scrittura e narrazione di sé in medicina

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scrittura e narrazione di sé in medicina
LEGGIAMOCI CON CURA
Scrittura e narrazione di sé in medicina
II edizione
Atti del convegno
12 ottobre 2012
Auditorium Concordia
Pordenone
a cura di
LINDA M. NAPOLITANO VALDITARA
Centro di Riferimento Oncologico di Aviano 2013
CROinforma. Atti. 2
COMITATO SCIENTIFICO - ORGANIZZATIVO DEL CONVEGNO
Paolo De Paoli, Piero Cappelletti, Maria Antonietta Annunziata, Marilena Bongiovanni, Chiara
Cipolat Mis, Lucia Fratino, Maurizio Mascarin, Linda M. Napolitano Valditara, Mario Roncadin,
Nicoletta Suter, Ivana Truccolo, Emanuela Vaccher, Margherita Venturelli
 0434 659248 -  [email protected]
A cura di
Linda M. Napolitano Valditara
Testi
Paolo De Paoli, Direttore Scientifico - CRO Aviano
Piero Cappelletti, Direttore Generale - CRO Aviano
Ivana Truccolo, Responsabile Biblioteca Scientifica e per i Pazienti - CRO Aviano
Margherita Venturelli, Responsabile del Servizio Cultura e Turismo del Comune di Aviano
Linda M. Napolitano Valditara, Docente di Storia della filosofia - Università di Verona
Mauro Doglio, Presidente Dipartimento Counselling Comunicazione Educazione - Istituto ‘Change’
di Torino
Maria Antonietta Annunziata, Direttore Servizio di Psicologia Oncologica - CRO Aviano
Nicoletta Suter, Responsabile Centro Attività Formative - CRO Aviano
Marilena Bongiovanni, Presidente Associazione Angolo
Sandra Menegoz, Infermiera Coordinatrice Chirurgia Oncologica Generale - CRO Aviano
Piera Giacconi, Arte-terapeuta
© Centro di Riferimento Oncologico di Aviano - IRCCS - Istituto Nazionale Tumori
Via Franco Gallini, 2 - 33081 Aviano (Pn) - www.cro.it
Tel. 0434 659467 - Email: [email protected]
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sono consentite purché non vi sia scopo di lucro e previa citazione della fonte.
L’eventuale traduzione ed estrapolazione dei contenuti sono consentite
previa autorizzazione del CRO e citazione della fonte.
Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina. II edizione. Atti del convegno
ISBN: 9788897305057
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CROin
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© Centro di Riferimento Oncologico di Aviano
Collana CROinforma curata dalla Direzione Scientifica - Biblioteca
Responsabile Scientifico: Paolo De Paoli (Direttore Scientifico CRO)
Atti
Coordinamento editoriale e di redazione: Ivana Truccolo (Responsabile Biblioteca CRO)
Editing: Linda M. Napolitano Valditara (Docente, Univ. di Verona)
con il supporto di Nicolas Gruarin (Biblioteca CRO)
Grafica e impaginazione: Nancy Michilin (Direzione Scientifica - Biblioteca CRO)
Indice
P. DE PAOLI:
Introduzione. Medicina Narrativa al CRO ........................................ pag.7
P. CAPPELLETTI:
Introduzione. Medicina Narrativa Evidence Based (Bibliografia)..... pag.9
I. TRUCCOLO, M.VENTURELLI:
I racconti dei malati e la Biblioteca Pazienti del CRO (Bibliografia).... pag.16
L. M. NAPOLITANO VALDITARA:
Introduzione. Ancora narrare per curare (Bibliografia)..................... pag.24
Parte I .............................................................................................. pag.31
Teorizzazioni sulla Medicina Narrativa
1) M. DOGLIO:
I pazienti raccontano storie, i medici anche:
idee per una Medicina Narrativa ........................................ pag.33
a) Medicina e vita; b) L’identità narrativa; c) La narrazione
in ambito sanitario: monologia e polifonia; d) Niente
improvvisazioni in MN (Bibliografia)
2)
3)
M.A. ANNUNZIATA:
Psicologia e narrazione in oncologia .................................... pag.40
N. SUTER:
Competenza narrativa e formazione
per gli operatori della salute ................................................. pag.46
a) Evidenza e narrazione; b) L’essere umano è una storia;
c) ‘Medical Humanities’ e MN; d) Formazione di eccellenza
e buone pratiche formative; e) La formazione in MN alla
Columbia University; c) La formazione alla MN in Italia;
d) La formazione in MN al CRO; e) Conclusioni
(Bibliografia)
4) L.M. NAPOLITANO VALDITARA:
Narrazione ed empatia nelle relazioni di cura ................... pag.66
a) A che punto eravamo? Il nodo irrisolto dell’empatia;
b) I molti volti dell’empatia; c) Quale empatia per i
professionisti della cura?; d) Strategie per valere l’empatia
(Bibliografia)
Parte II ............................................................................................ pag.79
Testimonianze e pratiche di Medicina Narrativa
1)
2)
3)
M. BONGIOVANNI:
Narrazione, sublimazione e rinascita .................................. pag.81
S. MENEGOZ:
Le fiabe che si raccontano al CRO ...................................... pag.84
P. GIACCONI:
L’arte curativa delle fiabe (Bibliografia) ................................ pag.87
Appendici ....................................................................................... pag.97
Testimonianze e storie di vita.
Libri disponibili in Biblioteca CRO .............................................. pag.98
Medicina Narrativa
Libri disponibili in Biblioteca CRO .............................................. pag.106
Libri di testimonianze pubblicati dal CRO ................................ pag.110
Introduzione
Medicina Narrativa al CRO
Paolo De Paoli
Il ruolo della Medicina Narrativa (=MN) e la sua importanza nella
pratica clinica e nella comprensione della complessità e completezza delle malattie sono diventati sempre più rilevanti. In particolare,
è cambiato il ruolo della MN stessa, da semplice espressione e comprensione di emozioni e stati d’animo di singole persone, a mezzo di
trasformazione e quasi di terapia.
È proprio in quest’ultima ottica che il CRO di Aviano ha inserito la
MN nei suoi programmi strategici, in quanto IRCCS teso a trasformare la pratica di ricerca in pratica clinica e a creare scambi, dalla clinica
alla ricerca e viceversa, capaci di incidere positivamente sulla salute
dei pazienti oncologici. Per questo, già a partire dagli anni ’90, il CRO
ha sviluppato iniziative d’informazione validata ai pazienti allestendo
e distribuendo apposito materiale informativo; ma soprattutto ha istituito la Biblioteca Pazienti: un luogo in cui sono persone in carne e
ossa, specificamente preparate, ad accogliere gli ammalati e i loro parenti e a entrare in contatto con loro.
Già allora si trattava di un modo per inserire, nelle attività di un
Istituto oncologico, una prima forma, sebbene ancora primitiva, di
quelle che in seguito sono state chiamate Medical Humanities. Sin da
allora abbondante e degna di nota è stata la produzione letteraria al
CRO, partendo dai primi quaderni (Passaggio al CRO...) fino ad arrivare, nel 2012, a Scriviamoci con cura. Dall’insieme di queste e di altre
esperienze è nato, nel 2010, il Progetto Patient Education, in cui si cerca
di costruire e rafforzare il ruolo che il paziente oncologico ha sia nel
percorso che deve affrontare di diagnosi e cura, sia nella partecipazione all’organizzazione sanitaria.
Ma la MN non riguarda solo i pazienti: infatti essa costituisce, per
gli operatori sanitari stessi, un mezzo fondamentale per comprendere
meglio i propri curati; ma anche per maturare una visione più chiara
7
del proprio ruolo, per comprendere come superare forme personali
di disagio e crisi d’identità e per affrontare in modo più consapevole
le conflittualità che oggi rappresentano un problema cogente anche
delle organizzazioni sanitarie. Ecco quindi che, accanto alle iniziative
sempre più strutturate per i pazienti, il CRO ha progettato, per gli
operatori sanitari stessi, programmi di formazione centrati proprio
sulla MN. Se la formazione diventa ‘un investimento sulle risorse umane’, essa però, da sola, non è sufficiente, in quanto investe non solo
l’aspetto professionale, ma anche quello personale dell’operatore.
Proprio per dare evidenza e risalto agli aspetti relativi alla persona,
il Premio Letterario istituito dal CRO nel 2013 verrà aperto anche agli
operatori sanitari, che faranno sentire la loro ‘voce’ di donne e uomini
intenti a confrontarsi con la sofferenza e la malattia: un ambito impegnativo e coinvolgente dal quale essi ricavano non solo esperienze e
competenze professionali, ma anche esperienze di vita e di riflessione
che, terapeuticamente, vengono messe per iscritto.
L’impiego corretto ed efficace della MN richiede in effetti una
strategia ben precisa, fatta di azioni e verifiche continue, che in qualche modo si avvicinano agli strumenti della Evidence Based Medicine.
È per questo che l’Istituto si propone nel prossimo futuro di avviare
progetti di ricerca che valutino il più possibile in modo scientifico rigoroso gli effetti che la MN produce.
Il coinvolgimento di pazienti e operatori sanitari non basta però, a
sua volta, a sviluppare programmi efficaci di MN. Emerge sempre di
più il ruolo essenziale delle stesse Strutture sanitarie, le quali devono,
per produrre effetti, riflettere al loro interno su quali e quante risorse
vadano dedicate a quali specifici progetti e in vista di quali obiettivi; e,
soprattutto, su quali siano i cambiamenti, molto profondi, che esse devono attuare al loro interno. Non semplicemente, è ovvio, nell’ottica
di dare sviluppo alla MN, ma per essere davvero all’altezza del ruolo
che, nel complesso mondo odierno, esse sono chiamate a svolgere.
PAOLO DE PAOLI
Direttore Scientifico del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano
8
Introduzione
Medicina Narrativa Evidence Based
Piero Cappelletti
Nel contesto generale di una medicina sempre più tecnologica e
percorsa dalle innovazioni scientifiche e dai mutamenti sociali e culturali propri dell’ultimo cinquantennio del secolo scorso, è stata proposta la Evidence Based Medicine (=EBM): essa intende offrire un riferimento metodologico all’insegnamento della medicina e alla pratica
clinica e dare fondamento scientifico, basato sulla clinical epidemiology
(in italiano più metodologia clinica che epidemiologia), all’utilizzo dei
dati di letteratura. L’evidence è la dimostrazione statistica dell’associazione tra eventi medici (tipo di malattia, tipo di farmaco ed esito),
tratta dalla letteratura specifica peer-reviewed e gerarchizzata per potere inferenziale (Randomized Clinical Trial, studi di coorte, studi di caso,
opinioni di esperti).
Secondo David Sackett e colleghi, fondatori dell’EBM, essa è “l’uso scrupoloso, esplicito e critico della miglior prova disponibile nel
prendere una decisione in relazione alla cura dei pazienti individuali”
e tende a standardizzare e ottimizzare le procedure di scelta medica1.
Lo fa a partire sostanzialmente da una valutazione statistica e sulla
base di due principali considerazioni: non sempre il razionale fisiopatologico, da solo, è adeguato a sostenere l’intervento terapeutico, se
non è suffragato dai dati clinici di efficacia (e di efficacia nel singolo
atto terapeutico, effectiveness per gli anglosassoni), ottenibili solo dalla
letteratura corretta; inoltre l’accumulazione dell’esperienza personale, da sola, non è più eticamente accettabile come riferimento per la
pratica professionale, per la limitatezza, lentezza e criticità che la connotano rispetto alla sempre maggiore accelerazione anche nelle conoscenze teoriche e pratiche della medicina (già nel 1995 si stimava che
un aggiornamento adeguato del medico di medicina generale neces1 SACKETT – RICHARDSON – ROSENBERG – HAYNES 2000.
9
sitasse della lettura di almeno 20 articoli per ogni giorno dell’anno).
Se si scartano le caricature dell’EBM, che hanno consentito molte
critiche anche feroci, si vede che essa è oggi uno dei migliori strumenti a disposizione del medico: gli consentono di orientarsi in una
pratica clinica dove conoscenze di base e aspetti non clinici sono continuamente crescenti e dove è difficile, soprattutto nei tempi ridotti a
disposizione per il singolo paziente, trovare diagnosi e terapia adatte
a quella persona; queste lo possono essere purché siano utilizzate in
termini probabilistici all’interno del teorema di Bayes, per l’accrescimento della probabilità a priori (sostanzialmente in medicina la prevalenza della malattia) in una probabilità a posteriori (successiva alla
valutazione clinica e delle evidenze) in grado di indirizzare decisioni
con esiti (outcome) a più elevato grado di probabilità2.
Nella definizione più matura, quindi, la pratica dell’EBM (o Evidence
Based Practice) significa integrare l’esperienza clinica individuale (capacità e giudizio che il medico acquisisce con la pratica) con la migliore
evidenza clinica esterna disponibile da ricerche sistematiche, mediata
dalle preferenze (valori) del paziente. Montori e Guyatt, nel rivedere,
nel 2008, l’articolo originale fondante l’EBM, sottolineano che, accanto
al primo principio della stessa EBM (la gerarchia delle ‘evidenze’), ve
ne è un secondo, stando al quale, qualunque sia l’evidenza, valori e preferenze sono in realtà impliciti in ogni decisione clinica3. Ciò significa
che le decisioni cliniche, le linee guida, le raccomandazioni pratiche
devono tener conto non solo delle migliori evidenze disponibili, ma
anche dei valori e delle preferenze del paziente informato.
2 “Il teorema di Bayes (conosciuto anche come formula di Bayes o teorema della probabilità delle cause), proposto da Thomas Bayes, deriva da due teoremi fondamentali delle
probabilità: il teorema della probabilità composta e il teorema della probabilità assoluta.Viene
impiegato per calcolare la probabilità di una causa che ha scatenato l’evento verificato. Per
esempio si può calcolare la probabilità che una certa persona soffra della malattia per cui ha
eseguito il test diagnostico (nel caso in cui questo sia risultato negativo) o viceversa non sia
affetta da tale malattia (nel caso in cui il test sia risultato positivo), conoscendo la frequenza
con cui si presenta la malattia e la percentuale di efficacia del test diagnostico. Formalmente
il teorema di Bayes è valido in tutte le interpretazioni della probabilità. In ogni caso, l’importanza di questo teorema per la statistica è tale che la divisione tra le due scuole (statistica
bayesiana e statistica frequentista) nasce dall’interpretazione che si dà al teorema stesso”
(http://wikipedia.org. teorema_di_Bayes) <ndC>.
3 MONTORI – GUYATT 2008.
10
E tuttavia, la capacità di cogliere e integrare i valori del paziente è
rimasta largamente disattesa. L’EBM è rimasta infatti nel ristretto ambito della ricerca clinica e gli strumenti per integrare ricerca e pratica
clinica restano elusivi per i medici che hanno la necessità di impostare
azioni cliniche condivise con i pazienti4. Il tema del rapporto medicopaziente è particolarmente vivo nel clima culturale postmodernista.
La medicina, infatti, non poteva sottrarsi al clima culturale dominante degli ultimi quarant’anni, sia per la sua caratteristica di pratica che
ha a che fare con i soggetti umani, sempre culturalmente improntati,
sia per il suo sempre imperfetto statuto di scienza. Essa si è trovata
in tutta la sua storia al centro di un dibattito sulla sua stessa natura
di fondo (arte oppure scienza?) e ha interpretato il ruolo di punto
di fusione delle due culture, quelle che si basano o meno sul secondo
principio della termodinamica, quelle che utilizzano o meno il linguaggio matematico, hard o soft, le scienze naturali e le scienze umane.
La sua tendenza a o tentazione di diventare un ‘sapere’ (epistème), un
quadro sistemico di spiegazione e interpretazione dei ‘casi’, una theorìa, per darsi un fondamento di verità e fuggire dalla mitologia e dallo
sciamanesimo, non ha peraltro mai nascosto l’altra sua faccia: quella
legata alla sua pratica clinica (klinè = letto), al suo ‘soggetto’ e alle sue
capacità di curare. In altre parole vi è sempre stata la sottolineatura,
interna ed esterna alla medicina stessa, della sua ‘diversità’, della sua
irriducibilità a scienza o a scienza naturale, o tout-court dell’assenza
dei caratteri fondanti una scienza, qualunque cosa si intenda poi con
questo termine.
Da un lato si è enfatizzato il suo ruolo essenzialmente pratico,
applicativo di terapie, relativamente a ‘casi’ difficilmente riportabili a
leggi generali e costituiti da ‘oggetti’ complessi e individuali come sono
i soggetti umani, i ‘pazienti’ (quelli che stanno male). Dall’altro, a seconda delle posizioni filosofiche (o ideologiche), si è dichiarato che la
medicina non è scienza ma pura tecnica (o arte), non è scienza nomotetica ma ideografica, è sintesi storica di teorie e pratiche complesse
e differenziate. Lo scontro arte/scienza si condensa in diversi punti di
discussione (malato vs malattia; esperienza vs esperimento; spiegazioni
e comprensioni; ‘metodo’ e metodologie; diagnosi vs prognosi; scom4 SILVA – CHARON – WYER 2011.
11
messe ed errori della scelta terapeutica), con un continuo scivolamento tra i livelli ontologici, epistemologici e pratici.
Negli ultimi 15 anni anche nelle riviste mediche si è dibattuto molto di ‘medicina postmoderna’ e, in particolare (ma non poteva che
essere così), in riferimento alla medicina interna e alla medicina generale che hanno a che fare con il soggetto malato piuttosto che con la
parte malata, mostrando una progressiva penetrazione della cultura
postmoderna nel castello della medicina scientifica.
Nel 1993 Charlton puntualizza i caratteri della cultura postmoderna che erodono la professione medica5: il relativismo piuttosto
che l’oggettività; le preferenze piuttosto che la realtà; l’ironia e il suo
versante negativo, il cinismo, piuttosto che la fiducia; la moda piuttosto che il cambiamento; la conversazione piuttosto che la discussione; la salute (health) piuttosto che la malattia (sickness). Le possibili
derive appaiono un quieto abbandono della scienza, lo sviluppo delle
terapie ‘alternative’, la dissoluzione dell’etica professionale nell’arena
commerciale. Charlton si augura che la medicina sopravviva all’onda
postmoderna “come un’isola di modernità razionale a galla in un mare
cangiante di soggettività”.
Nel 1996 Hodgkin pone la questione del credicidio, cioè della morte
della certezza scientifica6: egli lo reputa il punto principale delle conseguenze postmoderne per la medicina, suscitando un dibattito che trovava sostegni (i medici devono restare dei veri ‘difensori’ dei pazienti),
ma anche opposizioni (la filosofia postmoderna offre un sistema più
appropriato per la medicina contemporanea). Nel 1997 Mathers e
Rowland si rifanno ai concetti di ‘presenza’ (la verità delle nostre conoscenze sta nella nostra conoscenza dei modi con cui tale verità è
stata prodotta) e ‘differenza’ (comprendiamo per differenza dall’altro
piuttosto che cogliendo l’essenza e, quindi, più cerchiamo di precisare
la nostra conoscenza più essa sfuma nell’indeterminatezza) del discorso postmoderno nella versione di Jacques Derrida7. Essi ne traggono
spunti di riflessione per proporre un nuovo curriculum per i medici
di medicina generale, un curriculum che li metta nelle condizioni di
5 CHARLTON 1993.
6 HODGIN 1996.
7 MATHERS – ROWLANDS 1997.
12
comprendere meglio i loro pazienti e il loro mondo. Anche questo
articolo solleva un dibattito fra diverse posizioni, che però accettano
in qualche modo gli stimoli delle riflessioni postmoderne.
Nel 1999 Muir Gray identifica nella necessità di rispondere ai nuovi
bisogni e alle nuove domande, derivanti dai cambiamenti demografici, tecnici e sociali, la nascita di una medicina postmoderna8. Essa è
caratterizzata dall’interesse per i ‘valori’ oltre che per le ‘evidenze’,
dall’attenzione più per il rischio che per i benefici e dall’emergere di
un nuovo rapporto con un paziente ben informato, un rapporto focalizzato sul processo di cura e sul passaggio dal ‘trattamento’ alla cura
della ‘disabilità’. Per fronteggiare il cambiamento e adattarsi all’ambiente postmoderno, la medicina deve utilizzare tre strumenti chiave:
porsi come outcome l’uso di scelte informate; sfruttare le potenzialità
dell’informatica per personalizzare la pratica clinica e dedicarsi all’empowerment dei pazienti.
Infine Morris sottolinea quattro punti della postmodernità facilmente riconoscibili nella medicina di oggi9: il consumismo del tardo
capitalismo: la salute e la medicina come commodity; la sparizione del
fondamento/concetto ‘scientifico’ (realismo, oggettivismo, naturalismo,
riduzionismo) di scienza e della biomedicina; l’organizzazione dell’esperienza in ‘discorsi’ e l’emergere del ‘potere’ dei discorsi medici e
non medici nel definire salute e malattie; la forma materiale di ‘storie’
di questi discorsi e la nascita e diffusione della ‘medicina narrativa’.
Una caratteristica preminente del modello bioculturale postmoderno
è, inoltre, il double coding, che può essere rinvenuto in diversi aspetti
della medicina contemporanea: dalla consapevolezza dell’intervento
umano nel determinare le malattie di origine ambientale, alle pratiche
cross-culturali (i percorsi profani), al peso della pressione sociale intorno a obiettivi peri-medici (lotta contro le compagnie del tabacco)
o a specifiche malattie, al contraddittorio porsi verso la medicina e
la scienza intese come salvifiche (i poteri sovraumani della tecnologia), ma continuamente messe in dubbio (il terrore di produrre nuovi
Frankestein) e non ascoltate (prevenzione primaria, vaccinazioni). Vi
sono due concetti, sempre secondo Morris, che si prestano partico8 MUIR GRAY 1999.
9 MORRIS 2000.
13
larmente bene a illuminare il punto: l’“empatia”, come capacità non insegnabile di pensare e sentire come l’altro, e la “cura” (healing). ‘Curare’ vuol dire sì ‘guarire’ ma anche ‘prendersi cura’; il riparare l’automa,
in biomedicina, contrapposto all’affrontare le interrelazioni personali
e sociali, la qualità della vita, in medicina postmoderna. Ma ‘prendersi
cura’ può voler dire anche, in un ulteriore esempio di doppio codice,
una forma rinnovata di paternalismo (deontologia, amabilità), oppure
una forma attiva di autotutela negoziale.
In questo contesto, acquista un’importanza essenziale, per una medicina finalizzata alla cura del paziente, la riconciliazione tra versanti
narrativi ed evidence-based della pratica medica. Il nucleo centrale della
Medicina Narrativa è il processo di ascolto del paziente mediante
una tecnica di conversazione molto raffinata, che conduce il medico
a capire, mediante l’ascolto delle proprie emozioni e di quelle del paziente, il significato della sua pratica clinica in essere. Gli ‘sponsali’ dei
due angoli visuali, delle due prospettive e dei due metodi di approccio
sono stati non solo indicati come auspicabili, ma descritti in una sequenza di contenuti e azioni, condensati in un costrutto denominato PACT (Problem delineation, Actions, Choices and Targets), distinto nei
passi di Attention, Representation e Affiliation declinati per i campi Harm,
Prognosis, Diagnosis e Therapy10. L’obiettivo è una Narrative Evidence Based Medicine11 in grado di rendere sinergici e ottimali gli approcci in
una visione olistica.
Tuttavia, è ben vera anche la traiettoria che conduce a una Evidence
Based Narrative Medicine, dove dalla com-passione si passa all’em-patia
e dalla com-prensione si passa alle com-petenze relazionali, volte a
sviluppare le abilità di ascolto delle storie dei pazienti con attenzione
alla malattia (illness): si passa, infine, allo sviluppo di competenze narrative vere e proprie, quali strumenti a supporto della cura di sé in
quanto professionisti, e di nuove abilità per una più completa, globale
comprensione dei bisogni, vissuti e prospettive degli ammalati e delle
loro famiglie.
Proprio questa è la strada intrapresa da Leggiamoci con cura.
