
giovanile Paricc penser bislach d’on Meneghin repubblican, rimasto a lungo inedito
e generalmente trascurato dalla critica; e una sestina de Il Romanticismo, epistola
in versi scritta nel 1818-19, subito pubblicata e apprezzata dai lettori, ora riprodotta
- almeno parzialmente - in quasi tutti i manuali.
Il frammento giovanile si può leggere sia nell’edizione critica delle Poesie
allestita da Dante Isella per La Nuova Italia, sia nell’edizione curata da Carla
Guarisco e prefata da Gennaro Barbarisi per Feltrinelli (della Guarisco riproduco
con pochi ritocchi la traduzione in italiano, posta in calce a questa mia breve relazione). La stesura viene fatta risalire, per la grafia ordinata e sottile del manoscritto, al
1801-1802; sicuramente va inquadrata nell’arco di quegli anni che videro giungere a
compimento in Italia la prima fase della conquista e dell’organizzazione territoriale
napoleonica, con la seconda Cisalpina e poi con la Repubblica Italiana: un periodo
decisivo sia per la storia del nostro paese, sia per la formazione di Porta, che proprio
nel 1801 cominciò a frequentare l’ambiente engagé del Teatro Patriotico.
In apertura, due quartine strettamente avvinte dall’anafora e dal giro sintattico. C’è un’esplicita proposizione (ovvero l’indicazione del tema principale,
eminentemente politico), un’invocazione antifrastica (il poeta vorrebbe appellarsi a
una moderna Musa, cioè alla Democrazia, ma costei è irraggiungibile), una dedica
appena dissimulata e sarcastica (al secolo sapiente e filosoficheggiante, cioè ai quei
contemporanei che si vorrebbero eredi dell’età dei Lumi, ma che parlano bene e razzolano male):
Santa Democrazia, che on dì te faa
che i omen tra de lor se cognossessen,
e che perfettament in libertaa
tra de lor se trattassen, e vivessen;
santa Democrazia tant decantada
in stoo secol sapient filosofista
comprada prometuda, e regalada
dove set? Cosa fet? Noo too mai vista…
L’evocazione nostalgica di un tempo primordiale in cui gli uomini vivevano in armonia e in libertà rinvia all’utopismo settecentesco e in particolare a Rousseau, al cui
Discours sur l’origine e les fondaments de l’inégalité parmi les hommes già aveva
fatto riferimento Domenico Balestrieri nel poemetto in ottave Su la Desuguaglianza
di stat di omen [La disuguaglianza nella condizione umana]. Balestrieri, esibendo il
proprio scetticismo, aveva definito Rousseau “on cert filosef zenevrin bizzar” [un
40
certo filosofo ginevrino bizzarro]. Ora Carlo Porta, costretto a vivere (per dirla con
le parole da lui usate in una lettera del 21 luglio 1801 al fratello Gaspare) in un “fottuto Paese” che aveva subito tre invasioni in cinque anni, confessa di avere coltivato
anche lui, come Rousseau, qualche speranza “bizzarra”, qualche illusione “bislacca”.
Le promesse formulate da Napoleone si sono però rivelate false, i sacrifici vani.
Quello che i nuovi governanti hanno concesso (“regalato”, ovvero octroyé, fatto
cadere dall’alto) è solo il fantasma di una democrazia autentica.
Segue una terza, lunga strofa di carattere diegetico, divisibile in due metà
contrapposte, dove affermazioni e domande perdono ogni astrattezza per inverarsi in
quella che solo superficialmente potremmo qualificare come una cronachetta quotidiana. Dapprima, rievocando uno dei soliloqui a cui amava abbandonarsi quando
ancora sperava che i francesi si comportassero da liberatori, il poeta chiarisce in che
cosa dovesse consistere la democrazia da lui auspicata:
Passeggiava on dì sora penser
scorrend col coo sui coss della giornada,
disend intra de mi Sian ringraziaa i franzes Sem liber, sem eguaj, che l’è quant dì
che hin tucc d’on egual pes
i mee reson, e i reson d’on Cavalier.Ghè on impiegh da dà via,
se ghoo del meret
vo inanz a chi se sia.
Deffatt mò par che legg, par che diritt
i nobel Asen
han da vess stimaa, impiegaa
pusee che i vertuvos cittaditt?
Per dio ghô gust,
almanch adess noo vedaroo andà a torna
sti cilap supperciant, che per vess nobel
ne trattaven comè fuston de verz.
Sem tucc egual - Sem tucc fradii, e sola
La vertù la ne farà destingu.
La polemica contro “i nobili asini”, contro una società in cui contava non
il merito, ma la classe di appartenenza, è netta. E palese è il richiamo ai principi che
informavano la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (“Art.
1. - Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti [...]”; “Art. 4. - La
libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri […]”; “Art. 6. - […]
Tutti i cittadini […] sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici secondo la loro capacità e senza altra distinzione che quella delle loro
virtù e dei loro talenti”). Il tono è in apparenza tutt’altro che solenne, grazie anche
al fluido susseguirsi di endecasillabi e settenari variamente rimati: ma si noti come
nell’ordito narrativo siano puntualmente inseriti termini-chiave come “cittadini”,
“virtù”, “legge”, “diritti”, e “liberi”, “uguali”, “fratelli” (il trinomio liberté-egalitéfraternité).
41
Sennonché, dei principi dell’Ottantanove si sono impadroniti degli usurpatori, e lo
stravolgimento ha coinvolto un po’ tutti, a cominciare naturalmente da coloro che
hanno approfittato del cambio di regime per fare carriera. La seconda metà della terza
strofa racconta un fatterello esemplare:
Quand taccheta on button nient nient
el me trà in del Navili, e per quel spazzi
c’ho lassaa
mala vida in libertaa
passa vun, in gran divisa galonada,
sbarlusent comè el soo.
Tutt a bijoux Che de gionta el me dà ona strapazzada
per el delitt de no essem minga accort
che lu el passava
e che ghe imbarazzava
el pu bel sentiroeu de la contrada.
Pien di mee idei de libertà me volti,
e disi, Cittadin, me pararavv
che ghe fuss di maner pussee grazios
d’avvisà de fà post, de tirà sù
senza dà di button - Cos’el fa lù?
El sfoeudra tant de sciabalon e el respond:
Tass là oligarch fotuu, fescia del mond
se de nò ten doo vuna, in sul copin,
che in manch de quella
la te porta a discoor col pacciarin.
Ecco l’antagonista, un prepotente che già nell’abito (una gran divisa gallonata tutta luccicante) esibisce la sua spocchia, e che si appropria indebitamente del
linguaggio stesso degli innovatori (“Tass là oligarch fotuu”) .
Ci resta l’abbozzo di un'altra strofa, meno elaborata e lasciata in sospeso, dove prende
la parola un terzo personaggio, un parente del poeta-protagonista. A costui è affidato
il compito di denunciare tutta la ruffianeria e l’avidità di chi si è schierato con i nuovi
padroni. Ritroviamo la parola “democrazia”, ridotta a un guscio vuoto:
Tasi - vo via lott, e avend trovaa
Strada fasend on mè parent ghe disi
El cognoset quel là? - Cat, el respond,
l’an passaa l’eva on gioven de mercant.
Dess in grazia della democrazia
lè a on pù mei post che sia
e l’ha guadagnaa tant
che sel va a torna a pè l’è degnazion
ma l’è mo in sta manera
Protasi allocutiva, rievocazione di uno stato d’animo speranzoso, resoconto
42
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
43
PAOLO GIOVANNETTI
Il porto di Milano.
Gli spazi aggreganti della poesia
Avete visto che nel titolo della relazione è contenuto il sintagma Il porto di
Milano: che è un'espressione leggermente provocatoria. Mi auguro di riuscire a
chiarire che cosa intendo; e comunque vi assicuro che entro mezz’ora, quaranta
minuti al massimo, a un porto di Milano arriverò, ovvero leggerò una poesia in
cui figura il (o un) porto di Milano.
Il mio intervento nasce da uno studio che mi è capitato di fare sui modi
in cui la poesia italiana rappresenta lo spazio, in particolare lo spazio della
Lombardia; ho cercato di tracciare alcune linee di sviluppo e di individuare le
tendenze generali tipiche del Novecento.
Per certi versi è abbastanza ovvio osservare che esistono due grandi
modi di rappresentare gli spazi di Milano attraverso la poesia. Uno lo potete
cogliere nell’affiche proiettata (vedi figura 1), risalente al 1910, che raffigura un
aeroplano in volo intorno al Duomo. Siamo di fronte, tipicamente, alla “città che
sale”, a uno spazio ascendente. Faccio riferimento, ovviamente, al noto quadro
di Umberto Boccioni, ma ho preferito esibire un’immagine più popolare, più di
consumo, un manifesto pubblicitario. La città che sale e che ascende: abbiamo
tutti in mente cosa vuol dire, nella tradizione e nella modernità, salire, cosa
rappresenta simbolicamente l’ascesa, superare gli spazi bassi ed andare verso
una dimensione superiore. Non insisto su questo concetto; quello che mi preme
mostrare è che un’accezione molto milanese del salire si lega all'iconografia,
all’immagine del Duomo e della sua Madonnina - che qui viene rappresentata
con la bandiera in un trionfo anche un po’ retorico di italianità. In effetti, nella
poesia d’inizio Novecento c’è la stessa focalizzazione su Duomo e Madonnina;
tipicamente in area futurista, e sempre attraverso la mediazione dell’aeroplano.
Nel 1912 Filippo Tommaso Marinetti pubblica in francese un poema, Le
monoplan du Pape, l’aeroplano del Papa, dove racconta una storia abbastanza incredibile, in cui Marinetti rapisce il Papa, lo solleva con il suo aeroplano, lo porta in giro
per mezza Italia e poi lo getta nell’Adriatico, uccidendolo. Una storia un po’ folle,
come spesso erano le narrazioni di Marinetti. Dentro questo poemone in versi liberi
c’è un episodio curioso in cui Marinetti vola intorno al Duomo milanese e si rivolge
polemicamente al monumento. Il poeta futurista, grazie appunto all’aeroplano, si
49
sente superiore e profetizza la futura crisi dell’nterlocutore tradizionale. Il Duomo
è circondato, proprio assediato dalla ferrovia, dalle rotaie dei tram; ormai anche gli
aeroplani lo minacciano. Leggiamo una specie di vaticinio, pronunciata da questo io
‘epico’: “[…] verrà un giorno / - ed i milanesi ne sono capaci!...- / in cui potremo
costruire / un treno gigantesco condotto da una gigantesca / locomotiva / per portarti
via fino in paradiso / da cui un tempo fosti spedito dalla Gondrand” 2.
(La Gondrand, naturalmente, è la compagnia di trasporti e traslochi). Marinetti crede
che il Duomo un giorno scomparirà, immaginando che i milanesi - in un immenso e
macchinosissimo trasloco - stacchino la cattedrale dalla sue fondamenta e la portino
via. Salire significa oltrepassare i limiti del presente, oltrepassare la storia, addirittura
negarla e cancellarla.
Ho parlato di Gondrand, ditta di trasporti. C’era in questi stessi anni a
Milano un dirigente della Gondrand che era padre di un poeta che, a sua volta, ha
scritto una poesia sul Duomo. Il poeta è Clemente Rebora. Rebora, poetando sul
Duomo, nel 1914 mette a fuoco un’idea di ascesa molto particolare, decisamente
trasgressiva. E’ l'ultima di una serie di poesie che si intitolano Movimenti di poesia,
e che sono - davvero - poesie in movimento, molto intrinsecamente urbane. Leggo la
conclusione della quarta:
[...]
E già il tempo è un ribaldo
Che fa largo alla mia nobiltà.
Lo provai stamattina,
Passeggiando e fumando,
Spensieratamente preciso:
Prone ai miei sensi
Le luci accorrenti
Da tutta la città,
Fra un’ala di case
E codazzi di strade,
I cittadini in sospetto
Sudditi miei passàvano.
Nel mezzo il Duomo salì
Fino ai vèrtici espressi
Dall'implacàbile mia voglia;
E verso un richiamo di donna
Impietrandosi, finì
In una lussuosa madonna. 3
Clemente Rebora si convertirà al cattolicesimo, diventerà sacerdote e
rinnegherà questa poesia, perché considerava gli ultimi versi una vera propria
bestemmia; in effetti, se avete seguito il senso del discorso, vi siete resi conto
che il poeta “desidera” la Madonnina; il suo sentimento ascende verso di lei,
ma è un sentimento erotico, di passione, perché la Madonna è una donna seducente. L’ascesa è anche l’ascesa di un desiderio. La parte che ho letto, del resto,
completa un percorso tematico che innanzi tutto è un percorso sessuale, perché
nei versi precedenti era stato descritto l’incontro con una donna, la fidanzata di
50
Rebora; in questo senso la Madonnina ravviva la passione del soggetto lirico,
che si sente in grado di dominare la città, salendo oltre i limiti di Milano e trascinando via con sé i suoi simboli religiosi.
Ecco: questo è il primo dei due movimenti che si colgono bene in un certo
tipo di poesia del Novecento - il movimento verso l’alto, l’ascesa.
Non è però il più importante; certo, è stato molto affrontato, e direi anche
sopravvalutato in seguito alla retorica del futurismo. Il modello più tipicamente
milanese, secondo me, è invece un altro: quello “orizzontale”, che mette a fuoco
l’allargamento della città nella pianura.
Cito di nuovo da Marinetti, l’opera è La grande Milano tradizionale e futurista (risalente agli anni Quaranta). Marinetti dice che Milano si “costruisce monocentrica in pianura”, e ciò “costringe la verginità ad essere futurista”; è una città che in
questo senso si contrappone alle città che si “appoggiano ad una collina in anfiteatro
o seguono una ondulazione collinosa”, perciò “costituendo una tradizione”.4 Milano
sarebbe cioè ‘naturalmente’ anti-tradizionale e futurista, perché è in pianura e si estende in modo omogeneo, in antitesi alle città che si sviluppano in una geografia collinare, come per esempio Bergamo (o magari Roma), e il cui profilo sarebbe perciò
intrinsecamente tradizionalista.
Il ragionamento è con ogni evidenza paradossale. In effetti, però, nella
poesia novecentesca il tema di una città come Milano collocata al centro della
pianura, che nella pianura si allarga secondo una dinamica che potrei dire
persino “cordiale” e non conflittuale, questa idea si trova spesso come allegoria
o simbolo di uno sviluppo e di un collegamento “democratici” con e nel proprio
territorio, con e nel proprio ambiente.
Nel 1933-34 c’è un poeta, Alfonso Gatto, che da Salerno viene a vivere a
Milano, e in una sua prosa lirica così descrive il rapporto tra centro e periferia:
“Con le prime strade dritte, silenziose, la città mi si è irraggiata intorno, uguale
ed interminabile, sicché scoprirla nel suo cuore, nel suo monte di case mi è sembrato assurdo. Tutta piana e periferica, l’ho vista con piazze dalle aiuole semplici e
dimesse: fabbricata da pochi giorni e qua e là ancora incompiuta nei cantieri.” 5
Una Milano che cresce e si allarga senza contrasti o contraddizioni. Sempre
in queste pagine, Gatto presenta le periferie di Milano come dei paesini gradevoli; tra
questi satelliti e il Duomo non c’è discontinuità, si trascorre agevolmente dalla periferia al centro e dal centro alla periferia. E’ presente una visione integrata e funzionale della città che, appunto, ha un rapporto costruttivo con quanto le sta intorno.
Ovviamente ci sarebbe altro da dire, bisognerebbe fare digressioni indietro
nel tempo che ci porterebbero fino a Parini, e ci costringerebbero a mettere a fuoco
le forme storiche del rapporto città/campagna. E dovrei magari uscire della poesia,
per parlare, almeno, di quel signore chiamato Carlo Emilio Gadda. La cosa più interessante, rispetto al mio ragionamento, è però che in molti autori esiste la possibilità
di rapportarsi alla campagna in modo non necessariamente negativo, cioè attraverso
la rappresentazione di percorsi scorrevoli e reversibili, suscettibili di produrre effetti
virtuosi, ricchi di senso, carichi di valore (magari anche nella direzione della polemica: come nel caso di Parini e Gadda). Insomma: fra città e campagna esiste una
dialettica, che è innanzi tutto una dialettica di movimenti, è la possibilità di mettere
51
in contatto gli opposti. Faccio un esempio: c’è una poesia di Delio Tessa, De là
del mur (completata nei primi anni Trenta) 6, che parla di una gita in bicicletta
del poeta “fœura de porta Volta”; il soggetto esce da porta Volta in direzione di
Seveso, arriva a Limbiate, a Mombello, incontra un contadino, smette di parlare
il milanese cittadino, usa il milanese della campagna, più rustico; e poi rientra
Milano. Il movimento in bicicletta, l’uscita nella campagna ed il ritorno sono
visti in maniera sciolta, fluida.
Si ritrova un’idea assai simile nelle poesie di Sereni, in particolare nel testo che
si intitola Canzone lombarda, del 1938.
Nell’ampio respiro dell'acqua
ch’è sgorgata con il verde delle piazze
vanno ragazze in lucenti vestiti.
[...]
Digradante a cerchi
in libertà di prati, città,
a primavera
E noi ci si sente lombardi
e noi si pensa
a migrazioni per campi
nell’ombra dei sottopassaggi. 7
Appunto a quel “digradante a cerchi in libertà di prati” è affidata la prospettiva di
una continuità, d’una dolcezza di movimento. Sempre nel primo Sereni, agisce un
tema apparentemente più complesso, ma sempre all’insegna di un rapporto virtuoso
tra città, periferia e campagna. Penso a una poesia molto bella intitolata 3 dicembre,
che è dedicata alla morte per suicidio della poetessa Antonia Pozzi (avvenuta appunto
in quel giorno del 1938):
All’ultimo tumulto dei binari
hai la tua pace, dove la città
in un volo di ponti e di viali
si getta alla campagna
e chi passa non sa
di te come tu non sai
degli echi delle cacce che ti sfiorano. 8
Pozzi si è uccisa in un luogo a sud della città posto tra il Corvetto e l’abbazia di
Chiaravalle, da lei molto amato; questo spazio di confine viene solo suggerito, e,
anche se segnato da una morte, è uno spazio vivo, bello, quasi idillico - collocato
com’è “in un volo di ponti e di viali”. Vedremo tra poco che un’immagine del genere
in anni più recenti andrà incontro a una rappresentazione quasi apocalittica.