10 MONTORI – GUYATT 2008.
11 CHARON – WYLER 2008.
14
Bibliografia
• CHARLTON BG., Medicine and post-Modernity,“Journal of the Royal
Society of Medicine”, 86 (1993), 497-99
• CHARON R. – WYLER P., Narrative Evidence Based Medicine, “The
Lancet”, 371 (2008), 296-97
• HODGIN P., Medicine, Postmodernism, and the End of Certainty,
“British Medical Journal”, 313 (1996), 1568-569
• MATHERS N. – ROWLAND G., General Practice - a postmodern Specialty?, “British Journal of the Medical Practice”, 47 (1997), 177-79
• MONTORI V.M. – GUYATT G.H., Progress in Evidence Based Medicine, “Journal of the American Medical Association”, 300 (2008),
1814-816
• MORRIS D.B., How to speak Postmodern. Medicine, Illness, and cultural
Change, “Hastings Center Report”, 30 (2000), 7-16
• MUIR GRAY J.A., Postmodern Medicine, “The Lancet”, 354 (1999),
1550-553
• SACKETT D.L. – RICHARDSON S.W. – ROSENBERG W. –
HAYNES R.B, Evidence-Based Medicine, London 2000
• SILVA S.A. – CHARON R. – WYER C., The Marriage of Evidence
and Narrative: scientific Nurturance within clinical Practice, “Journal of
Evaluation in Clinical Practice”, 17 (2011), 585-93
PIERO CAPPELLETTI
Direttore Generale del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano
15
Introduzione
I racconti dei malati e la Biblioteca
Pazienti del CRO
Ivana Truccolo, Margherita Venturelli
Questo contributo riproduce l’intervento di apertura dei lavori
della seconda edizione del convegno di Medicina Narrativa Leggiamoci
con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, tenutosi il 12 ottobre
2012 a cura del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano (CRO).
Aprire quei lavori ed introdurre ora questo libro rappresenta per
noi l’occasione per ripensare alle origini dell’impegno della Biblioteca
Pazienti dello stesso CRO, al suo significato e, nel contempo, per raccontarne l’evoluzione.
Del primo convegno, tenutosi presso la sede del CRO il 16 settembre 2011, la traccia rimane negli atti, il cui titolo riproduce quello del
convegno1. La pubblicazione è stata – come questa presente - curata
da Linda M. Napolitano Valditara, filosofa esperta di Platone e studiosa
di Medicina Narrativa.
La scelta invece, come sede dei lavori per il secondo appuntamento, di un luogo fisico diverso dal CRO e da Aviano, cioè dell’Auditorium Concordia messo a disposizione dalla Provincia di Pordenone,
sta a indicare la nostra intenzione di uscire dal chiuso dell’istituzione
sanitaria: di andare verso la comunità, verso i luoghi dove si svolgono
le normali attività della vita quotidiana, di rafforzare il dialogo fra quei
luoghi e il nostro luogo di cura dei malati di tumore.
La comunità è del resto elemento che connota fin dal suo inizio
il servizio della Biblioteca Pazienti del CRO: l’atto formale che ne
sancisce l’avvio è, infatti, la delibera di convenzione con il Comune di
Aviano e, in particolare, con la sua Biblioteca Civica, un tipico servizio
di comunità. Ora, la normalità della vita da ‘non malati’ è un altro degli
1 Cfr. NAPOLITANO VALDITARA (a c. di) 2012 <ndC>.
16
elementi fondanti della Biblioteca Pazienti: fin dagli esordi è apparso
infatti evidente che ciò che i suoi frequentatori maggiormente apprezzano è uno spazio – pur collocato all’interno dell’ospedale e a esso
istituzionalmente legato – in cui poter esprimere bisogni, dubbi, ansie,
paure, felicità, emozioni propri della vita quotidiana, senza il timore,
però, di essere soltanto ‘inquadrati’ in una diagnosi, o comunque in un
giudizio da parte di chi ha il ‘potere’ (sia pure sulla propria salute), oppure non ascoltati per niente perché le storie del vissuto quotidiano
sono ritenute non pertinenti e perciò inutili al processo di cura.
Si è compreso fin dall’inizio, benché il percorso non fosse ancora
del tutto chiaro, che qualcosa di nuovo stava prendendo forma: i fruitori della Biblioteca Pazienti gradivano poter chiedere maggiori informazioni su aspetti relativi alla loro malattia, oppure su tratti a questa
collaterali per loro altrettanto importanti; ed erano grati di poterlo
fare soprattutto a partire dalle narrazioni della loro vita ‘fuori’ dalla
malattia e dal luogo di cura.
Essi gradivano questa ‘oasi di normalità’, che però garantiva anche
competenza scientifica, rispetto della riservatezza e capacità di accogliere e dare risposte: chi vi si accostava raccontava di sé e aveva
il piacere di sentirsi riconosciuto non soltanto come ‘malato’, ma in
quanto persona singola, con proprie e specifiche istanze, e di poter
porre questioni, spesso non affrontate col medico, inerenti la convivenza quotidiana con la malattia. I numerosi dati e le parole fino a
oggi raccolte testimoniano che essi una risposta l’hanno ottenuta: una
risposta utile per affrontare la situazione, o comunque sufficiente per
aver la forza di parlare al proprio curante con maggior sicurezza e
consapevolezza, e per affrontare altre scelte nella vita.
In questi 14 anni – tanti ne sono trascorsi da quando funziona la
Biblioteca Pazienti, istituita nel 19982 – circa 400 persone all’anno si
sono rivolte a essa: ma molti di più e diversi sono stati, in quest’arco
di tempo, i tipi di richieste avanzate e davvero tante, tantissime sono
state le storie raccontate.
In fondo proprio questa è l’essenza del nostro progetto, basato su
2 Cfr. TRUCCOLO – CIOLFI – ANNUNZIATA – PIANI – TURRIN – VENTURELLI 1998;
TRUCCOLO – ANNUNZIATA – CAPELLO – BURIGO – CIOLFI – PIANI – MERIGHI –
PARPINEI – BIDOLI – SEROPPI – RICCI – DEL BEN – CARBONE 2003.
17
tre pilastri: creare non un semplice ‘sportello’, ma un luogo riservato
ai pazienti, accogliente e fuori dai reparti, sulla base della letteratura
scientifica e di esperienze consolidate3; offrire materiale informativo
adeguato e, soprattutto, mettere a disposizione personale motivato
ed esperto in informazione e comunicazione.
È andato così creandosi un luogo in cui tutte le storie vengono accolte senza interpretazione e senza giudizio, ma con empatia: perché
a monte c’è un ben preciso codice deontologico di come si possa
‘fare informazione ai pazienti’ entro una biblioteca a essi dedicata4.
Tante storie sono state accolte, più o meno originali ma comunque
tutte diverse: alcune narrate per semplice necessità di raccontare, altre appena accennate, altre ancora trattenute. Storie narrate talvolta
con rabbia nei confronti dei sanitari, altre con dolore: ma affidate tutte
con grande fiducia al personale della Biblioteca o di altre strutture del
CRO.
Ognuno è stato accolto, qui, rispetto al proprio bisogno specifico
di raccontarsi, e quanto, quando e come desiderasse e sentisse di
doverlo fare.
A caratterizzare queste storie, tuttavia, sono soprattutto l’urgenza
di sapere di più di un qualche aspetto che riguarda il percorso oncologico e la volontà di cogliere un’occasione preziosa per narrare qualcosa di sé, qualcosa che, magari, in altri contesti non si oserebbe dire.
Sono questa straordinaria normalità e gli spunti che dai racconti di molte persone sono pervenuti alla struttura gli elementi che incoraggiano
gli operatori a tenere aperto questo spazio di accoglienza e informazione, evolutosi negli anni in una direzione sempre più proattiva5.
Era importante, infatti, che non solo le narrazioni recanti le richieste di ascolto e approfondimento sulla malattia, ma anche le testimonianze dei pazienti raccolte e pubblicate fossero di concreto aiuto
all’organizzazione sanitaria6: occorreva che esse parlassero alla medicina, che fossero uno strumento reale di dialogo fra il lato scientificotecnologico e quello umano della medicina stessa. Era importante che
3 Cfr. GLARKE – GOING 1990.
4 TRUCCOLO – ZANINI – BUFALINO 2009.
5 CIPOLAT MIS – CAPONE – TRUCCOLO 2011.
6 TRUCCOLO 2012.
18
le narrazioni dei pazienti giungessero a influire concretamente sull’organizzazione sanitaria.
È questo il filo rosso che unisce la Biblioteca Pazienti e l’idea di dar
vita ai convegni di Medicina Narrativa al CRO come appuntamento
annuale: e ora anche al Premio Letterario, novità di questa seconda
edizione, il concorso Scriviamoci con cura. Pazienti oncologici raccontano
come levare l’ancora con la scrittura. E l’accoglienza fatta ai vincitori di
questo concorso che, nell’intenzione di noi promotori, vuol consolidare un nuovo genere letterario, quello della narrazione dei pazienti,
ha costituito un evento nell’evento nel corso della giornata del nostro
secondo convegno.
Questa evoluzione del convegno originario intende dare valore a
una delle idee fondanti dell’approccio di Medicina Narrativa al CRO:
son stati proprio i pazienti, con le loro narrazioni piene di vita ‘normale’, la vera ‘rivoluzione’ di questi anni anche per la nostra organizzazione. Oggi ci fa sentire ricchi di speranza la consapevolezza di non
aver lasciato cadere nel vuoto le loro storie e le loro richieste, di
aver cercato di raccogliere, fin dall’inizio, il ‘messaggio nella bottiglia’
lanciato nei loro racconti7: di non aver avuto paura di fronte a ciò che
questo nuovo messaggio poteva portare alla stessa struttura medicosanitaria.
Oggi abbiamo maturato la convinzione che lavorare consapevolmente allo sviluppo di una pratica clinica in cui le narrazioni dei pazienti e dei loro familiari e il dato scientifico relativo alla malattia si integrano in modo significativo sia una via necessaria da percorrere per
la medicina del terzo millennio: una medicina che ha bisogno di contare sul coinvolgimento attivo, esperto e consapevole delle persone8.
Ciò che è avvenuto in questi ultimi anni ci induce a sperare che il
messaggio portato dalle storie dei pazienti stia iniziando ad arrivare
a destinazione, che abbia cominciato a compiere la sua funzione di
‘lievito’ per le organizzazioni stesse di cura e ricerca.
E risuona ancora lo splendido editoriale di “The Lancet” del maggio 2012 che parla di empowerment, concetto, questo, difficilmente tra-
7 TRUCCOLO – CAPELLO – VENTURELLI 2002.
8 SUTER 2012.
19
ducibile in una parola italiana9: secondo “The Lancet” appunto, esso
consiste non certo nel cercare di sottrarre potere ai medici, bensì, essenzialmente, nell’aiutare le persone a condurre una vita più proattiva
e soddisfacente10. Il problema è che anni di paternalismo dei medici
e di sudditanza psicologica dei pazienti hanno finito per disabituare
sia gli uni che gli altri a relazionarsi in modo corretto, rispettoso e in
una prospettiva di autentico aiuto reciproco. L’asimmetria di potere
tra chi ha bisogno delle cure e chi ha la capacità e quindi il potere di
curare non può giustificare la separatezza, la sordità e la conflittualità, talora di recente perfino aspra, createsi nel corso degli anni, con
enorme svantaggio di tutti. Si dice ancora nell’editoriale citato di “The
Lancet”, riportando le parole di Robert Johnstone (Presidente della “International Association of Patients Organisation”) che “i medici
dovrebbero scendere dai loro piedistalli, ma i pazienti devono tirarsi
su dallo stare in ginocchio”11.
Un paziente ha bisogno sì del sapere del medico, ma il medico a
sua volta ha bisogno non di un puro corpo malato da aggiustare, bensì
di un paziente-persona, con il quale costruire il percorso di cura. “Da
sempre la medicina è fatta di storie, raccontate e ascoltate. I medici si raccontano storie”, scrive Piero Cappelletti, Direttore Generale
9 MOSCONI – COLOMBO – VILLANI 2011.
10 “The Lancet” 2012a: l’editoriale rende conto della I Conferenza europea sul “Patient Empowerment”, con più di 250 partecipanti, tenutasi nel maggio 2012, a Copenhagen, Danimarca,
a cura della European Network on Patient Empowerment (www. enope 2012.eu) <ndC>.
11 “The Lancet” 2012b: è la versione corretta dell’articolo precedente, apparsa il 17 agosto 2012. Il testo, qui riportato, in cui è inserita la frase citata di Robert Johnstone, suona:
“Critics worry that the proposed shifting of power, a concept in itself potentially threatening
to medical professionals, could abrogate governments’ responsibilities to fund health systems
sufficiently to manage the growing burden of chronic disease. Implementation of healthliteracy programmes and promotion of self-managed care both face huge practical challenges,
including how to reach the most vulnerable groups. The reality is that doctors have limited
consultation time and resources, and not all patients can, or want to be empowered. Robert
Johnstone (of the International Alliance of Patients’ Organization) says that “doctors should
get down from their pedestals, but patients must get up from their knees.” Yet he adds:
“empowerment is not about trying to wrest power from the doctors, it is essentially helping
people lead more proactive and fulfilling lives”.
Sulla “International Alliance of Patients’ Organization” (IAPO), cfr. www.patientorganization.
org: si tratta di un’organizzazione internazionale unica, che rappresenta pazienti di tutte le
nazionalità e portatori di tutti i tipi di malattia; il suo scopo è promuovere, in tutto il mondo,
una cura centrata sul paziente stesso <ndC>.
20
del CRO, nella sua introduzione al Convegno di Medicina Narrativa
201112. E lo stesso ribadiscono anche altri interventi nella stessa sede,
ben introdotti dalla curatrice Linda M. Napolitano Valditara13.
Forse dunque è arrivato il momento di provare a raccontare insieme, di imparare a raccontarsi e ad ascoltarsi per costruire insieme
il percorso di cura che più si confà a ogni singolo paziente e che più
rende efficace quel percorso. Forse è arrivato il momento in cui i
pazienti comprendano che anche i medici e il personale di cura sono
persone bisognose di collaborazione; che i medici e il personale di
cura comprendano a loro volta che si possono avvalere della collaborazione dei pazienti e di altre professionalità e luoghi ‘ancillari’ – come
gli esperti dell’informazione e comunicazione, i volontari, i formatori
–: per costruire e praticare insieme una medicina più soddisfacente ed
efficace per tutti. Forse, in questo modo, qualcuno delle professioni
sanitarie si sentirà meno ‘al centro’ della scena, qualcun altro più responsabilizzato e meno sminuito, e – soprattutto – ognuno potrà sentirsi più riconosciuto nella sua singolarità e nel suo ruolo, sia i pazienti
sia gli operatori.
La vera sconfitta in sanità forse sono i ‘numeri primi’, cioè quelli
che non possono legarsi in alcun modo agli altri: coloro per i quali le
storie altrui non contano o contano ancora troppo poco.
12 CAPPELLETTI 2012.
13 NAPOLITANO VALDITARA 2012.
21
Bibliografia
• CAPPELLETTI P., Medicina e narrazione, Introduzione a NAPOLITANO VALDITARA L.M. (a c. di), Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del Convegno 16/9/2011 (I edizione),
Aviano 2012, 9-14
• CIPOLAT MIS C. – CAPONE D. – TRUCCOLO I., L’evoluzione di
un servizio di informazione ai pazienti, “Biblioteche Oggi”, 29 (2011),
74-7
• CLARKE J.M. – GOING M.E. (eds), Hospital Libraries and Community
Care, London 19904
• “Lancet” 2012a: Patient Empowerment-who empowers whom?, “The
Lancet”, 379 (2012), 1677
• “Lancet” 2012b: Erratum, “The Lancet”, 380 (2012), 650
• MOSCONI P. – COLOMBO C. – VILLANI W., Health Literacy, Empowerment, Advocacy, “Dialogo sui farmaci”, 2 (2011), 65-8
• NAPOLITANO VALDITARA L.M. (a c. di), Leggiamoci con cura.
Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del Convegno 16/9/2011
(I edizione), Aviano 2012
• NAPOLITANO VALDITARA L.M., Il quaderno di Maria, Introduzione a EAD. (a c. di), Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé
in medicina, Atti del Convegno 16/9/2011 (I edizione), Aviano 2012,
15-28
• SUTER N., Il valore delle narrazioni e l’ascolto come terapia. Il progetto
del CRO, in NAPOLITANO VALDITARA L.M. (a c. di), Leggiamoci
con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del Convegno
16/9/2011 (I edizione), Aviano 2012, 48-57
• TRUCCOLO I. – CIOLFI L. – ANNUNZIATA M.A. – PIANI B. –
TURRIN O. – VENTURELLI M., Quando l’utente è un paziente, “Biblioteche oggi”, 16 (1998), 26-30
• TRUCCOLO I. – CAPELLO F. – VENTURELLI M. (a c. di). Caro
G.A.S., volevo dirti che..: il quaderno di pazienti e familiari al CRO, Aviano, Centro di Riferimento Oncologico 2002
• TRUCCOLO I. – ANNUNZIATA M.A – CAPELLO F. – BURIGO
A. – CIOLFI L. – PIANI B. – MERIGHI R. – PARPINEI M. – BIDOLI
E. – SEROPPI P. – RICCI R. – DEL BEN G. – CARBONE A., Quando i
malati vogliono sapere di più: un’esperienza di ‘Biblioteca per pazienti’ in
22
oncologia, “QA” (Rivista Ufficiale della Società Italiana per la Qualità
dell’Assistenza Sanitaria), 14 (2003), 97-107
• TRUCCOLO I. – ZANINI F. – BUFALINO R., Un codice deontologico
per informare il paziente, “Biblioteche Oggi”, 27 (2009), 81-4
• TRUCCOLO I., Dare voce alle storie. I “quaderni pieni di vita” del CRO,
in NAPOLITANO VALDITARA L.M. (a c. di) Leggiamoci con cura.
Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del Convegno 16/9/2011
(I edizione), Aviano 2012, 31- 47
IVANA TRUCCOLO
Responsabile della Biblioteca Scientifica e per i Pazienti del CRO di Aviano
MARGHERITA VENTURELLI
Responsabile Servizio Cultura e Turismo del Comune di Aviano
23
Introduzione
Ancora narrare per curare
Linda M. Napolitano Valditara
Per la seconda volta viene chiesto a me, filosofa, di curare ed editare gli atti del convegno di Medicina Narrativa (=MN), organizzato
nell’ottobre 2012 dal Centro di Riferimento Oncologico di Aviano e
intitolato Leggiamoci con cura. Scrittura e narrazione di sé in medicina.
Gli atti della I edizione, tenutasi nel 2011, sono usciti, sempre con lo
stesso titolo e sempre curati da me, nella collana CROinforma1.
Oltre a questa II edizione, del 2012, del convegno, molte sono le
riflessioni sulla narrazione in medicina, molte le testimonianze, molte
le attività nel campo, provenienti nell’ultimo anno dal CRO: una conferenza della stessa Rita Charon, medico della Columbia University e
fondatrice della MN, nel luglio 2012; un laboratorio di arte-terapia con
le fiabe tenuto per il personale del CRO dalla cantastorie Piera Giacconi; perfino un Premio Letterario, dedicato specificamente ai pazienti
oncologici che scrivano della loro storia... Molto si evolve e cresce
dunque, anche al CRO, nel campo della MN, sostenuta e diffusa ormai
anche in Italia da una letteratura alquanto ampia2.
Chi se ne occupa percepisce chiaramente quest’evoluzione e la
discussione che ha portato a un consolidamento dei fondamenti, delle
sperimentazioni, dell’interesse per la MN, nazionale e internazionale3.
1 Cfr. NAPOLITANO VALDITARA (a c. di) 2012.
2 Le attività di cui qui si fa cenno sono documentate nei saggi che seguono. In particolare,
per il Premio letterario per pazienti oncologici organizzato dal CRO, cfr. Scriviamoci con cura.
2012. Quanto alla letteratura sulla MN, cfr., fra i contributi generali più recenti in lingua italiana, DEMETRIO 2012, dedicato a educazione e narrazione, soprattutto il capitolo Le pratiche
di cura e il contesto medico-sanitario, 119-212, curato da M. CASTIGLIONI, con l’ampia bibliografia 213-20.
3 Un progetto di ricerca sulla MN, redatto nel 2011 dalla sottoscritta col collega pedagogista Alberto Agosti e con le dottoresse Bevilacqua, Bontempi e Pellitteri presso il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università di Verona e messo in rete su “Cordis”
per cercare partner interessati e disposti a collaborare a uno dei Progetti Quadro Europei,
ha avuto effettivamente un buon riscontro (dalla Danimarca, Germania, Inghilterra e Bulgaria
24
Il quadro delle applicazioni, soprattutto in Italia, pare però ancora molto disomogeneo e certo, ancor prima, vi è un vero e proprio scarto,
fra gli operatori della sanità italiana, fra chi conosce questa disciplina e
la ritiene, più che importante, essenziale all’efficacia stessa delle pratiche
sanitarie contemporanee e chi invece continua a non saperne nulla, o,
pur sapendone qualcosa, la giudica una pratica puramente decorativa,
velleitaria o francamente inutile4. Dispiace davvero – tanto più in un
ambiente sensibile e aperto alle novità come dovrebbe essere quello
medico – che chi nutre queste ultime opinioni continui però a non
interessarsi di che cosa sia, di come operi, di quali fini abbia la MN e si
limiti a ribadire il proprio pregiudizio di disinteresse e chiusura, senza
provare neppure a contestare a ragion veduta basi teoriche e finalità
di questa disciplina.
Manca molto, a chi ‘crede’ nella MN, una critica fondata e argomentata alla sua validità e utilità da parte di chi invece non ci ‘crede’: ed è
forse questa mancanza, non certo l’impegno di chi intende fondarla
sempre più solidamente e sperimentarla sempre più concretamente,
a finire per dar l’impressione – a chi osservi dall’esterno il fenomeno,
come per esempio un professionista dell’informazione – di un interesse vicino alla fede o di un puro parlarsi e supportarsi fra ‘adepti’5.
Chi ha interesse e fiducia nella MN continua dunque e continuerà
e anche da strutture medico-sanitarie). Purtroppo, però, né le call dei Progetti di Ricerca Europei nel Settore Disciplinare “Health”, né quelle del Settore Disciplinare “Social and Human
Sciences” paiono finora mostrare interesse alla MN: in realtà gli ‘esperti’ europei dei due
settori disciplinari, eventualmente incaricati di valutare questi progetti di ricerca, sembrano
non conoscerla neppure.
4 La MN fa parte delle cosiddette Medical Humanities (sulle quali rinvio, sotto, al saggio di
Nicoletta Suter): l’atteggiamento di rifiuto e di disinteresse verso di esse, e dunque verso
la stessa MN, è testimoniato dal fatto che sia stata coniata e giri, nell’ambiente sanitario, la
poco lusinghiera espressione ‘Medical Amenities’… Mi chiedo però se chi l’ha coniata e la
usa conosca almeno un rigo dei non pochi testi scientifici in merito elencati nella bibliografia
richiamata supra, alla nota 2.
5 È abbastanza curioso – e mi è capitato personalmente – che professionisti dell’informazione mi abbiano perfino costretto a riprogrammare il mio lavoro accademico, tanto hanno
insistito perché concedessi loro interviste sulla MN: e poi, alla fine dell’intervista, senza peraltro conoscer nulla della letteratura in merito, si siano lamentati che la MN, dato lo stato di
difficoltà relazionale nel quale invece di fatto versa la sanità italiana, non sarebbe che una bella
speranza di anime belle.
Una posizione, questa, che, se fosse generalizzata per ogni settore, ci vedrebbe – a Dio piacendo – ancora fermi all’età della pietra…
25
a studiare, a scrivere, a sperimentare: fidiamo che possa finalmente
iniziare a farlo anche chi non se ne interessa o non ci crede, e che
finalmente arrivino non giudizi superficiali, sprezzanti o liquidatori, ma
le attese ‘critiche a ragion veduta’.
I contributi che seguono (divisi nelle due Parti delle Teorizzazioni
sulla Medicina Narrativa e delle Testimonianze e pratiche di Medicina
Narrativa) ribadiscono alcuni punti chiave sull’argomento.
Anzitutto la fondamentalità della narrazione per la costruzione dell’identità di ciascuno di noi e per l’instaurarsi di relazioni costruttive con
gli altri: quanto più uno ‘lavora’ sulla propria storia, quanto più continua a essere aperto e versatile nel ridefinirne le scansioni passate, gli
episodi trascorsi e presenti, le possibilità future sempre aperte, tanto
più non solo vivrà con maggior consapevolezza e serenità la propria
stessa vita, ma comprenderà con maggior empatia le storie di coloro
che si troverà accanto e anzi collaborerà a costruire con loro storie
nuove6.
È a tutti evidente come una modalità relazionale di questo tipo
sia non solo auspicabile, ma necessaria nel rapporto fra curante e curato: il curato pare aver perfino ‘bisogno’ di raccontarsi, nelle fasi di
confronto con la propria malattia7; ma di narrazione necessita anche
il curante, non solo per ottimizzare il rapporto col suo destinatario,
il malato, ma anche perché, impegnato com’egli stesso è in un lavoro
‘duro’ e spesso anche emotivamente coinvolgente e logorante, impari
a governare il disagio psicologico che può derivarne (burn out)8.
6 In NAPOLITANO VALDITARA 2011, Capitolo III, provavo ad argomentare che la competenza narrativa sia, per noi esseri umani, addirittura una competenza di specie, mentre nel
mio contributo qui figurante, su Narrazione ed empatia nelle relazioni di cura, provo a mostrare
– sulla scia della ToM (Theory of Mind) – che il potenziale empatico si rafforzi e si consolidi, in
ognuno di noi, proprio attraverso la continua messa a punto di abilità e competenze narrative.