Milano, in definitiva, si presenta come una città accogliente, in grado di
integrare anche gli spazi esterni, per richiamarli in qualche modo a sé, integrandoli
in modo non conflittuale.
A questo proposito, bisognerebbe fare molte altre osservazioni. E’ almeno il
52
caso di trattare un tema cui ho già accennato parlando di Gatto: penso ai tanti poeti
che da fuori vengono a Milano; quei poeti che diventano milanesi, che non sono in
origine milanesi ma che non possiamo non considerare tali per il ruolo che hanno
svolto in questa città, per l’immagine che attraverso le loro opere ne hanno restituito.
Quello che vediamo adesso (vedi figura 2) è, appunto, un importante poeta
milanese, nell’accezione cui mi riferisco: si tratta di Salvatore Quasimodo. Ci tenevo
a mostrare quest’immagine, in cui sono contenute molte cose importantissime. Si
coglie intanto qualcosa che è scomparso: un pezzo del naviglio Martesana che qui
vediamo scorrere in fondo a via Melchiorre Gioia; siamo poco al di qua del cosiddetto Ponte delle gabelle dove ora c’è una chiusa assolutamente priva di acqua. La
foto è del 1954, e fino agli anni Sessanta qui la Martesana scorreva ancora. Quel
palazzo che vedete dietro Quasimodo, la “Cucina popolare”, è un ottimo emblema
del filantropismo lombardo: venne costruito nel 1883 in stile neogotico, ed era una
mensa per i poveri - vero e proprio simbolo della Milano che viene incontro anche ai
più deboli, anche ai migranti. La leggenda, non so se vera, dice che qui ha mangiato
anche Hô Chi Minh; del resto, c’è una targa in una via poco distante (via Pasubio) che
ricorda la sua presenza a Milano. Questa palazzina, che è un monumento milanese
di una certa importanza, è oggi in degrado; è un simbolo, evidentemente, di cose
che oggi a molto milanesi non piacciono più. È una Milano particolare, davvero. Il
migrante Quasimodo ha dedicato a Milano e alla Lombardia parecchie poesie, tutte
importanti; e molti poeti con una storia simile a quella di Quasimodo, che hanno
parlato di Milano (non provo nemmeno a farne l’elenco, ce ne sono troppi), ne hanno
restituito immagini spesso memorabili, centrando bene certe caratteristiche della
città. Ma - appunto - questa era la loro città, ne erano a tutti gli effetti cittadini.
A un certo punto del Novecento, tuttavia, entrambi i paradigmi di cui vi ho
parlato sono entrati in crisi: sia il paradigma ascendente della città che sale, sia il
paradigma orizzontale della città che si allarga.
Siamo nel 1960, il testo è un poemetto di Elio Pagliarani, La ragazza Carla,
di cui vi leggo versi che raccontano il tentativo della protagonista di passare dalla
periferia al centro. Carla vuole fare un giro in centro, ed è sola. Vediamo insomma
come si presenta Milano a Carla, dattilografa di 17 anni che di domenica cerca di
andare in centro a divertirsi.
“Carla non lo sapeva che alle piazze
alle case ai palazzi periferici succede
lo stesso che alle scene di teatro: s'innalzano, s'allargano
scompaiono, ma non si sa chi tiri i fili o in ogni caso
non si vede: attraversando da un marciapiede all'altro sono bisce
le rotaie, s'attorcigliano ai tacchi delle scarpe
sfilano le calze d'improvviso - come la remora che in altomare
ferma i bastimenti.
Quei bambini sul ponte fanno
una festa dolorosa a un animale c’è il fumo che li assale,
a San Luigi sono i ladri che ci stanno, via Brembo è una fetta di campagna, peggio,
53
una campagna offesa da detriti, lavori a mezzo non più verde e non ancora
piattaforma cittadina; meglio il fumo sul ponte che scompare
col merci, via Toscana, piazzale Lodi, con un poco
d'alberi e grandi chioschi di benzina […].” 9
Ecco la città che improvvisamente è diventata ostile: lei, Carla, va verso
il Duomo, ma si sente bloccata, perché c’è, a respingerla, un luogo mostruoso,
una non-campagna, una città che ha deturpato profondamente la natura e al suo
posto ha creato una specie di parodia - della campagna e della città insieme. La
possibilità di fluire dall’interno all’esterno e viceversa comincia a incepparsi,
comincia a diventare difficile concepire un rapporto non contraddittorio tra la
città, la periferia e la campagna; nasce qualcosa di intermedio e negativo, un
non-luogo, un luogo appunto che fa paura.
Li conosciamo fin troppo bene, questi luoghi; sono le nostre periferie,
barriere anonime che soffocano la città, la integrano sì, ma insieme ne interrompono il contatto con l'altro da sé. Uscire da Milano e rientrarvi sembra talvolta
impossibile. A comunicarcelo con un testo quasi fantascientifico è il narratore
(ma ha scritto anche poesie e come poeta aveva esordito) Emilio Tadini; il testo a
me sembra esemplarmente postmoderno, nella sua forma e nei suoi contenuti: si
intitola La sotterranea di velluto, è del 1991, e ha uno degli attacchi che ritengo
più esilaranti nella letteratura italiana di questi anni. Lo leggo:
Baires mi fe’, disfecemi Corvetto.
Suonava un organo immenso sull’autostrada per Bologna,
qualche interminabile difetto di luce
e poi: ‘Sogna!’, detto e ridetto - ma da una voce
del diavolo, da uno squittio elettronico
‘Bisogna sognare!’ Dolcissimo
infuriava su noi l’Estro Inarmonico,
ma non sono riuscito a sentire ‘Endless Totality Rock’
messo in onda da qualche paradiso radiofonico. 10
“Baires mi fe’, disfecemi Corvetto”: è quasi superfluo rilevare la fonte
della Commedia (Purgatorio, canto V, v. 134); siamo di fronte a un pastiche
tipicamente postmoderno. Sono partito da corso Buenos Aires e mi sono schiantato all’inizio dell’autostrada per Bologna; la mia esistenza è finita appena oltre
piazzale Corvetto: questo ci dice, post mortem, il soggetto lirico. Che muore
esattamente dove era morta Antonia Pozzi, come abbiamo visto; solo che Pozzi
nella poesia di Sereni aveva suggerito uno scorcio di utopia; qui, invece, ci si va
a schiantare ascoltando un Endless Totality Rock sull’autoradio, e nulla ha più
un senso. Milano sembra essere interna a una discontinuità: oltre il Corvetto,
comincia una specie di inferno, una dimensione aliena.
C’è insomma un rapporto con gli spazi limitrofi sempre più difficile,
sempre più conflittuale.
Non insisterò, invece, sulla Milano ascendente, cioè sulla crisi di questo
54
mito. Mi limiterò a ricordare una bella poesia di Daria Menicanti sul Duomo, del
1962, intitolata I Santi del Duomo11 improntata a una sensibilità femminile quasi
programmaticamente antimarinettiana: i santi del Duomo sono vincolati alla città,
faticano a tendere verso l’alto, e insomma vivono “in ascolto” entro una specie di
esilio che è condizionato dal “dolce peccare” degli umani.
Le comunicazioni si interrompono, i movimenti storici si inceppano, le
utopie entrano (o sembrano entrare) in crisi. Succede un fatto, però: compare “il
porto di Milano”. A un certo punto i poeti sentendosi assediati dalla periferia, da
questi spazi chiusi, soffocanti, hanno cercato delle vie di fuga, strade alternative
per evadere da questo carcere. Uno dei primi a tentare un percorso del genere è
stato Alfonso Gatto, che in una poesia del 1937, Periferia, dedicata a un altro campano, il napoletano Edoardo Persico, morto l’anno prima - personaggio importante
proprio per la modernità di Milano, della Milano utopica e progettuale degli anni
Trenta -, propone un cortocircuito espressivo davvero esemplare. E’ una poesia
molto difficile da spiegare, come sempre la poesia di Gatto, ma contiene riferimenti
‘milanesi’ che - se ci si pensa un po’ su - appaiono discretamente chiari.
Parve alla sera nata la sembianza
dal caldo della neve e per remoto
vetro di luna consumò distanza
d’alberi spogli nel suo cielo vuoto.
La piscina è gelata contro il muro
dell’obitorio che ha i suoi morti spogli
in tutto il freddo della terra: al puro
grigio dell’aria restano le soglie
e l’improvvisa eternità dei treni
che curvano la notte, una ringhiera.12
La cosa straordinaria di questa poesia è che riesce a rappresentare realisticamente, certo a modo suo, un luogo concreto, via Ponzio, che davvero ospita una
piscina e, a breve distanza, un obitorio. Gatto abitava da quelle parti, ed aveva colto
il paradosso di una piscina dove la gente va a divertirsi, mentre a pochi metri ci sono
dei morti. Abbiamo letto poi la parola ringhiera, e in effetti ci sono case di ringhiera,
in quella via. Ma la cosa più importante della poesia, su cui si potrebbe dire molto
altro, è la conclusione, dove compare il fatto per me decisivo: il poeta si è sentito
smarrito in questa città alienante, e sta parlando di un amico morto; eppure alla fine
agisce anche il desiderio, il tentativo di “ritornare” nella vita. Ecco:
[...] Il mio ritorno
nella folla dei vivi, per quest'ora,
è la facciata grigia che riappare
murata in tomba a cinta dello sterro
e tutto il freddo della morte, il mare,
55
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
56
ROBERTO BIGAZZI
La Milano di Verga
Comincio leggendo alcuni brani di tre note lettere di Verga a Capuana, da Milano, tra
il 1873 e il 1874 (Verga era arrivato nella capitale lombarda alla fine del ‘72):
“Tu sai meglio di me che in questa via crucis ove ci siamo messi, sparsa di
triboli e di editori, bisogna starci e andare innanzi col sacco vuoto e i piedi addolorati
per contare tra gli ebrei erranti di cotesta fede, e che gli assenti hanno torto, e che
la politica e le imprese industriali scopano la via ad ogni fin d’anno, senza contare i
feriti e tenendo in conto di morti i mancanti […] Sono in un momento di disgusto e
di nausea vedendo davvicino tanti pettegolezzi, e tante vergogne, e tante ladre usure
sul più sacro lavoro dell’uomo. […] Io ho finito ieri l’altro il mio nuovo romanzo Eva
ed il mio entusiasmo si è sbollito dietro un editore che mi offriva 900 lire credendo
di pagarmi profumatamente. (7 febbraio 1873)”
“Sì, Milano è proprio bella, amico mio, e credimi che qualche volta c’è proprio bisogno di una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni e restare al lavoro.
Ma queste seduzioni istesse sono fomito, eccitamento continuo al lavoro, sono l’aria
respirabile perché viva la mente. […] Provasi davvero la febbre del fare in mezzo a
codesta folla briosa, seducente, bella, che ti aggira intorno, provi il bisogno di isolarti
assai meglio di come se tu passi in una solitaria campagna. E la solitudine ti è popolata da tutte le larve affascinanti che ti hanno sorriso per le vie e che sono diventate
patrimonio della tua mente (5 aprile 1873).”
“Tu hai bisogno di vivere alla grand’aria, come me, e per noi altri infermi
di mente e di nervi la grand’aria è la vita di una grande città, le continue emozioni,
il movimento, la lotta con noi e con gli altri, se vuoi pur così. Tutto quello che senti
ribellare dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo, appena sarai in mezzo
ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti. Costà tu ti atrofizzi. (1874)”
Chi parla così non è un provinciale, né un ingenuo, come potrebbe far credere la miscela tra scoramento e entusiasmo: prima di Milano, Verga ha passato con
estremo profitto alcuni anni a Firenze, dove, tramite i pittori macchiaioli con il suo
60
amico Telemaco Signorini in testa, è entrato in contatto con la più avanzata teoresi
realistica francese di metà secolo, che ha fatto lievitare il positivismo fiorentino raccolto intorno a Pasquale Villari e De Sanctis, tra storia filosofia e letteratura. Questa
cultura fiorentina troverà piena espressione di lì a non molto nel famoso periodico
<< La Rassegna Settimanale >> , vera rivista del riformismo italiano, che poteva
vantare le inchieste agrarie e sociali di Franchetti, di Sonnino (futuro presidente del
consiglio), di Jessie White Mario, di Fucini e di Villari. Verga sarà ovviamente tra i
collaboratori di questo giornale.
Con questa formazione Verga arriva a Milano, dove Felice Cameroni,
che proviene invece dalla cultura scapigliata, sta scoprendo per conto suo la nuova
ondata di grandi realisti francesi, con in testa Zola, a cui si avvicina perché l’autore
del ciclo sui Rougon Macquart rappresenta la cultura repubblicana che prende il
sopravvento a Parigi dopo la Comune: come tale, questa cultura parigina ha una
connotazione alquanto estremista, ma con la complessità che le viene da una società dove le metropoli, il commercio e l’industria, nonché la ribellione, sono realtà
consolidate. Cameroni ha intelligenza abbastanza per esplorarla, anche se intorno a
sé si ritrova scrittori e intellettuali incapaci davvero di secondarlo, perché paghi di
una critica sociale un po’ arcaica e quindi ricca di sentimentalismo per poter davvero
far tesoro di quella letteratura. Un nome per tutti: Salvatore Farina con la sua <<
Rivista minima>>, l’uno e l’altra oggi poco noti, ma è lecito ricordarli se proprio a
Salvatore Farina Verga dedicherà un testo chiave di Vita dei Campi, cioè L’amante di
Gramigna. Farina, che tra l’altro è il primo letterato cercato da Verga appena posto
piede a Milano, rappresenta una soluzione diversa da quella di Cameroni. Vedremo
come Verga, più vicino alle posizioni moderate ma battagliere di Farina, sceglierà
invece alla fine la via di Cameroni, cambiandone però i connotati.
L’incontro di Verga con Cameroni avviene dunque di fatto su un piano
di modernità avanzata, con la rivelzione di una Francia finora ignota al reduce da
Firenze. Pur avversari politicamente, Cameroni e Verga diventano amici, e sarà Verga
che proporrà di quei nuovi modelli stranieri, e sopratutto di Zola e del naturalismo,
una interpretazione di successo, che prevarrà su quella più politica e protestataria di
Cameroni. Così Verga darà a lui e a Capuana, arrivato in ritardo al Nord, la chiave
giusta per la nuova arte verista, anche se sarà Capuana a divulgarla: la scienza di Zola
diventa alla maniera di De Sanctis soprattutto l’ottica impersonale e oggettiva, non
la garante, come per Zola, dell’incontro tra la fisiologia dell’individuo e l’ambiente.
Per Verga non conta la fisiologia, perché in primo piano viene piuttosto la selezione
naturale dovuta alla lotta per la vita, e così Verga eredita dalla Milano di Cameroni
una concreta volontà di scavo sociale, dato che la lotta per la vita traversa tutti i vari
strati della società nei quali dunque va indagata senza trascurarne alcuno.
Non dimentichiamo che la prefazione ai Malavoglia è uno dei più alti
documenti del realismo europeo, ed è una prefazione che non si spiega se non alla
luce della congiunzione tra Milano e Firenze. Capuana, arrivato in ritardo, con una
formazione idealistica, non capirà mai questo aspetto (come non lo capirà, dopo di
lui, la critica italiana). E i vari Fucini e Pratesi, fermi alla sola formazione fiorentina,
rimarranno anche loro indietro, in un sottobosco di minori dignitosi, rispetto a questo
Verga. Così come rimarranno indietro i milanesi puri, dagli eredi della scapigliatura
a quelli della <<Rivista minima >> e a De Marchi. Le conseguenze potrebbero anche
essere studiate persino nelle avanguardie milanesi di primo novecento.
61
Per riprendere il discorso: in questa duplice formazione di Verga sta la
risposta di quella che a prima vista appare una contraddizione, che dalla critica è
stata addebitata paradossalmente alla sua arretratezza di provinciale. Mi riferisco
cioè al fatto contraddittorio che Verga, nel lungo periodo che passa a Milano, scrive
di Firenze, di Napoli e della Sicilia ma dedica appena una quindicina di novelle a
Milano, e persino nel progetto dei Vinti non c’è un solo romanzo che si svolga a
Milano, perché gli ambienti sono la Sicilia (Malavoglia, Mastro-don Gesualdo e
Duchessa di Leyra), e Roma (L’onorevole Scipioni) e Firenze (L’uomo di lusso). Per
arrivare alla spiegazione, riprendiamo il filo cronologico.
Verga si trasferisce a Milano, come ho accenato, alla fine del ‘72 (ha già
scritto, oltre alle prove giovanili, Una peccatrice e Storia di una capinera, un po’ di
teatro e la prima versione di Eva); a Milano rivede Eva per la pubblicazione e subito
dopo metterà a fuoco due romanzi, Tigre Reale e Eros, di ambiente fiorentino e
siciliano, usciti nel ‘75, la novella siciliana Nedda e la raccolta di novelle Primavera,
la cui novella eponima è di ambiente milanese: tiene cioè sul telaio opere che si
muovono tra le varie classi sociali e in ambienti quasi sempre lontani da Milano. Poi,
si dedica al grande progetto dei Vinti, scrive in questa prospettiva i racconti siciliani
di Vita dei campi e delle Novelle rusticane, 1880 e 1883, un romanzo borghese di
ambiente napoletano, Il marito di Elena, 1882, e nel 1883 pubblica anche l’unica
raccolta tutta di novelle milanesi, Per le vie, a cui si aggiunge, l’anno successivo,
la novella Tentazione nella sua raccolta Drammi intimi, più un paio nella raccolta
Vagabondaggio (1887) e una in Don Candeloro (1894).
Nos canimus surdis, il motto di Penombre di Praga, contrassegna l’impegno
antiborghese che Verga, abituato alla critica riformista dei fiorentini, trova come
novità a Milano, dove persino la << Rivista minima >> del poco rivoluzionario
Salvatore Farina punta i suoi miti valori contro l’Italia ufficiale; per non parlare di
Cameroni, il quale, pur consigliando scrittori adatti ad una battaglia di costume non
lontana dagli interessi del Verga fiorentino, Dumas e Balzac soprattutto, li adopera
tuttavia per denunciare un mondo concreto, reo di calpestare gli ideali democratici
e garibaldini che sono tipici della scapigliatura più politicamente connotata. Sono
questi gli anni in cui persino il raffinatissimo Dossi ha un suo piglio antiborghese.