Il nodo della costruzione narrativa della propria identità è ribadita, infra, anche nei contributi
di Mauro Doglio, Maria Antonietta Annunziata e Piera Giacconi (con riferimento specifico, in
quest’ultimo caso, alle fiabe).
7 Lo mostra infra Marilena Bongiovanni in Narrazione, sublimazione e rinascita. Molto interessante in NAPOLITANO VALDITARA (a c. di) 2012, la testimonianza di Ivana Truccolo (Dare
voce alle storie, i ‘quaderni pieni di vita’ del CRO) 31-47, la quale conferma il bisogno di narrarsi
dei pazienti, mostrando come l’interesse per la MN allo stesso CRO sia nato a suo tempo ‘dal
basso’, dalle testimonianze scritte lasciate dagli stessi pazienti, successivamente pubblicate.
8 Cfr., su questo nodo importantissimo, infra il contributo di Nicoletta Suter.
26
Non si può usare però validamente il metodo narrativo con altri,
men che meno con coloro di cui si abbia la responsabilità di cura,
se non si sia imparato a usare quel metodo anzitutto su di sé: perciò, come precisa sotto Mauro Doglio, la MN non si improvvisa e
gli operatori della sanità devono imparare a usare, essi per primi, gli
strumenti narrativi, cioè a leggere e a narrare storie. Come questo
possa praticamente esser fatto entro una formazione di tipo sanitario,
è mostrato nei contributi che seguono di Nicoletta Suter, che richiama i seminari in MN organizzati da Rita Charon presso la Columbia
University, e dalla cantastorie Piera Giacconi, la quale rende conto di
un lavoro fatto sulle fiabe (le grandi master narrative della tradizione
mondiale) con 26 volontari dello stesso CRO.
Se le teorizzazioni sulla MN – che vengano da formatori come
Mauro Doglio o Nicoletta Suter, da psicologi come Maria Antonietta Annunziata, oppure da filosofi come Linda M. Napolitano Valditara
– ribadiscono da prospettive disciplinari differenti i fondamenti teorici della MN appena riassunti, le esperienze e testimonianze pratiche smentiscono quelle che sono le riserve più di frequente avanzate
contro la sensatezza e utilità della stessa MN: il fatto che essa possa
entrare in competizione con la cosiddetta Medicina basata sulle Evidenze
(=EBM) (mentre nessuno degli operatori del CRO ritiene necessario
o utile rinunciare, a favore della MN, a qualcosa della propria formazione professionale scientifica e tecnica); che essa non serva (mentre
gli operatori dello stesso CRO, nei questionari a cui hanno risposto
dopo il laboratorio con la Giacconi, ribadiscono l’utilità di quanto imparato); oppure il limite che essa comporti, per essere appresa e – soprattutto – applicata, una perdita di tempo (mentre ancora questi operatori ribadiscono di aver imparato non una tecnica da ‘aggiungere’ a
quelle già note, ma anzitutto un atteggiamento mentale da utilizzare,
nel lavoro, in ogni momento e situazione).
Molto interessante è, fra i contributi del convegno II edizione, la
riflessione e la testimonianza di Sandra Menegoz, Infermiera Coordinatrice di Chirurgia Oncologica Generale del CRO, la quale mostra
come la ‘postura’ narrativa sia assai di frequente spontanea – come già
nei pazienti – negli stessi operatori sanitari, in particolare negli infermieri: la formazione loro rivolta nella MN non farebbe dunque che
27
consolidare e portare alla consapevolezza un metodo adottato già dai
più sensibili di loro per migliorare le condizioni del proprio impegnativo lavoro, rendendolo più sereno ed efficace.
Un punto, infine, mi pare importante segnalare: la competenza narrativa è una sorta di ‘orecchio musicale’ che, come quello che si affina
ascoltando musica, suonando, ballando o cantando, a sua volta si affina
leggendo e scrivendo storie e ascoltando quelle altrui. La sensibilità
narrativa, il provare a immaginare ciò che l’altro prova (anche se per
parte propria non lo si è mai provato o non lo si sta provando) aumenta – come proprio io nel mio contributo provo a mostrare – il
potenziale empatico, quello stare dinnanzi alle cose, agli eventi, alle
altre persone con una disponibilità e apertura alla comprensione e alla
valorizzazione emozionale: comprendere e vivere le proprie emozioni
e quelle altrui, senza forzarsi, asetticamente, a reprimerle in nome di
qualche diktat comportamentale o professionalmente utile e anzi facendone il debito conto nell’atteggiamento pratico, è l’insegnamento
indottoci dal metodo narrativo.
Qualcosa che può aggiungere vita vera ai nostri giorni, mutando,
se non la quantità e gli eventi, almeno la qualità della nostra esistenza
quotidiana. Anche – ed è questo l’aspetto più interessante – dell’esistenza in apparenza più logorata, oppure di quella più defedata e
fragile9.
9 Il meccanismo che guida questa trasformazione psicologica è ben descritto nel contributo di Maria Antonietta Annunziata.
Talvolta i contributi che seguono recano a piè di pagina delle ‘ndC’: sono le ‘note del Curatore’ tese a rendere leggibile a tutti quanto proposto e citato nei saggi stessi. Ogni contributo
è corredato da una propria Bibliografia (talora i testi citati si ripetono da un contributo all’altro), in modo da esser leggibile e fruibile anche indipendentemente dagli altri.
28
Bibliografia
• AA.VV., Scriviamoci con cura. Pazienti oncologici raccontano come
levare l’ancora con la srittura. Introduzione all’estate che arriva. Antologia di Racconti, Aviano 2012
• CASTIGLIONI M., Le pratiche di cura e il contesto medico-sanitario,
in D. DEMETRIO, Educare e narrare. Le teorie, le pratiche, la cura,
Milano-Udine 2012, 119-220
• NAPOLITANO VALDITARA L.M. (a c. di), Leggiamoci con cura.
Scrittura e narrazione di sé in medicina, Atti del Convegno 16/9/2011
(I edizione), Aviano 2012
LINDA M. NAPOLITANO VALDITARA
Docente di Storia della filosofia antica e studiosa di Medicina Narrativa
presso il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università di
Verona
29
Parte I
Teorizzazioni sulla Medicina Narrativa
I.1
I pazienti raccontano storie,
i medici anche:
idee per una Medicina Narrativa
Mauro Doglio
La Medicina Narrativa (=MN) rappresenta una grande possibilità
di migliorare e rendere più umano il rapporto tra medico e paziente.
Non è però facilissimo spiegare che cosa esattamente essa sia e, più
ancora, chiarire come metterla in pratica. Attraverso il mio intervento proverò a fornire alcuni punti di riferimento che permettano di
orizzontarsi in questa materia.
Devo però in apertura precisare due cose: la prima è che io non
sono un professionista della sanità, ma un formatore e un didatta
dell’Istituto Change di Torino, che lavora da anni affiancando professionisti della cura1; la seconda è che cercherò, in questo intervento,
di raccogliere e ordinare le riflessioni teoriche di diversi autori che si
sono occupati di MN, collegandole però alla mia esperienza concreta
di lavoro. Spero, con questo approccio, di illustrare la questione da una
prospettiva particolare.
a) Medicina e vita
Cominciamo il nostro percorso con una definizione di ‘cattiva notizia’: essa è “qualsiasi notizia che altera in modo drastico e negativo
l’immagine che il paziente ha del proprio futuro”.
Questa, in effetti, è la definizione di cattiva notizia come viene presentata nell’ottimo libro di Robert Buckman, La comunicazione della
1 “L’Istituto CHANGE è stato fondato nel 1992 per diffondere in Italia un metodo di
formazione alla comunicazione professionale basato sull’ottica sistemica, che venne definito
counselling sistemico. Le prime basi del metodo erano state elaborate nella seconda metà
degli anni ’80 da Giorgio Bert e Silvana Quadrino e sperimentate in particolare in ambito
sanitario, nella formazione di medici, infermieri, riabilitatori ecc. Oggi CHANGE è una delle
principali agenzie formative accreditate ECM (provider n. 695) specializzate nella formazione
alla comunicazione e al counselling in ambito sanitario” (da http://www. Counselling.it) <ndC>.
33
diagnosi in caso di malattie gravi2.
È una definizione che ha il pregio di essere chiara e ampia ed è perciò molto utile per capire come il medico definisca una cattiva notizia:
questa, dunque, è una frase tipica del mondo della medicina.
Leggiamo adesso, però, quest’altra frase: “Pensavo che questo giorno, la settimana che sta iniziando, tutto il mese e il tempo seguente
sarebbero stati ricchi di buoni momenti, aspettati e inaspettati, nuovi
o vecchi, facili o difficili, ma affrontabili senza doversi reinventare un
modo. Invece dovrò cercare di cambiare, e non so come accadrà, e ho
paura e non ho voglia”.
Questa frase, pronunciata da un paziente, rappresenta in maniera
esemplare il modo in cui una persona vive una cattiva notizia quando
essa venga data proprio a lei.
Credo che si possa sentire chiaramente la differenza. È la differenza
tra afferrare qualcosa intellettualmente e vivere qualcosa direttamente, sulla propria pelle, nella propria esistenza. La seconda è una frase
propria del mondo della vita.
Ora, la MN ha come proprio obiettivo esattamente il gettare un
ponte tra questi due mondi: quello della medicina e quello della vita.
b) L’identità narrativa
Per capire come essa operi è necessario riflettere anzitutto sul
fatto che l’identità di ciascuno di noi non è che una costruzione narrativa3. Lo so che, detto così, sembra strano: noi siamo abituati a pensare
che le nostre identità siano certificate da un documento, e questo è,
almeno in parte, vero.
Ma, se ci pensiamo bene, ci rendiamo conto che prima di tutto
le nostre identità sono un prodotto di narrazioni: ogni giorno noi ci
raccontiamo agli altri, altri narrano di noi, noi raccontiamo degli altri.
È un processo continuo di narrazione, che – esso fondamentalmente
2 BUCKMANN 2003.
3 La tesi è ampiamente trattata nella letteratura teorica sulla narrazione: cfr., p.es., DEMETRIO 1996; esplicito è questo stesso Autore nella premessa a DEMETRIO 2012, 11: “ognuno
di noi esiste in quanto narrazione offerta o negata e sottratta agli altri” (il che significa che ci
si identifica narrativamente anche quando non lo si voglia fare). La tesi è ribadita anche dagli
autori di vari contributi di questo libro, da Maria Antonietta Annunziata a Nicoletta Suter a
Linda M. Napolitano Valditara <ndC>.
34
– costruisce, custodisce e modifica le nostre identità.
Le narrazioni sono anzi lo strumento attraverso il quale diamo senso alla nostra esistenza. Utilizzo qui l’efficace tabulazione di Rita Charon, inventrice della MN, che chiarisce i modi e i criteri tramite i quali
ciascuno di noi costruisca narrativamente la propria identità4. Ciò può
avvenire perché, nel momento in cui raccontiamo, noi utilizziamo:
• temporalità: perché per mezzo delle narrazioni ci muoviamo nel
tempo, cioè fra presente, passato e futuro;
• singolarità: perché la storia che raccontiamo appartiene a ognuno di
noi e nessun altro ne ha una uguale;
• causalità: perché attraverso la narrazione colleghiamo uno all’altro
i fatti della vita, conferendo loro una struttura e una logica;
• intersoggettività: perché la narrazione, chiunque la faccia, è sempre
rivolta a qualcuno, è fatta per lui;
• etica: proprio perché nella narrazione emergono i valori che guidano le nostre esistenze5.
Questo schema vale ogni volta che una persona racconta la propria
storia: è quindi applicabile anche nella narrazione in ambito sanitario.
c) La narrazione in ambito sanitario: monologia e polifonia
Arrivati a questo punto, è quindi abbastanza chiaro che anche l’incontro fra medico e paziente non è che l’incontro fra due storie. Ora,
un incontro simile è sempre un momento delicato, in particolare se
una delle due storie è quella di chi cura e l’altra è quella di chi è curato.
È importante ricordare infatti che in un incontro del genere c’è
sempre il rischio che una storia agisca contro, sopra o senza quella
dell’altro/a. Anche se siamo animati dalle migliori intenzioni, cercando
di portare aiuto a qualcuno corriamo il rischio di attaccarlo (di agire
cioè, con la nostra storia, contro la sua), di schiacciarlo (di ergerci, con
la nostra storia, sopra la sua), oppure di andare avanti tranquillamente
senza di lui/lei (di procedere con la nostra storia senza la sua).
Un modo utile per riflettere sul delicato momento in cui le storie di individui diversi si incontrano è tenere conto che le narrazioni
possono essere monologiche o polifoniche: riprendo questo concetto,
4
5
Cfr. CHARON 2006.
Cfr., per un valido riassunto in italiano di tali tesi della Charon, BERT 2007, 91-8.
35
sviluppato da Michail Bachtin, dal libro di Giorgio Bert Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura6. Le storie monologiche sono
storie in cui qualcuno viene descritto da un altro (e spesso viene a
identificarsi e a riconoscersi solo con le descrizioni di quest’altro); le
storie polifoniche sono storie in cui invece compaiono voci differenti
che interagiscono7.
Se non si tiene conto di questa differenza, il mondo della medicina
e il mondo della vita delle persone malate rischiano di restare separati
da un muro: se vengono narrate e accolte solo storie monologiche,
queste non permettono la piena visibilità dell’altro, di colui di cui si
narra, e possono anzi finire per schiacciarne la storia sotto il peso
di descrizioni fatte solo da altri, dunque di agire sopra o senza la sua
storia e perfino contro di essa. È evidente a tutti quanto grave e fallimentare sia un simile risultato rispetto a un fine e un programma che
dovrebbe essere, invece, di cura.
Proviamo ora a vedere se, arrivati a questo punto, riusciamo a dare
qualche indicazione più precisa su come operi, invece, la MN. Proviamo a farlo partendo dalle storie – polifoniche – di cui essa accetta
consapevolmente di comporsi:
• la storia clinica: è la storia della malattia narrata dal curante in quanto professionista, fatta di anamnesi, diagnosi, prognosi, terapia ecc.
(una storia vera, ma non – monologicamente – esclusiva);
• la narrazione del malato: è la storia della malattia come viene – invece – vissuta del paziente;
• la narrazione del medico: è la storia del paziente che il medico o l’operatore racconta a se stesso, ai colleghi, oppure ad altri: ma, attenzione, non è quella clinica, è piuttosto la storia di come l’esperienza
del rapporto con quel determinato paziente entri a far parte della
vita del curante;
6 Cfr. BACHTIN M., Dostoevskij: poetica e stilistica, tr. it. Torino 2002, ripreso in BERT 2007,
27-8 <ndC>.
7 In realtà, secondo Bachtin, ogni storia non può essere, concretamente, che polifonica: precisa in effetti BERT 2007, 27: “… la coscienza si esprime sempre attraverso il dialogo: è quella
che Bachtin definisce voce. A causa dell’interazione continua tra le coscienze, ogni voce è
penetrata dalle voci degli altri e a sua volta le penetra. L’espressione di ogni coscienza è, secondo la definizione di Bachtin, polifonica, essendo in ogni modo una somma di voci differenti,
interagenti e sovrapposte” (corsivi dell’A.) <ndC>.
36
• la narrazione co-costruita da curante e paziente (e famigliari): è la storia polifonica, costruita insieme da paziente e curante, quella nella
quale tutte le narrazioni precedenti escono dalla prospettiva monologica e arrivano a integrarsi.
Perché ci sia MN, infatti, tutte queste storie devono in qualche
modo trovare spazio, essere – ciascuna e tutte – liberamente narrate
e attentamente ascoltate e accolte. Mi sembra importante sottolineare come in questo insieme di storie ci sia anche quella clinica: questa
precisazione dovrebbe sgombrare definitivamente il campo dal timore
che la MN (NBM: Narrative Based Medicine) si ponga come antagonista di quella basata sulle evidenze (EBM: Evidence Based Medicine).
Riporto a questo proposito un’affermazione di uno dei principali rappresentanti della EBM, David L. Sackett, un’affermazione risalente già
al 1996: “la MN e la EBM non sono in contraddizione. …L’EBM è l’uso
coscienzioso, esplicito e giudizioso della migliore evidenza attualmente possibile per prendere decisioni in merito alla cura di un paziente.
Praticare l’EBM significa integrare l’esperienza clinica individuale con
la migliore evidenza clinica esterna possibile derivata da ricerche sistematiche… L’esperienza ha molti aspetti, ma si rivela specialmente
in una diagnostica più efficiente ed efficace e in una identificazione più
attenta e più ricca di compassione per la situazione, i diritti, le preferenze, dei pazienti nel decidere sulla loro cura”8.
d) Niente improvvisazioni in MN
Desidero precisare ancora che la MN non si improvvisa, ma richiede competenze specifiche: in particolare quelle di:
• guidare e organizzare le narrazioni: praticare la MN non vuol dire
lasciar sfogare l’altro a ruota libera, lasciandolo parlare senza alcun
criterio: al contrario la narrazione del paziente dev’essere organizzata, proprio per poter essere compresa e condivisa;
• capacità di facilitare le narrazioni: non sempre le persone raccontano
con facilità: il professionista deve avere le competenze per facilitare
la narrazione dei pazienti senza però sovrapporsi a essa;
• praticare le narrazioni: non si può lavorare con le narrazioni se non
si praticano a propria volta le narrazioni. Questo significa per il per8
SACKETT – ROSENBERG – GRAY 1996.
37
sonale sanitario almeno: analizzare i testi narrativi (quello che Rita
Charon chiama close reading) e praticare la scrittura (per esempio
realizzare l’importante pratica della cartella parallela, sempre proposta dalla Charon)9.
• sviluppare la sensibilità linguistica: le narrazioni sono fatte di parole, è
quindi importante conoscere il loro potere. A chi vuole praticare
la MN servono quindi anche competenze retoriche e narratologiche. Mi riferisco, per esempio, al campo delle metafore usate dal paziente e dal medico; alle forme di attenuazione; alle scelte lessicali.
Concludo citando un passo di un libro intitolato The Renewal of
Generosity di Arthur W. Frank, in cui l’autore offre, a mio parere, un
ultimo elemento essenziale per completare quello che abbiamo detto
finora: egli riflette: “Come curanti e persone che ci occupiamo di altri
esseri umani, inevitabilmente diventiamo personaggi delle loro storie;
la cosa più importante che possiamo fare allora è diventare dei personaggi che li aiutino a narrarle nel modo migliore”10.
9 CHARON 2006.
10 FRANK 2004.
38
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Bibliografia
BACHTIN M., Dostoevskij: poetica e stilistica, tr. it. Torino 2002
BERT G., Medicina narrativa. Storie e parole nella relazione di cura,
Roma 2007
BUCKMANN R., La comunicazione della diagnosi in caso di malattie
gravi, tr. it. Milano 2003
CHARON R., Narrative Medicine. Honoring the Stories of Illness, Oxford 2006
DEMETRIO D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano
1996
DEMETRIO D., Educare e narrare. Le teorie, le pratiche, la cura, MilanoUdine 2012
FRANK A.W., The Renewal of Generosity. Illness, Medicine, and How
to Live, Chicago 2004
SACKETT D.L. – ROSENBERG W.M. – GRAY J.A. et al., EvidenceBased Medicine: What it is and what it isn’t, “British Medical Journal”,
312 (1996), 71-2
ZANNINI L., ‘Medical Humanities’ e medicina narrativa. Nuove
prospettive nella formazione dei professionisti della cura, Milano 2008
MAURO DOGLIO
Presidente e Responsabile del Dipartimento Counselling Comunicazione
Educazione dell’Istituto ‘Change’ di Torino
39
I.2
Psicologia e narrazione
in oncologia
Maria Antonietta Annunziata
Il neurofisiologo Oliver Sacks, nel suo celebre libro L’uomo che
scambiò sua moglie per un cappello, scrive: “Se vogliamo sapere qualcosa di un uomo, chiediamo: ‘Qual è la sua storia, la sua storia vera,
intima?’, poiché ciascuno di noi è una biografia, una storia. Ognuno di noi
è un racconto peculiare, costruito di continuo, inconsciamente da noi,
in noi e attraverso di noi – attraverso le nostre percezioni, i nostri
sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni; e, non ultimo, il nostro
discorso, i nostri racconti orali. Da un punto di vista biologico, fisiologico, noi non differiamo l’uno dall’altro; storicamente, come racconti,
ognuno di noi è unico”.
L’essere umano, quindi, è la sua narrazione, costruita da lui, in lui e
attraverso di lui. In senso più ampio, però, l’essere umano è una narrazione co-costruita, cioè è il risultato dell’interazione fra la narrazione
ch’egli fa di se stesso (a sé e agli altri) e quella che gli altri fanno con
lui e di lui.
La narrazione avviene all’interno di scenari di senso e cornici culturali che forniscono i significati da attribuire a ogni percezione e/o
valutazione della realtà. Tali significati precedono le singole esistenze
– ne costituiscono le premesse implicite – e, in quanto tali, permettono agli esseri umani di capirsi, guidano le loro azioni e i loro pensieri.
Essendo largamente condivisi e inconsapevoli, sono percepiti e vissuti
come assoluti – e non come punti di vista possibili sulla realtà – e dati
per scontati.
Sin dalla nascita, quindi, l’essere umano dispone di una risposta ‘culturale’ significante e rassicurante a ogni pensiero, azione o evento che
lo coinvolga. L’attribuzione di un significato a ogni percezione/evento
(= comprensione), da un lato, gli permette di costruire la trama della
propria narrazione – collocando ogni esperienza in un posto preciso
e coerente con la storia vissuta e con quella da vivere – e, dall’altro,
40
lo plasma rispetto al bisogno psicologico di comprendere, nel modo
più rapido possibile, ogni singola successiva esperienza. Egli, quindi,
formandosi alla consuetudine e all’urgenza di comprendere, diventa
incapace di convivere con il disagio dell’incertezza, nella quale ‘sosta’,
e con profonda sofferenza, solo quando vi sia costretto.
La scelta del significato attribuito alle singole esperienze avviene,
quindi, tra le possibilità culturalmente disponibili all’interno dello scenario di senso in cui si è, inconsapevolmente, inseriti.
Per le esperienze di vita ordinarie – comuni, quotidiane – non è
richiesto un grosso sforzo di significazione né di integrazione, essendo
queste già previste, prevedibili e ben significate all’interno degli scenari
di senso e di appartenenza.
Il bisogno ‘psicologico/culturale’ di spiegarsi gli eventi e comprenderli diviene invece più forte e urgente quando si facciano esperienze
stra-ordinarie – non comuni, non quotidiane, impreviste e imprevedibili –, che interrompono la continuità della narrazione: per questo tipo
di eventi, può rivelarsi difficile identificare significati all’interno delle
cornici culturali di appartenenza – perché questi significati possono
mancare –; così come può essere difficile accettare significati presenti,
ma necessitanti di un’integrazione complessa e dolorosa nella trama
della propria narrazione, passata e futura. L’interruzione della trama,
infatti, va considerata anche prospetticamente: l’evento traumatico
può sconvolgere e/o mettere in discussione progetti e desideri, creando una frattura con la certezza di realizzabilità con cui l’essere umano
ha finora raccontato quel futuro a se stesso.
La narrazione del proprio racconto può essere, quindi, più o meno
‘fluida’. La fluidità (= continuità) è basata sulla coerenza (= percezione
di sintonia) tra i significati attribuiti agli eventi/esperienze della propria
storia, sia passata sia futura, ed è sinonimo di adattamento (= salute
mentale).
Essendo la narrazione integralmente e inconsapevolmente costruita all’interno degli scenari di senso, e considerata l’urgenza di
trovare una risposta significante a ogni esperienza, l’unica coerenza
immediatamente accessibile si realizza quando agli eventi sia possibile
attribuire i significati culturalmente disponibili: è nei confronti delle
premesse culturali implicite – che hanno permesso la comprensione
41
e guidato azioni e pensieri fino a quel momento – che alcuni eventi
risultano non chiari, non assimilabili, psicologicamente ‘non accettabili’. L’assenza o l’inaccettabilità di significati impedisce la collocazione
dell’evento nella trama del proprio racconto e la sua integrazione
(= collegamento tra le varie esperienze di vita), o una sua integrazione coerente, nella propria storia: tale difficoltà viene espressa con la
sofferenza psicologica.
Considerata la non elevata numerosità dei significati culturalmente
disponibili e la comunanza delle esperienze ordinarie, ciò che rende unica ogni narrazione è, da un lato, la specifica ubicazione che un
determinato evento occupa nella trama del racconto del singolo individuo e, dall’altro, gli specifici collegamenti di quell’evento con altri
eventi in quella trama, in un tutto fluido e coerente: in questo senso,
il significato ‘scelto’, per quanto pre-esistente, diventa strettamente
soggettivo e personale.