Sullo sfondo, giornali come << Il gazzettino rosa >>, che hanno dato alcune caratteristiche a questi garibaldini e scapigliati.
La prova dell’impegno antiborghese di Verga, almeno nel momento
dell’arrivo, sta proprio in Eva, nata a Firenze ma rivista e pubblicata, come ho accennato, a Milano. La prefazione è rivolta senza mezze misure contro la società, al
punto che, invece di cattivarsi fiorentinamente il lettore con realistici documenti sullo
stato delle cose per riformarle insieme, lo attacca rifiutandosi di addebitare a qualche
malvagio di passaggio il fatto narrato, che assume così il tipico valore milanese di
exemplum di una condizione umana:
“Eccovi una narrazione - sogno o storia poco importa - ma vera, com’è stata
o come potrebbe essere, senza rettorica e senza ipocrisie. Voi ci troverete qualche
cosa che vi appartiene, ch’è il frutto delle vostre passioni.”
Come si vede, sull’esempio di Emilio Praga (e, grazie a lui, di Baudelaire), si rende
il lettore complice di un mondo immorale di cui il libro è lo specchio, e si procede
62
addebitando alla società la perversione stessa dell’arte, forzatamente scaduta da
“civiltà” a “lusso da scioperati”. (ricordate L'uomo di lusso?) Tanta decadenza si
ritorce sul corruttore, cioè la società, cosicché, com’è tipico degli scrittori milanesi,
viene denunciato il “godimento materiale” che sta al fondo della pretesa “serietà”
del mondo moderno, fatto di “Banche e di imprese industriali”. Come si vede, arte
e amore, simbolo degli ideali romantici e risorgimentali, sono visti in pericolo per
colpa di una società che li ha travolti nella sua ricerca di ricchezza.
Il che ci guida a capire un altro problema: si sa che Verga è un moderato,
e un simile attacco antiborghese sembra invece (ma non è) da oppositore accanito.
La spiegazione usuale è che si tratti una posizione antiborghese di tipo appunto
romantico. Precisando, bisognerebbe tirare in ballo gli umori sociali che circolano in
Dumas figlio (dalla Dame aux camélias al Demi-monde), ma soprattutto in Balzac:
non a caso la storia di Eva sembra uscita dalle Illusioni perdute: il giovane artista
che vorrebbe vivere il suo amore in perfetto isolamento romantico, ma poco romanticamente l’amore vivrà finché ci saranno i soldi della ballerina, guadagnati con un
lavoro che l’artista disprezza; e siccome il narratore sembra stare dalla parte della
ragazza, il romanticismo c’è ma è sottoposto a critica. Il tono aggressivo della prefazione verghiana appartiene a mio avviso a questo filone, rivisto alla luce della più
concreta critica sociale milanese di questo periodo.
A questo punto, subito dopo la prova generale con Eva, gli eventi si
susseguono rapidamente. L’arrivo di Zola sulla scena italiana, la straordinaria
propaganda di Cameroni, il sentirsi parte di una cultura che, anche nella sua versione moderata della << Rivista minima >>, guarda con occhi severi alle aporie
del mondo moderno, lo sfondo filosofico da cui emerge l’idea della selezione
naturale legata alla lotta per la vita, tutto questo entra certamente nel progetto
prima della Marea e poi dei Vinti.
E allora, per tornare alla contraddizione apparente, bisognerà constatare
che il concreto dibattito milanese ha portato Verga alla prospettiva giusta da cui
elaborare il suo progetto di ciclo narrativo, anche se poi gli sfondi di quel ciclo
non sono milanesi. Milano ha fornito, molto più dei moderati toscani di Firenze,
quel polo temibile della modernità rispetto al quale leggere i vari strati sociali
rappresentati. I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo possono anche essere siciliani, ma il tarlo che li rode è quello che Verga ha incontrato a Milano, anche
se già a Firenze si era teorizzato che la questione sociale, in Italia, è questione
agraria: il sogno campestre di tutta la letteratura europea di metà secolo, ricco di
filantropia e buoni sentimenti, viene rivisto alla luce del cosiddetto progresso e
della lotta per la vita, ed ecco che Vita dei campi inaugura in Europa una campagna ben diversa. L’occhio polemico sulla politica dell’Onorevole Scipioni, cioè
del quarto romanzo del ciclo, risente della diffidenza della cultura meridionale
ma anche milanese verso il parlamento, mentre nel terzo romanzo La duchessa di
Leyra può ben essere siciliana e vivere a Firenze, e nell’ultimo, l’artista Uomo di
lusso essere un poeta che di nuovo si muove tra Sud e la capitale toscana, perché
l’aristocrazia o l’arte di lusso, cioè inutile, secondo Verga (e lo dice la prima lettera che ho citato) sono quelle della sua giovinezza fiorentina, ma il giudizio su
di loro è milanese; a Milano ha trovato un’altra arte e un’altra società, con cui è
sceso a patti, ed è stato lui a scrivere i capolavori di quella cultura.
Tuttavia, e questo occorre dirlo, Verga è arrivato fino a un certo punto nell’indagine
63
della scala sociale e poi si è fermato. Perché la generazione di Verga non è quella
di Svevo Pirandello e Tozzi, non è stata capace di mettere in discussione se stessa,
e quindi non ha potuto raccontare, come Pirandello e Svevo, la figura dell’artista
nella società moderna (e penso a Quaderni di Serafino Gubbio operatore o a
Senilità) o sottoporre a processo come loro la figura del borghese in forma di
autoanalisi. Ma non lo fatto neanche il più giovane Zola in Francia, dove si è
dovuto aspettare l’ancor più giovane Maupassant, o neanche i narratori vittoriani in
Inghilterra, dove si è dovuto aspettare il Joyce del Ritratto dell’artista da giovane
o gli altri della sua generazione.
Milano potrebbe già contentarsi di questi capolavori, con l’aggiunta di
alcuni codicilli, e ovviamente Per le vie. Prima di passare a queste novelle, vediamo
i codicilli, cioè le opere verghiane del periodo milanese che rappresentano un primo
tentativo di risposta al malessere individuato in Eva. Queste opere, tra Tigre reale e il
bozzetto di Padron‘Ntoni, danno retta all’altra campana della Milano di questi anni,
e mi riferisco alla già citata << Rivista minima >> di Salvatore Farina. Tigre reale,
ad esempio, esplora un filone milanese estremista, quello della passione patologica
che attraverso Tarchetti aveva sedotto anche Dossi e continuerà fino a Giacinta di
Capuana e poi alla Passione maledetta di Tronconi, ma lo esplora per sottomettere
la passione alle ragioni familiari tanto care al gruppo di Farina. Tigre reale saggia
insomma la possibilità della sopravvivenza di valori genuini nel clima della nuova
società, come d'altronde stava facendo in contemporanea anche Luigi Gualdo, un
altro milanese che appartiene in pieno a questo clima realistico anche se la critica
continua ad ascriverlo agli scapigliati.
Subito dopo, tra il ‘74 e il ‘76, Verga si impegna a rappresentare sui vari
gradini della scala sociale in che modo l’uomo non sappia o non possa prendere
coscienza dell’alternativa anche troppo esemplificata nel finale di Tigre reale, quando
la famiglia è appunto opposta alla passione. In Nedda o nel racconto Primavera
l’ostacolo all’amore è la miseria, ma lo scacco dell’individuo non nega l’esistenza
del sentimento. In Eros la sconfitta è interiore, e quindi più drammatica, ma è chiaro
che il protagonista marchese Alberti, con una migliore educazione, in un eventuale
altro romanzo, potrebbe salvare sé, l’amore e la famiglia (e questo è un problema che
assilla anche l’Alberto Pisani di Dossi). Più duro il racconto Primavera, non a caso il
primo di ambientazione milanese, dove un maschio egoista è ormai fuori della portata
della sua timida innamorata, rimasta a una idea vera ma antica dell’amore.
Una conferma viene da un progetto verghiano di questi anni: con il bozzetto
Padron ‘Ntoni, primo nucleo dei Malavoglia, lo scrittore voleva direttamente rinfacciare la purezza degli umili a una società moderna, quale esemplarmente era quella
milanese, che sembrava far di tutto per tradire le speranze risorgimentali di una renovatio etica. Proprio a proposito di Padron‘Ntoni, Verga aveva infatti scritto in una
lettera a Capuana che avrebbe voluto dargli “quella impronta di fresco e sereno raccoglimento che avrebbe dovuto fare un immenso contrasto con le passioni turbinose
e incessanti delle grandi città, con quei bisogni fittizi” (14 marzo 1879).
A modo suo, insomma, Verga raccoglieva senza moralismi l’appello
unanime di Cameroni e di Farina a non scrivere solo storie d’amore, a non occuparsi solo di “gonnelle”. Ma le sue soluzioni sembravano per ora poco concrete
ai milanesi. Dalle pagine della <<Rivista minima >> , Roberto Sacchetti, piemontese ma assimilato al gruppo variegato di quel giornale, poteva giustamente
64
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
65
GIOVANNA ROSA
“L’illustre tradizione lombarda”
“Eppure si viene sempre fuori da questa illustre tradizione lombarda vecchia di due
o tre secoli, e che ha radici anche più indietro, nel cuore della regione più civile del
nostro Paese, oltre che nella Peste: città europee anche troppo efficienti che producono spiriti di brillanti illuministi dalla testa fredda, bravissimi nelle lingue straniere
e nell’empatia neoclassica, insieme a qualche malinconico tipo aggravato da cupi
risvolti moralistici, malgrado i nostri Verri, tormentato nel suo cartesianismo fittizio
da venature morbose di Giansenismi e di Controriforme…”1
La citazione è tratta dall’Anonimo Lombardo, il romanzo di Alberto
Arbasino dal titolo ostentatamente manzoniano e costruito sulla corrispondenza
epistolare del protagonista scrittore con un interlocutore appellato Caro Emilio: in un
paio di lettere, il caro Emilio si chiarisce diventando Carlo Emilio [Gadda].
Nel gusto arbasiniano della profluvie di note, chiose, citazioni e sberleffi, il
libro pubblicato esattamente trent’anni fa (Einaudi 1973; una nuova edizione Adelphi,
secondo la pratica della riscrittura continua, è del 1996) ci offre una mappa ricca e
completa di opere e figure appartenenti all’“illustre tradizione” della Lombardia moderna.
L’avvio è fissato nel Settecento illuminista, quando, intorno al << Caffè >> si
radunano “spiriti brillanti dalla testa fredda”, convinti che “le parole devono servire
alle idee, non le idee alle parole” (ivi, p.120): dalla rivista di Verri e Beccaria, che
prende nome dal luogo in cui si forma la moderna opinione pubblica (Habermas),
parte la battaglia contro l’arretratezza di una cultura miope e provinciale, arroccata
nella difesa intransigente del Vocabolario della Crusca e di una letteratura ridotta
ad “imitare gli imitatori”. Dopo la turbolenta stagione napoleonica, quando l’ordine
dei libri abbandona l’antico regime tipografico (Chartier) e si avviano i processi di
modernizzazione del sistema editoriale (Berengo), si giunge all’età cupa ma letterariamente feconda della Restaurazione: l’attività del gruppo romantico, erede della
“Cameretta” portiana dà slancio vigoroso all’opera di ribaltamento irreversibile dei
canoni stilistici e delle gerarchie di genere: sullo sfondo del dibattito che trasmigra
dal <<Conciliatore >> di Pellico Borsieri Visconti al <<Politecnico >> di Cattaneo alla
70
<<Rivista
Europea >> di Tenca, ecco il “passaggio di quel Moby Dick della Valle del
Po che è il misterioso Manzoni” (ivi, p.103), primo a sperimentare le strutture
eterodosse del romanzo e a colmare la “divergenza ansiosa fra una lingua parlata quasi inafferrabile, e una lingua scritta falsa per definizione, intrattenuta in
finzioni insensate da una greve tradizione di retori con l’orecchio di piombo”
(ivi, p.90). Forte di questa doppia eredità, che intreccia razionalismo lucido
e passionalità nevroticamente romantica, la cultura della modernità letteraria,
tratteggiata da Arbasino, approda nel nuovo secolo, sfiora Bontempelli “precettore di buon senso” (ivi, p.94) e si esalta nel pastiche espressionistico di Carlo
Emilio Gadda. Al termine del percorso si colloca lui, il più vivace fra i “nipotini dell’Ingegnere”, pronto a riconoscersi nel “dissidio fra le due anime della
Lombardia”, diventato ormai una “costante antropologica milanese”.
Ancora una citazione arbasiniana, tratta dall’introduzione di un’opera di Carlo
Dossi, Vita di Alberto Pisani, che a quella tradizione indubbiamnete appartiene:
“Però, sotto sotto, quel tragico spasimo: quel conflitto implacabile fra le
due anime della Lombardia - illuminismo cosmopolita e scientificizzante, delirante
romanticismo melodrammatico - ostinatamente riproposto dal tormentoso Genius
Loci in un assordante contesto di “lavurà” e “danè” a ogni successiva generazione
letteraria, fino a diventare una costante antropologica milanese…”2
Difficile, a me pare, non concordare sulle linee maestre del quadro schizzato
dalla penna estrosa dell’Anonimo lombardo novecentesco. Pacifico il termine a quo:
il paradigma assiologico-culturale della modernità letteraria nel nostro paese prende
avvio a Milano, nelle età dell’Illuminismo e del Romanticismo, quando accanto alla
formazione di pubblico medio dei “lettori giudiziosi” - così li appellavano i redattori
del “Conciliatore”, per diffrenziarli dall’elite aristocratica umanisticamente educata
- si avvia il mutamento dello status sociale dei letterati e si promuove la fondazione
della civiltà del romanzo (solo l’avvio perchè le censure, gli interdetti e gli anatemi
lanciati contro il suo pieno sviluppo, come ci ha ricordato Bigazzi in altra sede, sono
stati feroci e di lunga durata).
I pareri possono, invece, essere discorsi sul termine ad quem:
quell’illustre tradizione lombarda raggiunge la nostra epoca, supera la soglia del
terzo millennio e in essa si possono ancora ricnoscere gli scrittori che operano
sotto il cielo di Lombardia? Prima di sentire il parere autorevole di Consolo, una
serie di charimenti.
I - Riconoscere le tendenze costanti, per quanto con andamento carsico,
dell’illustre tradizione significa individuarne un nucleo geneticamente forte: la difesa della tolleranza antidogmatica e della libera fantasia creativa, l’impegno di serietà
morale di chi reputa il mestiere di scrittore non una mania sfiziosa e solitaria, ma una
professione utile, negotium non otium, la cui dignità deriva non dall’esibizione di raffinatezze ornamentali, ma dalla ricerca di una letteratura fatta di “cose non parole”;
infine una assidua sollecitudine etica, diversamente declinata, ma sempre intrisa di
assilli e inquietudini che abbracciano le questioni dell'intera collettività.
II - Altrettanto nevralgico. A questo patrimonio, che coniuga con origi71
nalità valori umanistici e sapere tecnico-empirico, attività di scrittura e operosità
pragmatica, si richiamano, sentendosi orgogliosi di farne parte, non solo gli scrittori
nati a Milano ma tutti coloro, e sono moltissimi, che, dietro le orme del “milanese
Stendhal”, hanno deciso di eleggere la metropoli a loro sede di vita e di lavoro.
Uno di loro, forse il più grande poeta dialettale lombardo vivente, Franco Loi, nato a
Genova (1930) da padre sardo e madre emiliana, abitante a Milano dal ‘37, chiarisce
i lineamenti di chi possa vantare la propria milanesità, senza però mai cedere ad alcun
separatismo “padano”:
“E’ proprio il nesso etnia-città che non ha mai avuto corso a Milano: da
sempre la città assume e produce un tipo d’uomo che viene detto milanese anche se
è nato in Francia come Henri Beyle, o a Luino come Vittorio Sereni, o a Stradella
come Carlo Dossi.” 3
O a Voghera come Arbasino, ad Alessandria come Umberto Eco, o a
Siracusa come Vittorini, e magari a Sant’Agata di Militello come Consolo. E i nomi
si affollano in schiera vasta e variopinta: accanto agli innumerevoli letterati, occorre
ricordare i giornalisti Torelli Viollier e Luigi Albertini, fondatore e direttore mitico
del << Corriere della Sera >> ; oppure “gli artisti terroni”, amici di Quasimodo, anche
lui a Milano insieme con Gatto e Sinisgalli, di cui ci ha parlato Giovannetti. Sono
gli “ambrosiani d’adozione” che hanno trovato accoglienza ospitale nelle “officine
della letteratura”, nel sistema editoriale, nelle strutture della stampa periodica, nei
centri della cultura istituzionale e non, persino nelle sedi insospettabili del potere
bancario, come la Comit di Raffaele Mattioli, nel cui Ufficio studi ha lavorato un
altro poeta, Sergio Solmi.
Anch’essi, rispettosi di quella “costante antropologica”, hanno contribuito alla formazione dell’identità intellettuale della metropoli: alla loro penna si
devono spesso i ritratti più suggestivi. Uno su tutti, Ascolto il tuo cuore, città di
Alberto Savinio. Da loro provengono le dichiarazioni di più spudorata ammirazione: così Vittorini spiegava a Lucia Rodocanachi le ragioni del suo imminente
trasloco a Milano.
“Sa che è la più bella città del mondo? Anzitutto è città: quando ci si è dentro
veramente si pensa che il mondo è coperto di case…ed è piena del mondo, di tutte le
possibilità naturali del mondo” 4
[E ancora Loi in un’intervista recente, rilasciata in occasione della morte
di Gaber: “E’ difficile lasciare Milano, perché è l’unica, vera città italiana. L’unico
posto che mescola il mondo. (…) Milano è una piccola New York, accoglie le diversità, le razze, ti fa sentire a casa dopo poche ore.” Loi: nell'era di Internet abbiamo
tutti voglia di milanesità, << Corriere della Sera >> 13 agosto 2000.]
Nondimeno - ed è il III chiarimento cruciale - l’illustre tradizione, a
cui tutti attingono, riattualizzandola nelle forme più diverse, non si distende con
andamento lineare e costante, con tratti netti e riconoscibili: anzi, nella parabola
secolare della letteratura lombarda pesano più gli intoppi, i rifiuti, le fratture, di
quanto non maturino le scelte di continuità.
72
A suggerircelo, indirettamente, è sempre l’Anonimo novecentesco:
“… e uno finisce per trovarsi esageratamente in trappola tra illuminismo e romanticismo, Fratelli Verri e Lettera Semiseria di Grisostomo… nella medesima trappola fra il libertinaggio tutto razionale di testa, cosmopolitico ed enciclopedico,
e le più incredibili passioni melodrammatiche, forse anche vere- o tra realismo e
Rappresentazione, all'ombra delle generazioni bruciate in fiore-.” (ivi, p.162)
Nella tensione contraddittoria, nel dissidio implacabile delle due anime
della civiltà letteraria ambrosiana, gli eredi si sentono “in trappola”, ingabbiati,
dilaniati da opposte suggestioni; e quanto più partecipano dei valori e paradigmi di
quel retaggio tanto più cercano di sottrarvisi.
A partire da subito, dai primi decenni postunitari, quando avviene il confronto
ravvicinato con i “padri” della stagione illuministico-romantica. E’ l’epoca
inquieta della Scapigliatura: gli scrittori che appartenengono alla “generazione
crucciosa” (Emilio Praga, Memorie del presbiterio) non solo non si riconoscono nelle forme che si è dato il nuovo Stato unitario, ma mettono subito
in discusione il patrimonio di codici e tipologie rappresentative che avevano
dato voce e corpo alla letteratura risorgimentale. Non è certo possibile darne
qui esemplificazione analitica: una sola citzione canonica: “Io (…) per amor
di Manzoni, stetti contro Manzoni” 15 : il primo a dichiararlo, mettendolo in
pratica con coerenza rigorosa, è Carlo Dossi, tutti gli altri à suivre.
Nell’ansia di radicamento e, contemporaneamente, nel desiderio di
fuga, nella sintonia e insieme nel rifiuto intransigente risiede il vero filo rosso
sotteso alla trama discontinua, sfrangiata della storia letteraria della Lombardia
moderna: l’ambizione immedicabile di ogni scrittore di sentirsi consentaneo con
la civiltà che ha promosso lo sviluppo della cultura più all’avanguardia del paese
e l’assillo di inverarne, ogni volta, la spinta all’innovazione originale si intrecciano alla contestazione risentita e crucciosa del sistema ideale e compositivo
che geneticamente l’ha fondata.
Nel lungo corso di questi secoli, l’attività artistica del singolo autore
quanto più attinge slancio dal patrimonio istituzionale di idee, moduli e stilemi
elaborato fra Sette e Ottocento, tanto più nutre un’altrettanto imperiosa smania
di modificarlo e deformarlo, fino a stravolgerne l’ordine interno.
Ancora una volta, l’elenco delle opere è troppo ampio per soffermarvisi: basti ricordare l’inizio del secolo XX che vede affiancati all’avanguardia
futurista i Frammenti lirici di Rebora e le rapsodie dialettali di Tessa.
Su tutti svetta l’ “ingegnere di letteratura” Carlo Emilio Gadda, animato per tutta la vita da un furore amoroso per la sua “svergolata Milano”. I
nostri Buddenbrook sono, è vero, solo “disegni”, e tuttavia nei racconti scontornati dell’Adalgisa è inscritta la storia, autentica anche se poco entusiasmante,
di una borghesia intraprendente in campo economico ma miope culturalmente e
riluttante a farsi classe dirigente nazionale.
Chi vive in quel “Pastrufazio, intossicato d'urbanità e d’urbanesimo”
(La cognizione del dolore, p.599), quanto più s’attiene alle regole della “dura e
talora opaca disciplina” tanto meno riesce a sfuggire alle nevrosi e alle inquietudini
dell’esistenza privata e collettiva. Sullo sfondo di una “terra di gente e di popolo,
vestita di lavoro” (ivi, p.629), la “città conclusiva” fattiva e beneficiente, ma incline
73
al perbenismo codino o peggio alla cialtroneria predatoria, sconta la sua ansia produttivistica nel pragmatismo privo di slanci e rischia, ad ogni svolta cruciale, di vanificare la ricchezza composita e contraddittoria del suo codice genetico.
Ne La cenere delle battaglie, uno splendido racconto degli
Accoppiamenti giudiziosi 6, il narratore schizza, con umore atrabiliarmente melanconico, il ritratto di sé e dei suoi rapporti tormentati con la “città industre”, abitata da uomini indefessamente laboriosi e accortamente filantropi (l’amico Eucarpio
Venzaghi “aveva offerto l’operazione d’appendicite, oltreché a se stesso, a tutte le
sorelle: come regalo di Natale”). La “penna malvagia”, impugnata da Prosdocimo
-questo il nome del protagonista che ora risiede a Roma-, colpisce con autoironia
corrosiva l’impudenza neghittosa di chi “aveva lasciato un impiego redditizio e molto
serio, per occuparsi di quisquilie” letterarie, tradendo così la stima e l’affetto degli
amici lombardi, ma nel contempo di questi ultimi denuncia l’ottuso moralismo che
ammanta di ipocrisia un buon senso ormai tracimato a senso comune. La diagnosi
impietosa di “anomalia psichica” che lo stimato Eucarpio rinfaccia all’ex-compagno
vale, d’altra parte, a marcare la distanza che ormai separa Carlo Emilio dal mito
ossificato della “fattiva città”: “tra le ceneri delle battaglie lontane…”- così suona
l’explicit del racconto- non rimane traccia di valori residui e tutti i personaggi, ormai
reduci, non hanno nulla da rivendicare, e forse neanche da rimpiangere. Il sarcasmo
acre contro il suo alter-ego, sfaticato e menefreghista, poco concede agli alibi difensivi del narcisismo d’autore, ma “lo strazio della memoria” è ancora troppo dolente per
non accusare il debito verso la storia - “neppur la sposa del Carso lo volle”- e l'intera
umanità, massime quella rappresentata dalla “tribù del ceto mercativo-politecnico di
Milano e dintorni”.
Infine, un altro ritratto gaddiano, d’indole saggistica, mostra il volto
ambrosiano con i suoi connotati industriosi, e insieme, con i tratti di un perbenismo
occhiuto, non disgiunto da un egoismo miope.
“L’assiduità pertinace alle incombenze del giorno, la legittima brama del
guadagno, del benessere, una sodalità cordiale e civile. Credere e operare nel bene,
cavar zecchini il più onestamente possibile dal tempo mortale. Tutto si adempie, a
Milano, in una sicura esattezza, che è garanzia e conforto del vivere, incitamento ad
aver fede nel domani, e, soprattutto, nell’oggi. (…) Si direbbe che un “regolamento”
ci basta, che abbiamo in uggia, chiamati dall'officina o dalla fabbrica, il mondo delle
circostanze morali, i problemi, le perplessità, le complicazioni d'una fenomenologia
che sentiamo non essere nostra. Ci basta una sirena “periferica” nel frizzante mattino.
Ci basta una voce del tariffario: “El polàster el paga dazzî”. Vorrei che al senso profondo della responsabilità e dell’autonomia economica si accompagnasse un ugual
ardore per ciò che è forma e stile della terrena vicenda, in questa terra che pur diede
i natali al Cardano, al Caravaggio, al Manzoni. (…) In una terra già folta di popolo,
oltre mezzo milione di immigrati sono stati accolti al lavoro, eguali nel diritto, eguali
e molte volte superiori nel profitto.” (Milano, << L’Approdo>>, a..II, 1953, lugliosettembre 1953)
Nell’opera di Gadda, l’ “illustre tradizione lombarda” raggiunge l’acme
nell’atto stesso in cui corrode, forse irrecuperabilmente? - l’equilibrio possibile fra
le sue componenti costitutive. Sullo sfondo di una metropoli che, nell’intreccio spas74
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
75
VINCENZO CONSOLO
La patria immaginaria:
l’emigrazione impossibile
“La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo, le cime imbandierate
delle impalcature della Galleria, la cella campanaria di S. Ambrogio, la cupola di S.
Maria delle Grazie, la sestiga sopra l’Arco della Pace; s’addensava tra gli ippocastani
ed i tigli del Parco, e dai Giardini, scivolava le acque dei Navigli. Era una giornata
di novembre del 1872, una di quelle giornate milanesi d’autunno in cui chi approda
in città per la prima volta, chi approda dal Sud rimane meravigliato - guardando in
alto - che il sole velato e docile possa essere fissato ad occhio nudo al pari di una
rossastra luna notturna.”
In quella giornata di novembre arrivava a Milano un Siciliano di nome
Giovanni Verga. Aveva abbandonato da parecchio gli studi di giurisprudenza e aveva
deciso, aiutato dalla madre Caterina Di Mauro, di trasferirsi “in Continente” per
dedicarsi alla letteratura.
Certo, non è che la sua esclusiva professione di letterato, di scrittore, per uno che
usciva da una famiglia borghese o di piccola nobiltà appena benestante, non fosse
avventurosa; ma crediamo che la famiglia Verga avesse approvato la decisione del
figlio perché c’era stato il precedente di Domenico Castorina, loro cugino, poeta e
romanziere, mandato in “altitalia” a spese del comune di Catania per completare
e pubblicare un poema in versi. C’era forse anche la suggestione del locale mito
artistico per eccellenza, del “cigno di Catania” Vincenzo bellini, che in Continente
aveva raggiunto fama e gloria; e poi Giovanni, precoce come Bellini, aveva dato già
buona prova del suo talento e della sua passione letteraria: aveva scritto a 15 anni
il suo primo romanzo Amore e Patria, a 20 I carbonari della montagna, a 23 Sulla
laguna.
Milano non era la prima tappa a nord di Verga; c’era stato già un soggiorno
di sei anni a Firenze dove si era trasferito nel 1865; Firenze, nuova capitale politica
del Regno e vecchia capitale letteraria e linguistica d’Italia. In questa Firenze splendida e suggestiva per un giovane provinciale ambizioso e determinato, Verga abbandona i temi storici e patriottici dei primi romanzi per avventurarsi in quelli amorosi,
passionali e mondani. A Firenze, sono ora infatti ambientate Eva, Tigre reale ed Eros.
Ma subito, come punto dalla nostalgia, abbandonati i salotti, i concerti, le passeggiate
82
in carrozza alle cascine, ritorna in Sicilia, a Vizzini, alla sua viva memoria di adolescente, al ricordo di una fanciulla timida, triste, malaticcia, chiusa in un convento
come una capinera in gabbia, con il romanzo che gli darà la notorietà e gli farà da biglietto da visita per il suo ingresso nel mondo e nella mondanità milanese. La Storia
di una capinera e l’esotismo del suo autore, giovane meridionale sottile ed elegante,
olivastro e pallido, capelluto e baffuto, dall’occhio color della lava, romantico e
fatale insomma, fanno sùbito di Verga un personaggio di spicco nei salotti: nel salotto
della contessa Maffei, della Castiglione, Cima, Ravizza, Gargano. “La prima volta
che lo vidi fu a causa della Maffei, una domenica sera, e le due salette erano piene di
signore, tra cui sei o sette giovani e belle, e queste lo circondavano in tal modo che io
non potei appressarmi a lui”; questo scrive Roberto Sacchetti. Il successo dello scrittore Siciliano con le donne scatenerà la gelosia feroce -oltre che a un certo razzismodi Carducci, il quale temeva che anche la sua amante Lidia fosse caduta vittima del
fascino del “bel tenebroso”: un uomo che mette una brutta corona baronale sulla sua
carta da visita, che si lascia dare falsamente del cavaliere, e che scrive un romanzo
epistolare, e con tutto questo è anche Siciliano, non può che essere altro che un
vigliacco, ridicolo, parvènu. Ma contrariamente a quanto possa far credere quest’ira
schiumosa del vate d’Italia, e anche senza sposare la tesi di una misoginia verghiana
sostenuta da Carlo Matrignani nell’introduzione a Giovanni Verga dei Drammi intimi
di Sellerio, ora Verga non è un personaggio brancatiano, non è un “Paolo il caldo”
che dissipa il suo tempo e il suo talento passando ossessivamente da una avventura
amorosa ad un’altra, è un metodico e intransigente lavoratore che concede ai riti
mondani solo le poche ore di libertà. Dalla sua prima dimora in piazza della Scala, e
di qui alle sue successive dimore in via Principe Umberto e Corso Venezia, muoveva
per andare al “Cova”, al “Biffi”, alla “Scala” per passare la serata in uno dei salotti
alla moda, per fare le sue passeggiate per le vie del centro. Di una eleganza un po’
troppo puntigliosa nel suo tight, nella sua marsina, forse eccessivamente inamidata
nella forma, non frequentava certo l’osteria del “Polpetta” di via Vivaio, il ritrovo
degli “Scapigliati”, anche se con alcuni di questi aveva stretto rapporti di amicizia.
Ma, come sempre capita agli immigrati, sono i conterranei che più frequenta il Verga:
quella piccola colonia di Siciliani formata da Onofrio, Farina, Auteri, Navarro della
Miraglia, Scontrino, Avellone, a cui si aggiungerà poi Capuana, che il Verga con
incessanti lettere aveva convinto a trasferirsi a Milano: “Tu hai bisogno di vivere
alla grand’aria come me, e per noialtri infermi di nervi e di mente la grand’aria è la
vita di una grande città, le continue emozioni, il movimento, la lotta con noi e con
gli altri, se vuoi, pur così...; tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà
improvviso, vigoroso, fecondo, appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti; costà tu ti atrofizzi”, così scrive nel ‘74 Verga al suo più caro
amico e confratello. Scrive così il Verga che certo vuole strappare dalla provincia il
Capuana, sottrarlo alle divagazioni e dissipazioni che gli impegni politici e privati
imponevano allo scrittore di Mineo; ma crediamo che, dopo due anni di soggiorno
milanese, sente come il bisogno - di fronte a quella realtà, nell’affrontare quella vita
che vertiginosamente cambiava sotto i suoi occhi - di un compagno di strada, di un
amico fidato, con cui discutere per potere capire. “Si Milano è proprio bella, amico
mio, e qualche volta c’è proprio bisogno d’una tenace volontà per resistere alle sue
seduzioni e restare al lavoro”, aveva scritto al Capuana. Ma era soltanto della Milano
quando Verga vi giunse nel ‘72?
83
Nel ‘72 Milano contava 250 mila abitanti; era una città in pieno fermento
industriale ed edilizio. Gli opifici della seta e dei latticini, della pasta, della gomma
e di altri prodotti ammodernavano i propri impianti. La ditta Pirelli & C, fondata dal
ventiquattrenne ingenier Giovanni Battista Pirelli, inaugurava la sua fabbrica per la
produzione di oggetti in gomma plastica e guttaperca. Dalla nuova Stazione Centrale
partivano le linee per il Veneto, il Piemonte, la Toscana, la Liguria, l’Emilia, il Lazio
e giù fino alle Marche. La città in fermento aveva anche bisogno di ristrutturarsi e di
espandersi: si sistema poi la piazza del Duomo; erano già stati iniziati i lavori per la
Galleria la cui esecuzione, affidata ad una società inglese, era diretta dall’architetto
Mengoni che in bombetta e spolverino si faceva fotografare sulle impalcature. Da
quelle impalcature il povero Mengoni poi, accidentalmente precipiterà trovando la
morte. Il duca Melza d’Eril offre al comune una vasta area per nuovi palazzi fuori
Porta Nuova. A Porta Ticinese sorge una nuova stazione sussidiaria, e sorgono anche
case operaie in via Solforino e Montebello. Il 4 settembre 1872 veniva inaugurato
in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci. Nello stesso anno era stato
aperto al pubblico il “Teatro Dal Verme”, quel teatro Dal Verme dove si darà poi la
‘prima’ della Cavalleria rusticana.
Sempre nel ‘72 si organizzano a Roma e Torino congressi di sezioni e
federazioni operaie aderenti all’Internazionale dei Lavoratori.
Cominciavano tra il ‘75 e il ‘76 le inchieste in Sicilia promosse dal
Parlamento e condotte da studiosi come Fianchetti e Sonnino, da giovani colti e
disinteressati, come dice Capuana nel saggio La Sicilia e il brigantaggio. Dalla
Sicilia arrivavano dalle delegazioni dei prefetti le notizie più preoccupanti sulla
mafia, sulle condizioni dei contadini e degli zolfatari; dell’inchiesta Fianchetti e
Sonnino, quello che aveva colpito di più la opinione pubblica era stato il capitolo
supplementare dal titolo Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare Siciliane; si alzava
per la prima volta il velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta, e l’Italia
ne rimaneva inorridita. Anticipando quì in tanto un nostro assunto - di cui diremo
più avanti - se Nedda del ‘75 può essere stata scritta dal Verga sulla spinta di un
bisogno di un ritorno sentimentale in Sicilia, in una Sicilia contadina sepolta nella
memoria, vista e conosciuta nella sua verità negli anni dell’adolescenza, possiamo
ipotizzare che Jeli il pastore e Rosso malpelo e Vita dei campi dell’‘80 siano stati
dettati dalla presa di coscienza di un’altra Sicilia, attraverso lo specchio delle
sopraddette inchieste? Presa coscienza dell’assoluta naturalità dell’intatto mondo
ultraliminare, presociale del tredicenne guardiano di cavalli di Tepidi e di Jeli,
della disumana, terrifica, quasi onirica, quasi metafisica condizione cunicolare,
labirintica del capomonte Malpelo; l’una e l’altra tanto simili alle condizioni dei
contadini e dei ‘carusi’ delle zolfare di Franchetti e Sonnino.
Ma andiamo con ordine; ritorniamo a Milano, ritorniamo alla profonda
trasformazione, al fermento di innovazione in campo industriale, sociale, urbanistico
di cui la società è preda a partire dal 1872, innovazione e trasformazione che trova
il suo culmine e la sua massima espressione nell’Esposizione Nazionale dell’ ‘81.