Nell’impatto con le esperienze stra-ordinarie/traumatiche, l’assenza di significati disponibili per rispondere alle domande di senso, può
‘svelare’ le premesse implicite – manifestando la loro arbitrarietà e
relatività – e far emergere altre, nuove cornici di significato.
La persona a cui viene diagnosticato un cancro, quindi, arriva alla
malattia con una storia di sé costruita e co-costruita all’interno della
specifica cultura di appartenenza, che gli ha fornito i significati per
narrarla a se stesso e agli altri in quello specifico modo.
È una storia che in quei significati e in quelle premesse ha trovato
punti fermi precisi – certezze – in termini sia etico/morali (concezione della vita, valori), sia di contenuto (progetti da realizzare), sia
psicologici (idea di poter esercitare un controllo personale sulla vita,
sensazione di invulnerabilità/immortalità).
L’irruzione della malattia sconvolge la narrazione di sé rispetto al
passato e, mettendo in discussione – in maniera più o meno consapevole – le premesse implicite, provoca vissuti di confusione, ingiustizia,
tradimento. Inoltre, sconvolge la narrazione di sé rispetto al futuro
facendola diventare, improvvisamente, una narrazione di perdite, interruzione di progetti, impotenza, vulnerabilità, limitazioni, separazioni,
precarietà, finitudine e morte.
42
La diagnosi di cancro, quindi, rendendo discontinuo e incoerente
il racconto ‘consolidato’ del paziente, provoca una sofferenza da cui
emerge la ‘consueta’ ricerca di un senso, cioè il bisogno urgente di
comprendere per ripristinare coerenza e continuità nel proprio racconto.
Le risposte immediate sono automaticamente e naturalmente
cercate nell’unico scenario di senso disponibile, rappresentato dalla
cultura di appartenenza. Tra i significati possibili, nell’odierna cultura
occidentale, si pensa ancora al cancro come punizione per una colpa.
Tuttavia, oggi il paziente è anche portato ad accogliere significati diversi – riferiti ad alimentazione, inquinamento, ereditarietà, ma anche
a stress e depressione – che sono, comunque, espressione dell’attuale
cultura di appartenenza, basata su progresso, ricerca scientifica, stili
di vita pragmatici e frenetici. In entrambi i casi, la narrazione che ne
scaturisce rimane all’interno della cornice culturale di appartenenza,
realizzando una parziale coerenza con la trama del racconto (passato).
In termini di riduzione della sofferenza, ciò può risultare efficace in
maniera duratura solo se la malattia è una parentesi che si chiude e
se non turba la narrazione futura; in caso contrario, si rivela un adattamento transitorio.
Perché la nuova narrazione garantisca un reale adattamento, indipendente dall’andamento della malattia, il significato attribuito al
cancro dev’essere in grado di stabilire una coerenza sia con il racconto passato, sia con qualunque racconto futuro, anche con quello
di non realizzazione dei progetti ‘previsti’, e addirittura di sofferenza e
di morte. La nuova narrazione è realmente e completamente adattiva
quando le premesse implicite, sulla base delle quali è stato costruito
il racconto fino a quel momento, sono messe in discussione e cambiate;
quando le risposte alle domande di senso sono cercate al di fuori della
cornice culturale di appartenenza.
In alcuni casi, per alcune persone e/o col tempo, le domande di
senso sulla malattia riescono a palesare le premesse implicite e la loro
arbitrarietà e a introdurre nuove cornici di senso: muoversi dentro
la cornice tradizionale oppure cambiarla comporta due diversi modi
di rapportarsi a se stessi e al mondo. Muoversi dentro la cornice o
cambiare la cornice modifica il proprio modo di essere nel mondo, la
43
propria posizione nei confronti della vita.
La cornice di senso che si rivela evidenzia l’ingenua irriflessività con
cui normalmente, nella nostra cultura odierna, si guarda alla vita: si è
allora costretti a prendere emotivamente atto che la sofferenza e la
morte della vita fanno parte; a divenir consapevoli che la sensazione di
pieno controllo su futuro, salute, eventi in genere, è un’illusione – per
quanto favorisca un’efficace percezione del proprio stare nel mondo;
a investire, piuttosto, su un pieno, certo e intenso presente.
Il ricorso allo psicologo/psicoterapeuta da parte del paziente è,
quindi, sollecitato dalla sofferenza indotta dalla percezione di rottura
nella propria narrazione; dall’urgenza di comprendere la malattia per
integrarla nel proprio racconto passato e futuro: è una richiesta di
aiuto per ritrovare la coerenza perduta.
Il rapporto professionista-paziente avviene in un contesto necessariamente comunicativo e relazionale – colloquio clinico – e la comunicazione è, e non può essere altrimenti, un ambito di narrazioni.
La narrazione psicoterapeutica parte dal racconto personale del
paziente – fatto di vissuti di rabbia, impotenza, preoccupazione, colpa,
ingiustizia, frustrazione, terrore, disperazione: è un racconto che può
fare anche molto male, ma è anche lo strumento per curare e guarire.
Le persone, infatti, talvolta sono prigioniere delle proprie narrazioni – significati attribuiti agli eventi e/o collegamenti tra essi – e non
riescono a relativizzare le esperienze e a guardarle da un’altra prospettiva, non potendo agire/pensare al di fuori della cornice di senso
di appartenenza.
A tal proposito, è importante sottolineare come il lavoro psicologico/psicoterapeutico – in quanto ‘lavoro sulle narrazioni’ – non possa
non tenere conto del momento e contesto storico-culturale entro il
quale esso viene a svilupparsi, e come non possa non far conto sulla
capacità dello psicologo/psicoterapeuta di intravedere e offrire punti
di vista diversi, alternativi.
La psicoterapia, quindi, è essa stessa una narrazione – condivisa –
che riscrive il racconto del paziente; può essere, quindi, ritenuta una
‘buona’ conversazione quando permette al paziente una riscrittura
del proprio racconto con l’obiettivo di stare meglio.
44
La riscrittura avviene all’interno del contesto terapeutico attraverso:
• la comprensione, da parte del professionista, della trama della storia
del paziente – cioè, la comprensione dei significati attribuiti alle
componenti della trama e al loro collegamento. La comprensione
a sua volta si realizza attraverso l’ascolto attivo, un ascolto, cioè,
interessato alla sofferenza e a ciò che la determina (cornici culturali/premesse implicite/significati attribuiti agli eventi). Risalire alle
cornici non implica condividerle, ma solo capirle: la comprensione
va già nella direzione del benessere;
• la possibilità di ‘modificare’ quei processi psicologici – credenze, sistema
di pensiero, organizzazione senso-percettiva, schemi di attribuzione di significati – che creano sofferenza, proponendo punti di vista
diversi al fine di ristrutturare il campo percettivo.
Lo psicologo/psicoterapeuta in oncologia, quindi, ha il compito di
favorire l’adattamento del paziente attraverso la riscrittura di una nuova
narrazione, nel rispetto delle difese psicologiche e dei tempi personali
(contesto di protezione).
A volte, lo psicologo/psicoterapeuta riesce a co-costruire con il
paziente una riscrittura veramente adattiva della sua narrazione attraverso la sofferta scoperta e il doloroso apprendimento di nuove cornici
di senso, cioè, attraverso il cambiamento delle premesse implicite.
Altre volte, professionista e paziente danno vita a una nuova narrazione coerente con le premesse implicite, che funziona, e può funzionare anche a lungo, se la malattia rimane un episodio circoscritto.
Il risultato del lavoro psicoterapeutico dipende anche dalle caratteristiche psicologiche della persona malata e richiede al professionista
la capacità di riconoscere le potenzialità di ogni persona, per non forzare nessuno a riscrivere la propria trama, né a farlo in un modo che
in quel momento non gli appartiene.
MARIA ANTONIETTA ANNUNZIATA
Direttore Servizio di Psicologia Oncologica del CRO di Aviano
45
I.3
Competenza narrativa
e formazione per gli operatori
della salute
Nicoletta Suter
a) Evidenza e narrazione
Filone conduttore di questo nostro convegno è la cosiddetta ‘Medicina centrata sul paziente e sulla relazione’: una medicina che sta
attraversando un profondo processo di rinnovamento, all’insegna dei
valori più umani, e che a sua volta richiede il recupero di un’arte della cura e del prendersi cura fondata sul dialogo e quindi sull’ascolto
dell’altro.
In tutto ciò la formazione degli operatori della salute ha un ruolo
centrale. Ma su che cosa devono basarsi i profili di competenza di
medici, infermieri, psicologi, tecnici? Che cosa deve, per essi, pesare
di più: la Medicina Basata sulle Evidenze (EBM) oppure la Medicina
Narrativa (MN)?1. Certamente nei nostri contesti sanitari la prima
(EBM) ha avuto un grande successo dall’inizio degli anni ’90, quando
sono usciti gli articoli storici che hanno sancito l’avvio di un percorso
davvero innovativo in campo medico2. Potremmo dire che si è trattato
di un vero cambio di paradigma, che voleva trovare la migliore integrazione possibile fra l’esperienza dell’operatore e l’utilizzo esplicito
delle prove di efficacia esistenti, modulate dalle preferenze del paziente, relativamente all’accuratezza dei test diagnostici, all’importanza dei
fattori prognostici, all’efficacia e sicurezza dei trattamenti preventivi,
curativi e riabilitativi.
Tuttavia troppo spesso, da allora, il processo di cura si è sbilanciato verso un approccio meccanicistico e riduzionistico: l’organismo
da curare è stato parcellizzato in apparati e organi; il malato è sta1 Su Medicina basata sulle evidenze (EBM) e Medicina Narrativa (MN), si veda, fra l’altro,
CAPPELLETTI 2012 <ndC>.
2 GUYATT 1992.
46
to identificato con la sua malattia e ridotto a numero e statistica; il
dato oggettivo ha acquisito sempre più importanza, con una complementare svalutazione di tutto ciò che, invece, potesse riguardare il
singolo bisognoso di cure e la sua storia. Specializzazioni, protocolli,
standard, certificazioni, statistiche hanno portato maggiore attenzione
sulla quantità più che sulla qualità dei processi terapeutici.Tutto è stato
medicalizzato e la parola ‘terapia’ è entrata ovunque: musico-terapia,
arte-terapia… E il linguaggio medicalizzato parla moltissimo, se non
sempre, della malattia, mentre parla ben poco della promozione della
vita e della salute.
Di quest’ultima si parla poi, quando lo si fa, come di una sorta di
mito: il mito della vita sempre in salute, per cui non si vuole invecchiare e si dibatte se sia giusto aggiungere anni alla vita o vita agli anni!
Emblematica è l’ossessione per il ‘peso corporeo ideale’: mentre milioni di esseri umani soffrono la fame, altri si impongono il digiuno
per non ingrassare e gettano cibo nella spazzatura perché ne hanno
in eccesso, oppure si abbuffano per compensare col cibo chissà quale
dolore nascosto. E questo è solo uno dei tanti paradossi della nostra
civiltà occidentale contemporanea, paradossi il cui elenco potrebbe
essere davvero lungo…
Ma la scienza esclude davvero, poi, la soggettività? Oppure i metodi
quantitativi e qualitativi della ricerca possono e forse perfino devono
convivere? E il metodo scientifico non include forse esso stesso la
narrazione da parte del malato, narrazione attraverso cui sia possibile
avere una maggiore comprensione di ‘quel’ caso clinico? Ne è prova
il fatto che, nelle varie fasi degli studi clinici, sono i ricercatori stessi
ad ascoltare storie per poter capire gli effetti delle sperimentazioni.
Le meta-analisi (revisioni sistematiche che combinano i risultati di diversi studi, con l’obiettivo di riassumere le evidenze in un’unica fotografia e di fornire un’informazione essenziale per il processo di scelta
terapeutica) sono documenti tecnici spesso difficili da leggere e interpretare: ecco che allora la Cochrane Collaboration ha deciso di illustrare le raccomandazioni contenute in queste revisioni sistematiche
con storie di pazienti. Possiamo allora affermare che forse le stesse
medie statistiche ritornano a essere storie3.
3 “La Cochrane Collaboration è una iniziativa internazionale no-profit nata con lo scopo
47
Negli ultimi 10 anni sempre più numerose in effetti sono le pubblicazioni che riportano studi sull’utilizzo della Medicina Narrativa (MN)
e sui suoi effetti nella pratica clinica, sia sul versante dell’efficacia delle
cure, sia su quello del benessere/salute degli operatori. Ovviamente
nel campo della MN avremo metodi di ricerca principalmente di tipo
qualitativo, quale il metodo etnografico, anch’esso tuttavia rigoroso da
un punto di vista scientifico.
Tutto il processo terapeutico e assistenziale ruota in verità attorno
a una domanda: i desideri, gli obiettivi, la volontà espressi dal paziente trovano realizzazione prendendo una decisione clinica basata sulle
evidenze?4 L’integrazione tra EBM e MN pare divenga allora una sinergia non solo possibile, ma necessaria5.
Durante la sua presentazione al CRO di Aviano, in occasione di
una visita fatta il 4 luglio 2012, la stessa Rita Charon della Columbia
University, fondatrice della MN, ha detto: “In medicina noi abbiamo
evidenze che derivano dai numeri e dalle statistiche, ed evidenze che
derivano dalle parole. I pazienti hanno bisogno di ambedue: perciò
EBM e MN devono integrarsi. Sia numeri che parole raccontano una
storia: sono strutture metaforiche e ambedue illustrano la realtà.
Tutte e due le realtà sono importanti. In una storia ci sono dei fatti che
possiamo osservare, c’è una trama e questo è ciò che in sede scientifica chiamiamo causalità. Quando leggiamo una storia abbiamo bisogno
di sapere come finisce, di comprenderne il senso: così avviene anche
per i numeri. Infatti noi siamo sia dati biologici che fatti esistenziali,
scienza e umanità: e fra i due ambiti non c’è competizione. La MN è
importante perché quando abbiamo la capacità di catturare l’evidenza dalle parole e dai linguaggi, vuol dire che siamo di fronte alle più
profonde radici esistenziali della persona. Dobbiamo ricordarci che
viviamo sempre ‘dentro’ a delle storie…!”.
La Charon ha definito tutto ciò “senso dei numeri” e “senso delle
parole”. Certamente i numeri senza le parole e quindi senza le storie
di raccogliere, valutare criticamente e diffondere le informazioni relative alla efficacia degli
interventi sanitari. Attualmente oltre 28.000 operatori sanitari, ricercatori e rappresentanti
di associazioni di pazienti sono impegnati in più di 100 paesi del mondo in questa attività” (da
www. Cochrane.collaboration.it) <ndC).
4 SACKETT – ROSENBERG – GRAY 1996.
5 CHARON 2008.
48
portano alla spersonalizzazione dell’assistenza; ma anche le parole, se
mal utilizzate, possono mentire, manipolare, ferire. Già Sigmund Freud
riteneva impossibile conoscere gli uomini senza conoscere la forza
delle parole e secondo Ludwig Wittgenstein queste possono avere la
stessa forza delle pallottole.
Vero tutto questo, la vera grande questione è come utilizzare in
modo etico sia numeri e dati, sia parole e storie.
b) L’essere umano è una storia
Ciascun essere umano è una storia, che si racconta a vari livelli:
somatico, psichico, emotivo, relazionale.
L’etimologia della parola ‘storia’ risale all’indoeuropeo *wid-tor dalla radice *weid (‘vedere, sapere’). In italiano ‘storia’ discende dal latino
historia, derivante a sua volta dal greco ἱστορία, che significa ‘conoscenza acquisita tramite indagine, ricerca’. Il termine deriva da ἵστωρ
(hístōr) e significa uomo saggio, testimone, o giudice6.
Nonostante quest’antica, autorevole radice, ogni incontro con la
storia dell’altro porta con sé, per ognuno di noi, qualcosa d’indefinito,
d’incerto: è la soggettività stessa della persona, fatta di percezioni,
sensazioni, ipotesi, timori, pensieri espressi e inespressi, gesti, tutte
cose che, proprio perché difficilmente comprensibili e interpretabili,
paiono essere dei tabù nell’era della scienza, dove tutto vuole invece
essere riportato a procedure e interventi oggettivamente prestabiliti
e definibili.
Anche la malattia fa parte di quella storia e può essere compresa e
veramente curata solo in relazione a quella storia. Ed è proprio a questa umanità della storia personale che ora si sente la necessità di dare
nuovamente spazio, per riappropriarsi dell’arte della cura e renderla
pienamente efficace. Questo in linea con una riflessione del medico
statunitense Patch Adams, secondo il quale – è una delle sue celebri
frasi – quando si cura una malattia si può vincere oppure perdere, ma,
quando ci si prende cura di una persona, si vince sempre7.
6Cfr. www.treccani.it, vocabolario on line; www.etimo.it, dizionario etimologico on line.
7 Hunter (Patch) Adams è il medico a cui si deve l’invenzione di una terapia tutta particolare: quella del sorriso. Il famoso medico americano fa ridere i bambini ricoverati negli ospedali
portando allegria e serenità laddove c’è tristezza e partendo proprio dal presupposto che:
“quando si cura la malattia si può vincere o perdere, quando si cura la persona si vince sem-
49
L’arte della cura ha bisogno di narrazioni per comprendere la ‘mappa’ dell’altro: il suo tempo, i suoi luoghi, la trama della sua vicenda, i
personaggi, le sue rappresentazioni e il significato che lui stesso attribuisce a tutto questo. Le narrazioni possono utilizzare il linguaggio
parlato oppure quello scritto, quello non verbale oppure quello analogico (immagini, metafore, miti…). Ascoltare la storia dell’altro, quale
che sia il linguaggio che la esprime, vuol dire sforzarsi di capire quale
interpretazione egli dia del mondo, della vita, della malattia, e quali
siano i significati che attribuisce loro: e, anche in campo medico, l’assegnazione di significato è consentita proprio dall’ascolto attivo, dalla
riflessione e interpretazione della storia del paziente8.
Mancare di ‘ascoltare’ (che è diverso dal semplice sentire) la narrazione del paziente porta a un disallineamento tra curante e assistito9.
Questo disallineamento può implicare a sua volta conseguenze, a vari
e sempre più gravi livelli: nella relazione di aiuto può essere messa in
crisi la fiducia; a livello psicologico il malato può sentirsi non riconosciuto e abbandonato; a livello di appropriatezza delle cure possono
insorgere problemi inerenti la compliance, cioè l’aderenza alle cure
stesse; possono insorgere contenziosi, che danno avvio a relazioni
conflittuali; può determinarsi un incremento di costi per spreco di
risorse umane e materiali.
La MN ha proprio lo scopo di produrre invece un allineamento semantico tra paziente e curante e l’empatia diviene l’esito di questo allineamento emotivo (quando si comprenda e poi si faccia conto nell’agire di quello che l’altro sente) e cognitivo (quando si capisca veramente
il senso delle parole, come delle non parole dell’altro)10. Molti sono gli
articoli pubblicati su “The Lancet” che analizzano la differenza tra un
medico/terapeuta eccellente e uno mediocre: il bravo professionista
sarebbe proprio colui che sa cogliere e interpretare il racconto dei
pre!” (informazione tratta dal sito www.nasirossi.altervista.org “Un naso rosso per accedere alla
speranza”).
8 CHARON 2001a.
9 MARINI – ARREGHINI 2012.
10 Si riproduce qui la definizione di ‘empatia’ proposta durante il convegno e riprodotta nel
contributo, in questo stesso libro, di Linda M. Napolitano Valditara, secondo cui l’empatia non
può e anzi non deve limitarsi a consistere, nelle professioni d’aiuto, in un semplice ‘sentire ciò
che l’altro sente’ <ndC>.
50
pazienti, non solo la loro storia di malattia, ma anche il loro vissuto.
Tutto questo fa insorgere la fiducia tra curante e paziente: se ognuno dei due si fida dell’altro gli si affida e ciò rende possibile e pienamente efficace il processo di cura e l’aderenza al piano di trattamento
proposto.
c) ‘Medical Humanities’ e MN
In questo contesto di crisi e disorientamento generalizzato, dove
anche la medicina vive i suoi paradossi e le sue ambiguità, si sono sviluppate le Medical Humanities, di cui proprio la MN è un sottoinsieme,
allo scopo di reintegrare l’umanità perduta per strada.
Le Medical Humanities mirano esattamente alla comprensione
dell’uomo attraverso le scienze umane e le arti che utilizzano un paradigma narrativo.
Si esprime così il bisogno di recuperare un modo di fare medicina
e di prendersi cura che contempli di nuovo la soggettività, l’incertezza, l’indeterminato, che lasci spazio alle emozioni, ai vissuti, alle
grandi domande, a tutto quello che finora è stato mascherato dietro
ai numeri, alle statistiche, alle cifre, per paura di non poterlo considerare ‘scientifico’. Ma la scienza stessa manca di efficacia e anzi non sta
in piedi senza le persone e senza rapporti basati sulla fiducia: senza
operatori che ritrovino un modo per stare in contatto con se stessi
e coltivare il proprio valore, i propri talenti, così da poter essere di
aiuto ad altri appunto in modo efficace, senza ‘bruciarsi’11.
La MN in fondo non propone nulla di così totalmente nuovo. Dovrebbe anzi essere un’attitudine di chi cura, se l’ascolto e la relazione
con il paziente inteso nella sua totalità non fossero divenuti così estranei alla medicina. Tanto che per recuperarne e ribadirne l’importanza
stiamo cercando nuovi nomi e nuove definizioni.
Perciò la MN non è un mito, ma – tutto al contrario – qualcosa
di molto reale e necessario, forse non una bandiera da difendere, ma
certamente un processo di cambiamento e di rinnovamento da sostenere. Con chiarezza di valori, con metodi e strumenti ben precisi.
Una lamentela frequente dei pazienti è la carenza/discontinuità di
informazioni ricevute dagli operatori. Secondo uno studio datato, ma
11Sul burn out nelle professioni sanitarie, cfr., fra gli altri, VACCHER 2012, 81-2 <ndC>.
51
forse ancora attuale, costoro sovrastimano in modo notevole il tempo
dedicato alla spiegazione e pianificazione dell’intervento/trattamento,
tanto che la discrepanza tra percezione in merito del paziente e percezione del curante è del 900%12. Inoltre, durante il colloquio clinico il
paziente viene interrotto spesso: in genere la prima interruzione arriva dopo 17-23 secondi dal momento in cui egli ha iniziato a parlare13.
Un medico nel corso della sua vita professionale può compiere
migliaia di consultazioni: la visita per il paziente è piena di attesa e di
tensione e rappresenta forse il momento più importante della giornata, se non, in alcuni casi, della vita. Per il clinico invece la visita diventa
routine: e ciò non è soltanto ‘normale’ per lui e rappresenta una garanzia per il paziente: purtroppo a volte può divenire un rischio.
Ciò perché nel nostro lavoro non incontriamo mai una patologia,
bensì sempre una biografia, che ci introduce non solo alla malattia intesa, come precisa la lingua inglese, quale disease (cioè insieme di dati
biologici), ma anche e soprattutto quale illness (vissuto di malattia)14.
Deriva da questo la necessità di fare una sorta di rivoluzione in
ambito clinico a partire dall’anamnesi medica, che non può più essere solo tecnica: essa deve divenire anche un’anamnesi narrativa.
Vale la pena ricordare come ancora Rita Charon proponga di dare
inizio al primo colloquio clinico con il paziente, utilizzando una frase
del genere: “Buongiorno, sarò il suo medico d’ora in poi, perciò ho
bisogno di sapere molte cose sul suo corpo, sulla sua salute, sulla sua
vita. Mi dica, che cosa dovrei conoscere della sua situazione?”15.
Tanti sono i professionisti coinvolti oggi nella MN: resistenze e sperimentazioni convivono.
Le sperimentazioni mostrano sempre più che l’approccio con la
MN, specie con pazienti affetti da patologie croniche, migliora la pratica clinica, permette diagnosi più approfondite, favorisce le relazioni
con paziente, famiglia, personale sanitario, e ottimizza l’aderenza alla
terapia16.
12 WAIRZKIN 1984.
13 MOJA – VEGNI 2000.
14 ENGEL 1977. <Sul diverso valore semantico dei termini inglesi disease, illness e sickness,
indicanti tutti la malattia, cfr. anche CAPPELLETTI 2012, 11, nota 6 <ndC>.
15 CHARON 2004.
16 MARINI – ARREGHINI 2012.
52
Oggi, dunque, essere competenti da un punto di vista dell’intelligenza emotiva e della comunicazione non è più un optional per gli
operatori della salute: certo, questa competenza può avere effetti collaterali, perché espone di più ai rischi del coinvolgimento emotivo, se
i professionisti non sono sufficientemente preparati17.
Di qui la necessità di impegnarsi per la formazione degli operatori
della salute.
d) Formazione di eccellenza e buone pratiche formative
Quale formazione proporre e offrire loro, dunque, per accompagnare questi cambiamenti e guardare a nuovi orizzonti?