Quell’anno Verga abita in Corso Venezia, all’angolo dei Bastioni di Porta Manforte,
e l’Esposizione si svolge vicino a casa sua da via Senato ai Bastioni di Porta Venezia,
occupando il boschetto e i Giardini. Molti letterati che credono nel progresso inneggiano all’Esposizione: Boito tiene una conferenza nel padiglione delle arti; alla
Scala, durante i giorni dell’Esposizione si rappresenta il Ballo Excelsior, l’opera di
84
Romualdo Marengo su libretto di Luigi Manzotti. I temi dei vari quadri del balletto
sono: l’Oscurantismo, la Luce, il Primo battello a vapore, i Prodigi dell’invenzione,
il Genio dell’elettricismo, e via di queste immagini; il balletto si conclude con l’inno
alla Scienza al Progresso, alla Fratellanza, all’Amore. Scrive Manzotti nella prefazione al libretto: “Vidi il monumento innalzato a Torino in gloria del portentoso traforo
del Cenisio, e immaginai la presente composizione coreografica, e la titanica lotta
del progresso contro il regresso, che io presento a questo intelligente pubblico, e la
grandezza della civiltà che vince, abbatte e distrugge per il bene dei popoli l’Antico
potere dell’Oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia”:
ce n’era abbastanza… E anche se il simbolismo retorico dell’Excelsior, il suo ingenuo
declamatorio ottimismo in un progresso al ritmo di mazurca non sono da paragonare
alle “magnifiche sorti e progressive” del Mariani, o al “migliore dei mondi possibili”
del Leibniz, avranno sicuramente suscitato nell’animo di Verga reazioni o sentimenti
simili a quelli espressi nel leopardiano pessimismo cosmico della Ginestra, o nel
volterriano scetticismo rappresentato con sprizzante ironia dal Candido. E non certo
il solo, leggero Ballo Excelsior (ammesso che Verga l’abbia visto rappresentato alla
Scala), ma tutto quanto avveniva sotto i suoi occhi, l’affacciarsi alla ribalta e prendere direzione e potere economico di una nuova intraprendente borghesia imprenditoriale, da una parte, dall’altra, un organizzarsi e prendere parola di una plebe che si
fa popolo, si fa mondo del lavoro e che antagonisticamente reclama e difende i suoi
diritti. Non a Firenze ma a Milano gli si rivela tutto questo, nella Milano industriosa
e laboriosa, capitale della scienza e della tecnica, gli si rivelano due mondi in movimento, due realtà insieme complementari e in conflitto, che dai salotti nobiliari, dalle
strade del lusso, dai luoghi conclamati dell’arte difficilmente si potevano scorgere;
e neanche si intravedevano dalle crepuscolari patetiche portinerie, dai bastioni, dai
viali, dalle gallerie, dai veglioni alla Scala, dalle osterie, da tutti i luoghi frequentati
da dimesse e rassegnate sartine, commesse, doganieri, servette, soldati, ballerine, da
tutte le persone che “non sbraitano, non stampano giornali, non si mettono in prima
fila nelle dimostrazioni” (questo è un brano tratto da Per le vie, un racconto intitolato
Piazza della Scala di Verga).
A Milano si rivelano al Verga delle nuove storie, gli si rivela una nuova
storia di cui non ha cognizione, memoria, linguaggio e di fronte alla quale si ritrae
sbigottito, si ritrae da questo capitalismo inventivo e intraprendente per rifugiarsi
nell’arcaico capitalismo terriero e feudale della sua Sicilia.
Nasce a questo punto nello scrittore il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia e riprendere contatto con la sua terra, alla
quale egli ritornava con l’animo del figliol prodigo, come all’unico bene che ancora
gli rimanesse intatto e solido dopo tanta dissipazione. “Ben vicino e tangibile, eppure
indecifrabile e remoto come un miraggio, come l’ideale oggetto di una suprema e già
disperata nostalgia” scrive Natalino Sapegno. Un mondo intatto e solido fuori dalla
storia, e in contrasto, nel suo movimento circolarmente chiuso, con l’illusione del
cammino progressivo della storia. Recupera quindi il suo mondo, Verga, memorialmente e soprattutto linguisticamente, con una lingua che appartiene al mondo narrato
e anche al soggetto narrante, che poi significa - per la teoria dell’impersonalità di
Verga - al mondo che si narra da sé. Una lingua che non è matericamente e naturalisticamente la sua lingua dialettale, ma un italiano irradiato di sentimento e di ideologia
dialettale, una lingua periferica in conflitto con la lingua centrale: conflitto da cui
85
nasce la poesia, come dice Luigi Russo. Non finiremo mai di ringraziare gli ingegneri
e gli industriali milanesi che, con il loro attivismo ed il loro progressismo, ci hanno
restituito uno scrittore della grandezza del Verga; gli stessi ingegneri e industriali, la
stessa borghesia milanese, che in anni più recenti, ci darà uno scrittore come Carlo
Emilio Gadda.
L’‘81, storica data dell’Esposizione Nazionale e della pubblicazione dei Malavoglia, non è l’anno della caduta di Verga da cavallo sulla via
di Damasco, o sui viali del parco di Monza; la conversione naturalmente ha
radici più profonde, comincia a serpeggiare da epoche remote, dal ‘74 almeno,
dall’anno di pubblicazione di Nedda, e ancora dal ‘75, quando Verga pubblica
sull’<< Illustrazione Universale>> di Emilio Treves, in quattro puntate, una strana novella, un racconto gotico, nero: Storie del Castello di Trezza; quel racconto
è affatto giovanile, primitivo, è vecchio di già; “è un mio vecchio peccato di gioventù, quella novella”, scriverà Verga al suo traduttore Edoardo Rod e aveva a
quell’epoca 35 anni e una solida fama di scrittore; in quella brutta novella Verga
si scopre a guardare giù da sopra gli spalti del Castello di Trezza, il mare ed il
paese di Acitrezza; guarda attraverso Donna Violante, uno dei personaggi del
racconto: “il mare era levigato e lucente, i pescatori sparsi per la riva o aggruppati davanti agli usci delle loro casupole chiacchieravano della pesca e del tonno
e della salatura delle acciughe; lontano lontano, perduto fra la bruma distesa,
si udiva a intervalli un canto monotono e orientale; e sorprese sé stesa, lei così
in alto nella fama dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare
interesse i discorsi di quella gente posta così in basso, ai piedi delle sue torri;
poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo
che svolgevasi lento lento dal tetto.” Siamo qui ad una vera propria epifania, ad
un ‘introibo’, e qui forse bisognerebbe - dopo aver raffrontato questo Castello
di Trezza con la torre di Sandycove sulla spiaggia all’apertura dell’Ulisse di
Joyce, da cui parte l’Odissea linguistica di Stephen Dedalus: “introibo ad altare
Dei” incomincia con sarcastica solennità il suo amico Mulligan-Cristostomo
- soffermarsi sulla posizione così in alto da cui si guarda al mondo degli umili
e scoprire che Verga, nonostante la scientificità e l’obiettività del suo punto di
vista, nonostante l’impersonalità del risultato, non sfugge a quanto Natalino
Sapegno dice dei veristi: “Il verista italiano rimane in sostanza il gentiluomo che
si piega a contemplare con pietà sincera ma un tantino condiscendente la miseria materiale e morale in cui le plebi sembrano immerse senza speranza in un
prossimo futuro”; sono insomma, i veristi italiani secondo Sapegno, tutti afflitti
dal complesso del “signor Marchese con... asterischi” del XXVIII capitolo dei
Promessi Sposi, l’erede di don Rodrigo che serve a tavola Renzo, Lucia, Agnese
e la mercantessa, ma che non si abbassa a mangiare insieme a quella buona
gente.
E’ un serpeggiare, quello della conversione, con Nedda e con Storie
del Castello di Trezza, sotterraneo e subcoscenziale; ma dopo il suo sgorgare
alla superficie con Cavalleria Rusticana e con La Lupa, ancora intrise nel loro
impeto di pietre dialettali e di terriccio toscano, ecco che con Fantasticheria
siamo alla piena coscienza, siamo come al manifesto della nuova poetica, alla
dichiarazione d’intenti del suo futuro lavoro il quale raggiungerà da lì a poco le
vette di Jeli il pastore e Rosso Malpelo e si dispiegherà nei due grandi poemi dei
86
Malavoglia e di Mastro don Gesualdo.
Con l’abbandono di Milano, col ritorno a Catania in quella sua casa di via S. Anna,
tutto denunzia la volontà dello scrittore di rimanere chiuso nella prigione di una rigorosa solitudine. Risalendo dal limite estremo della spiaggia, dai faraglioni del mare
di Acitrezza, su verso le chiuse e le masserie di Vizzini, fino alle soglie dei palazzi
nobiliari di Palermo, ripercorrendo tutti i livelli linguistici a noi noti, da quelli dei
pescatori e dei contadini a quelli dei proprietari terrieri Siciliani, Verga sarà incapace di andare oltre. Dalla frase musicale d’attacco del primo romanzo del ciclo dei
vinti “tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di
Trezza”, all’ultima tragica frase del Mastro don Gesualdo che si spezza in un crescendo come in un’opera di Wagner “tutto! Pigliatevi tutto! Lasciatemi stare! L’Alia,
la Canziria! Lasciatemi stare!” Verga non sarà più capace di orchestrare, di modulare
le frasi nei saloni del Palazzo palermitano del duca di Leira.
Risentito e scontento, dissiperà così il suo tempo a Catania, tra la casa e il
Circolo dell’Unione, la conduzione del giardino d’agrumi di Novaluccello, le beghe
giudiziarie, la cura e l’amministrazione dei beni dei nipoti, la corrispondenza con
Tina di Serdevolo e i periodici viaggi in Lombardia e in Svizzera; e si chiuderà man
mano in sé stesso, in una solitudine e in un’accidia senza rimedio. Dice sempre di
lavorare alacremente alla Duchessa di Leira, ma pubblica i due bozzetti teatrali
Caccia al Lupo e Caccia alla Volpe e pubblica anche, forse sulla spinta delle rivolte
socialiste del ‘93 di contadini e zolfatari, in opposizione ad esse, Dal tuo al mio, un
dramma teatrale che poi diventerà romanzo: il 2 settembre 1920 si rifiuterà di presenziare, al Teatro Massimo di Catania, ai festeggiamenti in suo onore per l’ottantesimo
compleanno. Pirandello, in quella occasione, leggerà il suo celebre saggio sul grande
scrittore catanese, e Verga l’indomani andrà a trovarlo in albergo per dirgli: “perdonami, Luigi; a te tutta la mia gratitudine; ma dall’Italia ufficiale non voglio onoranze”.
Diceva questo a quel Pirandello che, con precise disposizioni testamentarie, si sottrarrà a sua volta, morendo, alle manifestazioni ufficiali che il regime fascista gli
avrebbe con certezza tributato.
Verga muore nel gennaio del 1922 nella sua casa di Catania. Lì si concludeva la vita di questo grande scrittore emigrato al Nord e ritornato nella terra
da cui era partito, la vita del primo autore della letteratura Siciliana moderna che
sente il bisogno di lasciare la periferia d’Italia, d’Europa, di lasciare l’Isola e
approdare a Milano, al centro ‘ideale’, a quella che Salman Rushidie chiama la
“patria immaginaria”. Dopo e insieme a Verga è il confrère Luigi Capuana che
approderà a Milano nel 1887 e vi rimarrà fino al 1880.
Verga ‘scrive Milano’ nelle dodici novelle di Per le vie, e scrive in un
libro collettivo dal titolo Milano nella sua vita, nell’arte, nei suoi costumi e
nell’industria (1896) un testo, I dintorni; e di Capuana, nello stesso volume,
appare il brano In Galleria.
È Verga che teorizza la necessità della ‘distanza’, della lontananza dalla
Sicilia per scrivere della Sicilia. In una lettera del 1878 scrive a Capuana: “ da
lontano, in questo genere di lavori, l’ottica qualche volta, quasi sempre, è più
efficace d’artistica, se non più giusta, e da vicino i colori sono troppo sbiaditi”.
Questa affermazione di Verga si può costare a un’altra di Nikolaj Gogol: “io
posso scrivere della Russia stando a Roma. Solo da lì essa si erge dinanzi in tutta
la sua interezza, in tutta la sua vastità”.
87
Nel 1918 arriva a Milano, proveniente da Roma, Giuseppe Antonio
Borghese, arriva in una città tutta imbandierata per le celebrazioni della vittoria
della Grande Guerra. E sulla prima guerra mondiale e sul dopoguerra, Borgese, già
famoso per i suoi saggi letterari, scriverà il romanzo Rubè, che si svolge tra Milano,
il Lago Maggiore, Roma e la Sicilia, la terra del protagonista Filippo Rubè. Scrive
già da anni, Borgese, sul << Corriere della Sera >>, e a Milano insegna alla Accademia
Scientifico-Letteraria; nel ‘26, sarà creata per lui, all’università, la cattedra di estetica. Nel 1931, lo scrittore abbandonerà Milano ed emigrerà in America per ragioni
politiche, per opposizione al fascismo. E in America pubblicherà, nel 1935, il libro
Golia, marcia del fascismo. E in Golia ritornerà a scrivere di Milano, delle ragioni
culturali politiche per cui possa esser nato in questa città, nel paese un fenomeno
come Mussolini, possa esser nato il fascismo. Racconta, fra l’altro, di una serata
del gennaio del 1919 alla Scala, il cui il vecchio socialista Leonida Bissolati teneva
una conferenza. Da un palco di proscenio, Mussolini insieme a Marinetti cominciò
a rumoreggiare, a disturbare la conferenza. Bissolati si fermò e guardò verso quel
palco e riconobbe Mussolini. “Volse la testa verso gli amici che gli erano vicini e
disse a bassa voce: ‘Quell’uomo no!’.” Quell’uomo invece da lì a tre anni, partendo
da Milano, avrebbe compiuto la famosa marcia su Roma. Quell’uomo sarebbe stato
accettato e osannato per vent’anni in questo nostro sciagurato Paese.
Nel 1933 Elio Vittorini è a Firenze, sua tappa, come quella di Verga, prima
di trasferirsi a Milano, dove si stabilirà definitivamente nel dicembre di quello stesso
anno. “ Sai che è la più bella città del mondo? Anzitutto è città: quando si è dentro si
pensa che il mondo è coperto di case...” Scrive all’anglista Lucia Rodocanadi. Il siracusano Vittorini ha, nei confronti dell’industriosa e industriale Milano, un atteggiamento opposto a quello di Verga, rifiutandosi il ripiegamento nella passività e rassegnazione di Verga, la sua visione metastorica, il suo “fatalismo”, l’arcaico mondo
contadino Siciliano. Milano è per Vittorini la città degli Illuministi, di Manzoni e di
Cattaneo, la città attiva, degli operai che hanno coscienza di ‘classe’ e un atteggiamento attivo nei confronti della Storia, la città dell’industria a misura d’uomo, il cui
modello è rappresentato da un imprenditore come Adriano Olivetti. ‘Scrive Milano’,
Vittorini, con Conversazioni in Sicilia, in cui il protagonista ed io narrante Silvestro,
nel momento più buio e tragico del Paese, dell’Europa, nel tempo del fascismo della
guerra, in preda ad “astratti furori”, lasciasi il suo lavoro di tipografo e compie, come
Ulisse, il viaggio di ritorno, il nostos, nella terra natia, nella terra della madre, delle
madri. Ma non rimane lì impigliato, li prigioniero, come il Don Giovanni in Sicilia
di Brancati; dopo lo sprofondamento del luogo della memoria, ritorna ai suoi doveri
di “compositore di parole”, di scrittore, ai suoi doveri di uomo, di cittadino. Scrive
la Milano della ‘43, Vittorini, la Milano della guerra e della lotta antifascista con
Uomini e no. E anche di società, di contesti democratici con La Garibaldina, Erica
e i suoi fratelli, Il Sempione strizza l'occhio al Frejus, Le donne di Messina, Le città
del mondo... E c'è ancora un altro grande Vittorini ‘milanese’, l’intellettuale e operatore culturale, il direttore di Riviste letterarie e politiche come << Il Politecnico>>
e << Il Menabò>> , il direttore di collane letterarie come la Medusa, la Corona, e i
Gettoni...
Un anno dopo Vittorini, nel ‘34, provenendo dalla Sardegna, si stabilisce
a Milano il geometra del Genio civile, il poeta, cognato di Vittorini, Salvatore
Quasimodo. Il lirico, il siculo-greco Quasimodo, è costretto anche lui, per l’orrore
88
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
89
MARIO MENTASCHI
Vicende storico postali
della Lombardia nel 1859
L’obiettivo della presentazione è illustrare come si è evoluto il servizio postale a
Milano e nella Lombardia nel periodo 1850-1859, dalla data di emissione dei francobolli ( i francobolli del Lombardo Veneto sono i primi francobolli emessi in territorio italiano) nel 1850 sino al 1859 quando la Lombardia venne annessa al regno di
Sardegna. Per poter meglio inquadrare e comprendere questo argomento ritengo utile
fornire alcune in formazione sull’evolversi dei servizi postali ed inquadrare storicamente la realtà del Lombardo Veneto nel 1850 quando vennero emessi i francobolli.
Ora il servizio postale è meno importante di allora e tende a divenire
sempre meno importante sostituito da altri mezzi di comunicazione quali il fax, la
posta elettronica ecc... Sino ai primi decenni del ventesimo secolo le comunicazioni
avvenivano quasi esclusivamente tramite documenti trasportati dal sistema postale.
Anche in questo settore si distinsero gli italiani. I primi ad organizzare un efficiente
sistema di comunicazioni postali in Europa, usufruibile anche da privati, furono i
veneziani, in particolare la “Compagnia dei corrieri veneti”, che già dal 1400 aveva
ottenuto dalla Serenissima l’appalto del servizio postale. La rete di comunicazioni
dei Corrieri veneti copriva gran parte dell’Europa e di essa potevano avvalersi anche
i privati residenti nelle località servite dai Corrieri. Un ruolo importante nella gestione della compagnia dei Corrieri veneti venne svolto nel 1400 dalla famiglia Tasso
originaria di Camerata Cornello in val Brembana che nel 400, con l’intera provincia
di Bergamo apparteneva ai domini di terra della Serenissima. Nel 1500 l’imperatore
Carlo V, impressionato dalle loro capacità, aveva affidato ai Tasso che divennero
Torre e Tasso, l’incarico di sviluppare nell’ambito del suo vasto impero una rete di
comunicazioni postali. Da notare che i Tasso non si distinsero solamente come Mastri
di posta, ma Bernardo e soprattutto il figlio Torquato, come ben sapete si guadagnò
fama imperitura con la sua Gerusalemme liberata. Recentemente era stata organizzata (giugno-agosto 2003) a Cornello una mostra didattica volta ad illustrare l’opera
dei Tasso nello sviluppo delle comunicazioni postali.
La famiglia Tasso organizzò nel periodo 1500-1800 un efficiente e capillare
sistema di distribuzione della posta nei territori del vasto impero asburgico, la loro
capacità venne premiata nel 1650 con la concessione del titolo principesco a quella
che divenne la casata dei Thurn & Taxis. I vari rami della famiglia nel 1500-1600
93
avevano in pratica l’appalto del servizio postale in gran parte dell’Europa: Spagna,
Belgio (Fiandre), Germania, Austria e Stato pontificio. Solo la Francia aveva un
efficiente sistema nazionale, in Francia nasce il concetto di privativa postale, cioè il
diritto esclusivo dello Stato a gestire le comunicazioni postali. Ancora nel 1850/1860,
quando vennero emessi i francobolli dai vari Stati in cui era frazionata la Germania,
i Thurn & Taxis gestivano un sistema privato di distribuzione della posta che copriva
tutta la Germania con ben 450 uffici postali ove potevano essere acquistati i francobolli emessi da questa organizzazione, denominati in kreuzer (la sessantesima parte
del gulden o fiorino) negli stati meridionali, in sielbergroschen (la trentesima parte
del thaler, tallero) nella Germania settentrionale. Di fatto i Thurn and Taxis avevano
realizzato l’unione postale tedesca prima dei prussiani. Nel 1867 l’amministrazione
postale prussiana acquistò l’intera organizzazione postale dei Thurn & Taxis ed
introdusse la privativa postale in Germania. L’importanza del sistema postale è testimoniata dal fatto che ancora oggi molti alberghi hanno il nome albergo Posta.
Sino alla fine dell’Ottocento i viaggiatori, in certe località, trovavano
alloggio esclusivamente nelle stazioni di posta organizzate dal sistema postale
per consentire il riposo del personale ed il cambio dei cavalli.
Penso poi sia utile inquadrare storicamente il Lombardo Veneto di cui
Milano era riconosciuta capitale:
Il congresso di Vienna del 1815 doveva restaurare l'Europa come era
prima del ciclone napoleonico.
Di fatto il congresso di Vienna venne pilotato dal Metternich nell’interesse
degli Asburgo:
- la repubblica di Venezia non venne restaurata, i suoi domini di terra vennero uniti
alla Lombardia già dominio austriaco prenapoleonico,
- la Valtellina venne sottratta al cantone dei Grigioni della confederazione elvetica,
- in Toscana si insediarono gli Asburgo-Lorena,
- nel ducato di Modena gli Asburgo-Este.
Il congresso di Vienna sancì nei fatti il predominio austriaco in Italia.
Nel 1848 quando i moti liberali sconvolsero le principali capitali europee
anche in Italia i principi regnanti concessero la costituzione tra essi Carlo Alberto che
promulgò il famoso ‘Statuto albertino’. In Lombardia la sollevazione antiaustriaca di
Milano (le famose 5 giornate) portò all’intervento antiaustriaco dell’esercito piemontese che venne appoggiato da formazioni di volontari provenienti da Toscana, Stato
pontificio e regno di Napoli. La definitiva sconfitta dell’esercito sardo a Custoza
portò alla restaurazione asburgica in Italia, tutti gli altri regnanti revocarono la costituzione tranne il regno di Sardegna. Il parlamento sardo non volle firmare la pace
con l’Austria, questo portò nel 1849 alla disastrosa sconfitta di Novara, Carlo Alberto
che non voleva revocare lo Statuto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II.
Il regno di Sardegna unico regno costituzionale della penisola divenne il riferimento
di tutti i patrioti italiani, premessa delle vicende della 2a guerra d’indipendenza.
Il primo giugno 1850, quando la imperial regia stamperia di Vienna introdusse i francobolli nei territori del suo Impero, nel Lombardo Veneto circolava la lira
austriaca o di Milano divisa in 100 centesimi che valeva 0,865 lire italiane, mentre
nel resto dell’Impero circolava il gulden (fiorino austriaco) diviso in 60 kreuzer. Pur
iconograficamente identici i francobolli del Lombardo Veneto erano denominati in
94
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
95
EMANUELE ZINATO
La città e la bomba:
le controstorie milanesi di Bianciardi e di Volponi
Spiegazione del titolo e premesse metodologiche
Inizierò con un assunto, necessariamente brutale: occorre ripensare il presente, resistendo alle categorie concettuali che ci portano a considerarlo ovvio; la
scuola è dovrebbe essere il luogo elettivo di un tale ripensamento, e la letteratura uno
dei suoi veicoli. La nozione di ‘Controstorie’ allude al rapporto ‘contraddittorio’ tra
storia e invenzione letteraria, centrale a esempio nella riflessione di Manzoni, ma già
implicito in tre meravigliosi versi di Ariosto che palesano una verità storiografica più
profonda nascosta nella finzione e nel rovesciamento letterario:
“E se tu vuoi che ‘l ver non ti sia ascoso, / tutta al contrario l’istoria converti: che
i Greci rotti, e che Troia vittrice, / e che Penelopea fu meretrice” (Orlando furioso,
XXXV, 27, 5-8)
Non diversamente, per lo scrittore contemporaneo José Saramago il rapporto storia/
invenzione va provocatoriamente invertito:
“La storia è un’invenzione. Come la impariamo a scuola, la storia è solo
una serie di avvenimenti raccontati secondo un certo filo per giustificare il fatto che
non abbia potuto essere altrimenti: tutto è stato così per una sorta di fatalità. Ma se
cerchiamo insignificanti episodi, piccole cose di cui non si parla per niente e le mettiamo nella storia che si racconta, allora queste inezie possono far saltare tutto come
una cartuccia di dinamite inserita nella crepa di un muro compatto. Quella che si
legge è la storia dal punto di vista degli uomini. Se la si narrasse dal punto di vista
delle donne risulterebbe molto diversa. Così da quello degli schiavi in luogo dei
padroni. Ciò che lo scrittore deve fare è guardare la storia in ogni angolo, raccontarla
da tutti i punti di vista.”
La letteratura, per proprio statuto ambigua, rappresenta insomma una
forma, “straniante” e ad alto tasso immaginativo-cognitivo, di storiografia
visionaria o di sociologia ossessiva. Una forma di conoscenza critica quantomai
necessaria, dato che, per penetrare la storia contemporanea, non solo manca ai
97
sociologi e agli storici la distanza prospettica, ma la loro stessa griglia di lettura
appare eccessivamente implicata col reale.
Col binomio ‘la città e la bomba’, compreso nel titolo, si fa riferimento a un
“tema” davvero incandescente della contemporaneità, oggetto di deformazioni culturalmente strumentali e di gigantesche rimozioni politiche: si tratta della centralità
della strategia del terrore, l’uso strumentale dell’attentato terroristico, una “pratica”
che ha riguardato in profondità la nostra recente vita nazionale così come oggi sembra permeare quella planetaria.
Sulla base di queste premesse, si tenterà una lettura di due romanzi milanesi,
La vita agra di Luciano Bianciardi e Il sipario ducale di Paolo Volponi, e si proporrano infine delle conclusioni, sovrapponendo a questi due testi la lettura di un terzo
romanzo: Il cavaliere e la morte di Leonardo Sciascia.
La vita agra di Luciano Bianciardi
La vita agra (1962) è una satira di taglio autobiografico, incentrata su
Milano, capitale indiscussa del “miracolo economico”. Bianciardi sceglie come
sua forma specifica la prima persona, l’autobiografismo e il memorialismo: è uno
scrittore satirico di prim’ordine, capace di congiungere grande moralismo e finta
autobiografia, rabbia e parodia linguistica. Uno dei bersagli del testo è l’aziendalismo
cultural-editoriale, l’ambiente Feltrinelli, esattamente come accade per Garzanti ne Il
Padrone di Parise. Il protagonista è attorniato infatti da una nuova piccola borghesia
milanese invasiva e pervasiva, ben rappresentata dalle segretarie telefoniste, senza
seno, dalle “gambe secche”, “intasatici aziendali", arrampicatrici sociali, prive di
corporeità, come accade, in versi e con altro registro linguistico nel coevo poemetto
narrativo La ragazza Carla di Pagliarani.
Alla fine l’io narrante s’incista nel proprio appartamento e la sua rabbia
si perde nel muro di gomma del “miracolo”: denaro, traffico rabbioso, consumi,
disidratazione spirituale. La periferia milanese, smossa da lavori edili permanenti, è
raffigurata come una città di morti o di “bacelloni” mutanti, lo sterrato che circonda
la casa dell’io narrante è definito “bolgia di purgatorio”, abitata da “larve indistinte”;
il paradiso consumistico del supermercato diviene una stanza d’obitorio, “enorme,
senza finestre, dalle luci giallastre sempre accese” (…) dal cui soffitto “cola una
musica calcolata per l'effetto ipnotico”.
Significativo, il forte rallentamento finale di gesti e pensieri. Il protagonista
muove meccanicamente le braccia e le mani sui tasti della macchina per scrivere, traduce autori americani a domicilio. La scrittura si concentra sulla nuda registrazione
delle funzioni corporali, allude a un annientamento: la seduta al gabinetto, l’odore del
pigiama e del tabacco, i muscoli posti in movimento dalla battitura delle cartelle, la
stanchezza e la sonnolenza della digestione, lo sciroppo alla codeina per la bronchite
cronica, la vita di coppia con Anna, la prospettiva di acquisto di un televisore a rate:
“il sonno è già arrivato e per sei ore io non ci sono più”.
La scrittura di Bianciardi è dunque soprattutto uno strumento di aggressione satirica dei nuovi riti sociali, uno specchio deformato della società milanese,
un’espressione di rancore beffardo. Cosa c’entra dunque con tutto questo il tema
della ‘bomba’, il motivo “terroristico” annunciato dal nostro titolo?
A ben guardare, innanzitutto, lo spazio del testo è bipartito: se la vicenda
98
palese si svolge a Milano, quella più occulta e rimossa è invece maremmana.
Milano è lo scenario della nuova antropologia “miracolata” ( consumi,
sesso, televisione, comfort) su cui preme, con le sue ragioni desuete, la provincia
toscana, dominata dal fantasma della miniera. Il lavoro operaio tradizionale sta infatti
all’esperienza lavorativa “aziendal-culturale” dell’io narrante come causa assente,
grande spettro divenuto incorporeo. L’antefatto de La vita agra è infatti un’esplosione,
e nel testo circolano, in forme figurali due deflagrazioni: una maremmana, reale, e
l'altra, milanese, virtuale. Nella miniera maremmana di Ribolla muoiono per uno
scoppio il 4 maggio 1954, quarantatre operai e per vendicare quei minatori (il processo contro la dirigenza della Montecatini si concluse con una completa assoluzione), il protagonista lascia la sua provincia e va a Milano con il progetto anarchico
di insufflare grisù e far saltare la sede della direzione delle miniere, “il torracchione
della Montecatini di vetro e cemento e le umane relazioni che ci stanno dentro”.
La vita dei minatori maremmani - ( oggetto di un libro-inchiesta di Bianciardi con
Cassola) e lo stesso deflagrante incidente in miniera, qui sono figura della repentina fine del lavoro moderno. L’esplosione offre infatti alla direzione Montecatini
l’occasione attesa per chiudere per sempre la miniera. La vita agra dunque racconta
anche, in forma di eslposione, una precoce dismissione di un’attività produttiva tradizionale del Moderno. La classe lavoratrice milanese, rispetto a quella maremmana,
è infatti geneticamente mutata:
“non ci rassegnavamo all'impossibilità di serbare i contatti con la classe
operaia, che aveva orari sfasati rispetto ai nostri, giungeva alle sei del mattino
coi treni del sonno e ripartiva alle sei del pomeriggio, oppure, terminato il lavoro,
rincasava in fretta per travestirsi da ceto medio e andarsene al cinema o al bar” (p.
72)
Lo scoppio della miniera rappresenta per Bianciardi la fine di ogni possibilità di modernizzare in modo democratico Grosseto e il suo territorio: da ciò consegue
l’improvvisa partenza per Milano e l’accettazione del lavoro nell’industria culturale.
Quella sconfitta, nel farsi scrittura, e dunque ricercando un compenso immaginario,
irradia sul testo un’altra virtuale deflagrazione. L’io narrante de La vita Agra è infatti
a Milano per eseguire un mandato del minatore sopravvissuto Tacconi Otello, quello
di mettere una bomba proletaria e vendicatrice nella sede della Montecatini: questa
è la consegna grossetana portata nel cuore del miracolo.
Questo estremismo politico è presente anche fra i modelli del testo:
hanno infatti agito sulla stesura de La vita agra non solo gli americani, Miller
e i beat o “arrabbiati”, tradotti da Bianciardi in quegli anni, ma anche Behan de Il
ragazzo del Borstal e Zenzero, con il tema del giovane che approda in Inghilterra
dalla natia Irlanda con una valigia carica di bombe per combattere per la repubblica degli operai e contadini irlandesi. In Bianciardi il motivo dinamitardo si
scontra tuttavia con lo choc della metropoli, la tradizione anarchica dell’attentato
“proletario” collide con l’orizzonte postmoderno: il protagonista venuto a Milano
per vendicare i minatori maremmani diventa un piccolo borghese.
Poco prima di mutare geneticamente, chi dice “io” nel testo fa a
tempo di formulare una strepitosa diagnosi sociale e di prefigurare una esilarante utopia “copulatoria”, una operetta morale “disattivista”, che prende
99
il posto del progetto dinamitardo:
“E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico? Posso
dirgli, guarda, Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se caschi
per terra nessuno ti raccatta, e la forza che ho mi basta appena per non farmi mangiare
dalle formiche, e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra, lassù. (…) Se si
trattasse soltanto di aprire un vuoto politico, dirigenziale, in Italia, con pochi mezzi ci
riuscirei. Il progetto l’ho già esposto altrove, ed è semplice. Mi basta da un massimo
di duecento a un minimo di cinque specialisti preparati e volonterosi, e un mese di
tempo, poi in Italia ci sarebbe il vuoto. E nemmeno con troppe perdite: diciamo una
trentina, e nessuno dei nostri. Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che
farei il vuoto, in Italia.
Ma il guaio è dopo, perché in quel vuoto si ficcherebbero automaticamente
altri specialisti della dirigenza. Non puoi scacciarli perché questo è il loro mestiere,
e si sono specializzati sugli stessi libridi quelli che dirigono adesso, ragionano con lo
stesso cervello di quelli di ora, e farebbero le stesse cose. (…) Farebbero crescere le
medie, sul serio, la produttività, i bisogni mai visti prima. E la gente continuerebbe a
scarpinare, a tafanarsi, più di prima, a dannarsi l’anima.
No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-socialdivertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve
cominciare in interiore homine.
Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogno nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.
La rinunzia sarà graduale, iniziando coi meccanismi, che saranno aboliti tutti, dai più
complicati ai più semplici, dal calcolatore elettronico allo schiaccianoci. (…)
Agli inizi formeremo appena delle piccole comunità, isolette sparute in mezzo allo
sciaguattare dell’attivismo, e gli attivisti ci guarderanno con sufficienza e dispregio.
(…) A poco a poco vedremo la nostra isola crescere, collegarsi con altre isole fino a
formare una fascia di territorio ininterrotto.
E un giorno saranno gli atri, gli attivisti, a ridursi in isola; poche decine di longobardi
febbrili aggrappati a rotelle e volani, con gli occhi iniettati di sangue. Forse non riusciremo mai a vincerli alla nostra causa, e resteranno lì a correre in circolo, a firmarsi
l’un l’altro cambiali, a esigerne il pagamento.
E noi li staremo a guardare dall'esterno, sorridendo. (…)
Il problema del tempo libero non si porrà più, essendo la vita intera una continua
distesa di tempo libero.
Scomparsi i metalli, gli uomini avranno barbe fluenti.
Scomparse le diete dimagranti e i pregiudizi pseudoestetici, le donne saranno finalmente grasse. (…)
Vedremo automobili ferme per via, senza più carburante, e le abbandoneremo ai giochi dei bambini, ai quali però nessuno dovrà dire che cosa erano, a che cosa servivano
quelle cose di un tempo. (…)
Non essendovi mezzi meccanici di locomozione, ci sposteremo a dorso d’asino o
a piedi, e questo favorirà l’irrobustimento dei corpi, con immediati vantaggi fisici
ed estetici. Grandi, barbuti, eloquenti gli uomini coltiveranno nobili passioni, quali
l’amicizia e l’amore.
Non esistendo la famiglia, i rapporti sessuali saranno liberi, indiscriminati, ininterrotti e frequenti, anzi continui.
100
Le donne spesso fecondate ingrasseranno acora, e i bambini da loro nati saranno
figli di tutti e profumeranno la terra. Noi li vedremo venire su forti e chiari, e li
educheremo alle arti canore e vocali, alla conversazione, all’amicizia, all’amore e
all’intercorso sessuale, non appena siano in età a ciò idonea. Andateci piano, tagazzi,
che tanto ce n’è per tutti.” ( pp. 158- 162)
L’omicidio politico e le bombe, insomma, piuttosto che moralmente inaccettabili, sono divenuti del tutto inutili in un orizzonte già postmoderno: occorre
piuttosto perseguire un ‘disattivismo copulatorio’ (che ricorda, in forme di apologo
semiserio, la riflessione marcusiana in Eros e civiltà) da opporre all’onnipervasivo
attivismo aziendalista, fino all'abolizione degli sveviani “ordigni” e al ritorno allo
stato comunitario di natura, contro il modello “social-divertentistico”.