Possiamo iniziare a rispondere ponendoci delle domande: nel campo della formazione dobbiamo occuparci delle professionalità oppure
delle persone? Quanto conta, in questo stesso campo, l’attenzione
rivolta al ‘sé’? Quali problemi può risolvere la formazione stessa?
In molti ambiti lavorativi nel fare formazione ci si concentra soprattutto sulla ‘professionalità’, intesa come costruzione dell’identità
professionale. Questo deve essere certamente il focus principale: ma
nelle professioni di aiuto, nelle strutture dove si realizza un servizio
alle persone, fra l’altro in stato di malattia, fragilità, menomazione, disabilità ecc., io ritengo che limitarsi a questo sia riduttivo.
In realtà maturazione professionale e cura di sé come persona non
possono procedere disgiunte, perché, senza un lavoro costante anche
sul sé, è improbabile che un professionista della cura possa mantenere
nel tempo livelli elevati di efficacia lavorativa. Sarà un bravo tecnico ma
non un buon terapeuta18.
Lavorare su di sé significa imparare a gestire gli eventi esterni e
trasformarli in accadimenti interiori, inscrivendo le conoscenze scientifiche e tecniche in cornici dense di significato19. Significa essere un
professionista dotato della capacità di riflettere sull’esperienza che sta
facendo e di apprendere dall’esperienza stessa e perfino dal dubbio e
17 Sulla ‘preparazione’ concernente il tratto del coinvolgimento emotivo e dell’empatia, cfr.,
in questo stesso volume, il contributo di Linda M. Napolitano Valditara < ndC>.
18 NARANJO 2005, 19, scrive: “… è giunto il tempo di avere una educazione per lo sviluppo
umano. Il tema contiene anche la convinzione implicita del fatto che senza una educazione per
la crescita umana difficilmente arriveremo a realizzare una società migliore”.
19 MARINI – ARREGHINI 2012.
53
dall’errore; significa ‘processare’ gli eventi attraverso la propria intelligenza emotiva e sociale.
Occorre ricordare che, nei contesti sanitari, organizzazione e
formazione dovrebbero procedere in modo coerente e sinergico.
La domanda chiave da porsi dovrebbe essere: questa azienda ha nella
sua mission l’obiettivo di ‘prendersi cura’ di chi vi lavora? Oppure, in
assenza di una vera politica concernente le risorse umane, finisce per
produrre tante ‘sindromi del criceto’, magari con ricadute anche gravi
sia sulla salute psicofisica dei curanti, sia – di conseguenza – sulla qualità della relazione terapeutica che essi sanno instaurare coi pazienti?
Mi riferisco al prendersi cura della motivazione di chi lavora e di
chi merita, di chi sa far la differenza, quanto ai ‘risultati aziendali’, con la
sua disponibilità e la sua competenza: con assoluta, parallela condanna
di ogni forma di assistenzialismo e baliatico, di privilegi e favoritismi.
A seconda delle varie culture aziendali, c’è però di fatto chi punta
sull’eccellenza clinica e scientifica, chi sul numero delle prestazioni, chi
semplicemente sul contenimento dei costi. Son poche le organizzazioni che danno il giusto peso alla qualità percepita dai cittadini e a quella
delle relazioni di cura (se non in occasione di visite di certificazione
e accreditamento) e che prestano autentica attenzione alle proprie
risorse umane.
È ovvio che, in un quadro simile, la formazione da sola non può fare
miracoli, perché non è che la leva strategica in un preciso, precedente
modello organizzativo.
Oggi gli operatori dei contesti sanitari manifestano però numerose
forme di disagio: in particolare si sentono ‘divisi’ tra le esigenze dei
pazienti (che chiedono sempre di più, anche per la diffusione esponenziale delle informazioni in rete), richieste dell’organizzazione (che
pretende si faccia molto in poco tempo e si risparmi dando però qualità) e minacce insite nella medicina difensiva (con l’incremento delle
denunce per presunti casi di ‘malasanità’).
Inoltre tutte le professioni stanno attraversando profonde crisi di
identità, sui luoghi di lavoro il clima è teso e conflittuale e vi si registra
anche un progressivo, preoccupante invecchiamento della popolazione lavorativa.
La formazione diventa allora un autentico investimento sulle ri54
sorse umane: essa può rappresentare un contesto in cui da un lato
la pratica dell’ascolto narrativo del paziente e, dall’altro, la possibilità
di essere ascoltati a propria volta da parte dell’organizzazione restituiscono agli operatori senso e motivazione e prevengono forme di
distress e burn out20.
e) La formazione in MN alla Columbia University
Nell’ambito delle Medical Humanities l’obiettivo della formazione
diviene dunque sviluppare la competenza narrativa degli operatori.
La prima domanda è, però, se tale competenza vada insegnata e praticata nella formazione di base, in quella specialistica oppure nella formazione continua.
Rita Charon da più di un decennio, presso la Columbia University
di New York, ha inserito la MN nel curriculum di studi del medico,
dell’infermiere, dell’assistente sociale e di altre professioni, da poco
anche in forma integrata, proponendo l’utilizzo della letteratura sotto
forma di racconti, romanzi, poesie, in workshop di listening, reading and
writing21.
Si tratta di un esercizio continuo per imparare a comprendere il
senso delle storie e per sviluppare le competenze narrative fondamentali: ascoltare, leggere e comprendere, scrivere, riflettere.
In effetti, “la forma della storia, sia raccontata oralmente che scritta,
costituisce una cornice linguistica, psicologica, culturale e filosofica
per i nostri tentativi di comprendere la natura e la condizione della
nostra esistenza”22. E ciò vale per tutti, pazienti non meno che curanti:
“E la pratica della medicina non ha forse a che fare proprio con
questo?”23.
Core della formazione è per Rita Charon anzitutto attivare attorno
alla lettura e scrittura circoli virtuosi di ascolto profondo e di riflessione.
L’ascolto è inteso come un vero e proprio atto terapeutico e non
solo come una tecnica. Esso serve all’ampliamento della propria ‘mappa’ di orientamento, ad acquisire maggiore consapevolezza di sé, ad
20Cfr. supra, la nota 5 <ndC>.
21 CHARON 2012c.
22 CHARON 2012a.
23 BROCKMEIER – ROM 2001.
55
allenare l’osservazione e la conoscenza del linguaggio del corpo, per
riuscire a stare nella relazione sospendendo il giudizio e per poter sperimentare, invece, l’accettazione e la considerazione positiva dell’altro.
La riflessione è pensata a sua volta come strumento di apprendimento. L’esperienza da sola infatti non è sufficiente: l’apprendimento
avviene solo se, durante e dopo l’esperienza, si attua una riflessione24.
Essa (nel suo significato letterale di ‘rivolgere’, ‘ripiegare verso di sé’)
diventa allora la via maestra della MN, perché promuove la presenza nel qui e ora, il senso d‘identità e d’intersoggettività, affinando la
capacità di discernimento etico. Henry James, scrittore grandemente
apprezzato da Rita Charon, sosteneva che, tramite la riflessione, il self
diviene presente, attivo, sensibile, e così cattura il significato delle storie: a esso allora niente sfugge25.
La riflessione viene sollecitata in ogni passaggio dell’attività formativa organizzata alla Columbia: prima si fa la lettura di un testo o
poesia; poi vi è la riflessione e l’interpretazione condivisa nel gruppo;
segue la stesura per iscritto di prompt (riflessioni personali) e per finire vi è la lettura e condivisione di questi elaborati individuali.
La Charon si sofferma in particolare sull’importanza della scrittura
‘riflessiva’: essa soltanto è attenta, critica, creativa, generativa e tale ad
aprire a qualcosa di nuovo circa il sé. L’atto di scrivere apre serbatoi
di pensieri e conoscenze altrimenti sconosciuti allo scrittore stesso.
Rappresentare la propria esperienza attraverso il linguaggio è forse il
mezzo più potente per ‘catturarla’, rendendola visibile e comprensibile26. Il linguaggio in particolare della narrazione per iscritto può allora
avere un potere guaritore sul sé27: esso porta a un miglioramento dei
sintomi fisici, favorendo l’espressione di emozioni e pensieri, a volte
oscuri allo stesso narratore. Questo vale allo stesso titolo per pazienti e operatori.
Narrare e scrivere di sé ruota attorno ad azioni fondamentali della
memoria, che vanno a ricomporre la trama passato-presente-futuro;
si tratta infatti, quando si narri per iscritto, di:
24 BROCKMEIER – ROM 2001.
25 Sul rapporto della Charon con Henry James, cfr. BERT 2007, 191 <ndC>.
26 CHARON 2012a.
27 BALKI – WILHELM 2005.
56
ricordare (dal latino cor, cordis, cuore);
rievocare (chiamare indietro);
rimembrare (ricomporre le membra, le parti);
rammentare (riportare alla mente);
rivivere (vivere nuovamente qualcosa);
rimpiangere (piangere di nuovo);
commemorare (fare memoria di qualcosa insieme a qualcuno)28.
L’apprendimento della competenza narrativa opera dunque su un
piano cognitivo e su un piano emotivo, mettendo in connessione ‘cervello sinistro e cervello destro’, parte logica e parte analogica.
Ancora Rita Charon spiega il potere delle storie attraverso la metafora della membrana cellulare, quella parte della cellula che, allo stesso
tempo, la separa dall’ambiente e la mette in contatto con esso29. Così
le storie sono, allo stesso tempo, proprie di ciascuno, ma tali da connettere un essere umano con un altro: esse sono viste allora come i
messaggeri chimici che attivano i recettori e permettono lo scambio
di informazioni a un livello simile a quello della membrana cellulare, vera intelligenza della cellula, capace di far esperienza del mondo
esterno con il quale è a contatto.
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f) La formazione alla MN in Italia
Questi dunque i fondamenti teorici e gli esperimenti pratici di MN
alla Columbia University. Che cosa accade invece nella formazione di
base in Italia?
I curricula universitari delle professioni sanitarie, in particolare quello di medicina, spesso non prevedono insegnamenti di psicologia o di
comunicazione, con un grande sbilanciamento verso l’aspetto tecnico.
La formazione umanistica è lasciata all’educazione personale, alla cultura generale, al buon senso, oppure alla volontà e iniziativa particolare di alcuni docenti, interessati ad arricchire i propri insegnamenti, Un
modello, questo, che influenza anche il dopo-laurea di questi studenti,
cioè l’impostazione futura del lavoro sanitario, con una sottovalutazione eccessiva della sua dimensione relazionale.
Quando le cose vanno bene, agli studenti nelle nostre università
28 Cfr. SUTER 2012, 49.
29 CHARON 2012b.
57
viene detto che bisogna essere empatici, si dà la definizione di empatia e si raccomanda di ascoltare e d’imparare a gestire le emozioni.
Il problema non affrontato e lasciato insoluto è però come si apprendano abilità del genere: secondo Rita Charon occorre, come visto
poco fa, partire da lettura e scrittura per attivare l’ascolto, la riflessione e la comprensione, suscitando domande importanti a cui l’animo
umano pian piano giunge a trovare le sue risposte.
Leggere e scrivere sulla propria esperienza di studente o curante migliora la capacità di comprendere la storia dei pazienti e aiuta
inoltre, attraverso l’educazione del sé, a capire e approfondire la fonte stessa della propria motivazione professionale. Compito dell’insegnante è, allora, accompagnare la riflessione in profondità: ciò apre alla
vastità, all’incertezza, al senso di perdita, al significato che ci riunisce
tutti, ammalati e quanti diano il meglio di sé per curare i primi. Questo
accompagnamento opera nell’ottica sia dello sviluppo della competenza narrativa, sia della maturazione personale. Si tratta dunque di
un grande rinnovamento della formazione, che viene ad essere attivo
addirittura alle sue radici. Ora solo per tali vie formative possiamo
sperare di avere professionisti della cura attenti, rispettosi e davvero
efficaci.
Tutto ciò perché la MN è molto vicina alla pratica clinica: ogni malattia o episodio di cura genera infatti molte storie: quelle raccontate
dal paziente, quelle trascritte dal medico nelle cartelle cliniche e in
altri report, le note aggiunte da altri professionisti, le consegne infermieristiche, altre forme di diari, a cui si aggiungono oggi le cosiddette
‘cartelle parallele’, le riflessioni dell’operatore su ciò che accade nella
relazione di cura.
Si comprende quanto allora sia necessario ri-coniugare nella formazione di base scienza clinica e umanesimo, entrambi indispensabili
per la cura della persona. La cura non può dimenticare che malattia,
sofferenza, morte mettono i pazienti tanto quanto i professionisti di
fronte alle grandi domande esistenziali. Ancora troppo spesso si dimentica invece che, durante la formazione di base, lo studente passa
attraverso un processo di grandi cambiamenti per i temi studiati e
per le esperienze fatte, ‘vivendo’ molte esperienze forti: queste però,
se non adeguatamente accompagnate, rischiano di destabilizzarlo e
58
di lasciare in lui domande importanti ancora aperte. Insomma la formazione di base deve avere a che fare con il tema stesso dell’essere
dell’uomo nel mondo.
Nel nostro Paese sono avviate esperienze innovative in alcuni corsi
di laurea delle professioni sanitarie, nei cui curricula sono stati inseriti
insegnamenti di psicologia e psicologia clinica, di antropologia e ora
anche di ‘relazione assistenziale’, dove s’insegnano la comunicazione,
le counselling skill, e la forma e struttura del colloquio di aiuto. Cominciano ad avviarsi anche esperienze di MN, per lo più nella forma
di esperimenti durante attività di laboratorio. La speranza non può
essere se non che tale orientamento formativo si consolidi.
Per quanto riguarda poi Master o Perfezionamenti universitari, alla
Columbia University da alcuni anni è partito il Master in MN e nel
2013 si prevede un altro avvio per clinici e formatori; forse anche in
Italia potremmo proporre dei corsi di perfezionamento a livello universitario30.
Certamente una grande sfida è rappresentata però dalla formazione continua. Alla Columbia University di New York Rita Charon da
anni organizza seminar e workshop per la formazione permanente di
medici, infermieri, assistenti sociali, tecnici ecc., in forma sia mono- che
multi- professionale. I seminar vengono realizzati nelle sedi di lavoro
guidati dalla Charon e dai suoi collaboratori, per lo più docenti di letteratura e di lingua. I workshop si svolgono 1-2 volte l’anno, per dare
una formazione strutturata a operatori di tutto il mondo che intendano acquisire il metodo.
g) La formazione in MN al CRO
E al CRO, quali idee vengono elaborate e portate avanti per la formazione in MN?
Nel nostro Istituto i percorsi formativi sviluppano da tempo i con30 Il Master Universitario di II livello “Filosofia come via di trasformazione”, attivato presso
il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università di Verona e abilitante al
titolo di ‘Consulente filosofico di trasformazione’, è aperto anche a laureati nelle professioni
sanitarie: uno dei suoi punti cardine è proprio la cura di sé e della relazione con l’altro. L’associazione scientifica “Aspasia”, che lo supporta, sta elaborando corsi specifici di “Pratiche
filosofiche in ambito sanitario” – di cui richiedere l’accreditamento ufficiale – basati anche
sulla MN <ndC>.
59
tenuti core della relazione d’aiuto, del lavoro in team, della promozione
del benessere psicofisico dei lavoratori.
Nel 2012 è stato avviato in particolare un percorso di MN con
le fiabe della tradizione31; in molte occasioni la formazione si rivolge
anche a volontari e rappresentanti dei pazienti, che collaborano alle
‘letture ad alta voce’, come attività di svago rivolta ai pazienti.
Tanti percorsi che finora hanno creato un tessuto importante su
cui possiamo ‘innestare’ a pieno la MN. Un primo riscontro ai nostri
sforzi è arrivato con la premiazione di un progetto formativo sulla
MN presentato al Premio Basile della Pubblica Amministrazione 2012,
progetto riconosciuto di eccellenza.Tale progetto ha le sue radici nella
filosofia della Patient Education e ha i suoi cardini in alcuni valori fondamentali, così enunciati: qualità umana delle relazioni, empowerment del
cittadino, empowerment dell’operatore, competenza relazionale, creatività, innovazione, efficacia della formazione, benessere in azienda.
La formazione verrà condotta attraverso dei moduli per competenze distintive e altri moduli per competenze integranti; in ogni caso,
al termine del percorso, queste sono le competenze che gli operatori
dovranno mostrare di aver acquisito:
• ascoltare storie, sia direttamente raccontate da pazienti, familiari,
operatori, volontari, sia tratte dalla letteratura contemporanea;
• leggere storie, siano esse racconti, novelle, fiabe o poesie;
• scrivere storie, autobiografiche e non autobiografiche;
• elicitare storie attraverso l’intervista narrativa al paziente;
• co-costruire storie nella relazione di aiuto;
• insegnare il metodo della MN ad altri componenti del team;
• analizzare il rapporto tra MN ed etica.
Parallelamente la formazione perseguirà lo scopo di promuovere
competenze trasversali indispensabili per lo sviluppo della competenza distintiva di cui sopra; queste competenze sono:
• la conoscenza di sé e l’autoconsapevolezza;
• l’ascolto attivo e la comprensione empatica;
• l’utilizzo efficace del linguaggio verbale, non verbale, paraverbale
31 Cfr., in questo stesso volume, il contributo della cantastorie Piera Giacconi, rendiconto
esattamente di quest’attività <ndC>.
60
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(la voce);
la conoscenza e l’utilizzo della corporeità;
la conoscenza e gestione delle proprie emozioni (intelligenza emotiva);
l’utilizzo del respiro consapevole quale strumento per la gestione
delle proprie emozioni e il recupero del benessere personale;
la riflessione quale strumento di apprendimento per sé e per altri;
l’utilizzo, a livello individuale come di team, di strategie e strumenti
per la prevenzione del burn out;
il team coaching quale strategia per valorizzare l’appartenenza e
promuovere l’efficacia del team (intelligenza sociale).
Questo progetto formativo è rivolto a tutti gli operatori della relazione di aiuto e anche ai nostri formatori che si occupano di relazione
educativa.
I benefici e vantaggi attesi di questo importante progetto formativo
possono essere così riassunti:
• recuperare il valore dello stare insieme fra operatori di una stessa
azienda, conoscendosi e uscendo dalla solitudine e dall’isolamento
provocati a volte proprio dal contatto prolungato con la sofferenza
e la morte dei pazienti;
• ottenere ricadute positive per la salute, proprio in relazione a una
migliore gestione dello stress lavorativo e al recupero della percezione di auto-efficacia;
• promuovere la resilienza di tutti, operatori, pazienti, famiglie, cioè la
possibilità e capacità di attivare risorse e talenti per far fronte alle
sfide della vita e per poter vivere la vita stessa al meglio32.
h) Conclusioni
Se le parole chiave per i servizi sanitari oggi sono equità, qualità,
empowerment, sostenibilità, la MN non è certo un lusso, è piuttosto una
necessità, che mira a recuperare, nei contesti di salute e malattia, il
tempo del dialogo e una dimensione esistenziale più umana.
Il suo obiettivo fondamentale è promuovere un buon ‘allineamen32 Per il termine ingegneristico ‘resilienza’, indicante la capacità dei materiali di resistere alle
forze impulsive a essi applicate e dunque, per estensione, ‘flessibilità, elasticità’, cfr. SUTER
2012, 54, nota 16 <ndC>.
61
to’ fra operatori, pazienti e famiglie, un allineamento entro il quale
concordare con la persona assistita un ‘con-vincente’ piano di cura33.
La MN si pone però anche importanti obiettivi inerenti l’ottimale
uso delle risorse. Sono infatti noti gli innumerevoli sprechi all’interno del Sistema Sanitario Nazionale, dovuti a prescrizioni e interventi inappropriati, percorsi diagnostico-terapeutici disorganizzati o mal
disegnati, carenza ed errori di comunicazione con insufficiente passaggio di informazioni, malcontenti e maggior numero di contenziosi,
tempi di attesa eccessivi ecc. Si sa che la medicina difensiva costa, al
Sistema Sanitario Nazionale, 13 miliardi di euro all’anno.
La MN propone invece un modello orientato alla riduzione degli
sprechi: essa è un efficace strumento preventivo di contenimento dei
costi attraverso il recupero del dialogo e l’utilizzo corretto della comunicazione a tutti i livelli. Perciò, operando a sostegno all’appropriatezza degli interventi, essa opera di fatto per una medicina sostenibile.
Albert Einstein, nel 1934, scriveva: “La crisi è la miglior cosa che
possa accadere a persone e interi paesi perché è proprio la crisi a
portare il progresso. La creatività nasce dall’ansia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte
e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere
superato. Chi attribuisce le sue sconfitte e i suoi errori alla crisi, violenta il proprio talento e rispetta più i problemi che le soluzioni … La
vera crisi è la crisi dell’incompetenza. Lo sbaglio delle persone e dei
paesi è la pigrizia nel trovare soluzioni. Senza crisi non ci sono sfide,
senza sfide la vita è routine, una lenta agonia. Senza crisi non ci sono
meriti. È nella crisi che il meglio di ognuno di noi affiora perché senza
crisi qualsiasi vento è una carezza. Parlare di crisi è creare movimento;
adagiarsi su di essa vuol dire esaltare il conformismo. Invece di questo,
lavoriamo duro! L’unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler
lottare per superarla”34.
Il mondo sta attraversando una delle più gravi crisi della storia,
che si manifesta a livello non solo economico, ma anche culturale e
valoriale, direi addirittura ontologico. La MN può essere un messaggio
di fiducia e di speranza: perché riporta al centro le persone e il loro
valore umano.
33 MARINI – ARREGHINI 2012.
34 EINSTEIN 2012.
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NICOLETTA SUTER
Responsabile del Centro Attività Formative del Centro di Riferimento
Oncologico di Aviano
65
I.4
Narrazione ed empatia
nelle relazioni di cura
Linda M. Napolitano Valditara
a) A che punto eravamo? Il nodo irrisolto dell’empatia
Al convegno 2011 del CRO, i cui atti, curati da me, sono usciti nella
collana CROinforma, tentavo di chiarire alcuni nodi su uso ed efficacia delle competenze narrative nelle professioni d’aiuto, tema su cui
c’è ormai un’ampia letteratura internazionale, teorica e restitutiva dei
primi esiti applicativi. Anzitutto richiamavo la nozione generale di Medicina Narrativa (=MN), come attenzione ai tratti non solo oggettivi
e tecnicamente rilevabili della malattia, ma anche a quelli soggettivi,
personali, che il curato esprime nella narrazione che di sé e della
propria vita il curante gli lasci fare. Elencavo poi, sulla scia di Giorgio
Bert, passi e metodi di un atteggiamento narrativamente esperto da
parte del curante stesso: il suo dare prescrizioni che il curato possa
comprendere, accettare e praticare, il suo porre domande esplorative
del vissuto dell’altro e il suo saperlo ascoltare in modo empatico. Ciò
al solo fine di giungere a una diagnosi oggettiva e completa e a un programma terapeutico personalizzato e concordato. Esploravo, ancora,
l’importanza della narratività, capacità duplice di narrare/ascoltare
storie, bisogno imprescindibile dell’essere umano nella progettazione
libera e consapevole della propria vita, e perfino competenza di specie, appartenente all’uomo come all’uccello appartiene il volare e al
pesce il nuotare. Indagavo infine il tratto relazionale della narratività,
per cui nella storia che narriamo/viviamo di noi sempre ci poniamo
domande e proviamo a dar risposte, dialogando di continuo con gli
altri, ma, prima ancora, con noi stessi1.
Il tratto allora restato problematico è quello dell’empatia, più volte citata come competenza narrativa basilare e raccomandata anche
da altri contributi agli atti oltre al mio. Essa è problematica anzitutto
1
NAPOLITANO VALDITARA 2012.
66
perché non pareva chiaro che cosa sia: se sia, come alcuni dicevano,
una vera e propria compassione o uni-patia, per cui si sentono a propria
volta le stesse emozioni dell’altro; o, come altri preferivano, se l’empatia sia solo una conoscenza-comprensione delle emozioni dell’altro, che
implica non il sentirle a propria volta, ma – piuttosto – il far conto di
quello stato emotivo negli atti poi compiuti verso di lui.
Inoltre, non era chiaro come vada vissuto quest’obbligo fatto ai
professionisti dell’aiuto di esser empatici: che fare infatti se il docente non ha simpatia per il suo laureando, se il curante non condivide
scelte, valori, atteggiamenti del curato, se l’avvocato riprova moralmente colui che assiste legalmente, vero che sia un diritto di tutti
avere un tutor di laurea, un medico curante o un avvocato difensore?
Ma che fare anche se il docente, il curante, l’avvocato giungono invece
a identificarsi con le emozioni degli assistiti, anche con quelle negative di dolore, e per sentirle come proprie? Il terzo problema, verso
quest’obbligo coralmente ripetuto all’empatia, è proprio se e come si
possa evitare il coinvolgimento nelle emozioni altrui, soprattutto se
negative, coinvolgimento che i professionisti dell’aiuto ben conoscono,
che talvolta vivono drammaticamente fino a un vero burn out, e da cui
tentano di difendersi spesso con un atteggiamento antiempatico, una
sorta di voluta acquisita sordità alle emozioni degli assistiti2.
Il tema è ampio e complesso e posso solo avviare una riflessione
in merito.
b) I molti volti dell’empatia
Anzitutto non è chiaro che cosa sia l’empatia o, meglio, negli ultimi
due secoli ne son state proposte nozioni diverse: non si può attestare una derivazione del termine moderno dal greco antico empàtheia
(sentire dentro)3; del resto il tedesco Einfühlung, echeggiante nell’inglese feeling e tradotto nel più recente empathy, può voler dire sia ‘sentire
dall’esterno verso l’interno’ (hinein fühlen), cioè entrare cognitivamente in ciò che l’altro sente, sia ‘sentire-in-uno’ (ein-fühlen), sentire in
noi, fusivamente, lo stesso che l’altro sente, cioè vivere un’uni-patia o
2 PINOTTI 38.
3 Ivi, 33.
67
immedesimazione emozionale con lui4.
Di empatia comunque, pur in assenza del termine, si parla da molto
e in varie discipline, l’estetica, la filosofia, la teoria della mente, le neuroscienze, la psicologia: proprio questi campi di studio danno definizioni diverse e talora opposte. Di empatia parla la storia dell’estetica,
fin da quando Platone narra del poeta antico Ione, abile ad attirare
come una calamita i suoi uditori nelle emozioni del pianto e riso, della
paura e orgoglio provate dagli eroi dell’Iliade e dell’Odissea di cui canta
le storie (Ione, 533d-534a), oppure da quando Aristotele descrive il
terrore e la pietà provati, dinnanzi alle tristi vicende dei personaggi,
dagli spettatori delle tragedie greche (Poetica, 1453b-1454a). Questo
riferimento, per noi subito interessante, mostra come si possa essere empatici non solo con nostri simili in carne e ossa, ma anche coi
personaggi della tradizione letteraria, teatrale, filmografica e pone la
questione se anzi la narrazione sia un mezzo per migliorare l’empatia.
Di essa parla la filosofia, in autori del ‘900 come Edmund Husserl,
Edith Stein, Max Scheler, per i quali “l’esperienza concreta del nostro
essere al mondo è fin da sempre esperienza dell’altro”5: ma essi rilevano anche che “io non sono mai l’altro, non vivo i suoi vissuti come
… i miei … e posso davvero relazionarmi con lui a patto che lui resti
lui e io io”6. Anche i fenomenologi francesi Paul Ricoeur ed Emmanuel Lévinas parlano di empatia, criticandone la nozione ingenua, solo
positiva – quella ancor oggi preponderante –, “incline a identificare il
rapporto empatico e simpatico all’altro, tralasciando di considerare
l’opposizione delle coscienze, il conflitto”7, cioè la difficoltà ricordata
del docente, del curante, dell’avvocato. Vera una nostra genetica apertura relazionale all’altro, non entriamo però in feeling sempre e con
chiunque e – ancor più grave – non sempre l’entrare in feeling con
qualcuno causa poi una condotta attenta al suo interesse, un nostro
agire for his sake dice l’inglese: anche un sadico ‘sente’ il dolore inflitto
alle sue vittime, ma certo non è questa una forma di empatia eticamente pro-attiva. Perciò autori come Martin Hoffmann, Lauren Wispé
4
5
6
7
Ivi, 47.
Ivi, 23. Cfr. HUSSERL 1973; SCHELER 2010; STEIN 1992.
Ivi, 25.
Ivi, 28. Cfr. RICOEUR 1993; LEVINAS 2002.
68
e Stephen Darwall distinguono un’empatia solo cognitiva, un’empathic
accuracy che si limita a comprendere le esperienze dell’altro, e una
simpatia che invece prende a cuore il benessere dell’altro e ne intende
il dolore come qualcosa da alleviarsi8.
Di empatia parla anche la teoria della mente (Theory of Mind, ToM),
con Heinz Wimmer e Josef Perner, secondo cui bambini sotto i 4-5
anni non saprebbero ancora immedesimarsi nel protagonista di una
storia. Il pupazzo Maxi è mostrato loro nascondere del cioccolato in
un cassetto della propria stanza; Maxi poi ne esce e la mamma, entratavi, sposta il dolce su un ripiano della libreria. Richiesti d’indicare
‘dove’ Maxi cercherà il cioccolato, bambini sotto i 4-5 anni indicano
per lo più il luogo dove esso ora davvero si trova (il ripiano dove la
mamma l’ha spostato), mentre solo i più grandini si ‘mettono nei panni’ di Maxi e segnalano ch’egli, poiché ignora l’avvenuto spostamento,
non può cercare il dolce che dove lui stesso l’ha messo e dove crede
che tuttora sia, cioè nel cassetto. Quindi i bimbi più piccoli ancora
non distinguerebbero fra ciò ch’essi sanno dei dettagli oggettivi di
una storia narratagli, e ciò che invece può saperne, anche in parte e
falsamente, il suo protagonista9: un’esperienza, questa, trattata già nella
dinamica personaggio-spettatore del teatro greco (Edipo non sa di
esser lui l’assassino di suo padre e il marito incestuoso di sua madre,
mentre il pubblico lo sa). Si noti, fra l’altro, come ancora le storie siano
usate perfino come materiale sperimentale per indagare l’empatia!
Si è discusso poi se questa capacità d’immedesimarsi nell’altro (che,
se insorge sui 4-5 anni, è non innata, ma acquisita) supponga un’abilità
logico-razionale o, invece, simulativo-immaginativa10: la prima, ai fini del
saper prevedere la condotta del protagonista della storia, è capacità
solo razionale di distinguere fra i passaggi cognitivi noti a me, spettatore, meglio informato, della storia stessa (ciò che io so del dolce di
Maxi, di dov’era all’inizio e di dov’è ora) e i passaggi logici, appunto falsi
o parziali, noti invece al protagonista meno informato (ciò che Maxi
stesso sa o ignora del suo cioccolato)11. La seconda, invece, per fonda8 Cfr. soprattutto HOFFMANN 1991e 2008; WISPÉ 1986 e 1991; DARWALL 1998. Cfr.
PINOTTI 52-4.
9 PINOTTI 9-10.
10 Ivi, 11-12.
11 WIMMER – PERNER 1995.
69
re l’immedesimazione che consente d’ipotizzare che farà ora Maxi, si
basa non su passaggi logici, ma su una generica capacità d’immaginare
e simulare (‘che farei al suo posto?’) che sarebbe simile in tutti gli
esseri umani e potenziata nei giochi di finzione moltiplicantisi proprio
sui 4-5 anni (‘facciamo che io ero un pirata e tu una principessa’), giochi costituenti una vera palestra di simulazione12, cioè di messa a punto di abilità narrative. I bimbi più piccoli non difetterebbero di capacità
logiche che, per questi studiosi, hanno poca rilevanza nel costituire e
consolidare l’empatia: essi avrebbero solo bisogno di ripetere giochi
di finzione, dunque – ancora – di raccontare/sentirsi raccontare storie
di cui immaginarsi partecipi, di allenarsi narrativamente a vestire panni
altrui.
Se la ToM sostiene il tratto non razionale, ma simulativo-immaginativo dell’empatia e, soprattutto, un suo possesso non naturale, ma culturale, le neuroscienze avanzano, sull’ultimo punto, un’ipotesi opposta,
di una sua base genetica, perfino corporea, embodied, dice qualcuno13:
all’Università di Parma, negli anni ’90, l’équipe del neurofisiologo Giacomo Rizzolatti scopre un gruppo di neuroni visuo-motori attivantisi
non solo quando si muova una mano per afferrar qualcosa, ma anche
quando solo s’immagini di afferrarlo o quando – ecco l’interessante –
si veda qualcun altro afferrarlo14. Dunque la capacità d’immedesimarsi
in un altro che vediamo agire davanti a noi sarebbe inscritta nella
nostra stessa materia cerebrale, in quelli da allora detti mirror neurons
(neuroni-specchio), non appartenenti solo al cervello umano, poiché
le ricerche di Rizzolatti erano condotte sui nostri cugini biologici, i
macachi, aprendo con ciò l’altro capitolo della storia dell’empatia, cioè
quello del suo valere anche fra gli animali e fra loro, almeno alcuni, e
noi (pensiamo alla pet-therapy).
Altra disciplina interessata all’empatia è, naturalmente, la psicologia: primo, fra ’800 e ’900, Theodor Lipps, che nega essa sia un atto
libero, volontario e ragionato e la lega basilarmente all’istinto, per cui,
avendo esperito in me un certo vissuto e avendolo espresso in certi
gesti, intuitivamente so riconoscere lo stesso vissuto nell’altro che me
12 Ivi, 12. Cfr. GOLDMAN 2006.
13 GALLESE 2005; PINOTTI 17.
14 PINOTTI 15-19. Cfr. RIZZOLATTI – SINIGAGLIA 2006.
70
lo esprime davanti cogli stessi gesti; niente ragionamenti, dunque, ma
“vita che sente la vita”15. Amplissima è la letteratura psichiatrica e psicanalitica che nel ’900 ha poi visto nell’empatia il mezzo per entrare
nel nucleo più intimo del disagio psichico: da Heinz Kohut, fondatore
della psicologia del Sé, attento a non ridurre l’empatia a un ingenuo
atto di comprensione, poiché essa può anche far scoprire le debolezze dell’altro e dunque il modo per nuocergli16; a – soprattutto – Carl
Rogers, che, negli anni ’70, segnala la positività dell’atteggiamento empatico per creare un buon rapporto col paziente, non solo con quello
psichiatrico: dall’ascolto passivo iniziale, in cui il terapeuta ‘riflette’ gli
stati d’animo del paziente, a una seconda fase in cui li rivive in sé,
senza giudizi di valore e promuovendone maggior consapevolezza nel
paziente stesso. Merito di Rogers è aver sottolineato l’importanza
dell’empatia come caring, prendersi cura dell’altro in modalità empatica, a suo dire “una potente forza di cambiamento e crescita”, “il dono
più prezioso che si possa offrire all’altro”17.
c) Quale empatia per i professionisti della cura?
Dunque non era un ‘nostro’ limite, al convegno 2011, dibatterci fra
nozioni diverse di empatia: è un tratto oggettivo del concetto stesso
e della sua storia plurisecolare e pluridisciplinare. Oggi però, come
professionisti dell’aiuto e proprio da Rogers in poi, ci è fatto in qualche modo obbligo di essere empatici: possiamo dunque scegliere, fra le
varie nozioni storiche di empatia, quella più adatta al fine delle nostre
professioni.
Tale fine è fornire aiuto efficace ai nostri assistiti tenendo nell’adeguato conto le emozioni che la loro storia personale li spinge a vivere,
storia formativa, sanitaria, giuridica ecc. Siamo quindi comunque in un
contesto narrativo, di storie vissute, di storie che ci si lasci narrare e
che si sia poi disposti a ‘onorare’, come dice Rita Charon, cioè a credere degne di ascolto e riscontro18.
L’empatia richiestaci è un atto etico complesso, come tale implicante
15 LIPPS 2002; PINOTTI 42-5.
16 KOHUT 2003; PINOTTI 88-9.
17 PINOTTI 90 per la citazione: cfr. ROGERS 1975 e 1970; PINOTTI 89-92.
18 Mi riferisco al titolo del lavoro più noto di CHARON 2006.
71
competenze e abilità fra loro diverse19. Un atto non spontaneo, difficile, da scegliere talora perfino con sforzo, perché non sempre avremo
la disponibilità, attenzione, energia, per sentire le emozioni altrui, non
per egoismo o scarsa solidarietà, ma solo perché gravati dalle nostre
stesse emozioni, dalla pesantezza delle nostre storie personali d’insegnanti, sanitari, legali ecc. Dunque daccapo l’empatia richiestaci sta
al bivio fra storie diverse, quelle dei curanti e quelle dei curati, degli
assistenti e degli assistiti: ed è un bivio difficile da attraversare, impegnativo e – come tutti i bivi – perfino pericoloso.
Al fine richiesto forse non bastano alcune delle nozioni storiche
di empatia: per compiere un atto etico complesso come quello ora
ricordato non basta, p.es., contare sulla sola attività fisiologica dei neuroni-specchio, né i macachi di Rizzolatti, il cui cervello pure si attiva
nel veder un loro simile afferrare qualcosa, sono poi capaci di atti morali come quello richiesto a noi. Altra, quindi, è l’empatia operante nel
guardare altri afferrare una banana, ben più complessa è quella occorrente per aiutare un laureando o un malato presuntuoso e testardo.
Neppure la coloritura solo emotiva che alcuni psicologi e filosofi danno all’empatia basta a fondare l’atto etico richiestoci: se l’empatia pretesa da noi fosse solo emozione istintiva, esente da ogni ragionamento
e scelta, non ci sarebbe differenza fra il nostro sentire le emozioni
del laureando o del malato e il sentire il dolore della propria vittima
da parte del sadico; non solo, ma, se si trattasse solo d’istinto, non
avremmo difficoltà, in alcuni casi, a provare empatia e a darle seguito
e non arriveremmo, poiché non la proviamo, a colpevolizzarcene. C’è
purtroppo, in tutto questo gioco che ci si chiede di giocare, ben di più
delle emozioni primarie e perfino narcisistiche, infantili, fusionali a cui
talora si crede di poter ridurre l’atto empatico.
L’empatia richiestaci esige che si sappia sentire e immaginare sì, ma
anche che si ragioni, che si acquisisca il maggior numero d’informazioni su chi abbiamo davanti: cito a riscontro un caso capitatomi anni fa,
quando, a un congresso internazionale, ho distribuito strette di mano
a tutti i colleghi presenti senza considerare che vi erano anche alcuni
maschi musulmani, a cui poteva non far piacere toccare una donna che
non fosse la loro madre, sorella o moglie. La mia cordialità, sentita ed
19 Per il problema dell’approccio empatico in sanità, GINANNI – VETTORI 2009.
72
espressa con le migliori intenzioni comunicative, non era nei loro confronti per nulla empatica! Non certo per cause emotive, ma cognitive.
Vero dunque che, per essere empatici coi nostri assistiti, occorra sentire e ragionare, immaginare e acquisire informazioni e trarne
buone deduzioni, vado a chiudere riflettendo sull’uni-patia, la fusione
emozionale, che, in professioni come quella sanitaria, implica spesso
un logoramento da esposizione alla sofferenza altrui: una situazione
descritta con lucidità negli atti 2011 dall’oncologa Emanuela Vaccher20.
Non so, rispetto a tale carico, se possa sollevare l’idea che non ci
si debba colpevolizzare se non si entra in feeling con tutti i malati (è
impossibile farlo ed è anzi normale non poterlo fare) e, soprattutto,
quanto sollevi la precisazione che essere empatici non significa soffrire della loro stessa sofferenza. Non è questa uni-patia che si richiede,
non è questo l’obbligo fatto ai curanti. Un tale coinvolgimento è anzi
professionalmente controproducente, come mostrano le statistiche
sul burn out dei professionisti in oncologia21. Vivere la sofferenza e la
morte di ogni malato come la ‘propria’ sofferenza e la ‘propria’ morte è un carico psicologico pesantissimo: soprattutto, è inutile e può
essere perfino dannoso ai fini dell’ottimizzazione richiesta dell’atto
terapeutico. Più che mai occorre invece che il curato resti il curato e
il curante il curante.
Ha certamente senso, dunque, tentare di difendersi da questo coinvolgimento. Ma serve d’altra parte poco – per sollevare sia il curato
che lo stesso curante – la sordità empatica adottata da molti.
L’empatia che ottimizza le professioni d’aiuto, come precisavo negli
atti 2011, è non tanto una competenza emozionale, ma “conoscitiva,
intellettuale: si ha non quando si condividono le stesse emozioni (sympathèin, o cum-patire, appunto), ma quando si comprenda che cosa l’altro sta provando (anche se per parte nostra non lo stiamo provando
o non l’abbiamo mai provato), quando… si sappia immaginare la storia
che l’altro sta vivendo e le si dia credito, la si sappia ‘onorare’, facendone conto nell’azione (terapeutica) che segue”22.
20 VACCHER 2012.
21 Ivi, p. 82.
22 NAPOLITANO VALDITARA 2012, p. 71, nota 34. Citavo, a supporto, le riflessioni di BERT
2007, p. 13: “A differenza della simpatia, … risposta emotiva spontanea e tendente a produrre
vicinanza eccessiva fino alla vera … identificazione, l’empatia … strumento ‘neutro’… defi-
73
Ancora, dunque, si tratta di una competenza narrativa, se si sappia
appunto “immaginare la storia che l’altro sta vivendo”: a migliorarla
mirano i corsi offerti di MN23. Tale miglioramento è non solo un mezzo per aumentare l’empatia con gli assistiti, ma anche un buono strumento su cui i professionisti dell’aiuto possono contare per ridurre il
burn out da esposizione alla sofferenza altrui.
d) Strategie per valere l’empatia
Tre strategie paiono infatti utili per ridurre quest’ultimo carico:
1)la prima è la professionalità, come chiarisce negli atti 2011 la
stessa Vaccher: aiuta aver sempre ben chiari fini e mezzi della
professione sanitaria. Le infermiere dell’onco-ematologia pediatrica veronese mi segnalavano con toni drammatici la propria
angoscia di veder di continuo morire dei bambini: ma non valorizzavano in modo almeno pari la propria professionalità, quella
che, quanto migliore sia, permette ai piccoli pazienti di attenuare
la propria paura in realtà più grande, non quella della morte
come in un adulto, ma quella, in un bambino più pressante e
immediata, del dolore fisico. Le infermiere soffrivano psicologicamente nell’immaginare, adulte quali erano, la morte dei loro
curati, ma non ‘sentivano’ quanto l’abilità e leggerezza delle loro
mani (nel fare un prelievo ematico o di midollo, nel sistemare
una flebo, nel praticare un’iniezione) possa attenuare l’ansia in
realtà più incombente dei loro curati, quella appunto del dolore
fisico. Si è empatici, ricordiamolo, non solo nel parlare, ma anche
nei gesti, nella postura del corpo, e lo si è tanto più in quel rapporto talora fisicamente strettissimo che è quello fra curante e
curato. Occorre dunque fidarsi della propria professionalità e
mantenerne alto il livello qualitativo;
2)seconda strategia è quella appunto di affinare le competenze narrative: non aver paura di leggere le testimonianze dei malati, le
nisce la capacità di ricostruire nell’immaginazione l’irripetibile esperienza dell’altro; nessuno infatti
può provare ciò che l’altro prova (niente identificazione quindi): è però possibile entrare …
in risonanza con le emozioni dell’altro e … migliorare la comunicazione” (corsivo mio).
23 Personalmente ne ho tenuti all’ASS. 5 Bassa Friulana e ne ho programmati presso l’Oncoematologia pediatrica veronese e contribuito a redigerne e programmarne per le strutture
sanitarie del veronese.
74
storie di malattie di cui anche la biblioteca del CRO è ben fornita, imparare a meditarle, a centellinarne i passaggi, a chiedersi come, da professionisti della cura, si ‘onorerebbero’ quelle
storie. Anche dove non vi sia più speranza di vita, vi è però
una qualità della vita restante, che va saputa e preservata e che
proprio la capacità d’immaginare quella vita, quanto più è fine, e
soprattutto la professionalità, quanto più è elevata, permettono
di preservare;
3)terza strategia è il fare i conti con le proprie emozioni: cos’è che
agita tanto nello stare vicino a chi soffre e muore? L’impotenza
sentita come curanti, ma, ancora più in fondo, il timore della
propria stessa sofferenza e della propria morte: scrive Elisabeth
Kübler-Ross, psichiatra studiosa del morire: “Dobbiamo considerare molto seriamente il nostro atteggiamento verso la morte … prima di poter sedere … senz’angoscia vicino a un malato
inguaribile”24. Finché non si affronti il ‘proprio’ timore inevitabile
di quest’evento trovando per esso un senso, il ‘proprio’ senso,
non si sarà curanti pacati, sereni, efficaci, né le proprie mani riusciranno a essere leggere e dunque davvero lenitive nel trattare
il corpo sofferente dell’altro. Grande esempio letterario ne è,
ne La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj, la figura di Gerasim, il giovane
contadino che è l’unico che riesce ad assistere e a sollevare il
morente, con una motivazione semplicissima, elementare, in cui
egli, giovane com’è, risulta però aver già metabolizzato il ‘proprio’ timore della morte: egli dice: “Tutti moriremo. Aiutarti:
perché non dovrei farlo?”25.
Chissà che il prossimo anno, se vi sarà un congresso 2013, io non
possa, se ancora sarò invitata, riflettere proprio su questa figura. Sarebbe per me di grande interesse, in questa ‘storia’ di ricerca che
empaticamente ci accomuna da oltre un anno, rimeditare con voi una
narrazione così vera sulla sofferenza e la morte.
24 KÜBLER-ROSS 2005, 301.
25 TOLSTOJ 2001, 119.
75
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LINDA M. NAPOLITANO VALDITARA
Docente di Storia della filosofia antica e studiosa di Medicina Narrativa
presso il Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università di
Verona
77
Parte II
Testimonianze e pratiche di Medicina Narrativa
II.1
Narrazione, sublimazione
e rinascita
Marilena Bongiovanni
Confida una paziente, Sara Meneghetti, a proposito del diario che
ha deciso di tenere da quando si sa malata: “Proprio non riesco a
tenermi tutto dentro. Non ce la faccio. Forse scrivendo esorcizzo la
paura, a costo di sembrare sciocca o esibizionista. Ma il diario è mio,
e visto quello che sto per intraprendere non è proprio un viaggio di
piacere, non posso scrivere solo sciocchezze. Ho il cancro” 1.
Che cos’è mai, allora, quest’esigenza di raccontarsi, se non un atto
di ricomposizione dei pezzi in cui la malattia ha frantumato la propria vita precedente? Un atto davanti al quale tutti dovremmo sentirci
commossi, nel quale tutti dovremmo sentirci emotivamente coinvolti,
concependo profonda ammirazione per chi cerca di ricostruire la sua
vita dopo un trauma?
La scrittura della malattia oncologica – scrittura particolarissima
alla quale quest’anno il CRO di Aviano dedica addirittura un premio
– è un atto di ristrutturazione e di trasformazione: si scrive anzitutto
per rimettere a posto le cose, per riannodare i fili spezzati degli eventi
e trovarvi una logica.
Non si scrive, però, solo per se stessi: le storie che vengono raccontate possono essere anche invocazioni, preghiere dell’attenzione
altrui, richieste di ascolto rivolte al mondo. A noi tutti, allora, di converso, il dovere di prestare ascolto.
Russell Banks, scrittore e poeta statunitense, in un’intervista rilasciata a “La Repubblica” il 30 settembre 2012, precisa in effetti che
“narrare e ascoltare sono azioni connesse, nelle quali la segreta vita
interiore di una persona è collegata alla segreta vita interiore di uno
1 Sara Meneghetti è una delle pazienti partecipanti alla I edizione del concorso letterario
Scriviamoci con cura bandito dal CRO nel 2012 <ndC>.
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sconosciuto”2.
Dunque chi scrive ci parla, si racconta, si mette a nudo. E questi
sono racconti, libri autentici, come lo sono i libri in cui, come riflette
la scrittrice Anna Maria Ortese, si senta il “suono della vita”.
“Suona” e batte la vita nell’evidenziare, innanzitutto, la difficoltà
di ‘concepire’ e accettare una diagnosi di cancro. A dispetto dell’evidenza, o forse, nonostante l’evidenza: la diagnosi forse ancora non
c’è, ma già è forte la percezione della presenza aliena, del nodulo, del
“bambino che cresce”… Questo ci rivela accaderle Sara Caldarola,
vincitrice, quest’anno, del concorso letterario Scriviamoci con cura col
racconto Odio l’estate3; è una biologa ricercatrice, che, con dieci anni
di pubblicazioni specialistiche, conosce bene la scienza del cancro: le
mutazioni del DNA, i farmaci chemioterapici. Ma anche lei sa e – in
realtà – non sa niente, conosce molto bene la patologia, ma non sa che
cosa sia ‘avere’ il cancro. In poche settimane è costretta a impararlo:
nel momento in cui si ritrova a diventare lei stessa paziente.
“Suona”, allora, e batte la vita nella percezione del dolore degli
altri. Essere annientati dal dolore dei familiari, del marito, dei genitori
e vivere anzi proprio questo come la prova peggiore, la sofferenza più
grande: “mai e poi mai”, confessa Sara, “avrei fatto a cambio con loro”.