Il sipario ducale di Paolo Volponi
Paolo Volponi in Il sipario ducale (1975) mette in scena due vecchi anarchici, Subissoni e Vives, reduci della guerra di Spagna, e li mette a confronto con
l’avvio milanese dell’occulta strategia della tensione: la bomba di piazza Fontana, lo
strapotere della televisione, il “suicidio” di Pinelli, l’arresto di Valpreda. Nel romanzo si intravedono inoltre - profeticamente - i primi germi di una localismo degenerante, (impersonato dal conte Oddino e dal suo intrallazzante tirapiedi Giocondini) e
l’incancrenirsi delle piaghe dello Stato unitario. Nel finale, l’anarchico Subissoni e
la giovane Dirce partiranno per Milano con la speranza di avviare un’inchiesta, una
controinformazione, capace di svelare le menzogne del potere.
Il sipario ducale è raccontato in terza persona da un narratore onniscente,
ed è formato da 24 capitoli e da due storie parallele e alternate. La vicenda si svolge
negli ultimi giorni del 1969, tra l’esplosione milanese della bomba di Piazza Fontana
del 12 dicembre - con cui si contrappose la strategia della tensione ai movimenti operai e studenteschi del 1968 - e il primo annuncio televisivo del ministro degli Interni
che addossava agli anarchici, in base alla testimonianza di un tassista, la responsabilità del massacro. L’immagine del sipario nel titolo suggerisce al lettore in primo
luogo l’artificialità provinciale delle quinte in cui si muovono i personaggi. Milano
e la bomba sono viste infatti da una specola marchigiana, secondo il punto di vista
del vecchio anarchico urbinate Gaspare Subissoni, irriducibilmente e biliosamente
critico nei confronti dell'unità nazionale. Il “palco”, l’artificio, l’inganno, riguardano
la storia dello stato unitario, i privilegi e mascheramenti di classe da questo istituiti e
consolidati dal fascismo:
“Fremevo pensando che non per niente al momento in cui avevano innalzato il palco
dell'unità d'Italia il mio avo aveva rinunciato al titolo di conte.”
Un altro dei motivi testuali a cui il titolo allude è la costante presenza falsificante della televisione. Il sipario ducale è il primo romanzo
italiano a tematizzare e trasfigurare l’influenza ulcerante del “treppiede
occhialuto” sull’immaginario politico di massa. Davanti alle notizie diffuse
dal telegiornale Subissoni infatti escalma:
101
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
102
RAFFAELE DE BERTI
Nascita di una metropoli:
Milano sullo schermo tra realtà ed immaginario
Premessa
Sostanzialmente lavorerò su due serie di film per cercare d’individuare alcuni elementi caratteristici che ci consentiranno di cogliere, a livello dell’immaginario
cinematografico, la lunga transizione di Milano da città europea di fine Ottocento,
primi Novecento, a vera e propria metropoli moderna “americana”.
La prima serie di film si apre con il documentario Stramilano, realizzato nel 1929
da Corrado D’'Errico1, di cui mostrerò alcune sequenze, per poi soffermarmi su due
film di Mario Camerini Gli uomini che mascalzoni… del 1932 e Grandi magazzini
del 1939. Poi con un rapido passaggio attraverso i film degli anni degli anni del
dopoguerra e degli anni Cinquanta, come l’esemplare Miracolo a Milano, salteremo
alla seconda serie di film analizzati che riguarda gli Sessanta.
Si tratta di un gruppo di film di finzione molto significativi dove vedremo
alcuni elementi tipicamente associati a una grande metropoli come il grattacielo (nel
caso specifico il “Pirellone”) e la rappresentazione della violenza criminale. Negli
anni Sessanta le pellicole di ambientazione milanese mettono in scena, secondo la
mia opinione, il passaggio definitivo da una città con i tratti di una modernità d’inizio
secolo, da grande Esposizione Internazionale (si ricorda quella di Milano del 1906),
ma ancora incompleta e contraddittoria, a quella di una metropoli moderna.
La seconda serie di film si aprirà con Rocco e i suoi fratelli (1960) di
Luchino Visconti, proseguirà con Il posto (1961) di Ermanno Olmi, La notte (1961)
di Michelangelo Antonioni e chiuderà con due film di Carlo Lizzani La vita agra
(1964) e Banditi a Milano (1968), che appunto sancirà, in modo esemplare, la conclusione del nostro viaggio nell’immaginario cinematografico milanese per individuare
il suo definitivo passaggio, negli anni Sessanta, a moderna metropoli.
Sono necessarie, però, alcune premesse di ordine generale, prima di entrare
nel merito di questi film che hanno come scenario Milano.
Il campione di film che ho scelto non è orientato verso la lettura della rappresentazione di una Milano da cartolina, come molte volte appare con le immagini del Duomo e del Castello come un puri scenari di sfondo stereotipati per dare
l’indicazione del fatto di essere a Milano. Ho puntato, invece, sull’individuazione
delle trasformazioni, sui momenti di transizione e di passaggio, spesso contraddittori,
106
della rappresentazione dello scenario urbano e sociale milanese. Tutto questo sempre
in funzione dell’obiettivo di cogliere i segni della lunga gestazione di Milano verso
la nascita come metropoli.
Queste fasi di passaggio e di transizioni , non sono solo urbane, ma,
come si è detto, coinvolgono anche i rapporti sociali. Per ragioni di sintesi
ci si soffermerà, soprattutto, sugli ambienti, sullo scenario della città, ma le
trasformazioni sono in realtà più profonde e si legano anche ai cambiamenti in
atto nella vita quotidiana e nei rapporti fra le classi sociali. L’affermazione di
nuovi scenari urbani si associa sempre in modo stretto a profondi cambiamenti
sociali. Sfera pubblica e sfera privata interagiscono reciprocamente e la nuova
organizzazione dello spazio cittadino è specchio, ma a sua volta agente dei cambiamenti. Attraverso la rappresentazione cinematografica osserveremo il passaggio dalla vecchia città di fine Ottocento primi Novecento verso la metropoli,
notando come accanto agli elementi innovativi convivano le tracce del passato
di una vecchia città che muore ( si pensi a quanto scrive Delio Tessa) o anche
l’illusione utopistica di una nuova città ideale come prefigurato nell’immediato
dopoguerra nel film Miracolo a Milano (1950) di Vittorio De Sica, con la
sceneggiatura di Cesare Zavattini.
Altra premessa generale imprescindibile è che noi non vedremo certo
la città reale, anche se le immagini molto spesso sono immagini di rappresentazioni realistiche riprese direttamente, è una città riflessa sullo schermo, la città
immaginata, ma che nello stesso tempo ha legami con gli spazi della realtà, o
meglio potremmo dire che organizza immagini della realtà per dargli un senso.
In sostanza il film con la sua rappresentazione interagisce con la realtà e la organizza per offrire una messa in scena e offre allo spettatore un modo di percepire
il mondo.
Potremmo dire, accentuando ed estremizzando il concetto, che il cinema
è uno dei modi, insieme alla letteratura e alle altre arti , per leggere e capire il
mondo, per cercare di trovarne un senso aldilà della superficie.
Ciò che lo spettatore vede sullo schermo è frutto sicuramente di scelte
di un apparato produttivo, non c’è solo casualità, c’è ovviamente una precisa
coscienza di far vedere certe cose e non altre.
Per non cadere nel rischio dell’idea del cinema come semplice rispecchiamento della realtà è bene tener presente una nozione di “visibile”
che io utilizzo da diversi anni e che mi pare essere ancora proficua e valida.
La definizione la riprendo dallo studioso francese Pierre Sorlin che così ha
definito nel 1977 la nozione di visibile di un’epoca come “ciò che i fabbricanti di immagini cercano di captare per trasmettrlo, è ciò che gli spettatori
accettano senza stupore, il visibile è quel che appare fotografabile e quel
che appare sugli schermi di un’epoca data” 2 . Ecco questo visibile è quello
che noi cercheremo di individuare nella rappresentazione cinematografica
di Milano negli anni Trenta e negli anni Sessanta.
Per Sorlin il cinema è allo stesso tempo repertorio e produzione di
immagine, e “mostra non già il reale, ma i frammenti del reale che il pubblico
accetta e riconosce. Per un altro verso contribuisce ad allargare il territorio del
visibile, a imporre immagini nuove”.3 Per cui una idea non di semplice rispecchiamento del reale, ma di interazione reciproca in cui lo stesso cinema influisce
107
sulla percezione del reale e la influenza.
Il cinema ed i suoi film diventano non uno specchio del reale, ma
un modo, come si è detto, di leggere il mondo della vita, il reale, sono
l’interpretazione del mondo.
Per una definizione di metropoli “americana”
Fatte queste precisazioni, prima di entrare nel vivo dell’analisi filmica,
bisogna chiedersi con quale domanda si vogliono interrogare i nostri testi filmici,
che naturalmente dicono anche molto altro rispetto a ciò che a noi interessa trovare.
La nostra domanda è, appunto, quando e come il cinema percepisce Milano come
metropoli? Quali sono i momenti di passaggio e transizione? Il cinema diventa così
un testimone del suo tempo o almeno del visibile condiviso del suo tempo.
Infine mi preme ricordare come la città sia strettamente legata al tema della
modernità, lo si è detto più volte oggi, e sicuramente Milano è la città italiana per
antonomasia più vicina alla modernità, è la città più europea, la città cosmopolita.
Lo stesso cinema è strettamente legato alla modernità, è parte integrante
della città moderna, diciamo che nasce per molti aspetti con essa. La prima proiezione ufficiale del cinematografo Lumiére è a Parigi nel 1895, per cui proprio nel
momento di passaggio verso le città moderne; città, cinema e modernità sono come
parti di uno stesso “corpo”.
Il cinema poi si consuma prevalentemente nelle città, è uno dei grandi elementi del
piacere e del consumo del tempo libero di ampi strati di popolazione urbanizzati.
Il cinema per cui caratterizza la vita moderna, la quale a sua volta s’identifica nella
città.
A questo punto è indispensabile un ulteriore passo: la città moderna come la
si identifica? Quali sono gli elementi essenziali che sono considerati come caratterizzanti una metropoli moderna Nell’Europa degli anni 20 e 30 - pur prendendone le
distanze, con una certa ironia, e vedendone la sua modernità con scetticismo, accanto
a una certa nostalgia per il passato - si guarda alle città americane come modello
ideale della metropoli moderna (New York e Chicago in particolare). D’altra parte
il legame americanismo e modernità si ritrova, con accezioni positive e negative, in
diversi ambiti di discussione nei primi decenni del Novecento. Se la città moderna
può essere ancora a fine Ottocento Parigi come grande città europea, senz’altro
quella che viene identificata come metropoli futuribile è New York con i suoi grattacieli come l’Empire State Building. Anche oggi, nell’intervento di Giovanna Rosa,
si citava un passo di Loi che affermava che essere a Milano sembra un po’ come
essere in una piccola New York, proprio per dare il senso del capoluogo lombardo
come metropoli moderna. Ritornando agli anni Trenta l' idea della metropoli si lega
automaticamente all'America.
Nel nostro percorso nel visibile cinematografico cercheremo d’identificare
le tracce che progressivamente, a partire dagli anni Trenta fino ad arrivare agli
Sessanta con “Banditi a Milano”, segnano il progressivo affermarsi di Milano non
solo come la città italiana più moderna, pur in una continua tensione fra tradizione
e innovazione, ma la definiscono come una metropoli, una sorta di “piccola New
York.”
La studiosa americana Miriam Hansen ha ben definito gli elementi che
caratterizzano l’idea in Europa della moderna metropoli americana. In particolare
108
farò riferimento al suo saggio: America, Paris, the Alps: Kracauer (and Benjamin) on
Cinema and modernità, contenuto nel volume Cinema and the invention of modern
life curato da Leo Charney e Vanessa R. Schwartz,4 una raccolta di studi sul cinema e
l’invenzione della vita moderna e che vede il cinematografo come uno degli elementi
caratterizzanti questo nuovo stile di vita, associato all’idea dell’americanismo, al
“vivere all'americana”. La metropoli moderna è, allora, il simbolo dell’americanismo,
nel bene e nel male che questa associazione comporta. Insomma la metropoli futuribile è per Miriam Hansen definibile, soprattutto, in relazione all’ America. Si tratta
di qualcosa con tratti nuovi rispetto alla città moderna che ha come modello Parigi,
descritta nell’Ottocento e nel Novecento in tanti passaggi letterari da autori come
Zola o Benjamin.
Ma quali sono questi caratteri della metropoli americana già definiti negli
anni tra le due guerre e che noi mano a mano cercheremo di individuare nei film
ambientati a Milano e che raggiungeranno il loro completamento, rispetto al modello
idealmente definito, solo negli anni Sessanta a sancire l’avvenuta trasformazione del
capoluogo lombardo in metropoli moderna pur certo in dimensioni minori rispetto a
New York?
Per Miriam Hansen i caratteri principali della modernità americana sono:
una produzione industriale meccanizzata e standardizzata con la catena di montaggio
(Ford e Taylor) con i connessi consumi di massa della merce, il superamento della
tradizione, la mobilità sociale e l’immigrazione dalla campagna alla città, un nuovo
ruolo della donna, che diventa lavoratrice con nuovi profili professionali. Detto per
inciso la figura femminile è centrale nei passaggi alla modernità perché diventa
appunto una donna lavoratrice, lo vedremo negli anni trenta, anche in Italia, si rappresentano al cinema commesse, telefoniste, segretarie; quelle segretarie che poi
anche negli anni 50 e 60 descriverà appunto Bianciardi.
La Hansen individua anche una serie di simboli legati alla nuova era della
modernità. In primo luogo il grattacielo, che è il simbolo più significativo associato
all’idea di metropoli e s’identifica con New York, già negli anni Trenta. Ad esempio
l’Empire State Building è protagonista nel 1933 dell’azione finale del film King
Kong (Cooper-Schoedsack), il regista tedesco Fritz Lang ha dichiarato di aver trattato ispirazione dal suo viaggio a New York per gli scenari futuribili di Metropolis
(1927). Per tutti gli europei che arrivano a New York o per quelli che si limitano a
vederla rappresentata al cinema, nelle fotografie, nelle descrizioni poetiche e letterarie o nelle lettere degli immigrati, lo spettacolo dei grattacieli è quello che colpisce
il loro immaginario. Un vero grattacielo a Milano si costruirà, però, solo negli anni
cinquanta con il “Pirellone”.
Altri simboli della modernità di origine americana, citati dalla Hansen,
sono: il jazz, lo sport, il cinema, le riviste, le automobili, i mezzi di trasporto rapidi,
la folla, la moda femminile e i grandi magazzini. Questi sono alcuni degli elementi
fondamentali che vanno a definire una città-metropoli americana, alcuni già presenti
a inizio secolo come i Grandi Magazzini, altri affermatisi progressivamente negli
anni Venti.
Da Stramilano a Grandi magazzini
Passiamo ora a verificare nei film la presenza d’immagini attraverso le quali
si possano identificare gli elementi e i simboli di quella modernità metropolitana
109
“americana” che abbiamo prima definita.
Una rappresentazione di Milano come città moderna che troviamo in nuce, pur con
tutte le sue contraddizioni e nonostante il fascismo, già in alcuni film degli anni
Trenta. E’ bene precisare che Milano, nei pochi casi in cui è rappresentata in questo
periodo, è l’unica città italiana in cui troviamo una dimensione moderna anche
negli spazi esterni (il traffico, le pubblicità luminose in piazza Duomo, gli edifici
della Fiera Campionaria, la prima autostrada verso i laghi ecc.). Invece, di solito,
nelle commedie, il genere di maggior successo degli anni Trenta, i segni dello stile
moderno si trovano negli interni delle case con l’arredamento dei salotti (ad esempio
Inventiamo l’amore (1938) di Camillo Mastrocinque) o nell’abbigliamento femminile (ad esempio La contessa di Parma (1937) di Alessandro Blasetti).
Il capoluogo lombardo è il protagonista di Stramilano (1929) di Corrado
D’Enrico. Si tratta di un documentario muto che ha come esplicito modello di riferimento Berlino. Sinfonia di una grande città (1927) di Walter Ruttmann e s’inserisce
in quel filone dei film “sinfonia” sulle grandi città, legati alla sperimentazione cinematografica delle avanguardie negli anni Venti, che puntano a ricostruire con le
immagini e il ritmo del loro montaggio il pulsare della vita moderna.
Non a caso viene scelta Milano, perché, come si è detto, è l’unica città
italiana in cui possa essere percepita una modernità vicina alle grandi metropoli
internazionali. La matrice futurista e sperimentale di Stramilano è riconoscibile nel
montaggio rapido, nell’uso delle immagini multiple, nei raccordi tra le inquadrature
dati per linee geometriche. Il filmato in una decina di minuti riprende una normale
giornata della città dall’alba alla notte. Si passa dalle strade e dalle fabbriche deserte
della prima mattina, ai banchi del mercato ortofrutticolo, al mattatoio; dall’uscita
dei tram dai depositi, all’animazione del traffico cittadino con la folla sempre in
movimento, agli interni di un'acciaieria. Le fabbriche durante il giorno lavorano a
pieno ritmo, ma il documentario non trascura la vocazione creativa di Milano: così
dall’interno di una grande industria tessile si passa a una casa di moda nella quale
si svolge una sfilata di modelle. L’affacciarsi del primo consumismo è affidato alle
riprese nei grandi magazzini della Rinascente. Il senso della velocità urbana è dato
da una serie d’inquadrature dei mezzi di trasporto: la stazione con i treni, l’aeroporto
e le automobili lanciate sulla prima autostrada italiana che porta verso i vicini laghi.
Molto spazio è dato anche alle riprese delle fabbriche, simbolo del lavoro moderno.
La macchina da presa indugia a lungo negli interni di un’acciaieria e soprattutto di
una manifattura tessile con le operaie “schierate” per farsi riprendere davanti a moderni macchinari. La tipologia delle industrie presentate, metalmeccanica e tessile, è
quella che caratterizza il capoluogo lombardo in quegli anni.
Infine, il documentario si chiude nella notte milanese, prima in un locale
notturno dove si esibisce un banda jazz, e poi nel centro della città illuminato dalle
insegne pubblicitarie montate sopra i palazzi di piazza Duomo, in fronte alla cattedrale, che sono state rimosse pochi anni fa. Tra le pubblicità, che si accendono a
intermittenza in vorticoso gioco di luci, sono presenti i marchi industriali di Fiat,
Magnesia San Pellegrino e lucido Brill.
In conclusione in Stramilano ritroviamo rappresentati una buona parte degli
elementi e dei simboli che Miriam Hansen riconduce al modello di modernità urbana
americana. Infatti, abbiamo le fabbriche metalmeccaniche e tessili con i loro macchinari e maestranze, riprese come luoghi di produzione seriale di tipo tayloristico
110
e fordiano. Molti dei prodotti industriali usciti dalle fabbriche li troveremo nelle vetrine della città e soprattutto nel luogo massimo dell’esposizione della merce che è il
grande magazzino (La Rinascente). La pubblicità dei vari marchi punta a promuovere
un primo consumismo di massa. Le pubblicità luminose, che entrano a far parte del
paesaggio urbano della città, aprono la strada anche a nuove modalità di promozione
che non siano quelle più consuete della stampa e dei cartelloni. La sfilata di moda
femminile ci ricorda anche la vocazione milanese e lombarda legata all’industria
tessile. Una moda femminile che negli anni Trenta troverà sempre più spazio nei
nuovi rotocalchi femminili popolari pubblicati da editori milanesi come Rizzoli ( <<
Lei>>, l’attuale << Anna >>) e Mondatori (<< Grazia >>). Al movimento della folla
nel grande magazzino o nella strada si accompagna il ritmo veloce dei treni e
delle automobili. Singolari le riprese, tra l’altro in un film muto5, dell’esibizione
dell’orchestrina jazz, una musica “americana” che il fascismo osteggiava perché
ritenuta primordiale e selvaggia.
Con Stramilano abbiamo visto una prima rappresentazione del visibile
della città moderna, spinta anche oltre ciò che era realmente alla fine degli anni ‘20
Milano. Il tentativo è di esaltare al massimo ogni elemento che possa avvicinare il
più possibile Milano alle città metropolitane europee e americane più importanti.
Anche se nel documentario permangono elementi più tradizionali e quasi di cultura
contadina come le riprese iniziali dei carretti che portano i loro prodotti al mercato
ortofrutticolo.
Passiamo adesso ai due film di finzione di Mario Camerini per cercare alcune conferme a quanto già visto in Stramilano della rappresentazione del capoluogo
lombardo come città moderna e industriale.
Gli uomini che mascalzoni (1932) è un film abbastanza singolare nel panorama
del cinema italiano degli anni ‘30 proprio perché è girato ampiamente in esterni a
Milano nelle sue strade e nei dintorni con la gita in automobile ai vicini laghi. La
storia è molto semplice, però significativa dei cambiamenti sociali che avvengono
nella Milano degli anni ‘30, perché i protagonisti sono due giovani innamorati, una
commessa di profumeria e un autista di automobile, interpretato da Vittorio De Sica.
Si tratta di due nuove professioni tipiche della nascente piccola borghesia urbana, da
una parte l’autista, in un periodo dove il possesso dell'automobile era ancora riservato
a una piccola élite sociale che assumeva per la guida dei giovani chauffeur come
nel caso del personaggio interpretato da De Sica. Dall’altra parte la nuova figura
femminile che lavora in una industria di commercio, svolgendo l’attività di commessa. Attraverso gli spostamenti dei protagonisti nelle strade della città, a piedi, in
tram, in bicicletta o in automobile si può osservare un nuovo paesaggio urbano con
il primo traffico di veicoli, gli orologi elettrici, i grandi cartelloni pubblicitari. Ma,
soprattutto, il film è caratterizzato da lunghe sequenze girate negli spazi della Fiera
Campionaria, luogo privilegiato dell'esposizione dell’industrializzazione italiana.
Nei padiglioni e nei piazzali esterni la macchina da presa indugia sulle pubblicità
della Campari, dei lubrificanti Fiat, della Cinzano,ecc e su “meravigliose” macchine
per la produzione di caramelle o su dispensatori automatici di profumo. La Fiera
Campionaria è l’erede delle grandi Esposizioni Universali di fine ‘800, primi ‘900
(a Milano si possono ricordare la prima del 1881 e quella del 1906), che hanno caratterizzato la prima fase di passaggio verso la modernità. La grande differenza è che le
111
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
112
FRANCESCO VARANINI
Milano tra letteratura e industria:
come nell’Italia contemporanea l’industria si fa letteratura e la letteratura si fa industria
Incipit
Corre l’anno 1964. È “una di quelle sere di aprile, che Milano è tutta verde,
tutta delicata, e la Via Manzoni sembra non finire mai”. Due rampolli della Milano
che conta passeggiano serenamente, conversando.
Daddo, ovvero il conte Carlo Ludovico Aleardi, annoiato dai salotti, dal
bel mondo, si appresta a lasciare Milano per un viaggio in barca a vela. Viaggia
in cerca di svago, viaggia perché è inquieto - ma, milanesissima ambiguità,
anche in cerca di affari. Deve fare contenta la ricca e avara madre, sempre alla
ricerca di nuovi investimenti immobiliari.
Boro Adelchi, l’amico, è “un giovane editore della nouvelle vague,
ambiziosissimo e ancora nei guai”, perché a corto di denaro. Boro come per caso
butta lì una richiesta: “tu che vai viaggiando, Daddo, perché non mi procureresti
qualcosa di primitario, magari di anormale”, “qualcosa d’inedito, di straordinario”; “un misto di libertà e passionalità, con non poca sensualità e una sfumatura
di follìa”, tutte cose di cui i lettori, a causa “della rigidità della moderna vita di
Milano”, sono golosi. Daddo non promette niente, è scettico. “Tutto è già stato
scoperto, ma non si sa mai... tutto può darsi”.
Boro però è ormai lanciato. Snocciola una serie di titoli, che dovranno essere
sensazionali, contundenti, come ad esempio Le notti di un pazzo, oppure La Strega, o
meglio ancora Bruciateli tutti! (E possiamo immaginarlo mentre divaga giudicando
l’efficacia di titoli latinoamericani a proposito dei quali tra addetti ai lavori si fa un
gran parlare, titoli che gli saranno parsi abbastanza, ma non ancora sufficientemente
crudi: La muerte de Artemio Cruz, La mala hora, Los funerales de Mamá Grande,
La ciudad y los perros). Infervorato, Boro sintetizza il contenuto del suo libro ideale:
scenario esotico, naturalmente, “miseria, oppressione e possibilmente qualche amore
piccante”. Daddo lo interrompe, scherzosamente: Sì, “ci vorrebbero le confessioni di
qualche pazzo, magari innamorato di una iguana”2. Ma Boro “che non aveva avvertito lo scherzo”, insiste, e Daddo si lascia strappare una mezza promessa: “Vedremo...
proverò. Ho idea che al di là di Gibilterra, qualcosa di illecito, e perciò di sofferente,
debba esservi... Cercherò nelle biblioteche, mi procurerò delle carte...” Boro, intanto,
pregusta “come avrebbe presentato l’opera, tra qualche mese, in cima alla Torre”,
117
La Torre Velasca, aggiungiamo noi, e già si immagina “approvazioni, eccitamento,
simpatie, traduzioni e premi avrebbero portato al cielo le vendite”.
Daddo non brilla per cultura, forse nemmeno per intelligenza. Ma è puro
di cuore, non è come Boro “legato seriamente alla propria ignoranza”. Daddo, dubbioso, ingenuo, cosciente delle proprie limitazioni, incredulo di fronte a ogni verità
proclamata; Boro sicuro nelle scelte di campo, soddisfatto del suo piccolo cinismo,
della sua capacità di lavoro, disposto sempre a cavalcare l’onda delle ideologie
dominanti. Daddo che si interroga sul proprio passato, sui rapporti familiari; Boro
che pensa di poter risolvere tutto attraverso rapporti politici, negoziazioni. Daddo
che sente su di sé il peso del dolore, che ha una fede, si accanisce a cercare l’amore,
e non sa rinunciare ai gesti teneri; Boro che pensa da vincente, ma evita di pensare
troppo: non trova motivo per mettere in discussione i miti della cultura di massa, e
tutto misura con strumenti oggettivi: le copie di tiratura, il denaro.
Boro e Daddo, polarizzazioni estreme dei nostri modi di essere di quegli
anni, e anche dei nostri atteggiamenti di fronte ai mondi lontani. Mentre per Boro
anche le più immonde periferie del Terzo Mondo vanno esplorate alla ricerca del
manifesto rivoluzionario, o del manoscritto di un romanzo da trasformare in best
seller, per Daddo le terre lontane restano luoghi da attraversare con curiosità, ma
anche con sguardo umile, attenti a cogliere l’ammaestramento che sta nei costumi
diversi. Daddo non sa rassegnarsi a cercare solo un libro; e per lui viaggiare è un
modo di perdersi, di mettersi in gioco, mentre per Boro il viaggio ha sempre uno
scopo preciso, un prezzo, un ritorno...
Insomma, Boro e Adelchi, giovani amici di belle speranze, cresciuti nella
élite del potere, negli anni del miracolo economico, passeggiano e parlano, senza rendersene conto hanno lasciato alle spalle via Montenapoleone, via della Spiga, hanno
superato la porta, e - via Turati a sinistra, via Palestro sulla destra- hanno davanti “la
più bella Piazza che Milano possegga, con lo sfondo di un rado parco”. Anche con la
nebbia, anche d’aprile.
Forse non è la più bella piazza di Milano - ma era il luogo dove Anna Maria
Ortese, l’autrice dell’Iguana, il romanzo del quale abbiamo letto l’incipit, si incontrava pochi anni prima con il suo innamorato.
Forse non è la più bella piazza della città, ma certo, passeggiando con Boro
e Adelchi nel centro di Milano, possiamo ripercorre un buon tratto della storia della
Milano contemporanea, dove l'industria si rifà l’immagine finanziando la letteratura,
e dove la letteratura si fa industria. Dove gli eredi di imprese rigogliose, o di vere
dinastie imprenditoriali, lottando contro se stessi, si scelgono una nuova immagine
come editori. Produttori di letteratura e personaggi letterari al tempo stesso.
Un editore in carne ed ossa, un mondo romanzesco
Come commenterebbe oggi Boro Adelchi, quarant’anni dopo, le sue smanie
di allora? Risponde nel 2000 Livio Garzanti all'intervistatrice del << Corriere della
Sera >>: “Non me ne frega niente di essere stato un editore. Ho fatto questo lavoro
come avrei potuto fare il barbiere. Mica sono un eroe della patria. Sono un merlo, un
figlio di papà.”. Non usa mezzi termini riferendosi all’Italia e alla sua ‘miseria intellettuale’, nota la giornalista, si stupisce che finora nessuno abbia dedicato uno studio
serio alla sua Casa Editrice, definisce i suoi libri preferiti quelli scritti prima della
118
nascita di Cristo e spiega “così mi risparmio la nascita del cattolicesimo” e infine
ammette: “È vero, sto scrivendo. Bisogna pur distrarsi”.3
La storia della Casa Editrice di questo figlio di papà risale al 1879. Allora
i fratelli Emilio e Guido Treves fondano l’impresa che porta il loro nome. Per
decenni è la più prestigiosa Casa Editrice italiana. Emilio, a partire dal 1883 dirige
<< l’Illustrazione italiana >> , il più moderno settimanale dell’epoca, ancora oggi
punto di riferimento obbligato per chi voglia studiare la cultura, la politica e la vita
sociale del tempo. La Casa Editrice pubblica, tra gli altri, D'Annunzio, De Amicis,
Verga, Pirandello.
Ma dopo la prima guerra mondiale, morti Emilio e poi Guido, la Casa
Editrice Treves sembra al tramonto.
Qui si innesta una storia imprenditoriale che niente ha a che fare, in origine, con
l'editoria. Aldo Garzanti nasce a Forlì nel 1883. Riceve un’educazione improntata agli ideali mazziniani e risorgimentali. Frequentato nella città natale il Liceo
Classico, si iscrive alla Facoltà di Lettere a Bologna, dove -allievo di Pascoli- si
laurea nel 1907.
Dopo essersi per qualche tempo dedicato all’insegnamento, si trasferisce
a Milano e si dà con successo all’attività di imprenditore. Opera nella chimica, settore degli ausiliari tessili. La Garzanti Chimica, tutt’ora attiva, cambia radicalmente
strategia dopo la seconda guerra mondiale. Rinuncia alla produzione, e si dedica a
rappresentare sul mercato italiano grandi imprese chimiche statunitensi. Il primo
accordo, tutt’ora il principale, è con la Du Pont. “On such bases, in the 50's, Garzanti
Chimica developed its activity in various branches, which required the creation of
specialised departments managed by skillful and qualified sales people”, si legge sul
sito dell’impresa.
Ma il fondatore è da anni impegnato in un diverso campo. Nel 1937, anche
dietro consiglio del caro amico Aldo Spallicci, aveva deciso di dedicarsi all’editoria.
Nel 1938 rileva la Casa Editrice Treves, che ben presto diviene la Garzanti Editore.
Subito una delle più importanti in campo nazionale, punto di riferimento di intellettuali ed autori del tempo -Malaparte, Bacchelli, Morante- in particolare romagnoli.
Anche la rivista, << l’llustrazione italiana >> , riprende fiato e prestigio.
Finché nel 1952 Aldo, pur mantenendo la Presidenza della Casa Editrice,
sceglie di dedicarsi ad un nuovo progetto: una Fondazione destinata ad ospitare artisti
e letterati, con sede nella natia Forlì. La Direzione Generale della Garzanti passa al
figlio Livio, allora trentunenne.
Quello stesso anno con una valigia di cartone legata con uno spago, con in
tasca poche lire, un giovanissimo trevigiano si era trasferito a Milano per lavorare
alla casa editrice Garzanti. E’ Goffredo Parise. Ha ventitrè anni.
Poco più di dieci anni dopo -e siamo esattamente negli stessi anni, e negli
stessi luoghi della passeggiata di Boro e Daddo- Parise, romanziere ormai affermato,
può permettersi di scrivere quello che vuole. O almeno lo crede. E così torna sulla
sua vicenda giovanile, torna a raccontare in prima persona il suo arrivo a Milano,
torna al suo esordio nel difficile mercato del lavoro metropolitano. Il giovane veneto
appena arrivato si reca per la prima volta presso la sede della ditta.
Non ha un vero contratto, solo una solida raccomandazione. Passa da
via Manzoni, ma gira a destra, si trova in via della Spiga, palazzi signorili,
eleganti, ma niente che sembri la sede di una moderna impresa. Solo più tardi si
119
accorgerà che nel vecchio palazzo borghese ha sede la direzione, oltre a pochi
servizi di rappresentanza. La maggior parte dei dipendenti lavora in un altro edificio, collegato, cui si accede dall’interno. Questo sì del tutto ‘moderno’, cupole
trasparenti, vetro e ferro e cemento.
Intanto, subito, ha conosciuto il giovane Padrone -è anche il titolo del
romanzo, uscito come l'Iguana di Ortese nel 1965-, il dottor Max.4 “Era un uomo
giovane, vestito di un abito scuro da vecchio, dal volto fine e pallido, strizzato, rimpicciolito da qualcosa di doloroso e ineluttabile come una malattia inguaribile. Gli
occhi chiari e ghiacciati erano chiusi dentro una fessura e da quella fessura guardavano. La bocca piccola, femminile e quasi senza traccia di labbra appariva segnata tutto
intorno, soprattutto agli angoli, da una secrezione biancastra che forse conteneva il
segreto della sua tristezza. Eppure quel volto, quegli occhi, quelle mani, e in generale
tutto il suo aspetto erano quelli di un uomo molto puro, uno studente romantico, un
giovane idealista che rincorra alti ideali di ordine e di classicità. Senza sapere chi
fosse ho provato una grande simpatia per lui”.
Tra il dottor Max e il giovane provinciale si stabilisce un rapporto speciale.
Il dottor Max lo vuole vicino a sé, e così fa ricavare per l'assistente un minuscolo
ufficio al posto del suo gabinetto privato.
Il dottor Max è geniale, ma roso da dubbi morali; generoso, ma gratuitamente
collerico.
“ - Così lei si ritiene di mia proprietà?” mi ha interrotto il dottor Max sorridendo.
- Sì, almeno fino a quando starò con lei, in questa ditta commerciale. Ma siccome
spero di restarci per sempre…
Improvvisamente il dottor Max ha fatto una smorfia di disprezzo e io sono rimasto
con le parole a mezz’aria.
- Lei è un imbecille, si vergogni! Ma lo sa che questo è un ragionamento schiavistico,
razzistico, ignobile? Ma le pare che un uomo possa essere proprietà di un altro uomo?
Ma cosa dice mai?"
- Ma…” ho balbettato.
- Lei è un uomo libero, ha capito? E come tale deve comportarsi. Lei non è proprietà
di nessuno se non di se stesso. E dunque meno che mai è proprietà mia. Ci mancherebbe altro!” e così ha battuto sul tavolo la mano secca, dalle unghie lunghe (le
vedevo per la prima volta).”
Ora, torniamo a Livio Garzanti. Vediamo come, ricordando quegli stessi
anni, un altro redattore ricorda i suoi rapporti con l'editore. “Lavoravo negli uffici di
via della Spiga”. “Sorvolo sui rapporti che l’editore Livio Garzanti riusciva a intrattenere non soltanto con me ma con qualsiasi redattore laureato e dotato di idee passabilmente chiare: rapporti nevrotici e instabili, aleatori e sempre periclitanti, umorali
e varianti da una predilezione ostentata a un odio freddo e umiliante, con alti e bassi
sovente ripetuti a ciclo nell'arco di una sola giornata”.5
Insomma, per farla breve, il dottor Max e Livio Garzanti hanno molto
in comune. Livio Garzanti si riconosce in qualche modo nel personaggio. Ne
nascono dissapori.
La Garzanti rifiuta il romanzo. Che sarà così pubblicato da un'altra, emergente Casa Editrice, guidata da un altro giovane di ancora più illustri natali imprenditoriali.
Ancora un personalità che sta -nel delicato disegno onirico di Ortese- nel punto di
120
Per ricevere una copia degli atti contattare:
Prof. Barbara Peroni
tel 02-26145465
[email protected]
Tesseramento annuale ADI-SD 20 euro
121