Ecco cosa significa essere sopravvissuti al cancro, vuol dire essere
sopravvissuti a un dolore immane (ma anche, per i più fortunati, presa
d’atto di amori consolidati…).
“Suona” e batte la vita nel verificare appunto la forza di un rapporto di coppia e il sostegno del compagno. “Io crollavo e lui mi sorreggeva. Crollava lui e lo sorreggevo io. E ora? Che facciamo ora?”.
2Cfr. http://www.ricerca.repubblica.it>La Repubblica>2012>09>30: “Sono commosso, emotivamente portato all’ammirazione, dalle persone che cercano di ricostruire le loro vite dopo
una crisi o un trauma. Aggiungo che non si scrive per se stessi ma per un implicito, e fiduciosamente atteso, lettore. Le storie che raccontiamo sono preghiere rivolte all’altro, per questo
è importante prestare ascolto. Narrare e ascoltare sono azioni connesse nelle quali la segreta
vita interiore di un persona è collegata alla segreta vita interiore di uno sconosciuto”. L’autore, nel romanzo La memoria perduta della pelle, si riferisce, in realtà, a un altro tipo di storia,
quella di Kid, un giovane ventiduenne americano, condannato e in libertà vigilata per un reato
sessuale <ndC>.
3Cfr. Scriviamoci con cura 2012, 15-30 <ndC>.
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“Suona” e batte la vita nella sorprendente rivelazione del valore
dell’esistenza, quella di prima, nel rimpianto della normalità precedente alla malattia. “Perché mi sentivo così brutta prima? Quanto ero
bella, invece, rispetto a ora. Quanto ero bella il giorno del mio trentunesimo compleanno, che bel vestito avevo scelto per la mia festa in
giardino e che capelli lunghi e lucenti avevo”.
“Suona” e batte la vita nella rinascita e nella gioia, dopo, della maternità. Odiare ancora – ma per ben diverse ragioni – l’estate, il caldo, il sudore, l’umidità, l’afa dell’estate romana: “… con un pancione
enorme come il mio, tutto ciò è difficile da sopportare, una pancia che
sta crescendo senza tregua da trentasei settimane, una pancia dove
sguazza come un pesciolino Agnese”.
Tutti, dunque, raccontano la speranza, vissuta non come fede cieca,
ma costruita giorno per giorno, con matura consapevolezza.
Tutti praticano la narrazione e la scrittura come strategia del recupero di un futuro ancora possibile, come forza trasformativa in grado
di attivare la capacità di sublimazione; intesa, questa, come capacità
di rendere plastica la propria esperienza di vita, di allargare il proprio mondo: per resistere, così, trasformandola possibilmente in luce,
all’ombra incombente della malattia.
Bibliografia
• AA.VV., Scriviamoci con cura. Pazienti oncologici raccontano come
levare l’ancora con la srittura. Introduzione all’estate che arriva. Antologia di Racconti, Aviano 2012
MARILENA BONGIOVANNI
Presidente dell’Associazione Angolo
83
II.2
Le fiabe che si raccontano
al CRO
Sandra Menegoz
A me piacciono le fiabe e vorrei raccontarvi questa.
È il 10 luglio 2012, ci s’incontra in biblioteca per organizzare la giornata di oggi: viene stabilita la scaletta di interventi al convegno che si
terrà in ottobre sulla Medicina Narrativa e, fra le proposte, vi è quella
di far parlare un medico e un’infermiera del CRO.
Accetto la sfida e la mia mente comincia a lavorare: a pensare a
quando e come la narrazione effettivamente abbia incontrato la mia
vita professionale in corsia.
E per primi mi vengono in mente – ovviamente – i pazienti: facce,
storie, sorrisi, abbracci e anche pianti.
Mi viene in mente Giuliana, che durante la visita, qualche giorno
prima dell’intervento chirurgico, si affida a noi, persone che non ha
mai visto, e ci racconta le sue paure per il posizionamento della stomia. È una signora abituata a vestirsi bene, ha una vita impegnata, il suo
lavoro la porta a contatto con molte persone e crede che il ‘sacchetto’ che le verrà messo non le permetterà più di fare tutto questo, di
andare al mare, di stare con gli amici…
E mi chiedo: ma com’è che queste storie, che ci vengono narrate,
rimangono solo nella nostra mente? Com’è che compiono un percorso in apparenza così breve, da chi si trova a viverle fino a noi, operatori sanitari, a cui vengono affidate?
Poi penso che alcune di queste storie anche noi, ‘ragazzi del quarto
piano’, in realtà le abbiamo già scritte:
Cara Sara,
volevamo ringraziarti, ringraziarti per quello che ci hai dato. Oggi viviamo nel ricordo del tuo sorriso, della compostezza della tua famiglia, addolorata di perdere una figlia, una sorella e una fidanzata. Entravamo nella tua
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stanza in punta di piedi: ma bastava un fruscio perché tu aprissi gli occhi e
ci regalassi uno dei tuoi splendidi sorrisi. E ricordiamo il tuo racconto quando, il giorno di Natale, ti è stato donato l’anello di fidanzamento e ti è stata
fatta la promessa di matrimonio.
E insieme a te sognavamo i fiori per l’altare e il vestito. Noi sapevamo
che forse sarebbe stato sempre un sogno: ma insieme a te l’abbiamo voluto
comunque sognare. Ora ti salutiamo, piccola Sara, e ti chiediamo da lassù
di aiutare la tua famiglia, il tuo ragazzo e, se ti avanza un po’ di tempo, di
aiutare anche noi a superare questo momento.
Ti abbracciamo. I ragazzi del quarto piano.
E ancora:
Ciao Barbara,
oggi è un giorno importantissimo per te, per il tuo compagno e per i
tuoi cuccioli. Oggi è festa: il tuo pulcino riceve il Santo Battesimo. È festa
anche per noi: ci hai voluti, in un giorno così speciale, ospiti e testimoni di
un momento felice. Pensiamo alle battaglie che sei riuscita a portare avanti,
ricordiamo le lacrime per le brutte notizie, le lacrime per la felicità quando
le belle notizie arrivavano e tu che, come una leonessa, ti sei tenuta in mano
la vita…
I ragazzi del quarto piano.
Ma allora è proprio vero che anche noi scriviamo, che anche noi narriamo: soprattutto è vero che tutt’altro che breve e inutile è il cammino delle tante storie che condividiamo.
Lieto o no che sia, poi, il fine di quelle storie, il loro è invece comunque un cammino lungo, importante: un cammino che dà forza, che
dà coraggio, non solo a chi le vive e le narra, ma, ogni giorno, anche a
noi nel nostro lavoro di accoglierli e curarli.
Anche noi, operatori della sanità, scriviamo, anche noi narriamo: lo
facciamo già e forse sempre. Mi è venuta voglia, allora, di capire quanto
e perciò chiedo ai colleghi degli altri reparti: ma voi avete mai raccontato? Avete mai narrato?
Ecco che spuntano altre frasi che i pazienti hanno raccontato a noi
e per noi:
Grazie per aver regalato dopo tanto buio finalmente un raggio di sole.
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Oppure ancora:
Avete fatto sentire Matteo protagonista e non un piccolo paziente.
Sono le colleghe, le ‘ragazze’ della nostra Area Giovani, che mi regalano queste frasi, a loro dedicate.
Mi raccontano che, ogni volta che arriva una nuova famiglia, è un
momento delicato e intenso; sappiamo bene – dicono – che c’è sempre un turbinio di emozioni e sentimenti, sempre gli stessi, ma sempre
nuovi da gestire. Davanti a noi ci sono due genitori che ci affidano il
loro bene più prezioso: il loro figlio.
La professionalità e la nostra competenza si uniscono alla nostra
fantasia: inventiamo storie, tentiamo di far entrare quel piccolo malato
in un mondo fatto non solo di fredda tecnologia, ma anche di magia,
una magia per lui comprensibile, affrontabile, sopportabile.
Ecco il latte che arriva dalla mucca Carolina e che fa fare la nanna:
questo raccontiamo a un bimbo che stiamo per addormentare per la
seduta di radioterapia.
Ecco le casette, le giraffe, le farfalle, che sbucano dalle tovagliette da
usare per le medicazioni.
Ecco un’astronave con i motori accesi, pronta a partire per un viaggio nello spazio: questo diciamo per rendere meno freddi e minacciosi
i macchinari che i nostri bimbi malati vedono attorno a sé.
Il coraggio e la combattività, uniti alla spensieratezza e alla coscienza di questi piccoli pazienti, ci disarmano: allo stesso tempo, però, ci
danno la forza per continuare.
Il nostro è un lavoro dove le emozioni e i sentimenti sono sempre
presenti ed è questo che lo rende delicatissimo: ma anche estremamente prezioso, speciale per voi e per noi.
Forse è per questo che, come dice Giacomo: Il CRO non è un ospedale, il CRO è il CRO.
Grazie a tutti voi. A chiunque, malato o curante, trovi ancora la
forza e la voglia di continuare a raccontare le sue storie.
SANDRA MENEGOZ
Infermiera Coordinatrice Chirurgia Oncologica Generale del CRO di Aviano
86
II.3
L’arte curativa delle fiabe
Piera Giacconi
Veniamo dalle stelle e alle stelle ritorniamo. E così, fra quella venuta
e quel ritorno, come stelle respiriamo.
Respiriamo per espandere la “Qualità Umana”, la parte di luce pertinente all’essere che portiamo dentro il corpo. Respiriamo per esprimere la bellezza presente ma addormentata in ciascuno di noi e farne
dono al mondo1.
Che cosa sta facendo nella posizione dell’uomo vitruviano di Leonardo il personale sanitario e amministrativo del CRO di Aviano? Ha
partecipato nei mesi precedenti all’esperienza formativa di Medicina
Narrativa con le fiabe millenarie e il respiro ritmato volontario Genesika®. Ora si prepara a eseguire l’esame scritto, cioè a sottoporsi
alla valutazione finale dell’apprendimento ottenuto in questa materia
impalpabile, cioè la narrazione delle fiabe millenarie.
L’esame giunge dopo due mesi e mezzo di pratica individuale, necessaria per integrare una formazione in realtà molto concreta e im1 Cfr. il libro della stessa GIACCONI P., C’era una volta… un cantastorie in azienda, Milano
2011, e i principi della sua posizione teorica, sintetizzati nell’intervista del 25/3/2013, leggibile in htpp://www.lavocedellefiabe.com/index.php?section=news&nwet_id7: “Le fiabe narrano da
millenni come si fa a sviluppare un potenziale debole ma risolutorio, udito solo sottopelle.
Raccontano il modo di andare fino al capovolgimento delle opposizioni, attraverso la capacità
di fare il vuoto dentro di sé. Narrano di un’alleanza con le forze più grandi di noi, alle quali
parliamo intuitivamente, in intelligenza collettiva, fiutando le sincronicità che si susseguono.
Dopo la comunicazione strutturata e tecnica, dopo quella emotiva che crea senso di appartenenza, ecco la comunicazione più veloce, necessaria per vivere il momento presente.
La comunicazione intuitiva. Essa ci rende un ‘termostato’, in grado di elevare il livello di
un ambiente, l’efficacia delle relazioni in atto, la sostanza dei contenuti. Perché è il tempo
di apprendere a lasciarsi guidare, quasi presi per mano, dalla Vita stessa. Il vecchio modo di
condizionarci, manipolarci, criticarci, ferirci, motivarci non regge la velocità dell’evoluzione.
Un salto epocale, come quando dall’Homo di Neanderthal si passò all’Homo Sapiens Sapiens,
dall’animale all’uomo. Comunicare da Infinito a Infinito tra esseri evoluti, aiuta a costruire il
mondo del futuro sulle leggi dell’Abbondanza. Che ha solo le nostre idee intuitive per venire
alla luce. Per partecipare consapevolmente e responsabilmente al creato, e renderlo il luogo
più interessante dove esprimere ora la nostra Qualità Umana” <ndC>.
87
pegnativa, che ha richiesto da parte dei discenti un approfondimento
costante anche a casa.
Essi potevano rileggere la fiaba condivisa quella settimana, da soli
o in compagnia, oppure praticare individualmente le respirazioni Genesika®, o, ancora, riconoscere con uno sforzo di consapevolezza le
“Qualità Infinite del loro Fondo d’Identità” nell’atto stesso di provare
a manifestarle in un gesto personale o professionale2.
Un intenso, costante lavoro, dunque, di presenza e responsabilità
verso se stessi. In un periodo storico in cui, legati come ancora siamo
all’antico motto ‘divide et impera’, poche persone nelle aziende sono
disposte a mettersi in gioco per favorire un miglioramento individuale
e dell’insieme.
I discenti, invece, si sono resi disponibili a queste ore supplementari
di pratica individuale, perché hanno compreso che essa costituisse
un’opportunità unica: con questa scelta formativa di Medicina Narrativa, essi hanno ricevuto in dono dall’azienda la capacità di creare un
momento tutto per sé. L’ospedale, consentendo loro questo tipo di
formazione, ha voluto porre l’accento sulla qualità delle relazioni e sul
valore della persona, con lo scopo di migliorare l’efficacia della comunicazione interna ed esterna.
Si è trattato perciò, per tutti loro, di un momento dedicato al risveglio del mondo interiore dei valori, un risveglio necessario per attraversare e vivere un cambiamento possibile. Essi hanno, così, scoperto
uno spazio di apertura verso la fiducia e la leggerezza e un luogo personale di libertà e sicurezza, da poter inserire nel corso della giornata
lavorativa e dunque da vivere, proteggendolo e tutelandolo, anche in
2 Piera Giacconi è autore del cosiddetto ‘metodo Debailleul-Giacconi’, che unisce al metodo di trasformazione del sé tramite la lettura e meditazione delle fiabe, già elaborato dall’autore francese, la pratica del respiro ritmato volontario (pratica sulla quale si veda, in fondo, la
bibliografia).
Jean Pascal Debailleul, con il quale la Giacconi ha collaborato è, a sua volta, cantastorie, terapeuta, psicologo: “Da più di venti anni insegna come passare dalla favola alla realtà e come
tradurre tale conoscenza nella vita di tutti i giorni, mediante esercizi ispirati alla saggezza
tradizionale e alla psicologia moderna. Specialista in animazione di gruppo, conduce seminari di creatività e cambiamento” (http://www.ilpuntodincontro.it/). Autori del libro BRASEY
E. – DEBAILLEUL J.-P., Vivere la magia delle fiabe. Come il meraviglioso può cambiare la vita, tr. it.
Vicenza 2001 <ndC>.
88
futuro. Uno spazio e un tempo tutto per loro, dedicato a un gruppo
di pionieri dell’organico di un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere
Scientifico (IRCCS).
Il mondo è rimasto fuori, loro sono andati ‘dentro’: per risvegliare
e far emergere la nobiltà e autenticità del loro animo, per riscoprire
l’umanità spesso compressa e nascosta sotto il camice. Con un gesto
non spontaneo né facile, ma semplice e accessibile a ciascuno, quando
si sono create le condizioni adeguate.
Solo se fossero stati capaci di mettersi davvero in gioco, di ri-guardarsi con occhi bambini pieni di stupore, di mettere da parte i loro
ruoli per un pomeriggio a settimana, queste 26 persone avrebbero
potuto sperare di trasferire in seguito le competenze acquisite anche
all’interno dell’ambito professionale e relazionale.
Solo le qualità personali, infatti, possono far affrontare e vivere le
trasformazioni che si verificano attraverso la narrazione delle fiabe
millenarie. Per ottenere risultati ben oltre quanto sperato, perché è
stato risvegliato l’infinito presente in loro stessi.
Quelle storie sono nate nella notte dei tempi e hanno millenni
di vita: nei secoli sono sopravvissute intatte e sono rimaste presenti
nella nostra cultura indoeuropea, poi trasmesse fedelmente dai fratelli Grimm. Antropologi ante litteram, duecento anni fa – nel 2012
è stato festeggiato in tutto il mondo il bicentenario della loro prima
pubblicazione –, questi studiosi di letteratura popolare attraversarono
le montagne della Slesia in trent’anni di accurate ricerche, per raccogliere dalla voce stessa degli abitanti i racconti millenari tramandati
oralmente, affinché non andassero perduti per sempre. Le loro fiabe
sono oggi i libri più pubblicati e tradotti nel mondo.
Sono vive più che mai queste storie, tanto che i neuro-scienziati
delle Università di Berlino e Vancouver dal 2009 ne studiano gli effetti
sul nostro cervello: per scoprire come mai esse siano sopravvissute
così a lungo, come mai siano trasversali a tutte le culture del pianeta,
come mai siano comprensibili a tutti e per tutti significative.
Le fiabe, infatti, sono una sorta di ‘esperanto magico’, parlano a
grandi e piccoli e infondono speranza nei momenti bui. Aiutano a
ritrovare la strada di casa, là dove continua a brillare per noi una
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luce, sempre e anche in mezzo alla foresta più cupa. Aiutano a fidarsi
che tutto è possibile: anche trovar soluzione proprio là dove pare
vi sia soltanto sofferenza. Aiutano a superare la paura dell’orco che
ci minaccia, ad avere la meglio sulla strega che ci toglie l’impegno e
c’inchioda a una sorte infelice. Aiutano a non credere alle illusioni dei
nostri demoni interiori. A trovare compagni di strada e collaboratori
anche fra i piccoli e i deboli che non immaginavamo potessero aiutarci.
Le fiabe ci aiutano a credere nella forza della nostra stessa innocenza.
Esse ci ricordano l’importanza del lieto fine: ovvero di giungere
non tanto alla consolazione, bensì al compimento definitivo, quello che
chiude il cerchio del periplo delle nostre umane vicende. Ci ricordano
di giungere, attraverso l’esperienza dolorosa e faticosa, fino alla crescita e all’apprendimento che ci competono: di non vivere invano e
banalmente, come polvere soffiata via dal vento3.
Ecco allora, qui di seguito e a testimonianza di tutto ciò, alcune
delle parole scritte dal personale del CRO durante le prove finali
d’esame.
In esse in particolare si volevano verificare:
• il livello di integrazione dei contenuti praticati e studiati;
• la motivazione a proseguire con l’utilizzo di questa forma di arteterapia;
• il progetto individuale attraverso il quale poter applicare in ospedale tale formazione acquisita.
E sono state poste ai 26 partecipanti alcune domande.
Come descriverebbe meglio questo evento formativo, affinché
possa essere avvicinato da altri colleghi?
• sviluppa un pensiero fecondo nella libertà di scegliere
3 La fondamentalità delle fiabe, entro quelle che si chiamano master narratives, è ricordata e
approfondita da molti autori: interessante in proposito – anche per l’esame accurato di alcune
fiabe celeberrime – è il libro della psicanalista PINKOLA ESTES C., Donne che corrono con i
lupi. Il mito della donna selvaggia, tr. it. Milano 2003, da me ricordata nel capitolo Narrare per
curare del mio Pietra filosofale della salute. Filosofia antica e formazione in medicina,Verona 2011,
83-111, e la ricostruzione di BERT G., Medicina narrativa. Storie e parole nelle relazioni di cura,
Roma 2007, 31-33 e 81-4 <ndC>.
90
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è la scoperta delle qualità infinite come strumento terapeutico
è l’apertura e la riscoperta della nostra interiorità
è un aiuto per la nostra professione e soprattutto per noi. Grazie…
è utile per conoscere se stessi
permette di entrare in contatto con la parte più intima di noi stessi,
mantenendo uno sguardo aperto alla vita
è uno strumento per riscoprire se stessi
se parli con la Voce delle fiabe, farai vedere la tua vera voce. Ma tu
vuoi veramente far vedere la tua vera voce?
aiuta te, così puoi aiutare il mondo
è un lavoro su se stessi e sulle proprie qualità; un confronto con i
colleghi su sensazioni ed emozioni
è un’esperienza da vivere, essendo pienamente se stessi
è infinitamente utile, emozionante, liberatorio, creativo, soft, dolce.
Frequentalo e capirai
è liberatorio
In ogni forma di espressione umana, gli obiettivi e i risultati sono sia
tangibili che intangibili, sia materiali che interiori. È molto importante,
però, che questi obiettivi e risultati siano espressi integralmente: altrimenti ciò che non emerge può ridurre la forza di applicazione di un
nuovo metodo di lavoro.
Abbiamo perciò posto anche le seguenti domande all’esame finale
di valutazione dell’esperienza formativa, miranti a chiarire gli obiettivi
e i risultati.
Le parole di risposta non hanno bisogno di commento.
Quali sono gli obiettivi che lei intende perseguire applicando
la Medicina Narrativa con le fiabe millenarie e il respiro ritmato
volontario Genesika®?
Obiettivo Materiale:
• migliorare il clima del reparto e il dialogo fra colleghi svilupperebbe
una piccola cascata di eventi positivi, percepibili anche in un miglioramento del servizio (efficienza lavorativa, creatività scientifica)
• migliorare il mio rapporto con i colleghi, non creare ulteriori mo91
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tivi di incomprensione, mantenere la calma sempre
favorire l’integrazione dei neo-assunti nel gruppo di lavoro, ridurre
il gap tra generazioni di infermieri
ridurre lo stress quotidiano e il burn out
migliorare la comunicazione con i colleghi
raggiungere una comunicazione pulita e chiara
elevare il livello di motivazione e autostima
Obiettivo Interiore:
• capire e accettare i propri limiti
• vivere tutto ciò che la vita mi offre, anche gli eventi negativi, che
servono e poi si concludono lasciando comunque un insegnamento
e fortificando
• aumentare la mia autostima e quella dei colleghi
• aumentare la fiducia negli altri e in me stessa
• favorire la consapevolezza che ogni infermiere è una risorsa da
valorizzare e quindi aumentare l’autostima di ciascuno
• mettermi alla prova
• prendermi cura di me lavorando in un ambiente collaborativo e
sereno
• rendermi conto che ho sempre la possibilità di crescere ed essere
sicura che dall’altra persona ho sempre da imparare
• riuscendo ad avere nuovi stimoli essere più propositiva all’interno
dell’équipe; prendendomi cura di me, diventare più capace di prendermi cura degli altri
• ricevere nuovi stimoli
• trovare quella tranquillità interiore che mi aiuti a vivere con serenità tutti i giorni, sia al lavoro sia in famiglia, attribuendo il giusto peso
alle cose
• essere più curiosa e più aperta alla vita
Quali sono i risultati che lei intende raggiungere applicando
la Medicina Narrativa con le fiabe millenarie e il respiro ritmato
volontario Genesika®?
Risultato Tangibile:
• migliorare la comunicazione interpersonale, non solo quella fatta di
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parole, ma anche quella pratica dei gesti e degli atteggiamenti; più
che diminuire i colloqui, diminuire i conflitti
affrontare le avversità e i momenti di stress
rendere i momenti di confronto più efficaci
diminuire gli atteggiamenti critici, polemici
riuscire a condurre riunioni efficaci basate sul rispetto reciproco e
sull’ascolto di ciascun partecipante
attivare gruppi di lavoro
ridurre il contenzioso e le riunioni dove non ci si comprende
organizzare meglio il lavoro nel rispetto della programmazione effettuata
comunicare con chiarezza e rispetto ciò che desideriamo esprimere, contenendo gli scontri verbali pesanti
ascoltare me stessa e mettermi in ascolto dell’altro, collega o paziente che sia
diminuire le assenze causate da stress mal gestito
migliorare la comunicazione e la collaborazione per una miglior
organizzazione del lavoro
ridurre il carico di tensione ed evitare perdite di tempo
acquisire chiarezza degli intenti e leggerezza
pervenire a una miglior gestione dei turni
diminuire il senso di disinteresse e di disillusione che molto spesso
si respira
Risultato Intangibile:
aumentare la motivazione personale e professionale, la comprensione reciproca, la tolleranza e il rispetto della diversità e dell’unicità degli individui con i quali siamo in relazione
aumentare la serenità e la tranquillità per poter dare il meglio di
me stessa nel lavoro e nella vita privata. E imparare a ricordarlo
sempre
aumentare la motivazione del gruppo di lavoro
aumentare la coesione del gruppo e la fiducia reciproca
aumentare l’autostima
migliorare il clima dell’ambiente di lavoro
aumentare la consapevolezza del fatto che siamo in un ambiente
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lavorativo dove le persone hanno bisogno del nostro aiuto e noi di
loro
• aumentare la serenità e l’equilibrio
• aumentare la capacità di avere una visione delle cose più ampia
Il risultato più interessante e cospicuo, emerso da questa classe di
discenti, è stato infine la creazione del gruppo CROccanti Fiabe: il 40%
dei partecipanti ha scelto di attivarsi insieme per portare la Medicina
Narrativa dentro tutto l’ospedale. E a marzo 2013, un anno dopo la
formazione in aula, si è costituito liberamente in un ensemble di narratori, che ogni mese s’incontra per far le prove e poi per cercare di
raccontare le fiabe come appreso in aula, coadiuvato in questa delicata
opera di restituzione da due cantastorie diplomate presso “La voce
delle fiabe”, la nostra Piccola Scuola di Udine.
In quegli incontri tra personale dei reparti più disparati – ricerca,
cardiologia, ginecologia, day hospital, oncologia medica, amministrazione – il gruppo sperimenta davvero cosa voglia dire comunicare in
modo nuovo: basandosi sulle “Qualità Infinite dell’essere” piuttosto
che sui rigidi schemi caratteriali di comportamento, che tante incomprensioni hanno causato fin qui. Per andare oltre e scrivere una storia
nuova dell’ospedale, fatto dalle persone e dalla tecnologia insieme.
L’entusiasmo di questo gruppo è ora alle stelle: perfino le difficoltà
emerse vengono trasformate in opportunità di crescita – per sé, per
il CRO, per il territorio.
Si tratta dunque di un’occasione magnifica di ricerca applicata, sostenuta dagli incoraggianti risultati di quanto nel mondo già si sta facendo in tal senso: perfino Rita Charon della Columbia University,
inventrice della Medicina Narrativa, in concomitanza con la sua visita
al CRO per una conferenza, lo scorso 4 luglio 2012, ci ha incoraggiati
a proseguire e a restare in rete.
Insieme, quindi, e con l’arte curativa delle fiabe sono le parole magiche: la scommessa per un futuro nuovo.
94
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Bibliografia
BRASEY E. – DEBAILLEUL J.-P., Vivere la magia delle fiabe. Come il
meraviglioso può cambiare la vita, tr. it.Vicenza 2001
DEBAILLEUL J.-P., Manuel de thérapie par les contes de fée, Gap 2010
DE TONI A.F. – COMELLO L. – IOAN L., Auto-organizzazioni. Il mistero dell’emergenza nei sistemi fisici, biologici e sociali, Venezia 2011
D’ORLANDO A., Intelligenza emotiva e respiro, Torino 2003
GIACCONI G., Respiro e psiche, Firenze 2012
GIACCONI P., C’era una volta... un cantastorie in azienda, Milano
2011
PIERA GIACCONI
Arte-terapeuta, presidente dell’associazione culturale La voce delle fiabe,
piccola scuola italiana per Cantastorie (Udine), membro del club di terapeuti
e formatori Horaklés® di Parigi, formatrice AIF (Associazione Italiana Formatori). Dettagli in www.lavocedellefiabe.com
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Appendici
Testimonianze e storie di vita
Libri disponibili in Biblioteca CRO
Autore
Titolo
Natalicchio, Paola
Battista, Pierluigi
Evangelisti, Valerio
Catalano, Francesca;
Travagliante, Pina (a cura di)
Colosimo, Francesco
Di Roberto, Beatrice
Spaggiari, Lorenzo
Versace, Giusy
Nicoletti, Gianluca
Amurri, Lorenzo
CRO di Aviano
Grimaldi, Laura
Cevenini, Alessandro
Feola, Silvana
Pentangelo, Maria Teresa
Fantusi, Romina
Brunelli, Alessandro
Martinelli Köhler, Barbara
Mariani, Barbara
De Luca, Maria Rosari;
Lostumbo, Danila
Milano, Serena
Russo, Anna Lisa
Butland, Stephanie
Natalicchio, Paola
Gabrieli, Giulia
Di Eleonora, Lidia
Verga, Massimiliano
Da Ros, Giada
Il regno di Op
La fine del giorno
Day Hospital
98
Vite dopo la tempesta
La mia vita e il cancro
Una donna… una storia… sopravvivere al cancro
Io… dopo: io adolescente e la mia vita con il cancro
Con la testa e con il cuore si va ovunque
Una notte ho sognato che parlavi
Apnea
Scriviamoci con cura: pazienti oncologici raccontano come lev
Faccia un bel respiro
Il segreto è la vita
Mamma ha il cancro ma fa la marmellata
Ogni singolo respiro
Il codice di Hodgkin: quando la malattia incontra l’ironia
Il cancro e l’arcobaleno
Mamma, quando ti ricrescono i capelli?
Aloha: alito di vita! Non solo cancro
C’era una volta un cancro
Ho scelto di guarire
Toglietemi tutto ma non il sorriso
Come ho sconfitto il cancro: una storia vera
Il regno di Op
Un gancio in mezzo al cielo
Sono guarita dal cancro
Zigulì
Stanchi: vivere con la sindrome da fatica cronica
Aggiornamento: 22.08.2013
Il catalogo della Biblioteca Scientifica e per i Pazienti è consultabile
a questo indirizzo: http://opac.units.it/SebinaOpac/Opac?sysb=cro
o
ro
no come levare l’ancora con la scrittura...
’ironia
Editore
Anno
Einaudi
Rizzoli
Giunti
2013
2013
2013
Maimone
2013
Booksprint
Alpes
Il Pensiero Scientifico
Mondadori
Mondadori
Fandango Libri
CRO di Aviano
Mondadori
Piemme
Montedit
Fermenti
Effigi
Youcanprint
Cartman
ETImpresa
2013
2013
2013
2013
2013
2013
2012
2012
2012
2012
2012
2012
2012
2012
2012
Armando Editore
2012
Anima Edizioni
Mondadori
Newton Compton
La meridiana
Paoline
La Riflessione
Mondadori
SBC
2012
2012
2012
2012
2012
2012
2012
2012
99
Pivetti,Veronica
Marzano, Michela
Checchia, Floreana
Pacchini, Monica
Autori vari
CRO di Aviano
Soriente, Omar
CRO di Aviano
Di Lorenzo, Elisa
Reginato, Adriana
Fondazione Federico
Calabresi (a cura di)
Morelli, Patrizia
Biasini, Giorgia
Mandelli, Franco
Calabrese, Pietro
Audino, Sergio
De Bac, Margherita
Carr, Kris
Crespi, Paolo
Small, David
Vighy, Cesarina
Raimondi, Marinella
Ascione, Antonio
Autori vari
Pantani, Pierangela
Saberogi, Maria Grazia
Boldrini, Mauro
Naretto, Giuseppe;Vergano,
Marco (a cura di)
Bidinost, Milena
Spadola, Cinzia
Ménard, Sylvie
Sannucci, Corrado
Pedroni, Massimo
Pellegrini, Patrizia
Stap, Sophie van der
100
Ho smesso di piangere
Volevo essere una farfalla
Diario di una malata depressa
La scoperta
Nuova stagione
Continueranno a fiorire stagioni
La vita allo specchio
CIP non ha paura
La mia storia
Amazzone
La parola alle pazienti
Col senno di poi
Come una funambola
Ho sognato un mondo senza cancro
L’albero dei mille anni
Le mie sette vite
Noi, quelli delle malattie rare
Ho il cancro, vado a comprarmi un rossetto
Vado a farmi la chemio e torno
Stitches: ventinove punti
L’ultima estate
Cosa importa se non posso correre
Abbiamo vinto: insieme
Alla luce del sole: storie di esperienze vissute da persone sier
Da velocista a maratoneta
Domani è un altro giorno
Ho vinto io
Il passo della notte
Mi riprendo il biglietto
Nel segno del cancro
Si può curare
A parte il cancro tutto bene
Alla salute!: vivere contro la sclerosi multipla
La luce di quegli occhi che hanno visto oltre
La ragazza dalle 9 parrucche
ersone sieropositive
Mondadori
Mondadori
Kimerik
La Bancarella
In dialogo
CRO di Aviano
Kimerik
CRO di Aviano
Cleup
The Principe Editore
2012
2011
2011
2011
2011
2011
2011
2010
2010
2010
Pubblimax
2010
Nuovi autori
Cromografica Roma
Sperling & Kupfer
Rizzoli
Flaccovio
Sperling & Kupfer
Piemme
Rizzoli
Rizzoli Lizard
Fazi
Mursia
Messaggero
MNL
Piccin
Edizioni Joelle
Giunti Demetra
2010
2010
2010
2010
2010
2010
2009
2009
2009
2009
2009
2009
2009
2009
2009
2009
Il Pensiero Scientifico
2009
L’Omino Rosso
Sampognaro & Pupi
Mondadori
Mondadori
Memori
Edizioni Villadiseriane
Bompiani
2009
2009
2009
2008
2008
2008
2008
101
Autori vari
Mi fa male la testa: la nostra diversità: nel silenzio della solitu
CRO di Aviano
Hornbacher, Marya
Rizzoli, Melania
Ducoli, Rosanna
Lindquist, Ulla-Carin
De Bac, Margherita
Hornbacher, Marya
De Pinto, Maria Lucia
Paintbrush, Joe
Piga, Cristina
Macchi, Fabrizio
Bonino, Silvia
Panini Finotti, Alessandro
CRO di Aviano
Bonadonna, Gianni
CRO di Aviano
Ranni, Loredana
Casciaro, Elvira
Terzani, Tiziano
Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori
Una vita bipolare
Perché proprio a me?
Quel vestito troppo stretto
Remare senza remi
Siamo solo noi: le malattie rare: storie di persone eccezionali
Una vita bipolare
Stagioni di vita
The penny drops: diario di uno stomizzato
Ho il cancro e non ho l’abito adatto
Più forte del male
Mille fili mi legano qui
Mie belle lune perdute, ovvero Cronaca di un dolore
Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini
Coraggio, ricominciamo: tornare alla vita dopo un ictus, un m
Caro G.A.S. volevo dirti che...: il quaderno di pazienti e familia
Io, viva di tumore
Pianeta K
Un altro giro di giostra
Cancro di segno e... di fatto: storia di Stefania
La forza della consapevolezza: storia di Claudia
Sgarzini, Patrizia; Nanni,
Paolo (a cura di)
Bonicelli, Emilio
Pietrantoni Lamastra,
Romana
Biro, David
Kreinheder, Albert
Picardie, Ruth
Ciampi, Alessandra
Giacalone, Annalisa
(a cura di)
Nemez, Luisa
Zachert, Christel e Isabell
102
Le emozioni non si fermano mail: un libro verità su chi vive c
Ritorno alla vita: il cammino di un uomo che lotta per vincere
...di me: 1988-1992
Cento giorni: il mio viaggio da medico a paziente
Il corpo e l’anima: l’altra faccia della malattia
Due o tre cose prima di andarmene
Amare la vita
Io e quel nemico dentro di me: storia di Paola
Quando il male è ormai alle spalle
Una donna... tante donne...
Ci vediamo nel mio Paradiso
della solitudine per questo nostro male invisibile
eccezionali
re
dini
ictus, un medico racconta
nti e familiari al CRO
Centro Stampa Comunale
Ferrara
Mondadori Electa
Corbaccio
Sperling & Kupfer
Pointcommunication
Marsilio
Sperling & Kupfer
Corbaccio
Città aperta
Campanotto
Mursia
Piemme
Laterza
Graus
CRO di Aviano
Baldini Castoldi Dalai
CRO di Aviano
Proedi
Il coscile
Longanesi
IEO
IEO
2008
2008
2008
2008
2008
2008
2008
2008
2008
2007
2007
2007
2006
2006
2006
2005
2004
2004
2004
2004
2002
2002
u chi vive con l’HIV
AUSL9 Macerata
2002
per vincere la leucemia
Jaca Book
2002
IEO
2001
Ponte delle grazie
Moretti & Vitali
TEA
Belforte & C.
IEO
2001
2001
2000
2000
2000
Angeli
2000
Lint
TEA
2000
1998
103
Attivecomeprima
(a cura di)
Hennezel, Marie de
Previti Totaro, Rory
Buzzi, Silvio
Cortello, Stefania
... E poi cambia la vita: parlano i medici, le donne, gli psicolog
La morte amica
La signora Acca Uno
Storia di una ricerca privata
Voglia di vivere
Nella buona e nella cattiva sorte: viaggio con le famiglie nell’
Buda, Patrizia
Calcagno, Giorgio
(a cura di)
Verda, Sandra
Burrone, Ada
Belcastro, Vittoria
de Beauvoir, Simone
104
Gigi Ghirotti nel tunnel della malattia
Il male addosso
Il gusto di vivere
Un medico racconta: come ho vinto il cancro: un mito che div
Una morte dolcissima
gli psicologi
miglie nell’assistenza all’ammalato grave a casa
mito che diventa realtà Angeli
1998
BUR
Vento Sociale
Nemo
Edizioni Camilliane
Istituto Oncologico
Romagnolo
1998
1997
1996
1996
La Stampa
1994
Bollati Boringhieri
Mondadori
Luigi Pellegrini
Einaudi
1994
1993
1992
1966
105
1995
Medicina Narrativa
Libri disponibili in Biblioteca CRO
Autore
Benedetti, Fabrizio
Virzì, Antonio
Marini, Maria Giulia;
Arreghini, Lidia (a cura di)
Longo, Eloïse
Finiguerra, Ivana; Garrino,
Lorenza; Picco, Elisa;
Simone, Paola
Malvi, Cristina; Bergonzoni,
Alessandro (a cura di)
Brasey, Edouard; Debailleul,
Jean-Pascal
Napolitano Valditara,
Linda M.
Marcadelli, Silvia; Artioli,
Giovanna
Garrino, Lorenza
Gioppato, Luisella
Zannini, Lucia
Artioli, Giovanna; Amaducci,
Giovanna (a cura di)
Bert, Giorgio
Virzì, Antonio; Signorelli,
Maria Salvina
Bert, Giorgio; Quadrino,
Silvana
Gangemi, Michele; Zanetto,
Federica; Elli, Patrizia
(a cura di)
Good, Byron J.
106
Titolo
Il caso di G. L.: la medicina narrativa e le dinamiche nascoste
Un malato senza nome: rivisitazione de “Il tailleur grigio” di A
Medicina narrativa per una sanità sostenibile
Medicina narrativa e mondi di vita
Narrare la malattia rara: esperienze e vissuti delle persone a
La realtà al congiuntivo: storie di malattia narrate dai protago
Vivere la magia delle fiabe: come il meraviglioso può cambiar
Pietra filosofale della salute: filosofia antica e formazione in m
Nursing narrativo
La medicina narrativa nei luoghi di formazione e di cura
Noi siamo favole
Medical humanities e medicina narrativa
Narrare la malattia: nuovi strumenti per la professione inferm
Medicina narrativa: storie e parole nella relazione di cura
Medicina e narrativa: un viaggio nella letteratura per compre
Parole di medici, parole di pazienti
Narrazione e prove di efficacia in pediatria
Narrare la malattia
Aggiornamento: 15.07.2013
Il catalogo della Biblioteca Scientifica e per i Pazienti è consultabile
a questo indirizzo: http://opac.units.it/SebinaOpac/Opac?sysb=cro
Editore
Carocci
Angeli
Anno
2013
2013
Lupetti
2012
Aracne
2012
C.G. Edizioni Medico
Scientifiche
2012
dai protagonisti
Angeli
2011
uò cambiare la nostra vita
Il punto d’incontro
2011
QuiEdit
2011
Maggioli
2010
di cura
Centro scientifico
Salani
Raffaello Cortina
2010
2008
2008
sione infermieristica
Carocci
2007
Il Pensiero Scientifico
2007
Angeli
2007
Il Pensiero Scientifico
2006
Il Pensiero Scientifico
2006
Einaudi
2006
he nascoste della mente
grigio” di Andrea Camilleri
e persone assistite e degli operatori
mazione in medicina
di cura
per comprendere il malato (e il suo medico)
107
Medicina narrativa: comunicazione empatica ed interazione
paziente
Narrazione e fine della vita
Raccontarsi: l’autobiografia come cura di sé
Masini,Vincenzo
Gordon, Deborah
Demetrio, Duccio
108
nterazione dinamica nella relazione medico-
Angeli
2005
Angeli
Raffaello Cortina
2001
1996
109
Libri di testimonianze pubblicati
dal CRO
Caro G.A.S. volevo dirti che...: il quaderno di pazienti e familiari
al CRO: Centro di Riferimento Oncologico, Aviano 2004
/ redazione a cura della Biblioteca per i Pazienti del
CRO di Aviano. - 2a ed. - Aviano: Centro di Riferimento
Oncologico, [2004]. - 96 p. : ill. color. ; 21 cm.
È una raccolta di scritti e disegni nata dall’idea di un
Gruppo di Animatori Sociali (G.A.S. appunto), che hanno
svolto attività di animazione al CRO dal 1998 al 2001.
Questi volontari hanno messo a disposizione di tutti
un “quadernone” che, a poco a poco, si è riempito di
pensieri, poesie, lettere, disegni, ricette... che le persone
desideravano condividere con gli altri. La Biblioteca per i
Pazienti del CRO in collaborazione con la Biblioteca Civica
del Comune di Aviano ha pensato di ‘dare voce’ a questo
scrigno di umanità. La prima edizione, del 2002, è piaciuta a
quanti vi si sono avvicinati tanto che, nel 2004, ne è seguita
una seconda, aggiornata, riveduta e corretta, ed è iniziata
una tradizione...
Passaggio al CRO: voci di pazienti, volontari e cittadini /
redazione a cura della Biblioteca per i Pazienti del CRO
di Aviano. - Aviano: Centro di Riferimento Oncologico;
Comune, [2006]. - 141 p. : ill. ; 24 cm.
Oltre a 500 scritti di pazienti, familiari e persone che, a
vario titolo frequentano l’ospedale, sono qui raccolte
testimonianze di Volontari che collaborano con l’Istituto,
allo scopo di rendere più accogliente l’assistenza, e pensieri
di cittadini del Comune di Aviano che ci danno un’idea di
come il CRO venga percepito nel territorio.
Anche in questo caso la richiesta da parte di pazienti e
familiari è stata così elevata che le copie, in breve tempo,
sono andate esaurite. È prevista, quindi, una nuova e
originale edizione per il 2010.
110
Non chiedermi come sto ma dimmi cosa c’è fuori :
testimonianze di giovani malati di tumore / testi scritti
dai ragazzi in cura presso l’Area Giovani del Centro
di Riferimento Oncologico di Aviano; responsabili del
progetto Maurizio Mascarin e Ivana Truccolo; foto di Attilio
Rossetti; disegni di Ugo Furlan]. - Milano: Mondadori Electa;
Aviano: Centro di Riferimento Oncologico, ©2008. - 213 p.
: ill. ; 23 cm.
Nel 2006 prende forma, al CRO di Aviano, un’Area dove
protagonisti indiscussi sono i giovani ospiti segnati dalla
malattia oncologica. In ogni stanza e nel corridoio vengono
collocati dei diari: una sorta di invito ai ragazzi a lasciare
un ricordo di sé attraverso scritti, pensieri, poesie, lettere
nei quali esprimere sensazioni, angosce, paure, ma anche
momenti di felicità e soddisfazione quando il male viene
domato e sconfitto. Dopo due anni, i medici e gli operatori
del CRO hanno letto i quaderni e raccolto i ‘fiori’ che
in essi sono sbocciati. A questi scritti hanno affiancato
quelli delle mamme, degli amici, degli operatori, quelli
indirizzati direttamente ai dottori, gli sms arrivati ai loro
telefoni, i messaggi spediti ai loro indirizzi email. Ne è nato
un volume di testimonianze, reso vivo e ‘parlante’ dalle
straordinarie foto scattate da Attilio Rossetti ai giovani
ricoverati e dai fantasiosi disegni di Ugo Furlan.
CIP non ha paura : racconto per immagini e testimonianze
di pazienti anziani in cura presso l’Oncologia Medica del Centro
di Riferimento Oncologico di Aviano / a cura di Dipartimento
di Oncologia Medica e Biblioteca per i Pazienti del CRO di
Aviano; fotografie di Pierpaolo Mittica da un’idea del Prof.
Umberto Tirelli. - Aviano: Centro di Riferimento Oncologico;
Lestans: Centro Ricerca e Archiviazione della Fotografia,
©2010. - 154 p. : in gran parte ill. ; 22 x 24 cm.
Nel corso del 2007, sulla base di una lunga tradizione,
è stato avviato un programma di cura per l’anziano
oncologico presso l’Istituto Nazionale Tumori di Aviano.
Da allora i pazienti seguiti sono quasi cinquecento. Per
alcuni di essi la malattia è diventata un’esperienza di vita e
111
di solidarietà con il personale e con il luogo di cura.
Da qui è nata l’idea di dar voce ai pazienti anziani,
protagonisti consapevoli delle scelte terapeutiche che sono
state loro offerte.
Sette anziani, sette storie. L’occhio del fotografo ne
propone un ritratto insolito: dentro l’ospedale ma anche
fuori, nei luoghi casalinghi in cui vivere la propria malattia,
nella consuetudine dei gesti quotidiani. Sfogliare questo
libro, lasciarsi sorprendere dalle immagini, accompagnate da
testi sensibili e attenti, permette di capire perché “Cip non
ha paura”.
Continueranno a fiorire stagioni: pensieri raccolti in un
istituto tumori, illustrati da giovani studenti / a cura
di Centro di Riferimento Oncologico di AvianoBiblioteca Pazienti; Istituto Statale d’Arte-Liceo
Artistico Enrico Galvani di Cordenons. - Aviano:
CRO, [2011]. - 173 p. : ill. ; 21 x 30 cm.
Le centinaia di testimonianze, annotate nei quaderni tra
il 2006 e il 2011 da tante persone “di passaggio” al CRO,
trovano in quest’opera un completamento nell’espressione
visiva del disegno, del colore, delle elaborazioni grafiche e
delle fotografie che i ragazzi hanno realizzato, ispirandosi
non solo ai testi, ma anche alle sensazioni derivate dalla
lettura e dallo scambio di emozioni con quanti, ogni giorno,
per motivi diversi, entrano in contatto con l’ospedale.
Nel libro, sofferenza, voglia di riscatto, rabbia, fede,
speranza si succedono in un tempo sempre uguale e
sempre diverso come in un alternarsi di stagioni che hanno
tutte un loro senso: non si apprezzerebbe la primavera
se non ci fosse l’inverno. Sentimenti che anche le tavole
figurate rispecchiano, utilizzando le tecniche più disparate,
attraverso un dialogo nel quale entrano in gioco persone
in cura, persone che curano, persone che si prendono cura
e le giovani emozioni dei ragazzi di scuola. Un confronto
audace e sincero tra la sofferta maturità di chi è paziente e
la freschezza giovanile di chi ancora studia e muove i propri
passi nelle prime stagioni della vita.
112
Scriviamoci con cura : pazienti oncologici raccontano come
levare l’ancora con la scrittura : intonazione all’estate che arriva
: antologia di racconti / a cura del Centro di Riferimento
Oncologico di Aviano. - Aviano : Centro di Riferimento
Oncologico, [2012]. - 191 p. : ill. ; 21 cm. ((In testa al
frontespizio: Premio letterario.
Questa antologia raccoglie i racconti dei cinque vincitori
della prima edizione del premio letterario Scriviamoci con
cura 2012, seguiti da alcune selezioni di storie narrate da
altri partecipanti. Nel ripercorrere le tappe della malattia,
gli autori ci regalano delle testimonianze profonde, umane
e soprattutto universali. Un cammino fatto di dubbi e
attese, passando per la terapia e la vita in ospedale. Un
percorso pieno di domande compiuto con determinazione
e curiosità, dove il bisogno di narrare, di condividere, di
rompere il muro delle frasi fatte e dell’indifferenza impone
una riflessione. La caduta e la rinascita di chi ha convissuto
e convive con il male. La capacità di rialzarsi e affrontare il
futuro con un sorriso. Una forte dichiarazione di speranza
e di fiducia nella vita.
113
CROinforma è la collana di informazione divulgativa del Centro
di Riferimento Oncologico di Aviano, rivolta a pazienti e cittadini.
Tratta argomenti inerenti alla ricerca, prevenzione, cura dei tumori.
Prevede tre sezioni Piccole Guide, Pieghevoli, Atti.
Si articola in diverse serie: LA RICERCA CHE CURA; INFORMAZIONI
SCIENTIFICHE; PERCORSI DI CURA; ISTRUZIONI ALL’USO DI...; AREA GIOVANI;
CIFAV INFORMAZIONE SUL FARMACO
5
PER
MILLE
AL
CRO
Il contribuente che, con il 5 per mille
della dichiarazione dei redditi, vuole
sostenere la ricerca scientifica al CRO
dovrà inserire il Codice Fiscale del
CRO nello spazio“FINANZIAMENTO
DELLA
RICERCA
SANITARIA”
e firmare nel riquadro corrispondente.
Le scelte di destinazione dell’otto per mille dell’Irpef
e del cinque per mille dell’Irpef sono indipendenti tra loro
e possono essere espresse entrambe.
Codice Fiscale CRO Aviano:
00623340932
Questa pubblicazione è stata realizzata
grazie alle donazioni del 5 per Mille al CRO
destinate alla ricerca che cura
Finito di stampare a ottobre 2013
da Tipografia Sartor Srl - Pordenone
Stampato su carta certificata FSC MIX CREDIT.
Il marchio FSC® identifica i prodotti contenenti legno proveniente da foreste gestite
in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici