Alzheimer ok

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Alzheimer ok
Progetto di Cooperazione in ambito istituzionale con laboratori di sussidiarietà
e l’avvio di una rete per un sistema di accreditamento del welfare – COOPSUSSI
Programma di iniziativa comunitaria INTERREG IV
Cooperazione Transfrontaliera 2007-2013
Capofila: Comune di Como
Capofila Svizzero: Università della Svizzera Italiana
Laboratorio Welfare Anziani: Comune di Como, Comune di Lugano e Forum Alzheimer,
Opera Pia A. E. Cerino Zegna Onlus, Università della Svizzera Italiana.
LA MALATTIA DI ALZHEIMER
NEL BIELLESE: NUMERI E BISOGNI
Indagine a cura di
Emilio Sulis e Manuela Vinai, sociologi – Q.R.S. soc. coop.
Si ringrazia la collaborazione di:
Azienda Sanitaria Locale Biella
Consorzio Socio-Assistenziale I.R.I.S. Biella
Consorzio Socio-Asistenziale C.I.S.S.A.B.O. Cossato
Associazione Italiana Malattia di Alzheimer – Sezione Biella
Stampa Arte della Stampa, Biella, aprile 2012
PREMESSA
Sussidiarietà e cooperazione transfrontaliera: sono questi i principi ispiratori del Progetto
Interreg Coopsussi, che vede il Comune di Como nel ruolo di Ente Capofila.
Territori, Enti e Persone uniti dalla volontà di dare risposte ai bisogni sviluppando sinergie tra
il sistema pubblico e le realtà sociali, nel contesto assai delicato di un welfare modernamente inteso, caratterizzato da efficienza e grande attenzione alla Persona.
L’ambizione che ci muove è quella di dare concretezza, di rendere tangibili, questi principi
generali.
Lo strumento operativo, coerentemente con quest’ambizione, è il laboratorio, cioè un ambito di
lavoro, di approfondimento, di scambio di buone pratiche, di arricchimento reciproco.
Coopsussi, avviato nel 2009, è stato ricco di questi momenti. Tra i più significativi, possiamo
senz’altro annoverare il Convegno di Biella di ottobre 2011, e la lettura degli atti ne è la conferma più palese.
Il tema degli anziani non autosufficienti in generale, e quelli affetti da Alzheimer in particolare, pone interrogativi importanti, smuove le coscienze ed al tempo stesso mette di fronte a
problemi molto pratici che possono assumere contorni angoscianti per i pazienti, per i familiari, per gli stessi operatori dei servizi.
Il Laboratorio di Coopsussi ha cercato risposte, trovandone di assai interessanti ed utili. Non
esaustive, certo, ma molto significative.
La Città di Como è orgogliosa di aver promosso questa opportunità, insieme ad Ancitel e agli
altri Partner del progetto. Abbiamo avuto l’occasione di conoscere la splendida realtà di
Cerino Zegna, e più in generale di sviluppare relazioni con il territorio biellese, al quale ci uniscono caratteristiche geografiche e socio-economiche.
Grati del contributo ricevuto, porgiamo a tutti coloro che vi hanno contribuito, ed a coloro che
fruiranno di questa pubblicazione, il saluto della comunità comasca.
Dr. Stefano Bruni
Sindaco del Comune di Como
ABSTRACT
L’indagine prende in esame vari aspetti della presenza della Malattia di Alzheimer nel
Biellese. Presenta innanzitutto un’analisi quantitativa del fenomeno che parte dalla costruzione del contesto locale, con indicazioni in merito alla numerosità della componente anziana
della popolazione e il calcolo delle stime di Eurodem e Alzheimer Europe rapportate al territorio. Sulla base di questo sfondo che fornisce una misura di riferimento, per quanto ipotetica, della presenza dell’AD nel Biellese (2850 persone), l’indagine consente di comporre una
serie di tasselli, partendo da dati certi relativi alla malattia. La consapevolezza della ‘invisibilità’ di molti malati nelle fonti di accesso ai dati ha indirizzato la ricerca ad indagare a più
vasto raggio nel contesto delle demenze. Ne sono esempi la presenza di ospiti con Alzheimer
(e demenze) nelle case di riposo (circa 900), la numerosità delle invalidità civili registrate con
il codice assegnato a AD/Parkinson/senilità/demenze vascolari (circa 280 nel 2010), la quantità di persone con questa patologia nei progetti di domiciliarità del Consorzio Iris (122) e che
hanno avuto accesso all’Unità di Valutazione Alzheimer (350 nel 2010).
La ricerca prosegue con un’analisi di tipo qualitativo con l’obiettivo di rendere conto di quelle che sono le esperienze legate all’AD. Da un lato il vissuto di pazienti e famigliari e dall’altro il punto di vista degli operatori. Per quanto riguarda pazienti e famigliari è stato messo in
risalto l’aspetto dei bisogni, suddividendoli in un secondo momento a seconda della scelta di
‘gestione’ della malattia: residenziale, semi-residenziale, domiciliare. Per quanto riguarda gli
operatori l’analisi del loro punto di vista viene effettuata attraverso la suddivisione in tipologie: Medici di medicina generale, operatori delle strutture e operatori domiciliari.
2
UN IMPEGNO PER LE PERSONE
AFFETTE DA L’ALZHEIMER…
Prefazione dell’Opera Pia A. E. Cerino Zegna
La malattia di Alzheimer è un processo degenerativo cerebrale che provoca un declino progressivo delle funzioni intellettive, associato ad un deterioramento della personalità e della
vita di relazione. La riduzione delle capacità funzionali del soggetto colpito dalla malattia
determina una progressiva dipendenza assistenziale con implicazioni importanti sul carico di
cura delle famiglie sia nella gestione della quotidianità, sia nella gestione delle situazioni critiche e delle emergenze. I dati epidemiologici internazionali, associati al progressivo invecchiamento della popolazione anziana, evidenziano una tendenza costante all’aumento del
numero di persone anziane affette da Malattia di Alzheimer o demenze affini.
I dati relativi alla prevalenza della demenza riportati in studi condotti in diversi paesi industrializzati riferiscono informazioni abbastanza comparabili, che oscillano intorno al 5% nei
soggetti di età superiore ai 65 anni. La prevalenza raddoppia approssimativamente ogni 5 anni
d’età, almeno tra i 65 e gli 85 anni. La prevalenza specifica per classi d’età è intorno all’1% nei
soggetti di età compresa fra i 65 e i 69 anni, e arriva al 40% nel gruppo di età tra gli 85 e gli 89
anni secondo i vari studi.1
La malattia di Alzheimer è la forma più frequente di demenza in Europa, negli Stati Uniti e in
Canada rappresentando dal 50 all’80% dei casi di demenza. Ipotizzando che i tassi d’incidenza rimangano stabili, in virtù della sola transizione demografica, in Italia il numero dei nuovi
casi di demenza per anno salirà dai 150.000 attuali a 230.000 nel 2020.2
Il costo della demenza è particolarmente alto in quanto include le spese sostenute per curare individui disabili per un lungo periodo di tempo e inoltre il mancato guadagno sia dei
pazienti sia dei familiari, che spesso sono costretti ad abbandonare il lavoro per prendersi
cura del congiunto. I sistemi sanitari e i servizi sociali richiedono quindi di rapide soluzioni per
ridurre il peso veramente consistente, e purtroppo in netta crescita, che grava sulla società a
causa di questo gruppo di patologie. In questo contesto è nata l’iniziativa di “mappare” il
nostro territorio ed estrapolare i dati statistici relativi a questa patologia, e ciò sia al fine di
prendere coscienza dei numeri della malattia, delle persone colpite, che indirettamente di
verificare quante famiglie sono destinatarie degli effetti sociali della stessa, ed in quale modo
affrontano tutte le problematiche connesse, soprattutto sociali, sanitarie ed economiche.
La ricerca è un aiuto a tutto il territorio ed agli enti interessati, Asl, comunità, case di riposo,
perché offre dati certi ed affidabili ed approfonditi e molteplici spunti di riflessione. Il “Cerino
Zegna” sostiene e promuove lo studio sulla malattia di Alzheimer volendo perseguire l’obiettivo principale in primo luogo di realizzare e completare una rete integrata di servizi rivolti a persone anziane con particolare riguardo a quelle affette da demenza (Alzheimer e altre demenze), stimolando la partecipazione attiva di tutti i soggetti istituzionali presenti sul territorio e
con il coinvolgimento determinante delle persone destinatarie degli interventi (utenti e loro
famigliari). La creazione di nuove sinergie di rete e la costituzione, ci si augura, di un gruppo di
coordinamento istituzionale, avranno l’obiettivo di sviluppare interventi innovativi con particolare attenzione anche al sostegno della domiciliarietà. In questa ottica si inserisce la realizzazione del “Polo Alzheimer” che troverà sistemazione logistica nell’ambito del recupero edilizio
di strutture di proprietà del nostro Ente in Occhieppo Inferiore, in forza di un progetto preliminare architettonico già allo studio ed in fase di avanzata stesura che potrà essere visionato dai
famigliari e dai sostenitori che siano interessati all’iniziativa. Le risorse economiche richieste
sono notevoli ed assai importante è sempre il passa parola con parenti, amici, conoscenti per
la raccolta di donazioni che integrino le risorse necessarie alla realizzazione del ns progetto
che sarà anche e soprattutto un progetto per il territorio biellese.
Avv. Rodolfo Caridi
Presidente dell’Opera Pia A. E. Cerino Zegna Onlus
1
2
Marco Trabucchi. “Le demenze” 4° edizione 2005. UTET Div. Scienze Mediche
Idem sopra.
3
UNA RETE DI SERVIZI PER L’ALZHEIMER…
Prefazione dell’A.S.L. BI
Presentare un libro che ha per oggetto una ricerca sui bisogni della persona affetta da demenza e sulle necessità e vicissitudini che riguardano i suoi famigliari, non è esaustivo senza l’analisi del contesto sociale in cui avviene, senza cioè far riferimento al territorio, che è oggetto della ricerca e nel contempo l’ha resa possibile, l’ha ideata e condotta a termine.
Il Biellese, da sempre, dedica risorse di tipo umano, economico, sociale, attraverso la programmazione, l’istituzione e la razionalizzazione di servizi per meglio assistere e curare le
persone affette da malattia di Alzheimer e demenze ad essa correlate.
La presenza di una Associazione, quale AIMA Biella, ha sicuramente contribuito a intensificare gli interventi della Sanità e dei Servizi Sociali con la sua azione di costante stimolo nei
loro confronti, ma anche con cospicui finanziamenti che hanno contribuito a creare e mantenere servizi per le persone affette da queste malattie.
Anche le strutture residenziali per anziani si sono trovate ad affrontare il problema dell’assistenza alle persone dementi; storicamente la prima è stata il “Cerino Zegna” di Occhieppo
Inferiore con il nucleo dedicato all’assistenza residenziale ed il centro diurno che rappresenta, assieme a quello di Trivero, un’eccellente risposta al fabbisogno di semiresidenzialità.
Ormai, comunque, gran parte delle Case di Riposo biellesi è in grado di rispondere ai tanti
bisogni che può avere una persona con demenza, in quanto per oltre il 50% dei casi il motivo
di ingresso in struttura è determinato dalla demenza.
L’ASL di Biella interviene direttamente con il suo Centro per la Memoria “Adele Maioli” in
sinergia con AIMA e Servizi Sociali territoriali in qualità di regista nel curare ed assistere le
persone con demenza (epidemia silente del terzo millennio, come è anche stata definita), portando avanti inoltre attività di sperimentazione clinica con la somministrazione di nuovi farmaci.
L’intervento dell’ASL BI avviene anche indirettamente finanziando con oltre 335.000 euro nel
2011 il Nucleo residenziale per Dementi e con oltre 325.000 euro i due centri diurni (del Cerino
Zegna e di Trivero). Anche grazie ai finanziamenti dell’ASL BI si è infatti potuto ottenere questi livelli assistenziali.
Ecco quindi il contesto in cui è nata la pubblicazione di questo libro, che sarà sicuramente
fonte di informazioni per tutti, a cominciare dagli Enti e dalle Istituzioni che hanno come mission la cura delle persone affette da demenza, ma anche per operatori, volontari e famigliari.
Dr.ssa Carla Peona
Direzione Generale dell’ASL BI
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DIETRO LA SOLITUDINE DEI NUMERI…
Prefazione dell’A.I.M.A.
La ricerca è stata condotta nell’ambito e con il finanziamento del progetto Europeo
CoopSussi, un’importante esperienza di cooperazione internazionale che ha visto protagonista l’Opera Pia Cerino Zegna e la partecipazione di AIMA Biella come collaboratori del
Comune di Como, capofila dell’iniziativa, e che viene pubblicata affinché possa divenire un
patrimonio di conoscenza per il territorio Biellese e per le istituzioni di Biella.
Le ricerche per loro natura si basano sui numeri, i numeri sono freddi, solitari, ma in questo
lavoro scoprirete che l’indagine è andata assai oltre ai numeri, raccogliendo le testimonianze
e le immagini di una consistente parte della nostra società spesso ignorata ed in solitudine
che soffre dietro ai numeri che freddamente la rappresenta.
Emergono, da testimonianze di famiglie e operatori, situazioni di solitudine profonda, di eroismo, vergogna, vero dolore, che sono in gran parte ignote al mondo dei tagli del welfare e dell’economia, in dimensioni tali che un operatore intervistato parla a ragion veduta di “bomba
ad orologeria”.
La prima parte dell’indagine è dedicata ad inquadrare le dimensioni numeriche del problema
Alzheimer e nel farlo si scopre subito che ci si può affidare soltanto a proiezioni statistiche,
in quanto la malattia non è neppure codificata in sede di invalidità civile e valutazione geriatrica, nonostante essa rappresenti la quarta causa di morte nel nostro Paese, come se anime
e dolore scomparissero in un limbo indistinto.
Passando alla lettura delle testimonianze, che consiglio vivamente di non tralasciare, tutto
diviene più chiaro: si comprendono le dimensioni del problema e i modi possibili di affrontarlo; si comprende quanto siano sconosciuti i servizi disponibili (che tuttavia sul nostro territorio non mancano), nonché la loro reale utilità e portata.
Il passaggio chiave è dedicato alla famiglia, all’accettazione della malattia: la capacità di
riuscire a convivere con una persona che vive in un tempo diverso dal nostro; si scopre così
che spesso i disturbi più gravi e stranianti della malattia di Alzheimer, ansia, deliri, allucinazioni, nascono da rapporti famigliari problematici e caregivers impreparati. Si dice spesso che
la famiglia sia la seconda vittima della malattia, ma proprio dalla citata esperienza del Centro
della Memoria dell’ASL Biella, uno dei modi più avanzati di affrontare il problema delle
demenze, emerge che talvolta il malato è addirittura vittima due volte: della malattia e della
famiglia.
Naturalmente una Ricerca non può fare commenti, ma questi possiamo farli noi alla fine della
lettura ed io personalmente non posso non ricordare che in questi giorni è in discussione il
nuovo Piano Sanitario Regionale, nel quale non è mai citata, in nessuna sua parte, la parola
demenza e neppure Alzheimer: come nei codici di invalidità, queste patologie semplicemente
non esistono, il massimo che si concede è la condizione di “anziano fragile” (!). Nessuna patologia significa nessun finanziamento; il Potere usa il muro di gomma: chi può si arrangia, chi
non può scompare e questo temo sia proprio come accendere la miccia della bomba.
Così infine il titolo si completa da sé: “dietro la solitudine dei numeri la solitudine delle persone.
Franco Ferlisi
A.I.M.A. Sezione Biella
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1. Dati e indicatori
Non esistono fonti univoche per quantificare la diffusione nel Biellese della malattia di
Alzheimer, che può quindi essere stimata a partire dalle diverse fonti statistiche territoriali
disponibili.
In questa prima sezione della ricerca si prenderanno in considerazione dati e indicatori, provenienti da quegli enti che si occupano a vario titolo di anziani e della malattia di Alzheimer,
al fine di riportarle in un unico “quadro” e stimare così la presenza sul territorio e le risorse a
disposizione.
1.1. Il contesto demografico
In prima analisi è opportuno inquadrare le dinamiche che interessano la popolazione anziana e adulta nel Biellese, a partire dalla distribuzione per fasce di età e per comune di residenza, evidenziando le ripercussioni per quanto concerne la diffusione della malattia di
Alzheimer.
1.1.1. La popolazione adulta e anziana nel Biellese
Gli anziani sono la categoria di persone su cui si concentra maggiormente l’attenzione del
sistema sociale di welfare, essendone notevole la rilevanza socio-sanitaria e l’impatto dal
punto di vista quantitativo, accentuato dal forte squilibrio rispetto alle altre fasce di età. Le
malattie della terza e quarta età costituiscono, infatti, una sfida per i servizi sanitari e sociali, soprattutto con il sopraggiungere della condizione di non autosufficienza.
Nei paragrafi che seguono verranno esaminate in dettaglio le dimensioni demografiche del
bacino di riferimento, facendo particolare attenzione alla fascia anziana e, in seconda battuta, a quella adulta.
i. l’invecchiamento della popolazione. Appare notevole, in primo luogo, l’incremento del numero di persone anziane (oltre 65 anni di età) che sono passate da 32.390 nel 1971 alle oltre
47mila nel 2010, con un aumento pari a oltre il 45%.
Tab.1. La popolazione anziana in provincia di Biella, dal 1971 ad oggi
Anziani
in provincia di Biella
1971
1981
1991
2001
2010
32390
36513
37746
42980
47021
Fonte: Istat
Tale consistente incremento è attribuibile in primo luogo ai miglioramenti nelle condizioni di
vita e nelle possibilità di accesso alle cure mediche, favorite dallo sviluppo di servizi di prevenzione. Tali miglioramenti hanno permesso di raggiungere una speranza di vita alla nascita
che oggi è di 79 e 84 anni, per uomini e donne, rispetto a quella del 1971 che era, rispettivamente, di 69 e 72 anni.
ii. l’incidenza rispetto alle altre fasce di età. Un secondo punto di attenzione riguarda l’aumentata incidenza delle fasce di età più anziane rispetto alla popolazione complessiva, a testimoniare uno ‘sbilanciamento’ demografico che presenta notevoli ripercussioni sul versante assistenziale e sul sistema economico nel suo complesso.
Il grafico seguente mostra la ripartizione della popolazione anziana nel Biellese, secondo
cinque sotto classi di età. Mentre la popolazione giovanile (sotto i 14 anni) è pari a 22193
unità, gli ultra 65enni sono 47021, dei quali ben 14023 sono “grandi anziani”, con oltre 80
anni di età.
7
Fig.1. Popolazione residente in provincia di Biella, per fasce di età, anno 2010
Fonte: Istat, elaborazioni nostre
L’indice di vecchiaia raggiunge un valore medio provinciale di 212, molto lontano dal valore
di equilibrio (100), a significare la presenza di oltre due anziani per ogni giovane.
L’aumento dell’incidenza della popolazione anziana è anche dovuto al calo delle nascite, avvenuto a partire dagli anni Ottanta, e quindi alla diminuzione dell’attuale popolazione giovanile.
Le ripercussioni si noteranno maggiormente nei prossimi dieci-quindici anni, quando avverrà
il passaggio dei nati durante il cosiddetto baby-boom, ovvero i primi anni del secondo dopoguerra (oggi cinquantenni) nelle fascia di età anziana.
iii.gli anziani sul territorio. La distribuzione della popolazione anziana nelle diverse zone della
provincia, vede una presenza notevole nei centri maggiori, rispettando la distribuzione complessiva della popolazione nel Biellese. Per quanto riguarda invece l’incidenza, le zone in cui
è notevole la presenza relativa di persone anziane sono le valli e i comuni collinari.
La tabella seguente riporta la distribuzione complessiva e relativa degli anziani suddivisa per
ambito territoriale.
Tab.2 Anziani per ambito territoriale in provincia di Biella, al 1.1.2010
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Ambito
territoriale
65-79
80-89
90+
Anziani Totale % sul % su Adulti
popol. totale adulti
I.V.
Alta Valle
Cervo
168
61
14
243
843
28,8
47,3
514
283
Bassa Valle
Cervo e
Pralungo
1622
632
82
2336
9498
24,6
38,7
6041
208
Biella
8901
3453
533
12887
48560
26,5
42,9
30005
227
Colline
centrali
3621
1217
176
5014
20471
24,5
38,5
13010
205
Colline
orientali
1295
594
131
2020
7933
25,5
40,5
4988
218
Cossato
2723
981
106
3810
14980
25,4
39,9
9537
233
Pianura
Elvo-Cervo
4202
1368
170
5740
25317
22,7
35,0
16380
180
Serra e
Cavaglià
2327
891
120
3338
14475
23,1
35,7
9352
187
Valle Elvo
3334
1208
194
4736
19582
24,2
38,0
12478
200
Valle Strona
di Mosso
3101
1195
155
4451
16907
26,3
42,7
10414
218
Valsessera
1704
643
99
2446
8312
29,4
51,3
4765
266
Totale
32998
12243
1780
47021
186878
25,2
40,0
117484
2425
Fonte: Istat, elaborazioni nostre
La figura seguente riporta l’incidenza degli anziani, sul totale, per ogni comune. Si nota una
popolazione relativamente anziana nelle valli e nelle zone collinari, con un rischio quindi più
elevato di riscontrare criticità legate a situazioni di “disagio sommerso”, casi difficili da rilevare, influenzate anche dalle minori possibilità di cura e assistenza (soprattutto nel caso di
nuclei unifamigliari o laddove i coniugi anziani vivono senza la prossimità dei figli, come indicano i dati relativi allo sbilanciamento demografico o indice di vecchiaia).
Fig.2 Incidenza della popolazione anziana per comune della provincia di Biella, 2010 (colori più
scuri indicano una maggiore incidenza)
Fonte: Istat, elaborazioni nostre
9
iv. le prospettive future. Le previsioni per i prossimi anni sono indicative dei fabbisogni futuri.
Le tendenze sono relativamente chiare: l’invecchiamento proseguirà con l’aumento percentuale della fascia anziana, mentre la prevista diminuzione di popolazione nelle età giovaniadulte sfavorirà le possibilità di assistenza. Le previsioni demografiche permettono anche di
fornire una quantificazione a livello aggregato, molto attendibile e dettagliata, per la fascia
anziana.
Tab.3. Popolazione anziana nel Biellese, tendenze e previsioni demografiche 1991-2025
Popolazione
complessiva
Anziani
65-79
80-89
90
1991
2010
2015
2020
2025
191291
37746
27966
8765
1015
186698
47021
31125
12172
1788
184720
48778
31415
12687
2834
181691
49181
30634
13216
3291
178591
48977
31266
12818
3370
Fonte: Istat, elaborazioni nostre
La popolazione complessiva è passata, in quasi un ventennio (1991-2010), da 191mila abitanti
agli attuali 186mila, con una diminuzione del 2,4% (circa 4500 abitanti in meno).
La popolazione anziana è invece aumentata sensibilmente, da 37746 a 47021 abitanti con più di
65 anni, per un incremento del 24,5% (oltre 10mila persone).
Le tendenze demografiche mostrano una prosecuzione del trend in atto, con un’ulteriore
diminuzione della popolazione complessiva, dovuta alle conseguenze della diminuita natalità,
accompagnata da un lieve incremento della popolazione anziana, evidente soprattutto nella
fascia di età degli ultra 90enni.
1.1.2. I rischi per l’assistenza agli anziani
in condizione di non autosufficienza
Con l’aumento relativo della popolazione anziana, aumenta il rischio dell’incidenza delle
demenze e della malattia di Alzheimer. Ma le dinamiche demografiche ci indicano anche il
rischio di incorrere in maggiori difficoltà a trovare adeguato sostegno nella rete famigliare di
riferimento, a causa del forte squilibrio esistente tra la numerosità delle diverse fasce di età.
La situazione demografica vede oggi infatti una situazione di squilibrio che mette a repentaglio, in primo luogo, le possibilità di cura e di assistenza da parte delle generazioni adulte e
giovani alla componente più anziana.
Guardando alla popolazione attuale in età 25-44 anni, ovvero quella che ha genitori nella fascia
di età superiore ai 65 anni e che probabilmente dovrà occuparsi di loro nei prossimi anni, si
nota la forte diminuzione che è in corso oggi e che proseguirà anche per i prossimi due decenni. I giovani-adulti erano infatti oltre 56mila nel 1971 e sono oggi circa 49mila e saranno,
secondo le previsioni Ires Piemonte, circa 35mila nel 20251.
Tab.4. Popolazione 25-44 anni nel Biellese, anni 1971-2010
Persone in età 25-44 anni
in provincia di Biella
1971
1981
1991
2001
2010
56312
53433
53205
54274
49375
Fonte: Istat, elaborazioni nostre
1
10
Cfr. Bollettino demografico piemontese n.13, Previsioni demografiche al 2050, IRES Piemonte, Torino 2008
Le prospettive future della fascia di età adulta nel suo complesso (18-64 anni), considerando
il perdurare a livelli attuali dei flussi migratori (al momento relativamente poco consistenti),
sono le seguenti:
Tab.5. Popolazione 18-64 nel Biellese, andamento e previsioni, anni 1995-2025
Adulti
1995
2010
2015
2020
2025
128636
117483
114424
111844
108985
Fonte: Istat, elaborazioni nostre
Analogamente, l’indice di dipendenza della popolazione, che misura il grado di “carico” sulla
popolazione adulta delle fasce di età da essa dipendenti, passerà dall’attuale valore di 58 a
circa 65 nel 2025, un altro indicatore che segnala le difficoltà che già oggi gravano e che
aumenteranno in relazione all’assistenza degli anziani da parte della popolazione adulta.
L’inquadramento demografico permette di collegarsi al tema della sostenibilità del sistema
sociale e dei servizi socio-sanitari nel loro complesso, posti sotto tensione in primo luogo
dalla crescente longevità delle persone anziane, dalle dinamiche demografiche sopra delineate e dalla maggiore incidenza e durata del periodo della non autosufficienza, ma anche dal
punto di vista delle risorse necessarie per intervenire sulla non autosufficienza e sulla condizione di disabilità che colpisce le persone anziane.
In particolare, la tensione si rifletterà sull’asse residenzialità vs domiciliarità, in un contesto
in cui “l’andamento della spesa per long term care dipende sensibilmente dalle scelte di erogazione da parte dell’operatore pubblico (ovvero da quanta parte delle domande individuali lo
Stato decida di soddisfare mediante la propria offerta), le quali sono influenzate anche da
numerosi fattori di tipo socio-economico, quali l’evoluzione del ruolo della famiglia e la crescita della partecipazione lavorativa delle donne, le principali fornitrici di assistenza informale agli anziani”2. A tale proposito, oltre allo squilibrio demografico sopra ricordato, va aggiunto anche il fatto che il tasso di occupazione femminile nel Biellese è decisamente elevato, al
di sopra della media regionale e nazionale, con il 60,7% di donne lavoratrici sul totale, nella
fascia di età attiva (15-64 anni). L’impatto sulle relazioni sociali e sui costi delle cure non è al
momento chiaro: spingere sulla domiciliarità infatti può bastare se le reti famigliari e sociali
sono attive; se tali reti saranno assenti o carenti, come il quadro demografico e previsionale
sopra delineato appare suggerire, le soluzioni per la non autosufficienza potranno essere:
-ulteriore rafforzamento del ruolo di assistenza e cura delle badanti, magari con il relativo sviluppo di centri semi residenziali;
- potenziamento dei servizi di sollievo per chi si occupa a domicilio delle persone malate, sia
mediante centri diurni ma anche “letti di sollievo” o strutture per il supporto notturno o nei
giorni non lavorativi;
-necessità di ripristinare le reti di relazione primaria, e valorizzare, ove possibile, le reti sociali di supporto ai caregiver, nella previsione di uno sfilacciamento ulteriore delle reti famigliari;
-mantenimento delle risorse residenziali esistenti, quali modalità rilevante per la cura degli
anziani, sulla base dell’attuale contesto: lontananza o assenza di caregiver, figli con necessità lavorative prioritarie, assenza o carenza di adeguati servizi alla domiciliarità.
1.2. Stime della malattia
L’incidenza indica il numero di nuovi casi di malattia, in un anno, nella popolazione di riferimento; è quindi una misura del rischio di contrarre la malattia.
La prevalenza della malattia indica invece la presenza di pazienti portatori della malattia e
informa quindi della diffusione della malattia stessa tra la popolazione.
2
M.Raitano, Invecchiamento e crescita dei consumi sanitari, CERDEF, 2006
11
Entrambi i valori sono stimabili, in quanto non vi sono fonti di dati certe per completare questa conoscenza.
Nel Biellese è possibile proporre una stima della prevalenza a partire dai riscontri della letteratura scientifica.
A questo proposito, occorre in primo luogo fare riferimento alla diffusione delle demenze,
sulle quali ci sono valori di stima più attendibili e consolidati. In seguito, è possibile conoscere la diffusione della malattia di Alzheimer facendo riferimento alle demenze, di cui essa
è la principale forma.
1.2.1. Le demenze nel Biellese: prevalenza
Le demenze possono essere degenerative (Alzheimer, Lewy Body Disesase, frontali – pick o
fronto-temporali), vascolari (corticali – multi-infartuali, sotttocorticali), infettive (encefalopatia), spongiforme (Creutzfeld-jacob) o di altro tipo (Processi espansivi).
La prevalenza delle demenze, secondo Alzheimer Europe3, è la seguente:
Tab.6. Prevalenza delle demenze per fasce d’età (oltre 60 anni) e genere
Uomini
Donne
Totale
60-64
65-69
70-74
75-79
80-84
85-89
90-94
>95
0,2
0,9
0,6
1,8
1,4
1,6
3,2
3,8
3,5
7
7,6
7,4
14,5
16,4
15,7
20,9
28,5
26,2
29,2
44,4
41
32,4
48,8
46,3
Fonte: Alzheimer Europe
Mentre secondo il gruppo di ricerca EURODEM4:
Tab.7. Prevalenza delle demenze per fasce d’età (oltre 30 anni) e genere
Uomini
Donne
30-59
60-64
65-69
70-74
75-79
80-84
85-89
90-94
>95
0,16
0,09
1,58
0,47
2,17
1,1
4,61
3,86
5,04
6,67
12,12
13,5
18,45
22,76
32,1
32,25
31,58
36
Fonte: Eurodem
Come si nota, i valori per classi di età per le due fonti sono differenti ma simili. Si utilizzerà in
seguito Eurodem per stimare il valore della prevalenza delle demenze nel Biellese.
Applicando i valori alle classi di età della popolazione in provincia di Biella (al 1.1.2010) si
ottiene il seguente risultato:
Tab.8. Prevalenza delle demenze per fasce d’età in provincia di Biella
popolazione con
demenza, maschi
60-64
65-69
70-74
75-79
80-84
85-89
90>
tot.
98
120
239
201
314
247
114
1333
3
Alzheimer Europe è un’organizzazione che raggruppa associazioni che si occupano di Alzheimer in 30 paesi
europei. Si veda: http://www.alzheimer-europe.org/
4
EURODEM Incidence Research Group and Work Groups. European Studies of Dementia.
Si veda: http://ec.europa.eu/health/major_chronic_diseases/diseases/alzheimer/index_en.htm
12
popolazione con
demenza, femmine
30
67
246
384
662
773
458
2620
popolazione con
demenza, totale
128
187
485
585
976
1020
572
3953
Fonte: Eurodem, elaborazioni nostre
Si ottiene una stima di circa 4mila persone affette da demenza, concentrate nella fascia di età
80-84 anni e 85-89 anni, come riassume il grafico che segue:
Fig.3 Stima di persone affette da demenza, per fasce di età, Provincia di Biella 2010
Fonte: Eurodem, elaborazioni nostre
1.2.2. La malattia di Alzheimer nel Biellese: prevalenza
La malattia di Alzheimer riguarda la maggior parte delle situazioni di demenza. Applicando la
quota del 5-7% alle persone anziane presenti (47012) significa quantificare nel Biellese un
numero di malati che si aggira intorno alle 2.820 persone.
Un’altra indagine di rilievo europeo (Dementia in Europe Yearbook 20105) arriva a calcolare la
prevalenza della malattia di Alzheimer pari al 6,17% della popolazione anziana. Nel Biellese,
applicando tale stima, si ottiene la presenza di 2899 persone malate di Alzheimer.
Approssimando tra le due stime possiamo ragionevolmente proporre il valore di 2850 malati
di Alzheimer nel Biellese, su un totale di circa 4mila persone affette da demenza.
Tab.9. Stima della diffusione della Malattia di Alzheimer nel Biellese
Persone anziane nel Biellese
Stima delle demenze (Alz.Europe)
Over 65 anni
Over 80 anni
47021
2568
14023
1385
Di cui malati Alzheimer nel Biellese
2850
Fonte: Alzheimer Europe, elaborazioni nostre
5
http://www.alzheimer-europe.org/Publications/Dementia-in-Europe-Yearbooks.
Il rapporto contiene anche il documento “Alzheimer Europe Annual Report”
13
Nel convegno organizzato nel maggio 2011 dall’ASL BI “Incontri biellesi sulla malattia di
Alzheimer” è stata proposta una stima che converge con tali valori. In particolare, il direttore
di distretto Dr. Michele Sartore ha individuato la stima di malati di Alzheimer nell’intervallo
compreso tra 1413 e 3379 unità, facendo riferimento al territorio dei due distretti dell’ASL BI,
leggermente più ridotto di quello provinciale.
All’interno del quadro delineato è possibile andare ad esaminare i numeri reali riscontrabili
da fonti differenti nel territorio Biellese. Le fonti utilizzate sono state l’AslBi, il CSI Piemonte,
le strutture residenziali per anziani e il Consorzio socio-assistenziale Iris.
1.3. Analisi dei dati rilevati dal data base
delle invalidità civili del CSI
Nel presente paragrafo si fornisce una lettura dei dati relativi alle certificazioni di invalidità
civile.
La certificazione di invalidità civile è una procedura che prevede l’interazione tra l’ente preposto alla salvaguardia della salute (l’ASL) e l’ente preposto alla previdenza sociale (l’INPS).
Questa sovrapposizione rende talvolta difficoltosa la comprensione di questa procedura da
parte delle famiglie.
Da un lato, infatti, la certificazione di invalidità civile (che si misura in punti percentuali) può
consentire l’accesso ad alcune prestazioni relative in senso stretto alla salute, come la possibilità di usufruire di protesi ed ausili forniti dall’azienda sanitaria.
Resta inteso che non tutte le prestazioni sanitarie sono sottoposte a questo vincolo di accesso.
Pensiamo ad esempio all’assistenza domiciliare integrata (ADI) che vede interagire operatori dell’Asl e dei servizi sociali per poter dare un sostegno concreto in situazioni domiciliari
altamente critiche.
Per l’attivazione dell’ADI è del tutto indifferente che l’utente abbia un’invalidità civile certificata, tant’è che nel data base in cui vengono registrate le ADI non è presente per il 2010 nessuna segnalazione in merito.
Per quanto riguarda invece l’aspetto previdenziale che fa capo all’INPS, la certificazione di
invalidità civile può consentire l’accesso ad un beneficio economico e ad un beneficio di
sostegno. Il linguaggio che gli utenti sono chiamati a comprendere è fatto di termini come
‘assegno di invalidità’, ‘assegno di accompagnamento’ e ‘benefici della legge 104’.
Quest’ultimo tipo di beneficio diventa particolarmente interessante perché mette in campo
anche l’interazione con i servizi sociali.
Dal 2010 la collaborazione tra Asl e INPS si è fatta più stretta. Da una parte i medici di base
sono stati inviatati a inviare direttamente all’INPS (in via telematica) le richieste di valutazione per accedere alla certificazione e dall’altra parte ad ogni commissione di valutazione
prende parte anche il medico dell’ente previdenziale.
È cruciale in questo contesto capire quale utilità può avere per un malato di Alzheimer ottenere una certificazione di invalidità civile con l’esatta codificazione di questa patologia. I
medici di base per primi non sono ferrei sostenitori dell’importanza di questa segnalazione
specifica.
Una posizione in qualche modo debole che trova però anche ragione d’essere nella convinzione di alcuni che la comunicazione della diagnosi (e quindi allo stesso modo la sua indicazione nei documenti sanitari) sia un’inutile sofferenza arrecata al malato.
La constatazione della scarsa utilità attribuita alla codificazione della malattia in sede di invalidità civile nasce dall’evidenza dei dati che mostrano una scarsissima presenza di malati di
Alzheimer tra le certificazioni. Dal 2008 al 2010 nell’Asl Bi sono stati registrati un totale di 47
certificazioni afferenti all’AD (Alzheimer Disease), con un notevole calo a chiusura del triennio (solo 8 nel 2010).
14
Tab.10. AD nelle certificazioni di invalidità civile nel Biellese
Malattia di Alzheimer nelle i.c.
2008
2009
2010
19
20
8
Fonte: CSI Piemonte, elaborazioni nostre
Da un punto di vista strettamente numerico è evidente che il dato delle invalidità civili non è
per nulla rappresentativo della presenza sul territorio dei cittadini affetti da questa patologia.
Prendendo come valore indicativo 20 (una media assolutamente per eccesso considerando
l’ultimo triennio) si potrebbe calcolare in 200 negli ultimi 10 anni la presenza di malati di
Alzheimer sul territorio dell’Asl Bi. Una cifra che non ha nulla a che vedere con le stime, già
delineate nei precedenti paragrafi, della reale situazione della malattia.
Per quanto riguarda la medesima certificazione per chi è affetto dal Morbo di Parkinson i
numeri riscontrati nel triennio sono i seguenti: dal 2008 al 2010 le certificazioni di invalidità
civile sono state in totale 194, registrando una tendenza in lieve aumento (48-68-78).
Una registrazione più ‘semplice’ è quella delle demenze che sono state causate da patologie
vascolari, anche se il data base delle invalidità civili mostra un notevole calo di queste patologie ne triennio preso in considerazione (48-22-11, i numeri registrati dal 2008 al 2010).
Il dato che invece mostra una crescita consistente e con numeri maggiormente significativi è
quello relativo ad una codificazione più generica che viene identificata come ‘senilità’. Si tratta di una formula scelta spesso anche per chi ha la Malattia di Alzheimer. Le demenze senili
sono riconducibili per circa il 60% ad Alzheimer Desease.
Nel grafico che segue proponiamo un confronto tra le patologie afferenti alla demenza per
quanto riguarda le certificazioni di invalidità civile nel triennio 2008-2010.
Fig.4. Principali forme di demenza nelle i.c. nel Biellese, anni 2008-2010
Fonte: CSI Piemonte, elaborazioni nostre
15
Si prendono ora in esame alcune caratteristiche socio-demografiche di chi ha ottenuto l’invalidità civile per patologie riconducibili alle principali forme di demenza.
Si tratta perlopiù di donne, in età avanzata (il dato sull’età non aggiunge però informazioni
utili), e in prevalenza vedove.
Fig.5. Diagnosi di demenza nelle i.c. nel Biellese per genere ed età
Fonte: CSI Piemonte, elaborazioni nostre
Tav.3. Diagnosi di demenza nelle i.c. nel Biellese per genere e stato civile
Fonte: CSI Piemonte, elaborazioni nostre
In sintesi i dati delle invalidità civili mostrano nel triennio 2008-2010 solo 47 certificazioni codificate come Malattia di Alzheimer. Supponendo però che un 60% delle demenze senili sia
riconducibile all’AD è possibile calcolare ulteriori 268 casi, raggiungendo un totale di 315. Un
valore che mette in luce il mancato accesso di molti malati a benefici sanitari e di sostegno.
16
1.4. Strutture residenziali e centri diurni
1.4.1 Le strutture sul territorio
Il territorio biellese vede la presenza di un significativo numero di strutture residenziali.
Le case di riposo in provincia sono infatti ben 39, di cui 35 sono iscritte nell’Albo fornitori
dell’Azienda Sanitaria e consentono l’accesso per gli utenti a quote in convenzione.
Il totale dei posti letto delle strutture è di circa 2300 (si veda la tabella seguente). Le strutture convenzionate possono accogliere circa 1500 ospiti anziani, di cui meno della metà beneficia ad oggi di un finanziamento della quota sanitaria.
Tale valore appare relativamente elevato se consideriamo il parametro del “numero di posti
letto sul totale degli anziani”, che è pari a 1,98 a livello nazionale, arriva a 3,68 per il Piemonte
ed è di 5,60 per l’ASL BI. Nel recente Piano della residenzialità si afferma che: “Esiste nel territorio biellese una straordinaria dotazione di posti letto per anziani non autosufficienti (il
quadruplo rispetto al torinese, il doppio rispetto alla media regionale” (pag.42).
Nel territorio dell’Asl Bi i posti letto in strutture residenziali per ospiti con un bisogno assistenziale alto (RSA) sono 328 a cui si possono aggiungere i 1192 posti letto in strutture che
forniscono servizi di media e bassa intensità (RAF).
Le strutture residenziali suddivise per comune, sono le seguenti:
Tab.11. Strutture residenziali nel Biellese, per comuni e disponibilità posti
Denominazione Struttura
Comune
Posti
A.S.S.S.A. Pensionato per Anziani “Casa del Sorriso”
Associazione Casa per Anziani Simonetti Onlus
Associazione Pro Casa di Riposo Brusnengo
Associazione Soggiorno Anziani Favaro Onlus
Casa Anziani Cooperativa Sociale di Sandigliano ar.l.
Casa di Riposo “Borsetti Sella Facenda”,
Opera Pia Guelpa
Casa di Riposo “Gallo”
Casa di riposo “S. Rita” di M.Teresa Michel
Casa di Riposo Comotto
Casa di Riposo di Graglia e Muzzano Onlus
Casa di Riposo Emilio Reda
Casa di Riposo St. Eusebio
Casa Ospitaliera Nostra Signora d’Oropa Onlus
Casa Soggiorno anziani Gaglianico
Cooperativa Servizi Sociali del Vandorno Onlus
Fondazione Casa di Riposo “Domus Tua”
Fondazione Opera Assistenza Infermi
“Giuseppina e Pier Giorgio Frassati” Onlus
Infermeria “Cesare Vercellone”
Infermeria San Carlo
Istituto Belletti Bona
La Baraggia srl
La Palazzina
Opera Assistenza SS. Immacolata “O.A.S.I.” - ONLUS
Opera Pia A. E. Cerino Zegna Onlus
Opera Pia Assistenza Ammalati a Domicilio
e Casa di Riposo Pozzo Ametis
Andorno Micca
Netro
Brusnengo
Biella
Sandigliano
61
50
64
24
25
Mosso
Cossato
Villa del Bosco
Vigliano Biellese
Graglia
Valle Mosso
Camburzano
Sordevolo
Gaglianico
Biella
Tollegno
52
54
89
56
56
58
78
61
30
29
38
Pollone
Cavaglia`
Masserano
Biella
Candelo
Salussola
Biella
Occhieppo Inferiore
59
44
52
157
40
54
100
154
Occhieppo Superiore
47
17
Opera Pia Luigi Ciarletti
Piccola Casa della Divina Provvidenza “Cottolengo”
Residenza Assistenziale per Anziani di Ponderano
Residenza Città del Sole
Residenza Mary Zegna
Residenza per Anziani “Maria Grazia” di Lessona
Residenza Villa Poma
RSA “Adele Mora e Cerruti Sola Eugenio”
RSA “Madonna Dorotea”
RSA/RAF “San Bernardo”
San Marco S.R.L. Hotel “Il Sole”
Sereni Orizzonti “Casa Albert”
Soggiorno Il Giardino
Soggiorno Sereno R.A.A.
Pralungo
Biella
Ponderano
Dorzano
Trivero
Lessona
Miagliano
Mezzana Mortigliengo
Bioglio
Trivero
Pollone
Viverone
Ronco Biellese
Lessona
50
157
24
68
48
63
46
36
20
34
33
120
28
34
Fonte: Prontuario Anziani, AslBi
Sul territorio biellese è presente anche una specifico nucleo residenziale per persone con
Malattia di Alzheimer, realizzato all’interno del Cerino Zegna, con una capienza di 20 posti.
L’offerta delle strutture si completa con quelle di tipo semi-residenziale che offrono un servizio giornaliero di assistenza alla persona anziana. Questo tipo di strutture sono più comunemente conosciute come “centri diurni” e si possono suddividere in tre tipi: centri diurni (CD),
centri diurni integrati (CDI) e Centri diurni Alzheimer (CDA). La capienza di queste strutture
nel Biellese è di 171 ospiti.
Nel paragrafo seguente si prende in esame l’effettiva presenza di pazienti affetti da Alzheimer.
1.4.2 La presenza di malati di Alzheimer
e altre demenze nelle strutture
Un ulteriore indicatore della numerosità delle persone affette dalla Malattia di Alzheimer o da
demenze è dato dalla loro presenza nelle strutture residenziali. Abbiamo perciò condotto una
rilevazione sugli ospiti delle case di riposo prendendo il 2010 come anno di riferimento.
La rilevazione ha raccolto le informazioni di 25 strutture, nelle quali è stata segnalata la presenza nel 2010 di 141 ospiti con diagnosi di Alzheimer (dati di flusso). Per la gran parte donne
(77%) e con un’età superiore agli 80 anni (60%).
Per quanto riguarda una diagnosi più generica di demenza i numeri salgono a 462 (dati di flusso nell’arco dell’anno 2010), mantenendo però in linea le proporzioni sia in relazione alla componente femminile che alla classe di età (per entrambi circa 80%).
Sui 2300 posti letto disponibili nelle strutture residenziali si può calcolare che a gennaio 2011
(dati di stock) circa 140 fossero occupati da persone con Alzheimer e circa 767 destinate a persone con altre demenze6.
Tab.12. La diffusione dell’AD nelle strutture residenziali
Totale posti letto in casa di riposo
2300
Malati di Alzheimer in casa di riposo al 01/01/2011 stimati a partire dalla rilevazione
140
Malati di demenza in casa di riposo al 01/01/2011 stimati nella rilevazione
767
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
6
18
La stima è calcolata a partire dai dati del campione mettendoli in relazione con i posti letto totali nelle strutture del Biellese
1.5. La domiciliarità
Dagli archivi cartacei del Consorzio socio-assistenziale IRIS sono state estratte informazioni (anonime ed elaborate in forma aggregata) relativamente alle persone malate di Alzheimer
o colpite da altre forme di demenza. In particolare, la selezione comprende anche quei casi di
decadimento mentale moderato o grave, non riconducibili ad altre patologie correlabili (sono
quindi state escluse le situazioni di decadimento dovuto a malattie celebro vascolari, ischemia o ictus ecc. ma anche situazioni correlabili al decadimento senile, accompagnate da sordità/cecità, osteoporosi, dialisi ecc.
Si è focalizzata l’attenzione quindi soltanto sulle malattie strettamente riconducibili a forme
di demenza, diagnosticate in alcuni casi come Alzheimer o Parkinson.
La selezione ha portato a raggiungere un “campione” significativo, costituito da 122 persone,
attualmente seguite dal Consorzio socio-assistenziale, capace di restituire un quadro sulle
seguenti variabili:
• caratteristiche della persona malata (età, genere, comune o zona di residenza)
• caratteristiche del caregiver (legame di parentela con il malato, età, genere, presenza o
assenza di altre figure di riferimento)
• situazione abitativa (convivenza, presenza di un’assistente famigliare)
Il quadro che ne deriva costituisce un’importante fonte conoscitiva, relativa ad un fenomeno
(le persone malate assistite a domicilio) altrimenti molto difficile da intercettare e descrivere in modo puntuale e “oggettivo”.
Le caratteristiche delle persone malate
Il “campione” di malati con demenze e decadimento mentale moderato e grave seguiti a
domicilio mostra la seguente distribuzione, con il prevalere di situazioni di decadimento
mentale grave (pari al 42%), forme di demenza diagnosticata (Alzheimer o Parkinson, pari al
31%) o altre forme di decadimento mentale moderato (27%).
Fig.7. Principali forme di demenza degli utenti inseriti in progetti di domiciliarità del Consorzio Iris
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
La componente femminile è nettamente prevalente, nel complesso, con 96 casi su 122, pari al
79% del totale. Fa eccezione la malattia di Parkinson che vede una situazione equilibrata tra i
generi.
19
Tab.13. Principali forme di demenza degli utenti inseriti in progetti di domiciliarità del
Consorzio Iris, distribuzione per genere
F
M
Totale
Alzheimer
D.M. Grave
D.M. Moderato
Parkinson
18
42
27
9
3
9
6
8
21
51
33
17
Totale
96
26
122
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
La distribuzione per età evidenzia quale fascia di età modale complessiva quella dagli 85 agli
89 anni.
Tab.14. Principali forme di demenza degli utenti inseriti in progetti di domiciliarità del Consorzio Iris, distribuzione per età
56-64
65-74
75-79
80-84
85-89
90-94
›95
Tot.
Alzheimer
D.M. Grave
D.M. Moderato
Parkinson
1
3
0
0
3
1
1
6
7
4
2
2
4
11
6
6
4
15
15
1
0
12
9
2
2
5
0
0
21
51
33
17
Totale
4
11
15
27
35
23
7
122
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
Si notano tuttavia significative differenze tra le diverse malattie. In particolare, le persone malate di Alzheimer appaiono relativamente più giovani, nel complesso, con una fascia di età modale di 75-79 anni. L’analisi dello stato civile degli utenti delinea la presenza di una differenziazione di genere: da un lato, vi sono molte donne in situazione di vedovanza, mentre per gli uomini
prevale la condizione di coniugato (spiegabile con la maggiore longevità delle donne).
Tab.15. Principali forme di demenza degli utenti inseriti in progetti di domiciliarità del
Consorzio Iris, distribuzione per stato civile
Maschi
Femmine
Totale
Celibe/nubile
Coniugata/o
Divorziata/o
Vedova/o
2
19
1
2
9
17
2
68
11
36
3
72
Totale
24
96
122
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
La distribuzione sul territorio, infine, evidenzia una copertura abbastanza omogenea per ambiti, con il leggero prevalere del capoluogo Biella (considerando la numerosità del campione,
non è significativo confrontare con la popolazione anziana di ogni zona).
20
Fig.8. Principali forme di demenza degli utenti inseriti in progetti di domiciliarità del
Consorzio Iris, distribuzione per area territoriale
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
Le caratteristiche dei caregiver
Le persone malate che vivono in situazione di domiciliarità devono contare su una o più figure di riferimento, le quali costituiscono la fonte fondamentale di aiuto ed assistenza per le
principali funzioni della vita quotidiana che con la malattia sono andate perdute.
I caregiver di persone con decadimento mentale e demenze, quali Alzheimer o Parkinson, sono
in prevalenza parenti molto prossimi (nel 72% dei casi sono i figli, nel 19% dei casi è il coniuge), per la maggior parte in età compresa tra i 50 e 70 anni (il 64%) e in ogni caso sono soprattutto di genere femminile (68%).
Fig.9. Grado di parentela dei caregiver degli utenti inseriti in progetti di domiciliarità del Consorzio Iris
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
21
Per quanto riguarda il genere, il fatto che le persone malate siano in prevalenza donne vedove sposta i compiti di assistenza, necessariamente, sui figli. In particolare sono le figlie ad
assumersi tale onere. Il carico assistenziale riguarda infatti per il 68% donne e soltanto nel
32% dei casi coinvolge uomini.
La distribuzione per età dei caregiver delinea un altro aspetto importante, quello dell’onere e
dei carichi assistenziali che ricadono su persone di età relativamente elevata. Esattamente la
metà dei caregiver ha infatti un’età superiore ai 60 anni, e quasi uno su cinque ha oltre 70 anni.
Fig.10. Distribuzione per età dei caregiver degli utenti inseriti in progetti di domiciliarità del
Consorzio Iris
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
Il carico di assistenza può essere condiviso o supportato da più famigliari, quali reti di sostegno che si prendono cura della persona malata. Esaminando questo specifico aspetto con
l’osservazione del numero di altri parenti disponibili per ogni malato, si riscontra un discreto
numero di situazioni di buona collaborazione ma anche situazioni molto critiche da questo
punto di vista. In particolare sono numerose le situazioni di assenza di qualsiasi altra figura
di riferimento oltre al caregiver (nel 20% dei casi, pari a una persona malata su cinque) oppure di presenza di soltanto un’altra persona oltre al caregiver (nel 38% dei casi).
Fig.11. Presenza di altri parenti nella cura della persona con demenza, progetti di domiciliarità del Consorzio Iris
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
22
La situazione di debolezza della rete famigliare esistente attorno alla persona malata è quindi ben rappresentata dal fatto che oltre al caregiver nella maggior parte dei casi c’è soltanto
un’altra persona disponibile, oppure nessuna.
Esaminando meglio la condizione di quei caregiver che sono le uniche figure di riferimento
rimaste ad occuparsi della persona malata, emerge un’età media tra i 55 e 64 anni, con alcune
situazioni particolarmente critiche per quei caregiver con oltre i 65 anni. Nella maggior parte
dei casi, tuttavia, questi caregiver isolati sono supportati da una o più assistenti famigliari che
si occupano della persona malata per alcune ore al giorno oppure in modo continuativo.
L’assistenza a casa
La scelta di ricorrere ad un aiuto proveniente da assistenti famigliari nella domiciliarità
riguarda quasi la metà (49%) dei casi di demenza riscontrati, senza alcuna correlazione significativa con altre variabili quali l’età (non si registra un incremento della scelta della “badante” con l’aumentare dell’età della persona malata), il tipo di malattia o il numero di altri parenti disponibili.
La condizione abitativa mostra, com’è logico immaginare, una prevalenza quasi assoluta di
situazioni di convivenza, anche se possono esserci alcuni casi di persone che vivono sole (ma
i caregiver risiedono nello stesso stabile, al piano superiore o nelle immediate vicinanze).
Fig.12. Scelte abitative degli utenti dei progetti di domiciliarità del Consorzio Iris
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
Nessuna differenziazione si nota nel confronto con il tipo di malattia, dove prevale sempre la
situazione di convivenza con il caregiver.
Tab.16. Scelte abitative degli utenti dei progetti di domiciliarità del Consorzio Iris
Convivenza
Sola
Sola con badante
Totale
Alzheimer
Grave
Moderato
Parkinson
12
36
20
13
4
5
9
2
5
10
4
2
21
51
33
17
Totale
81
20
21
122
Fonte: rilevazione ad hoc per l’indagine
23
La presenza della “badante”, analogamente, non è correlata al tipo di malattia.
L’analisi della rilevazione consente di soffermarsi su tre specificità, proprie della situazione
di domiciliarità.
i. Una scelta di genere. In primo luogo, la persona che si impegna nell’assistenza del malato è
in prevalenza una donna, figlia o moglie. Si tratta spesso di scelte famigliari, probabilmente
legate alla nota differenziazione culturale di genere, molto rilevanti e in alcuni casi “dolorose”, al punto da comportare la fuoriuscita anticipata della donna dal mondo del lavoro, un’auto esclusione temporanea che, vista l’età relativamente elevata degli stessi caregiver, rischia
in alcuni casi di diventare permanente. Si registrano situazioni in cui una donna sessantenne
assiste la madre da una decina d’anni ma per affaticamento chiede l’aiuto di una badante,
anche soltanto per alcune ore al giorno; non raramente si verificano casi in cui la moglie decide di licenziarsi per poter assistere il marito malato; con meno frequenza, si regisrtano casi
in cui la figlia, perduta l’occuazione nella recente crisi, decide di prendersi cura a tempo pieno
del genitore invalido.
ii. La scelta dettata dalla crisi occupazionale. L’assistenza prestata da parenti lavoratori colpiti
dalla recente crisi, incide notevolmente sulle loro possibilità di ritorno al lavoro. La difficoltà
di trovare una nuova occupazione e, al contempo, la possibilità di risparmiare le spese per l’assistente famigliare, conducono alla scelta di sostituirsi nel ruolo di cura delle badanti e rimandare il proprio reinserimento lavorativo.
Così, una figlia lasciata a casa nel 2009, l’ annus horribilis del lavoro nel Biellese, sceglie di
sostituire la badante nella cura della madre, con un giovamento di tipo economico nel breve
periodo, ma un evidente rischio sulla propria situazione futura.
D’altronde, il costo per l’assistenza è elevato e le spese dell’assistenza famigliare finiscono
per incidere notevolmente, anche in presenza di ammortizzatori sociali. Può succedere che un
figlio, rimasto disoccupato, decida di prendersi cura della madre, facendosi però aiutare da
un’assistente famigliare. Il bilancio tipico di questa situazione può essere di questa entità: da
un lato, i redditi della persona malata possono essere la propria pensione da lavoro, quella di
reversibilità del marito, a cui si può aggiungere l’assegno di accompagnamento. In questi casi
si registrano entrate mensili pari a circa 1400-1500 euro. Le uscite sono composte dalle spese
per l’abitazione (in media 500-600 euro mensili) e dell’assistente famigliare, intorno ai 900
euro. Le situazioni prevalenti sono connotate da questa forte fragilità, per le quali basta una
spesa imprevista a far precipitare la situazione.
Iii. Il ruolo del vicinato. Un elemento importante, ancorché presente in maniera non omogenea
sul territorio, è il ruolo di supporto che può essere ricoperto dalla rete di prossimità e di vicinato. Soprattutto nei piccoli centri, si registrano prassi di aiuto informale esterni alla rete
famigliare, che costituiscono un importante sollievo per il caregiver. Ad esempio, si possono
riscontrare situazioni in cui la persona malata necessiti di assistenza e di cure continuative,
normalmente fornite dai famigliari negli orari non lavorativi, a cui si affianca una rete amicale attiva, formata dal vicinato, che collabora con la famiglia ai fini della vigilanza.
In altri casi, si può trattare anche di attività di cura vera e propria, come nei casi in cui il malato viene curato dal coniuge anziano, mentre i figli abitano lontano e possono essere presenti
soltanto saltuariamente, e da una vicina amica di famiglia, la cui presenza solleva molto il
coniuge nella cura.
1.6. L’impatto sulle famiglie e sulle donne
L’impatto della malattia di Alzheimer, come descritto anche nel paragrafo precedente, è particolarmente rilevante sulla fascia di età anziana ma anche sulle famiglie, dove spesso il care-
24
giver è poco supportato nella cura dalla rete famigliare e presenta a sua volta rischi connessi
all’età o alla situazione di forte carico assistenziale.
Proviamo qui a quantificare l’impatto della malattia sulle famiglie biellesi. Sappiamo che le
famiglie nel Biellese sono 84030 al 31.12.2010, di cui 21572 nella sola città di Biella, e il numero
medio di componenti per famiglia è di 2,19.
Sappiamo anche che interviene il fattore “solitudine”, poiché nelle età più anziane il rischio di
essere soli risulta molto elevato. Secondo l’ultimo censimento, le persone sole sono 24214 in
tutta la Provincia e tra queste “sono 13mila le persone ultra 75enni potenzialmente sole”7. Per
questo motivo, il caregiver diventa più facilmente un figlio (o meglio, una figlia) nel caso in cui
il malato sia vedovo, oppure quando il coniuge è a sua volta malato o troppo anziano per prendersene cura: secondo l’indagine Aima-Censis in quasi due casi su tre (64%) è uno dei figli ad
occuparsi del malato, in un’età compresa nella fascia 46-60 anni; secondo la nostra rilevazione,
il caregiver è nel 72% dei casi un figlio, per la maggior parte di età compresa tra i 50 e 70 anni.
In alternativa, il caregiver è solitamente il coniuge, quando la sua condizione gli consente di
prendersi cura della persona malata: si tratta del 25% dei casi a livello nazionale e nel 19% dei
casi nell’indagine svolta a livello locale.
Per quanto riguarda l’impatto sulle famiglie, occorre in primo luogo specificare come esso
ricada soprattutto sulle donne, nel 76,6% dei casi a livello nazionale, secondo AIMA – Censis,
e nel 68% dei casi secondo la nostra rilevazione sulla domiciliarità: in sostanza, in 7 casi su 10
ad occuparsi della persona malata di Alzheimer è una donna, soprattutto le figlie ma anche le
mogli dei malati. Secondo l’indagine Aima-Censis: “Si osserva la tendenza per cui, nel caso
di pazienti uomini, ad occuparsi di loro sono soprattutto i parenti di genere femminile. (…) A
proposito del carico assistenziale sopportato dalle donne della famiglia, e in particolare dalle
figlie, va sottolineato come queste siano molto spesso caregiver che convivono con i pazienti
e dunque con i loro genitori, con tutte le implicazioni esistenziali che una circostanza del
genere può comportare: in particolare nel 26,2% dei casi il caregiver è una figlia che convive
con il genitore malato e nel 15,2% si tratta di figlie caregiver che oltre a convivere e ad occuparsi del loro genitore malato sono anche sposate, e dunque vedono sommarsi il carico assistenziale e quello di cura famigliare”8.
Queste considerazioni ci permettono di affrontare e stimare l’impatto della malattia sulle
famiglie. Ipotizzando che ogni malato faccia capo ad una famiglia di riferimento e considerando la stima, già riportata nel cap.1.1.2, di circa 2500 malati di Alzheimer nel Biellese, possiamo arrivare a quantificare oggi, oltre alla persona malata, un coinvolgimento diretto di altre
2975 persone, ovvero i famigliari prossimi (soprattutto coniugi e figli). Si tratta così di 5.475
persone direttamente coinvolte dalla malattia. Considerando i caregiver, abbiamo visto come
in due casi su tre si tratti dei figli e in un caso su cinque, circa, del coniuge.
In sintonia con quanto esaminato nella sezione sulla domiciliarità, il famigliare che se ne
occupa in modo prioritario è soprattutto una figlia oppure il coniuge. Si possono così quantificare circa 2100 figli caregiver nel Biellese e 600 coniugi caregiver.
Considerando i figli della persona malata (stimabili in circa 2082 unità, pari al 70% di tutti i
caregiver), sappiamo che oltre ad essere caregiver hanno un’altra famiglia, con le relative
necessità di cura. I figli e le loro famiglie possono essere stimati in altre 4560 persone (2082
figli, moltiplicati per 2,19, ovvero il numero medio di componenti per famiglia).
L’impatto della malattia si può quindi estendere anche a questi componenti dei nuclei famigliari dei figli, per un totale di altri famigliari di 2477 persone.
Si raggiunge quindi un valore complessivo relativamente ampio che dimostra come la malattia d Alzheimer vada a coinvolgere ed avere ripercussioni direttamente sui caregiver, ma anche
sulle loro famiglie, indirettamente, per un totale di 7952 persone nel Biellese. L’impatto della
malattia di Alzheimer nel Biellese è quindi quantificabile nel 4,3% della popolazione complessiva. La tabella che segue sintetizza il ragionamento svolto sinora.
7
8
Intervento di Michele Sartore, al convegno Incontri Biellesi sulla malattia di Alzheimer, 12 maggio 2011
La vita riposta: i costi sociali ed economici della malattia di Alzheimer, Aima-Censis, 2007, pagg.49-50
25
Tab.17. Stima delle persone coinvolte dalla Malattia di Alzheimer nel Biellese
Numerosità (stima)
Malati di Alzheimer
Caregiver diretti
Componenti delle famiglie dei figli
caregiver su cui impatta la malattia
2500
2975
Totale persone coinvolte
7952
2477
1.7. Le associazioni e il volontariato
I volontari che operano nelle strutture residenziali rivestono un ruolo di grande rilevanza, con
interventi di compagnia e di animazione per le persone anziane.
Le associazioni di volontariato che si occupano di interventi nelle strutture residenziali in
Provincia di Biella sono 45 e seguono la seguente distribuzione territoriale.
Tab.18. Le associazioni di volontariato nel Biellese
COMUNE
ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO
Andorno M.
GRUPPO DI VOLONTARIATO VINCENZIANO SAN LORENZO - ONLUS
Biella
ASSOCIAZIONE CASA DI GIORNO - ONLUS
Biella
ASSOCIAZIONE DI VOLONTARI AMICI DELL’OASI
Biella
ASSOCIAZIONE PER L’AUTOGESTIONE DEI SERVIZI E LA SOLIDARIETA’
Biella
ASSOCIAZIONE SOGGIORNO ANZIANI FAVARO
Biella
CONFERENZA DI SAN VINCENZO
Biella
GRUPPO DI VOLONTARIATO VINCENZIANO SAN BERNARDO DELLE ALPI - ONLUS
Biella
GRUPPO DI VOLONTARIATO VINCENZIANO SAN GIOVANNI EVANGELISTA - ONLUS
Biella
GRUPPO DI VOLONTARIATO VINCENZIANO SANTA GIOVANNA DI CHANTAL - ONLUS
Biella
IL DELFINO
Biella
VOLONTARI E AMICI DEL COTTOLENGO - ONLUS
Biella (territoriale) ANTEAS BIELLESE
Biella (territoriale) ASSOCIAZIONE BIELLESE VOLONTARIATO
Brusnengo
ASSOCIAZIONE PRO CASA DI RIPOSO DI BRUSNENGO
Candelo
ANZIANO E’ BELLO
Candelo
ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO PRIMAVERA
Cossato
ASSOCIAZIONE BIELLESE VOLONTARIATO - SEZ. DI COSSATO
Cossato
GRUPPO NINI PRO ANZIANI E MALATI
Crevacuore
GRUPPO DI VOLONTARIATO VINCENZIANO S. M. ASSUNTA - SEZ. DI COSSATO - ONLUS
Curino
AUSER GRUPPO CURINO
Lessona
ASSOCIAZIONE LESSONESE DI VOLONTARIATO
Lessona
GRUPPO DI VOLONTARIATO VINCENZIANO SAN LORENZO - LESSONA - ONLUS
Mongrando
L’ALVEARE - ONLUS
(territoriale)
Netro
AMICI DELLA CASA PER ANZIANI SIMONETTI - ONLUS
Occhieppo Inf. AMICI DELLA CASA DI RIPOSO CERINO ZEGNA
Occhieppo Sup. ASSOCIAZIONE VOLONTARIATO SOCIALE
Pollone
FONDAZIONE OPERA ASSISTENZA INFERMI GIUSEPPINA E P. G. FRASSATI
Pollone
GRUPPO DI VOLONTARIATO VINCENZIANO PIER GIORGIO FRASSATI - ONLUS
Ponderano
ASSOCIAZIONE PRO CASA DI RIPOSO
Ponderano
GRUPPO DI VOLONTARIATO VINCENZIANO SAN LORENZO ONLUS PONDERANO
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Pralungo
Ronco B.se
Roppolo
Soprana
Tollegno
Trivero
Trivero
Valle Mosso
Valle Mosso
Vigliano B.se
Vigliano B.se
Viverone
Zumaglia
ASSOCIAZIONE AMICI DEL VOLONTARIATO
ASSOCIAZIONE BIELLESE VOLONTARIATO - SEZ. DI RONCO BIELLESE
GRUPPO DI VOLONTARIATO VINCENZIANO IL SACRO CUORE
AUSER VOLONTARIATO IL SOLE - SOPRANA
ASSOCIAZIONE BIELLESE VOLONTARIATO - SEZ. DI TOLLEGNO
ASSOCIAZIONE ANTONIO BARIOGLIO
ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO DELFINO - TRIVERO
AUSER VOLONTARIATO VALLE STRONA
FONDAZIONE CASA DI RIPOSO EMILIO REDA
ASSOCIAZIONE BIELLESE VOLONTARIATO - SEZ. DI VIGLIANO BIELLESE
FONDAZIONE OPERA PIA CASA DI RIPOSO NOTAIO CESARE SOLA
ASSOCIAZIONE VITA TRE - SEZ. DI VIVERONE
GRUPPO DI VOLONTARIATO
Fonte: Banca dati delle associazioni www.biellainsieme.it
Il volontariato può essere rilevante anche in ambito territoriale, andando a sostegno della
domiciliarità e supportando i caregiver in quelle famiglie con un malato di Alzheimer.
In quest’ottica gli interventi che il volontariato può mettere in atto sono molteplici e ricadono
principalmente sul versante del sollievo verso il caregiver che assiste il malato, ma possono
sconfinare anche in interventi di vera e propria assistenza.
Gli interventi possono essere quindi visite di compagnia verso il malato e la sua famiglia, un
affiancamento per commissioni o visite, per accompagnamenti (sia a piedi e sia in automobile per necessità varie, tra cui terapie e visite mediche), per consegna dei pasti e altre collaborazioni con il servizio sociale territoriale.
1.8. I servizi sanitari e sociali
In questo paragrafo faremo solo un accenno a quelli che sono gli interventi del servizio pubblico che i malati e le famiglie possono attivare. Dal punto di vista dell’indagine quantitativa
non vi sono però dati relativi a queste prestazioni che possano andare ad aggiungere un tassello al complesso quadro della situazione dell’Alzheimer sul territorio biellese.
1.8.1 SAD e ADI
La scelta di mantenere l’anziano malato al proprio domicilio fa nascere questioni urgenti legate
alla gestione sia della sfera sanitaria che di quella sociale e dell’ambiente di vita. Gli enti pubblici hanno organizzato sul territorio servizi in grado di rispondere, almeno in parte, a questi bisogni.
Tali servizi sono principalmente il SAD (Servizio di Assistenza Domiciliare) e l’ADI (Assistenza
Domiciliare Integrata). Il SAD è un servizio erogato esclusivamente dai servizi sociali e consente di avere un aiuto nella quotidianità, dalla gestione della casa alla fornitura dei pasti.
Per quanto riguarda l’ADI è necessario sottolineare la connotazione di servizio integrato,
erogato in sinergia fra enti, andando quindi a fornire aiuti sia dal punto di vista sociale che
sanitario. In senso stretto l’attivazione di un’ADI non prevede la segnalazione specifica della
presenza di malattia di Alzheimer nel database dell’ASL. La patologia, o meglio, il problema
che dà l’avvio ad un intervento ADI normalmente è un evento acuto/subacuto che può presentarsi isolato o più frequentemente, vista l’età media dei pazienti ADI, sovrapposto ad una
concomitante patologia cronica. Ma è comunque il problema che giustifica l’intervento ad
essere riportato e non la patologia cronica, quale è la malattia di Alzheimer.
1.8.2. SID
Diversamente dagli interventi di assistenza domiciliare affrontati nel paragrafo precedente, le
27
prestazioni del servizio infermieristico domiciliare (SID) hanno una particolare caratteristica di
estemporaneità. L’intervento più frequente è quello del prelievo del sangue a domicilio per chi
non può recarsi negli ambulatori. Non vi sono registrazioni che segnalino agli infermieri del territorio la presenza di patologia di Alzheimer fra gli utenti dai quali andranno al domicilio. Dal contatto con gli operatori è comunque emerso che con più frequenza hanno a che fare con pazienti
che ‘scoprono’ essere malati di Alzheimer durante gli interventi in SID piuttosto che in ADI.
1.8.3 UVA – Unità di valutazione Alzheimer
Le persone affette da disturbi cognitivi e della memoria possono rivolgersi all’Unità di
Valutazione Alzheimer (U.V.A.), un’equipe multidisciplinare che ha il compito di diagnosticare la malattia di Alzheimer e di proporre un’idonea terapia farmacologica.
Nel caso la persona necessiti di altre forme di assistenza, l’U.V.A. provvede a dare indicazioni al cittadino per attivare le soluzioni più adeguate (a domicilio, in centro diurno o in un
nucleo demenze presso una residenza sanitaria assistenziale), indirizzandolo all’Unità di
Valutazione geriatrica di competenza. Queste sono le indicazioni che fornisce la Regione
Piemonte. Nella prassi la procedura è lievemente differente e prevede l’accesso del paziente
all’UVA solo nel caso sia attivabile una terapia farmacologica. Può quindi capitare che un
paziente con Alzheimer non sia presente negli schedari dell’UVA.
I dati relativi al 2010 mostrano la presenza di circa 350 utenti per l’ambulatorio UVA di Biella,
maggiormente donne con età superiore ai 70 anni.
1.8.4 Il Centro della Memoria
Il progetto Centro della memoria inizia a prendere forma nel 2006 sulla base dell’idea di
dare vita ad un consultorio in grado di prendere in carico il malato e la famiglia, guidandoli nella rete dei servizi. In un ‘ottica di “promozione di strategie condivise finalizzate allo sviluppo e alla riqualificazione dell’assistenza ai malati di Alzheimer” prende
avvio nel giugno 2010, ancora in veste sperimentale, l’attività del “Centro della Memoria”.
Dal suo avvio il Centro per la Memoria ha fornito assistenza a 79 utenti (49 donne e 30 uomini), di cui solo l’8% al di sotto dei 70 anni di età. La situazione di vita registrata dagli accessi
al Centro per la Memoria è perlopiù quella domiciliare con un unico caregiver, più frequentemente il consorte, con un’età superiore ai 60 anni. Il servizio maggiormente accettato dalle
famiglie è quello di “informazioni, formazione e guida alle famiglie”9.
Il Centro è composto di un’equipe multidisciplinare composta di assistente sociale, infermiera, psicologa, neuropsicologa, geriatra, neurologa e psichiatra.
2. Il punto di vista delle famiglie e dei malati di Alzheimer
In questa sezione dell’indagine descriviamo i principali bisogni riscontrati dai famigliari delle
persone malate di Alzheimer, suddivisi per tipologia di assistenza: a domicilio, semi-residenziale e residenziale.
Come si è sottolineato nel precedente capitolo, le famiglie vengono messe a dura prova dalle
necessità di cura e assistenza, finendo per individuare un unico famigliare che si occupa del
malato (caregiver), solitamente una persona sola e solitamente una donna (moglie o figlia).
Chi si occupa dell’ospite è quasi sempre una persona da sola, è raro trovare due fratelli o due
sorelle con lo stesso coinvolgimento: di solito c’è un unico caregiver che si sobbarca più degli
altri il carico...
9
28
Intervento della dott.sa Elena Ortone dal titolo “Famiglia e Alzheimer: risposte alla solitudine dell’accudire”,
convegno “Famiglia e Alzheimer”, 19 ottobre 2011
Le difficoltà che i caregiver incontrano possono variare a seconda di diversi fattori: l’età, la
fase della malattia, la rete relazionale, le possibilità economiche.
In generale, accomuna i famigliari una situazione di fatica, accompagnata dalle difficoltà legate all’informazione corretta sulla malattia e sui servizi territoriali esistenti per la cura e l’assistenza. Come sintetizza un famigliare:
Ti trovano sempre da ridire, noi “caregiver” siamo sempre quelli che sbagliamo: “e perché te nen
faj pareji, e perchè... prova a veni t n’atim!”. Nessuno vuole comunicare, non solo con il malato,
ma neanche con i suoi stretti parenti (…). Trovi un muro di gomma! E allora tiriamo avanti fin
quando è possibile, poi si vedrà.
Nel seguente paragrafo consideriamo tutti i bisogni emersi (2.1), suddividendo in seguito l’analisi a seconda del tipo di assistenza fornita: domiciliare (2.2), semi-residenziale (2.3) e residenziale (2.4)10.
2.1 I bisogni
Mettendo al centro dell’analisi la famiglia e il suo carico emotivo e assistenziale è possibile
individuare una serie di bisogni riconducibili ai seguenti ambiti: avere una diagnosi precoce;
fronteggiare i disturbi del comportamento; conoscere i servizi a disposizione; affrontare le difficoltà quotidiane e prevenire stanchezza e depressione; mantenere le relazioni sociali; bisogni e differenze territoriali; orientamento e accompagnamento nella scelta del tipo di gestione. Nei paragrafi seguenti affronteremo singolarmente ciascuno di questi aspetti.
2.1.1 Diagnosi precoce
Il tempo che intercorre tra i primi sintomi e la diagnosi è uno dei nodi più importanti da dirimere per dare una risposta efficace ai bisogni dei malati e delle famiglie. In primo luogo, è fondamentale che la famiglia comunichi in modo tempestivo al medico la comparsa dei primi disturbi, senza trascurarli magari etichettandoli come attribuibili all’età. Sull’altro versante, è
necessaria una capacità di lettura di tali sintomi da parte di tutti i medici di medicina generale, che devono essere capaci di comunicare nel modo migliore con i famigliari e sottoporre la
persona agli opportuni esami fisici, neurologici e neuropsicologici, al fine di escludere le eventuali altre cause di decadimento mentale.
Purtroppo la diagnosi precoce è ancora poco diffusa e normalmente si scopre la malattia troppo tardi, quando la persona non è più in grado di gestirsi. È noto che passano 4-5 anni dal
momento della diagnosi a quello in cui le conseguenze della malattia divengono rilevanti per
la vita quotidiana: con una diagnosi precoce si riuscirebbe a far guadagnare anni preziosi (e
scelte importanti) alla persona malata, perché in questo periodo la persona malata può essere ancora padrona di sé stessa.
“Le famiglie fanno un’enorme fatica ad accettare che ci siano dei problemi, a capire che quello è un problema, che si tratta di una patologia. E poi non si fanno aiutare, né dare delle indicazioni. Troviamo un sacco di gente che da un lato minimizza e che dispone, in tutti i casi, di
pochi strumenti per affrontare e conoscere con esattezza il percorso della malattia”
L’accettazione della malattia è alla base delle ritrosie in fase di diagnosi, le quali continuano
anche nei primi stadi della malattia. Un ulteriore importante bisogno che le famiglie presentano, infatti, è rappresentato dalla mancata consapevolezza che la malattia dev’essere affrontata insieme a chi la sta subendo, senza nascondersi. Invece, succede che, in molti casi, i famigliari non vogliano nemmeno parlarne in presenza del parente malato.
10 Si rimanda alla metodologia della ricerca
29
“Non vogliono parlarne: ti dicono “io non posso non portare il marito, lei non deve assolutamente nominare quella parola lì, adesso dico così perché è qui.
Ci capita di fare così telefonate lunghe, contorte, con giri di parole per non dire quella parola
lì, visto che il famigliare potrebbe sentire. A noi operatori chiedono di parlare genericamente
di patologia, per la quale il caregiver chiede tuttavia risposte puntuali”.
Questo atteggiamento di apparente protezione, crea tuttavia ulteriori difficoltà comportamentali, collegate alla comunicazione della diagnosi, un aspetto sul quale non c’è ancora una
posizione prevalente in ambito sanitario.
“Non ricordo esattamente cosa le è stato detto. Lei si rendeva conto che qualcosa le veniva
meno, per cui io ricordo queste angosce. La consapevolezza ce l’aveva. Io non ho mai avuto il
coraggio di dirglielo, cercavo di blandirla e di attribuire tutto alla stanchezza. La parola della
diagnosi non l’abbiamo mai detta né io né mio fratello. È stata una cosa che è venuta spontanea. Il geriatra non mi ha mai chiesto che cosa volevamo fare per la comunicazione della diagnosi a mia madre, e anche io non ho mai affrontato l’argomento.”
É evidente che se la persona malata non sa cosa le sta succedendo, quando percepisce di aver
messo in atto un comportamento “sbagliato”, diventa per lei difficile anche reagire in modo
tranquillo.
Il problema della guida, in quest’ottica, è emblematico: “Mi accorsi che anche la sua guida
stava peggiorando, passava dalla prima marcia alla quinta, si agitava nell’attraversare le
rotonde e quindi ha finito per non sentirsi più sicura in mezzo al traffico.”
Testimonianze sul momento della diagnosi e sul percorso che vi ha portato:
“Avevo intuito che qualcosa non andava, si faceva tanti bigliettini a casa per non sbagliare,
mentre non aveva mai avuto problemi a ricordare”.
“A un certo punto mi sono accorta che parcheggiava male l’automobile. Abbiamo fatto degli
esami particolari per una settimana anche di notte. Hanno diagnosticato l’Alzheimer. Me
l’hanno detto subito. Era il 2004-2005. Lui è consapevole, la diagnosi è stata fatta anche a lui”.
“Ce ne siamo accorti tre anni prima che venisse poi effettuata una diagnosi clinica vera e propria. Lei è sempre stata mamma e casalinga, c’erano delle sbavature non sue. Lei è sempre
stata rigorosissima, tutto fatto a puntino, esaudiva le richieste puntualmente e al meglio.
Abbiamo notato che dimenticava quello che le veniva richiesto, oppure lo faceva due volte. È
capitato anche che ci facesse la stessa domanda più volte, con le stesse identiche parole”.
“Ha cominciato a confondere i giorni della settimana. Io ho pensato che potesse essere a
causa della mancanza del suo lavoro, essendo andata in pensione da poco. Mi dicevano che
poteva essere lo stress.
Un giorno è successo che mi ha chiamato, dicendomi che non sapeva dove si trovasse. Un
altro giorno mi accorsi che stava per uscire di casa, per andare a fare la spesa, senza pantaloni. Ho dovuto insistere per farle capire che era mezza nuda, al che si è spaventata. Così decidemmo di fare delle visite. La portai dal medico di base, il quale ci prescrisse delle analisi.
Dopo aver fatto tutti questi esami ci mandarono al centro di igiene mentale, ogni 15 giorni per
quasi due mesi. Allora si ipotizzava potesse essere un tumore, abbiamo fatto altre analisi e
intanto era dimagrita molto, pesava soltanto 32 Kg. Dopo tutte le visite e le analisi, dall’esame del sangue alla tac, è arrivato l’esito”.
“Lui aveva cominciato a perdere i filtri, le disinibizioni verso gli altri e io mi vergognavo di lui,
non si controllava e perdeva il filo o usava lunghe perifrasi per descrivere le cose... Un medico, un giorno, ci ha detto che si trattava di Alzheimer. Io gli ho spiegato cos’é la malattia e lui
30
si accorgeva di non riuscire più a pensare, a leggere, a ritrovare la strada e percepiva quindi
come la memoria a breve termine fosse compromessa. Noi famigliari vedevamo la parte di lui
che stava bene, ma rifiutavamo di vedere la parte di lui che stava male. E’ un meccanismo normale nei famigliari, perché è difficile accettare che la persona che è stata per tanti anni la tua
figura di riferimento è diventata, all’improvviso, una persona diversa, bisognosa, al punto che
lui diventa come un bambino e tu diventi il suo tutore..”.
“Mia mamma si presentava ogni tanto scalza dalla zia, si dimenticava di prendere le consuete medicine, ogni tanto sembrava strana, non interagiva con gli altri. Si vedeva che c’era qualcosa che non andava, questo è stato il campanello di allarme”.
“Un giorno casualmente, guardando in casa sua, ho trovato delle cose stranissime, cioè fogli
con sopra scritto il mio nome ripetuto trenta o quaranta volte, il mio numero di telefono, dei
fogli interi pieni di lettere “x”. Penso che fosse una cosa che andava avanti da un po’ di anni,
però noi non abbiamo capito, pensavamo che fosse solo un po’ di depressione, gli davamo i
farmaci per la depressione”.
2.1.2. Capire e saper fronteggiare i disturbi della memoria
e del comportamento
I disturbi che maggiormente connotano la malattia di Alzheimer sono legati alla memoria, al
linguaggio, al disorientamento e all’aprassia. Possono comparire in differenti momenti della
malattia, nella fase iniziale oppure in quella intermedia. Nella fase iniziale i sintomi possono
essere: disturbi di memoria; difficoltà nello svolgere le attività quotidiane; problemi di linguaggio; disorientamento nel tempo e nello spazio; perdita delle capacità di giudizio; difficoltà di pensiero astratto; collocazione inappropriata degli oggetti; cambiamenti dell’umore o del
comportamento; cambiamenti di personalità; mancanza di iniziativa. In una fase intermedia
della malattia, si possono riscontrare disturbi psichici e comportamentali; possono comparire deliri o identificazioni errate. I parenti e la famiglia si trovano in forte difficoltà ad affrontare e seguire la persona malata nel momento in cui questi disturbi si manifestano, quando
occorre mettere in pratica accorgimenti e strategie per fornire la migliore assistenza.
Sebbene non tutti i malati presentino gli stessi sintomi, compresi i disturbi comportamentali,
è comunque utile ripercorrere, attraverso le testimonianze, le situazioni più comuni circa questi aspetti della malattia. I bisogni sono legati alla comprensione dell’esistenza di queste possibili sfaccettature della malattia e alla capacità di mettere in atto i giusti atteggiamenti per
evitare l’aggressività o un’ulteriore esasperazione dei sintomi.
Testimonianze sui disturbi del comportamento
e sulla gestione del malato da parte dei caregiver:
“Lui è molto mansueto, se sono tranquilla io lo è anche lui. Gli devo dire come sciacquarsi la
bocca, come alzare i piedi per mettere i pantaloni. Ho preso l’abitudine ad alzarmi la notte per
farlo andare in bagno, per evitare incidenti. Ormai ho come un “sensore” : mi sveglio come se
avessi un orologio in testa”.
“La malattia ha rappresentato un passaggio molto difficile per me, perché lui è sempre stato
un uomo molto indipendente. Ed è difficile accettare la sua dipendenza da me. Non posso più
lasciarlo solo neanche per andare a prendere il pane. I tempi sono cambiati, non posso più fare
le cose di corsa. Anche dalla pettinatrice vado con lui. Ma se devo andare in posti dove c’è
confusione allora non posso portarlo con me perché si agita troppo”.
“Mia madre non ha mai attraversato una fase aggressiva. C’è stato un periodo in cui era più
nervosa, più facilmente irascibile, perché io non perdevo occasione di correggerla e quindi
reagiva. Qualche scatto irascibile, ma mai di aggressività vera e propria. Mia mamma ha sem-
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pre avuto un carattere molto dolce e l’ha mantenuto. E’ ancora molto affettuosa, pur non riconoscendo né me né mio fratello. Quando le si accende questa “bolla” del ricordo dei figli, l’attenzione che ci pone è sempre esclusivamente materna”.
“Le cose che vuole fare e che cerca di fare da sola le sbaglia due volte su tre, anche le più
semplici diventano le più complicate. Quando mi sono accorto che lei cominciava a trascurare la sua persona, le chiesi se la dovessi aiutare e lei mi disse di sì mentre piangeva, perché si
vergognava di essere lavata da me. Così le chiesi cosa avrebbe fatto se fosse successo a me,
lei mi disse che lo avrebbe fatto per me. Allora si è calmata e mi ha lasciato fare”.
“La malattia di Alzheimer è un male che ti porta al capolinea, come tutti i mali, però ci sono
mali in cui la speranza a volte sopravvive. Vedere che le sue capacità intellettive si riducono ti
lascia molto rammarico, molta tristezza e amarezza”.
“Quando è a casa ha ancora voglia di fare, alla sera vuole fare la minestra, la prepara... ma a
un certo punto mi sono accorto che dovevo aiutarla. Così come per andare in bagno a lavarsi:
ho notato che non si lavava, non so cosa facesse, però c’erano gli asciugamani tutti asciutti,
e lei diceva di esseri lavata. Invece adesso vado anch’io con lei in bagno e collaboro, facendo
finta di niente, osservando, però da quando lo faccio lei si è tranquillizzata molto e si lava”.
“Comunicare con loro risulta impossibile, se non per delle cose proprio terra-terra. Non si può
fare alcun discorso, nemmeno quelli molto semplici, nemmeno una semplicissima chiacchierata”.
“La comunicazione con mia moglie è molto difficile perché è stata colpita più che altro nella
parola, è afasica e di conseguenza talvolta capisce, poi va molto a momenti. Ho notato che a
volte lei cerca di esprimersi, ma si vede che non riesce, cerca anche di rispondere ma non le
vengono le parole, allora quando succede si innervosisce moltissimo, per cui io non insisto,
altrimenti diventa furibonda. Non posso nemmeno aiutarla a fare certe cose, magari le dico “io
ti aiuto perché ti devo fare questo, ti aiuto volentieri” ma lei non vuole accettare l’aiuto, diventa aggressiva in una maniera tremenda”.
“Non ha più nessuna memoria, mia mamma l’ha proprio persa, ogni tanto dice: “Dove andiamo
adesso?” e io le rispondo “da tua sorella”, e lei si stupisce “mia sorella!?!?”, “sì tua sorella” e lei:
“ma io non ho nessuna sorella”. Alle volte mia mamma sembra proprio una bambina, tra l’altro ci
vuole molta pazienza. Almeno ultimamente la vedo sempre contenta o se non altro è più arzilla,
devo dire che dimenticandosi le cose diventa tutto bello, quindi per lei va tutto bene. Purtroppo
però quando le chiedo “cosa hai fatto oggi mamma?”, lei mi dice: “Ah non mi ricordo!”. Non mi
sembra possibile e insisto: “Ma cosa hai fatto?”, e lei: “Quello che mi dicono di fare”. Ecco basta,
quella è la sua risposta, poi cambia argomento e dice magari anche delle stupidaggini”.
“ È quasi insostenibile. Non è per niente autonomo e più che altro hai la sensazione che non
esista proprio. Dice proprio delle cose insensate, cose magari che riguardano il tempo in cui
era giovane e talvolta ha delle allucinazioni, molte volte vede delle cose che non ci sono”.
“Tutte le sere lei vuole telefonare sia a sua mamma e sia a mia mamma, che sono morte da vent’anni. E facciamo lunghe discussioni, perché a me spiace vedere una persona che è arrivata al
punto tale da non ricordarsi le cose basilari, proprio fondamentali, come la morte della propria
mamma, che è un trauma. Invece ha dimenticato tutto, completamente, perché l’aspetta ancora sempre, quando io vengo a prenderla mi dice sempre “la mamma ha telefonato?”.
Se la persona malata riconosce ancora le persone famigliari, si allevia per il caregiver il compito di assistenza; al contrario, nel momento in cui la persona malata non riconosce le persone famigliari, compresi il coniuge o i figli, anche i compiti di cura e di assistenza diventano più
faticosi: “Per me è importante che cerchiamo di stare bene finché ancora mi riconosce e riconosce alcuni amici”.
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2.1.3. Conoscere i servizi a disposizione
Così com’è importante conoscere il percorso e le fasi della malattia, allo stesso modo i famigliari e il caregiver dovrebbero avere ben presente il ventaglio dei servizi e delle risorse presenti sul territorio, al fine di attivarle nelle diverse fasi della malattia.
La parziale o inesatta conoscenza delle opportunità a disposizione si ripercuote sulle stesse
attività quotidiane di cura e assistenza, sia sul versante della persona malata che sul versante del caregiver.
La partecipazione ai gruppi di auto mutuo aiuto, la condivisione con altre persone dei propri
problemi e delle proprie ansie, la possibilità di chiarire presto i dubbi e di beneficiare di aiuti
dall’esterno, la raccolta di informazioni sulle strutture disponibili a fornire assistenza domiciliare o residenziale, sono attività non sempre facili da attuare, riconducibili anche alle caratteristiche personali e alle reti sociali dei caregiver.
La mancata conoscenza circa i servizi a disposizione comporta anche un’assenza di contatti
con gli organi istituzionali, sanitari o socio-assistenziali, ai quali quindi sfugge una parte di
popolazione interessata da questa patologia, sul territorio di riferimento.
Le difficoltà da parte delle famiglie possono essere legate alle procedure istituzionali da seguire:
“Le persone non comprendono l’utilità della certificazione di invalidità civile. Magari i figli
lavorano ma la 104 non ce l’hanno, è un’opportunità certamente poco conosciuta, non sanno
che cosa sia né come fare ad attivarla”.
Analoga è la situazione relativa agli aiuti o agli ausili che potrebbero servire nell’assistenza
quotidiana: “La famiglia non sa di poter avere risorse come il letto, specifici pigiami con una
cerniera posteriore per evitare che il malato si strappi il pannolone, o altre risorse materiali
che i famigliari non hanno per la gestione al domicilio”.
In questo quadro di scarsa conoscenza, anche il ricorso alle strutture può arrivare ad essere
quasi casuale: “Spesso la famiglia non sa. Facendo una stima direi che il 90% dei casi ignora
tutto. Succede magari che il geriatra a un certo punto li indirizzi al Centro diurno e quindi loro li
portano qui. Dovrebbero però anche essere consapevoli di cos’è un centro semi-residenziale e
comprendere il motivo per cui viene attivata questa struttura e non un’altra, capendo l’utilità
specifica rispetto alla fase della malattia. Ci ritroviamo quindi [noi operatori del centro diurno]
a dover informare il caregiver e il famigliare, per la prima volta, sulla malattia e il suo decorso,
per aiutarli e indirizzarli, fornendo anche documentazione o contatti con gli assistenti sociali e
così via. Spesso in questo modo emergono anche problemi economici, collegati magari alle
spese di affitto dell’abitazione, a cui si aggiunge il costo della badante che aiuta la sera o il mattino, ecc. Conoscendo le risorse presenti alcuni possono trovare degli aiuti importanti”.
L’altra faccia di questa medaglia è rappresentata dalla mancata identificazione, da parte dei
servizi, della reale portata e diffusione del fenomeno. Questo è chiaramente un problema nell’ottica di programmazione e gestione dei servizi, poiché va ad aumentare interventi di carattere emergenziale, sfavorendo una tempestiva gestione dei casi in maniera ottimale.
“Credo ci sia un sommerso molto vasto, ci arrivano casi spesso gravissimi di persone mai curate e mai viste dai servizi, ad indicare una punta dell’iceberg... in alcune situazioni mancava del
tutto anche l’igiene personale. Arrivano casi in cui il caregiver di oltre 90 anni si occupava quotidianamente della moglie malata, con le evidenti difficoltà e criticità che si possono immaginare”.
Il rischio che i servizi corrono è che le emergenze legate alle situazioni non conosciute diventino ingestibili e tale rischio è maggiore nei centri più grandi del territorio, al punto che, come
afferma un’operatrice sociale: “Il sommerso a Biella è come una bomba a orologeria...”.
Sentinelle di questi casi si possono avere nei reparti ospedalieri: “Capita di scovare il som-
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merso in altri reparti. Se un malato di Alzheimer, che era sconosciuto ai servizi, si rompe un
arto e per questo viene ricoverato in geriatria, in quel momento il personale ospedaliero lo
“intercetta” favorendo la sua successiva presa in carico. Questa situazione capita anche in
reparti come Neurologia e Medicina”.
2.1.4. Le difficoltà dell’assistenza quotidiana,
la stanchezza e la depressione dei famigliari
Il percorso della malattia può durare diversi anni, provocando nei famigliari reazioni che passano dall’iniziale disorientamento alle difficoltà fisiche e psicologiche di doversi prendere
cura di una persona cara, che sta lentamente perdendo funzioni cognitive e motorie.
Nelle diverse fasi della malattia, il caregiver non deve cadere nella trappola di annichilirsi nell’assistenza del malato, ricordandosi del proprio bisogno di sollievo e di supporto (fisico o
psicologico). L’adeguato riposo e allontanamento dal malato consentono anche al famigliare
di ricaricarsi e ritrovare le energie in vista di una migliore assistenza.
“Il caregiver non sa come fare per bloccare il malato in quelle attività della vita quotidiana che
potrebbero risultare pericolose: guidare, cucinare, attraversare la strada e così via. Per migliorare la gestione della persona malata basterebbe anche soltanto qualcuno che andasse a
tenere un po’ di compagnia, dando anche la possibilità al caregiver di occuparsi di altro.
Il bisogno di compagnia da parte di queste persone è elevatissimo. Hanno bisogno di scambiare anche soltanto due parole. Dal punto di vista dei servizi, sarebbe peraltro importante
avere qualcuno che faccia da “sentinella” e faccia “suonare”, in caso di necessità, un campanello di allarme.
Si ha l’idea di essere lasciati da soli, mentre a volte basterebbero anche soltanto alcuni consigli e un po’ di compagnia contro la solitudine, per riuscire ad alleviare già molti problemi”.
“Quando siamo a domicilio di un paziente, entriamo in contatto sia con il paziente che con i
famigliari. Notiamo come i famigliari siano molto carichi, stanchi di questa situazione e in
cerca di aiuti. Non ce la fanno più da soli. E allora si parla o di centro diurno, o di scheda multidisciplinare o di una richiesta di residenzialità”.
“Ci sono persone che hanno trovato da sole un equilibrio, mentre in molte situazioni invece
notiamo una sorta di “depressione” a catena, dal momento della scoperta della malattia, alle
visite geriatriche, all’assistenza, con una tristezza di fondo che permane o aumenta”.
“Molti famigliari hanno bisogno di sentirsi tutelati, appoggiati e ascoltati. Con il passare del
tempo è una situazione che può rivelarsi impossibile da sostenere”.
2.1.5. Mantenere le relazioni sociali
Un bisogno evidente che accompagna tutte le fasi della malattia è quello di mantenere scambi e relazioni sociali con altre persone, quali amici, conoscenti, vicini di casa. É un bisogno
importante sia per alleviare le tensioni che la malattia comporta e sia per recepire suggerimenti per affrontare al meglio i cambiamenti che intervengono nella persona ammalata.
Le situazioni più a rischio sono quelle in cui “gli amici se ne sono andati, si sono allontanati,
piano piano..”..
Al contrario, si registrano situazioni migliori là dove le reti di relazione primaria esistono e
svolgono una funzione positiva: “Gli amici ci vengono a trovare, la mamma era sempre stata
ben voluta. Fughe non ce ne sono state, anzi. Devo dire che i figli delle amiche che non ci sono
più, comunque chiamano per sapere come va, se ci incontrano per strada si fermano a chiacchierare. Non ho visto allontanamenti”.
“Facciamo ancora tante cose con gli amici. Sono rimasti quelli che avevamo. Logico non possiamo più fare lunghi viaggi. Ma loro sono molto attenti, molto carini. Abbiamo già pensato di
andare ancora tre giorni via insieme”.
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“Bisogna cercare di non chiudersi, se hai dei veri amici bisogna continuare ad andare fuori,
fare passeggiate insieme. Si può anche andare al ristorante insieme, se capitano degli inconvenienti non importa, con un po’ di pazienza si risolvono, l’importante è non nascondersi e cercare di fare ancora delle cose in compagnia”.
2.1.6 Bisogni per zona di residenza
La vicinanza dell’abitazione ai servizi principali o ad altre abitazioni può favorire le relazioni
ed accrescere le possibilità di cura così come, al contrario, la lontananza dai servizi può diventare determinante.
“Le situazioni variano molto se si abita in un paese di alta valle piuttosto che in un paese in
periferia di Biella. Se si abita lontano da un centro dove si può avere un aiuto, magari non si
tenta nemmeno. Nelle zone più isolate in alcuni casi le persone non tentano neanche, magari
sanno che potrebbero avere dei benefici da un certo servizio, ma non provano neanche ad
andare a sentire, per la scomodità degli spostamenti e per le difficoltà di riuscire ad allontanarsi dalla persona malata”.
La situazione si capovolge rispetto alle relazioni sociali, in quanto si registra tendenzialmente una migliore rete di relazioni di vicinato nei piccoli centri, laddove, al contrario, i centri
urbani maggiori (come i quartieri al centro di Biella) delineano un quadro più critico, con la
presenza di un numero di casi di “sommerso” molto più elevato, legato alle situazioni di solitudine e di mancanza di legami di prossimità.
“Alcuni caregiver hanno difficoltà pratiche, se si abita in montagna, ad esempio, diventa difficile accedere ai servizi, ma anche vedere persone. Hanno bisogno sì di sfogarsi, ma anche di
aiuto concreto, come avere qualcuno che vada a ‘tenere’ il malato qualche ora al giorno per
poter uscire a fare le commissioni. In linea di massima le persone riescono a gestirsi attraverso le reti informali. Ad esempio la vicina di casa può aiutare e sopperire così all’assenza
durante le ore del lavoro. Se si può ci si aggiusta”.
2.1.7. Il bisogno di orientamento
e accompagnamento nella scelta del tipo di gestione
Le scelte da compiere durante le varie fasi del percorso della malattia sono diverse e richiedono la capacità e la possibilità di raggiungere tutte le informazioni disponibili relativamente
alle diverse opzioni, per poterle adeguatamente soppesare e confrontare rispetto al contesto
personale di riferimento. Le scelte relative alla modalità di gestione del malato sono sostanzialmente suddivisibili in tre grandi ambiti:
-assistenza domiciliare, da parte di un famigliare con o senza l’ausilio di una badante o di altre
persone a supporto;
-inserimento in un centro semi-residenziale (centro diurno), per l’assistenza durante la giornata;
-inserimento in una struttura residenziale.
In realtà, le testimonianze mostrano come vi sia una notevole criticità nella scelta del tipo di
assistenza, complicata da sentimenti di angoscia, vergogna, ansia o sensi di colpa, oltre che
dovuta alla difficoltà di informarsi, documentarsi in modo esaustivo e avere la possibilità di
scegliere in modo ponderato.
La domicialirità:
“Mio marito è malato di Alzherimer e ha due sorelle, una delle quali è vedova e anche lei mi ha
detto: “Finchè possiamo aiutarlo, occupiamoci noi di lui”. C’è anche mio fratello che, essendo in pensione, può darmi una mano.
Mi sento in colpa, ma sono molto stanca. Ero molto in crisi quest’inverno, perchè abbiamo
cambiato la terapia (dal cerotto alle pastiglie) e mio marito è peggiorato molto e io non sapevo come fare. Poi con il passare del tempo la situazione è migliorata, ne ho parlato anche in
un Centro Diurno, per avere un po’ di respiro... ma per adesso no”.
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“La domanda per mettere mia madre al Nucleo Alzheimer al Cerino l’ho fatta. Ma più che altro
come estrema ratio, non come vera e propria volontà. É come una coperta di Linus questa
domanda. Non siamo andati neanche al centro diurno, anche se il nostro medico geriatra ce
lo ha sempre consigliato. Poi è anche subentrato mio fratello, il quale ritiene che sia meglio
lasciarla a casa, nel suo ambiente. A prendersi cura della mamma adesso ci sono due badanti: una fa dal lunedì al venerdì e un’altra il fine settimana”.
“La scelta della badante è stata difficile. Prima l’ho sempre gestita soltanto io. Non di notte,
perché ce la faceva ancora da sola, aveva ancora una relativa autonomia. Io arrivavo la mattina, le facevo fare la colazione, poi preparavo il pranzo e andavo via. Mio fratello arrivava
all’ora di pranzo, scaldava lui, metteva a posto. Mia mamma riusciva ancora a lavare i piatti.
Fino a un certo punto, poi è peggiorata. Allora ha cominciato ad aiutare a pulire in casa mio
fratello, quando poteva, altrimenti lo facevo io quando arrivavo alle 3. Questa “staffetta” è
durata per tanto tempo. Poi due anni fa non la reggevo più. Lì è subentrato mio fratello e mi
ha detto che era ora di cercare qualcuno. Abbiamo trovate due badanti: una dalle 8 alle 14.30
e l’altra dalle 16 alle 20.30; andavano ad aiutare a settimane alternate e una di loro si fermava anche la domenica. Dopo due anni, abbiamo visto che cominciava ad avere delle difficoltà
di notte, faceva delle cose non giuste, abbiamo trovato la casa allagata, le feci nel bidet… a
quel punto anche con mio fratello d’accordo, abbiamo deciso che bisognava cambiare regime di badanti.
Le due badanti che si sono alternate in quel periodo di tempo erano fantastiche, non ci credevo alla fortuna che avevo avuto. Da sole hanno portato avanti la mamma e la casa in maniera impeccabile. Quando abbiamo dovuto cambiare orari, soltanto una di loro è rimasta per
fare tutta la settimana (dal lunedì al venerdì) e allora abbiamo dovuto cercare qualcuno che
venisse il fine settimana. Abbiamo fatto la prova con una rumena, una signora che aveva
guardato già un altro nostro famigliare, ma dopo un po’ non ce l’ha fatta, è andata via, in
depressione. Abbiamo trovato quindi un’altra badante, chiedendo agli amici”.
La semiresidenzialità
“Il nostro centro diurno al momento è sottoutilizzato, da un lato crediamo che sia per la non
conoscenza, ma anche per il fatto che nella fase iniziale della patologia, per l’Alzheimer così
come anche per altre demenze, c’è una sottovalutazione da parte dei famigliari e dei pazienti
che preferiscono stare a casa loro, salvo magari tornare in una fase successiva, molto affaticati e in una fase più difficile della malattia”.
“Nel nostro centro non arrivano mai persone interessate e consapevoli di entrare nel Centro
Diurno, ma persone esauste, affaticate e logorate dall’esperienza di assistenza domiciliare al
famigliare malato e che vogliono, sostanzialmente, ‘liberarsi’ della persona”.
“Da quando c’è la diagnosi a quando c’è la convenzione sanitaria passano in media due anni
e mezzo, quindi capiamo che sia economicamente meglio il centro diurno, che costa 25 euro al
giorno oppure 13 euro per mezza giornata, mentre un ricovero in una struttura residenziale
costa 75-80 euro al giorno. Noi cerchiamo quindi di gestire patologia, famiglia e patrimonio”
“Sin dal primo momento lo specialista dell’ospedale mi consigliò di farle frequentare un centro specializzato dove potevano seguirla e probabilmente farle anche riacquistare alcune
delle sue capacità. La mia paura era che lei si potesse sentire abbandonata o che pensasse
che io la volessi fare internare. Allora mi dissi che potevo farcela da solo. Ho tentato... ma
niente. Dopo la mia ennesima sfuriata è stata lei a chiedermelo e così l’ho accompagnata al
centro diurno Alzheimer”.
La scelta residenziale
“Se l’anziano ha problemi di demenza, in genere quando arriva in struttura è perché ha disturbi comportamentali importanti, che rendono faticosa la gestione a domicilio”.
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“La fase peggiore è quella del disturbo comportamentale: il delirio, l’allucinazione, la diffidenza, la temporanea perdita di memoria. Persone che improvvisamente non sanno più dove
sono, che lasciano magari il gas aperto, che non si fanno aiutare, magari non si lasciano lavare, perché non riconoscono il famigliare, che si svegliano di notte urlando. È in questa fase
che, solitamente, il famigliare comincia a cercare un posto in struttura. In seguito i pazienti
‘migliorano’, perché peggiora la malattia ma diminuisce il disturbo comportamentale, i malati diventano più passivi, apatici, spesso non camminano più, anche il contatto oculare viene a
mancare. Nella fase turbolenta il ricovero in struttura appare quindi una necessità”.
Prendiamo in esame, nei prossimi tre capitoli, i bisogni a seconda dei differenti tipi di gestione del malato.
2.2. I bisogni in situazioni di domiciliarità
Per esaminare in dettaglio i bisogni delle famiglie è necessario identificare chi all’interno dei
nuclei famigliari si prende realmente il carico dell’assistenza del parente malato. La gestione
della non autosufficienza conduce alla scelta di una figura di riferimento che svolge la maggior parte delle azioni di cura. Una dinamica che si riscontra anche per le famiglie che si trovano ad affrontare la malattia di Alzheimer.
Si tratta in prevalenza di caregiver donne, siano esse mogli, figlie o nuore, ad espressione di
una forte solidarietà intergenerazionale di genere femminile.
La convivenza con il malato e l’impatto sulla vita lavorativa e relazionale sono gli aspetti più
rilevanti per l’assistenza a domicilio.
2.2.1. Informazioni sulla malattia per la domiciliarità
Un bisogno legato alla domiciliarità è la conoscenza di quegli aspetti pratici che facilitano la
gestione del malato: si può trattare anche di semplici accorgimenti, legati magari all’arredamento (come la rimozione dei tappeti, riparare gli spigoli e così via) o al corretto atteggiamento da tenere (essere mansueti, pazienti, rispettosi ecc.).
“Noi abbiamo notato che le nostre famiglie non hanno gli strumenti per agire correttamente
quando si occupano del malato al proprio domicilio, nessuno insegna loro a movimentarlo, a
come trattenerlo...nessuno glielo insegna”.
“Rispetto ai paesi nordici, dove esiste un discorso educativo e strumentale, con un coinvolgimento della famiglia per mantenere le persone a domicilio, questo da noi non viene fatto”.
2.2.2. Informazioni sui servizi disponibili a domicilio
Padroneggiare le informazioni sui servizi disponibili a domicilio non sempre si rivela facile per
le famiglie, le quali rischiano così di perdere opportunità preziose e peggiorare, al contempo,
la condizione propria e del malato.
“Non ci appoggiamo a nessuno. Mi è stato proposto il centro diurno, ma per adesso aspetto,
perché mi sento in colpa...é vero che potrebbe fare anche soltanto un paio di giorni, ma per ora
preferisco di no. Non ho contattato nemmeno i servizi sociali”.
2.2.3. Mantenere le reti e relazioni sociali di prossimità
La domiciliarità può permettere al malato e al caregiver di conservare meglio le relazioni e le
amicizie, nonché le relazioni di prossimità e vicinato.
“Per ora trovo l’appoggio dei famigliari e riusciamo a fare ancora tante cose con i nostri amici.
Sono rimasti quelli che avevamo. Certamente non possiamo più andare in vacanza con loro, ma
è vero che sono molto attenti, molto carini. Abbiamo pensato di andare insieme a loro tre giorni a Pasqua, per andare in un’oasi naturale, dove c’è un albergo... se mio marito (malato) non si
aggrava, possiamo andare, ci riesco. Di recente siamo anche riusciti ad andare ancora in barca”.
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“Adesso in paese tutti sanno della sua malattia, e sono molto carini. Sono tutti molto affettuosi, a volte addirittura un po’ troppo, tanto che la signora del negozio gli dà le caramelle”.
“Una cosa che mi ha aiutato molto è stato venire al gruppo una volta al mese e una volta alla
settimana andare agli incontri dell’AIMA, conoscere persone che hanno già fatto l’esperienza. Questo mi ha aiutata ad accettare la situazione, capire che è normale arrabbiarsi. E che
bisogna cercare di non chiudersi, se hai dei veri amici possono aiutarti a portarlo fuori, passeggiare... Non serve vergognarsi. Io vado anche al ristorante con lui, gli taglio la pizza e se si
sporca lo pulisco”.
“La casa di mia mamma, come dice una sua amica, sembra l’aeroporto di Malpensa. Passo io,
mio fratello, mia zia, un’amica. È una persona che viene stimolata, quanto meno a livello verbale e di facce che girano. Io la vedo sempre molto contenta. Non dimostra fastidio. Non
siamo mai in cinque o sei persone davanti a lei, ci sarebbe confusione, quindi ci alterniamo.
Io passo da lei due volte, se non tre, al giorno. Usciamo, andiamo a fare la spesa, al bar a prendere il caffè. Mia mamma ha 84 anni e molte delle sue amiche non ci sono più. C’è una signora che viene a trovarla spessissimo, sono amiche da 40 anni. È disponibile anche se ci sono
delle difficoltà, per essere di supporto. Fughe degli amici non ce ne sono state, anzi. Devo dire
che i figli delle amiche che non ci sono più, comunque chiamano per sapere come va, se ci
incontrano per strada si fermano a chiacchierare. Non ho visto allontanamenti”.
2.2.4. Il ruolo dell’assistenza privata
“Il ruolo di questo genere di assistenza nel panorama italiano ha acquisito una centralità crescente negli ultimi anni” sanciva già nel 2007 la ricerca AIMA-Censis.
La famiglia quando sceglie di mantenere al domicilio il proprio caro si trova, infatti, a dover
organizzare i tempi dell’assistenza. Se a svolgere il ruolo di caregiver è un coniuge che non ha
impegni lavorativi si può preventivare un bisogno di ricorso all’assistenza privata legato a
momenti di sollievo e dunque meno continuativo. Qualora, invece, la permanenza a casa sia
garantita da parenti con un lavoro o con anche altri impegni famigliari è fondamentale il ricorso ad un aiuto professionale.
“Ci sono due tipi di richieste frequenti per l’assistente domiciliare: 1. la convivenza, in modo
che magari mentre fa compagnia controlla e cura la casa della persona malata; 2. qualche ora
di sollievo, più difficile per il parente far capire al malato come mai c’è bisogno di una persona. Se è una donna è più facile perché si dice che l’assistente serve per le pulizie... ma per
l’uomo è più difficile”.
L’assistenza domiciliare fornite dalle, cosiddette, badanti rappresenta un grande aiuto per le
famiglie. Una modalità di gestione che comporta delle criticità legate sia all’aspetto economico sia alla ricerca dell’assistente domiciliare. Per quanto riguarda l’aspetto economico non
vi sono specificità particolari da segnalare, anche se è utile ricordare come siano importanti
anche in questo contesto la certificazioni di invalidità e il riconoscimento dell’indennità di
accompagnamento che possono aiutare a sostenere le spese dell’assistenza.
Per quanto riguarda l’aspetto relazionale i parenti segnalano il bisogno di poter instaurare una
relazione di fiducia con la badante, in particolar modo quando l’assistenza fornita prevede la
coabitazione. I famigliari cercano sia un aspetto di professionalità legato a mansioni pratiche
come l’igiene personale o la pulizia della casa, ma anche un aspetto legato alla capacità di mantenere viva la, seppur minima, comunicazione con il malato. Un bisogno che è biunivoco, poiché
corrisponde all’esigenza delle assistenti domiciliari di riuscire a instaurare una relazione anche
in situazioni critiche, come vedremo nel paragrafo dedicato ai bisogni degli operatori.
2.2.5. Il sostegno psicologico
Il bisogno di un supporto psicologico è rilevante soprattutto nelle prime fasi della malattia,
quando i primi disturbi si manifestano in tutta la loro gravità, come il mancato riconoscimen-
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to dei propri famigliari da parte del malato, rendendo anche difficile per il coniuge capire come
affrontare al meglio la situazione.
“Il momento più difficile per me è stato quando mia moglie ha cominciato a non ricordarsi chi
ero io e altri famigliari. Ricordo la prima volta che è successo: mio fratello entra in cucina, si
appoggia al mobile, lei lo guarda, mi guarda e mi dice “Questo signore chi è?”. Ho visto incassare il colpo anche a mio fratello. L’ho visto proprio deglutire. Per me la grande fatica è sempre stata emotiva”.
“L’aiuto più grande: sono state più le badanti, a cui confidavo molto di questi miei momenti
difficili. Quindi l’aiuto più grande è proprio l’ascolto. È importante poterne parlare, in certi
momenti ti viene voglia di urlare. È difficile da accettare questa malattia. Sulle prime addirittura mi comportavo come se questa malattia fosse un affronto a me che mia mamma avesse
messo in atto. Poi piano piano è cambiato il mio atteggiamento. I primi tempi tendevo a riprenderla ad ogni minimo errore, che non erano pochi, mi ricordo che usavo frasi umilianti… ma lei
non ne poteva nulla e io non ricavavo niente, se non dei grandi sensi di colpa”.
2.2.7 Accettare i cambiamenti
Un bisogno rilevante è costituito dalla necessità, da parte dei caregiver, di accettare la malattia e le diverse trasformazioni del carattere e dei comportamenti che affliggono il malato.
“Accettare. Accettare perché la non accettazione ti fa stare peggio. Accettandola ti raffronti
con il malato di Alzheimer in un altro modo. La rabbia non ha mai portato a nulla, e l’aggredire verbalmente il malato li umilia soltanto, rovinando il rapporto.
Direi anche di non vivere di ricordi, ma di vivere per come si è in quel momento. Io ho vissuto
anni dicendo che non poteva essere così. Certo non puoi dimenticare, ma bisogna mettere una
divisoria tra quello che era e quello che è, e accettare. Ma non so quanti siano così bravi da
avere questo atteggiamento immediatamente. E anche se lo capisci e lo dici, lo neghi immediatamente. Cerchi proprio di portare avanti un discorso di ‘scusa’”.
2.3. I bisogni in situazioni di semi-residenzialità
La struttura semi-residenziale risponde in maniera ottimale sia al bisogno del malato di
Alzheimer di mantenere una forte connessione con la propria quotidianità, fatta di spazi abitativi e sociali di una vita, e allo stesso tempo anche alle nuove esigenze di assistenza e sicurezza
che provengono dai famigliari. Rappresenta per gli ospiti una sorta di luogo di lavoro, uno spazio
in cui si fanno delle attività ma che non rappresenta un’alternativa alla casa e agli affetti.
Nei seguenti paragrafi articoliamo e presentiamo brevemente i diversi tipi di bisogno, propri
delle famiglie che seguono il malato beneficiando delle strutture semi-residenziali.
2.3.1.Trasporti e orari
Uno degli aspetti pratici più problematici a riguardo della scelta semiresidenziale consiste
nella necessità di trasporto dall’abitazione alla struttura: in molti casi si tratta di dover compiere decine di Km, quotidianamente, e non sempre i caregiver sono nella situazione di poterlo fare; oppure gli orari del centro non si coniugano con quelli lavorativi dei famigliari.
“Il centro diurno è aperto dalle 8 alle 16, ma siccome ci siamo resi conto che l’orario di chiusura del pomeriggio è troppo presto, abbiamo cominciato a fare un orario prolungato, seguendo il malato in un altro reparto. Abbiamo fatto sì che i nostri operatori fossero preparati a
lavorare in tutti i reparti della struttura, in modo tale da poter lavorare con gli ospiti del centro. Per il paziente non cambia niente mentre l’operatore può conoscere le diverse persone e
possiamo prolungare l’orario di uscita visto che per i parenti diventava difficile essere presenti alle 16 del pomeriggio”.
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2.4.2. Risorse e informazioni
Un bisogno che si rileva, sebbene non sia esplicitamente riconosciuto dalla maggior parte
delle famiglie, è legato alla scarsa conoscenza dell’utilità dei centri diurni, collegata a sua
volta alla poca consapevolezza dell’importanza di beneficiare di un supporto quotidiano, quale
può essere l’assistenza specifica fornita in queste strutture.
Il bisogno di informazioni riguarda quindi l’adeguata programmazione del percorso, come
sintetizza un operatore di un centro diurno: “Poiché la diagnosi non comporta in automatico il ricovero, può succedere che inizialmente, sebbene il malato cominci a perdere la
memoria, si riesca ad aggiustare la situazione, fino a quando non diventa troppo complessa.
Può succedere che il malato rifiuti il cibo o cominci a non prendere le pastiglie come dovrebbe, anche se magari dice di farlo. Purtroppo in struttura i malati arrivano soltanto quando i
problemi sono troppo grossi, se arrivassero prima potremmo intervenire in modo più significativo”.
La non conoscenza di quest’opportunità non viene spesso sentita come rilevante dalla famiglia nella fase iniziale del percorso, la quale inizialmente rifiuta di portare il proprio famigliare in struttura, entrando tuttavia in un percorso che rischia di diventare fortemente critico, se
affrontato senza adeguati supporti.
“Non ci saranno più giorni tutti uguali. Mi sto rendendo conto che la nostra vita si sta modificando e mi chiedo quando effettivamente esploderà e questo mi terrorizza. Non passa giorno
che lei non sbaglia le cose più elementari, lavarsi, vestirsi, mangiare e avere cura della sua
persona. Tutti mi dicono che questa è l’evoluzione della sua malattia. Ma perché? Sto vivendo
l’angoscia di chi non sa più dove sbattere la testa”.
2.4.3. Sollievo per famiglie
Il bisogno più evidente a cui rispondono i centri diurni, appare essere quello del sollievo per le famiglie, fornendo un aiuto significativo per diminuire l’affaticamento quotidiano. I “letti di sollievo”
possono andare a coprire tali necessità e alcune strutture cominciano ad offrire servizi più ampi.
“In casi eccezionali riusciamo a tenere i pazienti in reparto con alcuni progetti mirati anche
nei giorni di sabato e di domenica. A volte abbiamo dei posti-letto a disposizione e possiamo
così dare un sollievo anche notturno ai famigliari che portano i malati solo negli orari diurni”.
“Abbiamo esteso il servizio di diurnato anche al sabato e alla domenica e, sempre per rispondere al bisogno di sollievo delle famiglie, abbiamo anche offerto un servizio per tenere 15 giorni il malato e permettere così ai famigliari di andare in vacanza. Se chi assiste il malato sta
bene, si può allungare il periodo di permanenza a domicilio, aumentando così il tempo che
passa da quando il malato inizia il centro diurno a quando entra in struttura residenziale”.
2.5 I bisogni in situazioni di residenzialità
Il ricovero in struttura comporta per la famiglia l’elaborazione e l’accettazione del distacco, il
mantenimento delle relazioni con la persona e, da un punto di vista più pratico, il caregiver ha
bisogno di essere accompagnato in una serie di pratiche di ordine amministrativo di cui spesso non è stato informato.
2.5.1 L’elaborazione e l’accettazione del distacco
Dopo un lungo periodo di assistenza domiciliare e, soprattutto, l’abitudine di una vita trascorsa insieme, il momento del ricovero in una struttura residenziale comporta sensi di colpa,
angosce. In alcuni casi la situazione precedente al ricovero era diventata talmente critica e
faticosa per il caregiver, che la “soluzione” del ricovero appare un vero e proprio sollievo, sebbene questo sentimento possa acutizzare ulteriormente il rimorso verso la persona malata,
per quello che sovente viene oggi vissuto come un abbandono.
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“Un tempo, quando le persone dovevano fare il fieno, il malato veniva legato e quindi si praticava un tipo di contenzione che oggi non viene più accettato. Oggi infatti c’è maggiore interesse, i parenti in casa di riposo sono molto presenti, mentre trent’anni anni fa invece i parenti lasciavano il malato, venivano a trovarlo due volte all’anno, li trattavano come pacchi”.
“Il sostegno psicologico non è un bisogno espresso dai parenti, c’è ma non lo chiedono. Ci
sono delle persone che sono in crisi e hanno bisogno di supporto, spesso la segnalazione del
bisogno arriva dagli operatori”.
2.5.2 Mantenere le relazioni all’interno della struttura
Per il famigliare un bisogno importante è mantenere un contatto frequente e una relazione
soddisfacente con la persona ricoverata. Tale relazione si sostanzia in atti della vita quotidiana, quali dare da mangiare, aiutare nell’assistenza e nell’igiene personale.
Un altro aspetto del bisogno relazionale potrebbe riguardare il coinvolgimento più ampio degli
altri parenti che frequentano la struttura, per creare un ambiente di confronto che riproduca
in qualche modo le dinamiche di comunità.
“In genere a seguire il malato sono una o due persone di riferimento della famiglia. Sono solo
queste che si vedono. Il problema delle amicizie è che a quell’età le persone sono talmente
anziane, che spesso gli amici coetanei non ci sono più oppure sono anch’essi malati e ricoverati altrove. In alcuni casi, i parenti sono così presenti al punto da diventare molto propositivi
nella attività di animazione”.
“I famigliari esprimono richieste, soprattutto legate ad aspetti molto pratici, magari legate alla
biancheria o al cibo; ad esempio, richiedono l’acqua minerale gasata, un certo tipo e quantità
di biscotti e questi sono segnali della loro presenza e vigilanza all’interno della struttura”.
“La relazione fra famigliari è importante ma finora non abbiamo avuto dei grandi riscontri.
Anni fa avevamo fatto degli incontri a metà tra il formativo e l’informativo, anche con l’obiettivo di mettere in relazione alcuni famigliari fra di loro. Ma non abbiamo visto nascere dei
grossi desideri, o dei legami. Ogni volta che facciamo gli incontri c’è qualcuno che dice che
bisognerebbe creare un comitato ma poi, per le difficoltà pratiche, alla fine alle riunioni il
numero dei famigliari è sempre piuttosto basso”.
2.5.3 informazioni pratiche e amministrative
Anche nel caso del ricovero in struttura permane il bisogno di informazioni, soprattutto di
carattere burocratico o di servizi disponibili sul territorio.
“Spesso ci accorgiamo che alle famiglie mancano informazioni dal punto di vista pratico. Le
lacune più frequenti si hanno sul versante della domanda di invalidità, sulla prescrizione
degli ausili, sulla possibilità di avere un accompagnamento e su come ottenere un posto convenzionato. Non c’è mai molta chiarezza, in pochi si rivolgono al servizio sociale, a volte succede che non facciano la domanda giusta. Su questa parte notiamo i famigliari molto in difficoltà”.
“Arrivano spesso con le idee poco chiare, anche perché quando hai un parente demente tutta
la parte amministrativa resta un po’ a latere”.
3. La situazione secondo gli operatori
In quest’ultima parte dell’indagine si prende in esame il punto di vista di chi lavora quotidianamente a contatto con la malattia di Alzheimer.
Suddividiamo l’esame dei bisogni per differenti tipologie di servizi, sociali e sanitari: i medici
di medicina generale, gli operatori delle strutture, gli operatori domiciliari.
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3.1. I medici di medicina generale
I medici di famiglia svolgono un ruolo cruciale essendo il punto di riferimento principale per
le famiglie, soprattutto nelle prime fasi della malattia, quando si verificano i primi sintomi e
intervenire tempestivamente può favorire un migliore decorso della malattia.
Presentiamo di seguito alcuni nodi chiave per comprendere la posizione professionale dei
medici di base rispetto all’insorgere della malattia di Alzheimer nei loro assistiti.
3.1.1. L’aspetto diagnostico
Dal punto di vista della diagnosi il medico di base può rappresentare un ‘segnalatore’ della
situazione di salute, ma non è un suo compito quello di individuare la malattia. Il medico di
famiglia in questo caso è colui che invia allo specialista che sarà in grado di effettuare una
diagnosi. Questo può creare una certa distanza tra la famiglia e il medico.
3.1.2. Un ruolo molto ‘sociale’,
legato alla storia dell’intero nucleo famigliare
Un aspetto molto positivo legato al ruolo del medico di base è la sua caratteristica di ‘medico di famiglia’, un professionista che conosce la storia, clinica e non solo, di interi nuclei familiari. Questa caratteristica gli consente di avere uno sguardo ad ampio raggio sulla salute del
singolo e della famiglia, depositario di un’anamnesi indiretta, costruita in anni di dialoghi, in
grado di consigliare e indirizzare gli assistiti su una base di fiducia reciproca.
3.1.3. Il sommerso
Il problema fondamentale anche per i medici di base resta quello di chi non si presenta e dunque non si può conoscere. Si tratta dell’impossibilità di un aggancio, visto che, come ha
dichiarato un medico di base, “non possiamo andare a bussare alle porte”.
3.1.4. La formazione specifica
I medici di base non sembrano rivendicare esigenze specifiche di formazione sul tema
dell’Alzheimer. Una prima motivazione è legata al ruolo del medico che, come già detto, non
ha a che vedere con l’individuazione della diagnosi. In secondo luogo la possibilità del medico di medicina generale di supportare il malato e i suoi famigliari non viene rilevata come
peculiare rispetto ad altre forme di demenza.
3.2. Gli operatori delle strutture
Le strutture residenziali sono sempre più diventate un punto di riferimento per i ‘grandi anziani’ e le loro famiglie. I servizi si sono sempre più ampliati e specializzati, andando ad interessare sia la sfera specifica della salute dell’ospite, sia l’aspetto di appoggio e consulenza alla famiglia più in generale. Il punto di vista degli operatori delle strutture è importante anche in virtù di
questo ampliamento di competenza e, inoltre, gli stessi operatori sono portatori di bisogni specifici legati alla patologia. Le strutture residenziali sono ambiti dove l’interazione con il malato
si verifica quotidianamente, unendo spesso competenze sia sanitarie che sociali.
3.2.1 Relazione con l’ospite malato di Alzheimer
La difficoltà che maggiormente gli operatori evidenziano nella relazione con i malati di
Alzheimer è la comprensione del bisogno non espresso.
“I malati non sono di solito consapevoli di essere malati, riescono comunque a descrivere il
loro disagio, la sensazione di perdersi, di non governare la testa, il che provoca una sensazione di angoscia terribile. Qualcuno riesce a spiegarlo e a descrivere le allucinazioni, chiamandole anche con quel nome. I racconti descrivono ad esempio bambini con le ali che volano
intorno: anche rendendosi conto che non sono veri, sapendo che sono allucinazioni, provocano comunque paura e il malato ha bisogno di essere rassicurato, abbracciato, per contrastare la sensazione di confusione e di ansia”.
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Spesso il malato che non sa del suo stato di malattia cerca delle spiegazioni al suo ricovero
in struttura.
“Nella sofferenza, la spiegazione che si danno le persone è fuori da sé. Il disagio mentale non
viene compreso come malattia, non come il mal di pancia ad esempio. I malati si fanno delle
idee in merito, come nel caso di una signora che credeva di essere stata drogata e pensava di
essere in struttura per recuperare dalla dipendenza, per cui ringraziava i figli che andavano a
trovarla tutti i giorni”.
Gli operatori devono saper mettere in atto opportuni comportamenti che consentano di
migliorare l’interazione con il malato.
“Un accorgimento che ha avuto buoni esiti è stato quello di prendere il caffé insieme alla mattina. Si propone un caffè caldo appena alzati, così mentre alcuni operatori sistemano i letti gli
ospiti trovano un momento di condivisione. Considerando inoltre che dall’ultimo pasto sono
passate 12-14 ore offrire bevande calde zuccherate, come il caffè d’orzo, diventa una ‘coccola’ che attenua la fame e serve anche per fare loro, poi con più tranquillità, l’igiene”.
“Noi gestiamo i malati di A. facendo attenzione ad alcune norme di comportamento. Abbiamo
un approccio di contenimento morbido, cerchiamo di riorientarli ma soprattutto di assecondare i loro comportamenti che, in un ambiente non protetto, sarebbero molto disturbanti o
controproducenti per loro o per chi gli sta intorno”.
Un altro tipo di bisogno fa riferimento alle scelte logistiche della struttura. Infatti è importante trovare spazi adeguati per l’ospite, in relazione al decorso della malattia.
“A un certo punto occorre considerare i problemi di convivenza, per la gestione di tipologie
diverse di ospiti all’interno dello stesso nucleo, ma soprattutto problemi di convivenza tra gli
ospiti. Questo perché coloro che hanno disturbi cognitivi hanno anche disturbi comportamentali. Con la tendenza a portare le persone in casa di riposo il più tardi possibile, gli ospiti
sono persone con ormai grandi difficoltà nella gestione. Se hanno problemi di demenza arrivano in struttura quando hanno disturbi comportamentali importanti, che rendono faticosa la
gestione a casa. La struttura deve quindi adeguarsi a queste esigenze e rispondere fornendo
spazi e servizi adeguati”.
3.2.2 La relazione con la famiglia del malato
Un bisogno frequente che si riscontra è quello di sostenere e seguire la famiglia nelle diverse tappe della malattia, sia che si tratti di strutture residenziali o semi-residenziali.
“Si cerca di tenere sotto osservazione la terapia e la famiglia spesso va sostenuta, da parte
di tutti gli operatori. La fisioterapista quando scrive presta attenzione a come usare l’ausilio,
non si limita quindi soltanto a prescriverlo. Spesso gli ospiti del centro diurno passano nel
residenziale, quindi dobbiamo seguire la famiglia in questi passaggi e fare in modo che entri
pian piano in quest’ottica”.
Il ruolo dell’operatore nei confronti del caregiver è anche quello di figura di riferimento per
appoggiarsi nei momenti di difficoltà emotiva.
“Bisogna che il famigliare possa fare riferimento all’operatore con il quale ha una relazione
più significativa. Non si tratta in questo caso di un vero e proprio supporto di tipo psicologico, ma di una relazione di fiducia che si instaura nel tempo”.
“C’è una grande attenzione della relazione con il famigliare. Ce ne sono alcuni che vogliono
essere molto presenti, che stanno qui tutto il giorno, che decidono di essere presenti nel
momento del bagno, o che addirittura glielo fanno loro, o che stanno qui nel momento del
pasto. Dipende dal fatto che con questa patologia si è impostata una gestione diversa. Si
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parte dal presupposto che il parente del paziente demente è un punto fondamentale per capire il malato e per instaurare una relazione con lui”.
“Per noi è importante per potenziare i legami, per avere degli stimoli relazionali in più, sia tra
gli ospiti e sia fra famigliari e ospiti”. La famiglia fa fatica ad accettare la malattia mentale:
vede la persona fisicamente integra e in certi momenti anche brevi spiazza i famigliari con
atteggiamenti lucidi. La famiglia si aggrappa a questi episodi per negare la malattia, mentre
dimentica gli altri comportamenti in cui la malattia si manifesta in modo evidente”.
“Abbiamo cercato di lavorare molto nella direzione di far capire agli operatori che i famigliari riversano sugli operatori il loro senso di colpa, per non essere riusciti a seguire la persona.
Ci è capitato il caso di una persona che aveva assistito il famigliare per dieci anni e all’inizio
sembrava scocciare gli operatori. Abbiamo capito che poteva essere una risorsa, l’abbiamo
coinvolta nelle attività di igiene e abbiamo così trasformato un rapporto conflittuale in un rapporto positivo. La persona poi è diventata un’amica e alla fine è rimasta fino alla morte dell’ospite con un percorso di accompagnamento condiviso con gli operatori”.
“Non possiamo prescindere dai famigliari: quando accogli un demente, accogli i suoi famigliari. Qui vengono per il momento più delicato della loro vita, l’accompagnamento alla morte
di un loro famigliare”.
3.2.3 I bisogni degli operatori delle strutture
Per quanto riguarda gli operatori, si è rilevata in primo luogo l’esigenza di confronto e sollievo reciproco, al fine di evitare rischi di sovraffaticamento (burn-out).
“Per risolvere i problemi che possono insorgere a livello di operatori, cerchiamo in primo
luogo di confrontarci e parlare molto tra noi. Il responsabile si rende il più possibile reperibile per telefono, anche in orari serali, mentre in struttura sono previsti incontri strutturati con
infermieri e fisioterapisti, una volta alla settimana, mentre quelli per gli operatori avvengono
tutti i giorni. Si discute delle persone e una volta al mese si fa anche una riunione di gruppo.
Parlare molto è fondamentale”.
“Gli operatori devono essere disposti a lavorare con persone dementi, e tra chi si rende disponibile occorre poi individuare coloro che risultano più adatti. Nonostante ciò, manteniamo
un elevato turnover perché avere a che fare con i dementi è molto faticoso, richiede massima
attenzione, pazienza, formazione, attitudine”
Un secondo bisogno dal punto di vista degli operatori è legato alle competenze specifiche
acquisibili attraverso una formazione adeguata.
“Il personale che opera a contatto con i pazienti malati di Alzheimer viene selezionato e formato, e viene mantenuto un monitoraggio costante. Nel momento in cui qualcuno non ce la fa
più a gestire questo tipo di pazienti lasciamo la possibilità di chiedere il trasferimento in un
altro reparto. Succede spesso e noi manteniamo abbastanza flessibilità in questa direzione.
Nonostante si faccia una forte selezione, con la consapevolezza che chi va lì deve essere formato da questo punto di vista. Ogni anno proponiamo una formazione per la gestione del
paziente demente. La formazione aiuta ad affrontare il tema della relazione che è vissuto
come il problema principale, sia pensando agli ospiti che ai loto famigliari. Nondimeno anche
il problema di relazione all’interno del gruppo degli operatori”.
“Stiamo proponendo un corso sull’utilizzo delle emozioni. L’obiettivo è quello di imparare a
riconoscere le proprie emozioni, capire che cos’è l’empatia, come si mette in atto, come utilizzare le emozioni nella gestione quotidiana del paziente demente. Così per l’intelligenza
emotiva, occorre capire come trasformare la parte emotiva in pensiero creativo che aiuti a fare
delle scelte, anche quotidiane, nella gestione del paziente. Con i malati di demenza si ritorna
ad una modalità di comunicazione infantile, anche pre-verbale. Infatti la persona demente che
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non è più in grado di comunicare in modo verbale, mette in atto una comunicazione più semplice e magari riconosce alcune sensazioni, emozioni, ma non è in grado di esprimerle o di elaborare un pensiero.
La difficoltà dell’operatore sta nell’entrare in questo canale comunicativo. Occorre una grande conoscenza della nostra parte emotiva”.
L’assistenza al malato di Alzheimer nelle strutture, siano esse residenziali o semi-residenziali, viene raramente identificata come specifica. Ad eccezione dei centri specializzati (nel
Biellese un NAT e due CDAlzheimer), per le altre strutture il trattamento del malato di
Alzheimer viene assimilato a quello dei pazienti dementi.
“Spesso la diagnosi è di decadimento mentale, di demenza. A meno che non ci sia una diagnosi strumentale di un geriatra non abbiamo la diagnosi Alzheimer. Rispetto all’assistenza,
dal nostro punto di vista, non cambia niente”.
3.3. Gli operatori domiciliari
Gli operatori che svolgono la loro professione al domicilio degli utenti hanno un ruolo di fondamentale importanza. Si tratta di infermieri, OSS e assistenti domiciliari, più comunemente
conosciute come badanti.
3.3.1 Infermieri del territorio
Un’altra figura professionale che ha un ruolo importante sul territorio e può svolgere una funzione di sentinella è quella degli infermieri territoriali. Il loro contatto con la malattia di
Alzheimer è indiretto, le prestazioni che erogano non hanno a che vedere con questa specifica demenza. Eppure l’infermiere di territorio è importante perché entra nelle case e ha modo
di relazionarsi con malati e famigliari nel contesto della loro comunità di appartenenza.
“Noi siamo in prima linea, perché come accessibilità ai servizi ci siamo innanzitutto noi. Sia
che si tratti di dimissioni, o per i postumi di una caduta da curare, siamo noi ad andare subito
al domicilio”.
Una presenza che soffre però la debolezza della relazione a causa della estemporaneità dell’intervento.
“Manca la possibilità di seguire i percorsi delle famiglie. Quando diamo un’informazione non
possiamo sapere se la persona si è poi attivata, se il nostro suggerimento è stato messo in
pratica. Il medico di base potrebbe avere questo ruolo, nelle condizioni attuali noi non possiamo farlo. Comunque con noi i pazienti e i famigliari si sfogano, ci manifestano la loro stanchezza”.
“Dal punto di vista strettamente sanitario sono casi ‘facili’ perché siamo sicuri di avere un
punto di riferimento, siamo sicuri che non sono soli, che senz’altro c’è un caregiver che assiste il malato mentre noi facciamo il nostro lavoro”.
“I casi difficili sono quelli in cui i parenti non hanno ancora individuato il problema. Ma se c’è
la diagnosi e il parente che lo accompagna, è più facile.
Non abbiamo informazioni in merito generalmente, ci adattiamo a chi abbiamo di fronte. I
parenti hanno anche ritrosia a esplicitare i particolari della patologia, quando ci descrivono il
paziente magari ci dicono ‘ha perso la memoria...’. Casi di aggressività capitano rare volte.
Ricordo un signore che bisognava tenere fermo per riuscire a fare il prelievo... ma è raro”.
3.3.2 OSS
Gli operatori socio-sanitari che vanno a casa degli utenti svolgono azioni di supporto nelle
attività volte a rispondere ai bisogni fondamentali dei pazienti.
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- Il bisogno di relazionarsi nel modo corretto
“Nelle case è più difficile, devi entrare in punta di piedi. Oltre alla persona che ha bisogno ci
sono anche i famigliari e devi essere accettato da tutti. Il primo periodo sei in tensione perché
non sai come ti accettano. È giusto. Siamo noi che entriamo nelle case degli altri. Devi tu adeguarti all’ambiente. Dove si può, dobbiamo cercare anche di modificarlo, se è per il bene della
persona. Però sempre a piccoli passi... possono volerci dei mesi. Una volta che hanno acquisito
la fiducia allora ti aprono le porte, ma all’inizio c’è questo impatto. Sei comunque una persona
estranea anche se vieni introdotta da qualche collega, un’altra OSS o un’assistente sociale”.
- La capacità di ascolto
L’OSS deve essere in grado di comprendere l’utente, con una capacità di ascolto che deve
prendere in considerazione anche tutto l’aspetto della comunicazione non verbale.
La capacità di ascolto è direttamente proporzionale alla possibilità di effettuare una buona
prestazione per l’utente.
- Ruolo di ‘sentinelle’ per dare informazioni
La possibilità di entrare nelle case delle persone consente agli OSS di avere chiara la situazione dei pazienti. Questo consente di conseguenza di aiutarli ad attivare eventuali richieste
non ancora effettuate, dai certificati, alle prestazione, agli ausili.
Gli OSS del servizio sociale che fanno servizio a domicilio devono affrontare la difficoltà di
svolgere le funzioni che abbiamo appena descritto nel poco tempo che possono dedicare alle
singole situazioni. Gli utenti da seguire sono molti e il tempo dedicato ogni settimana dipende dalle condizioni particolari di ognuno. Alcuni, ad esempio, li si può vedere solo per una
mezz’ora due volte la settimana ed è quindi evidente che anche se la relazione che si crea può
essere molto stretta e intima si resta con il dispiacere di non poter fare di più.
3.3.3 Badanti
Affrontiamo in questo paragrafo il punto di vista dell’assistente famigliare che svolge il suo
lavoro di cura. I nodi chiave per la comprensione del ruolo della badante sono legati alla relazione con il malato e con i famigliari e alla possibilità di accedere a occasioni di formazione.
La caratteristica imprescindibile per un operatore che lavora con questo tipo di malattia è la
capacità di comunicazione. Bisogna mettere in campo una sensibilità particolare che consenta di svolgere un compito di cura altamente stressante mantenendo una specifica attenzione
per la salute del proprio assistito.
“Bisogna lavorare sulla comprensione. Bisogna saperlo prendere, saper capire. La loro mentalità viene da un altro mondo. Ma noi dobbiamo capirlo che loro sono fuori del normale”.
“Devi far sentire loro che sono ancora capaci di fare delle cose, se desiderano cantare lasciarli cantare, o camminare”.
“È una comunicazione diversa”.
La badante entra in qualche modo a far parte delle figure famigliari del malato, talvolta addirittura, a causa delle disfunzioni della memoria, sostituendole agli occhi del paziente. Inoltre
la situazione emotiva dei parenti è tale che spesso si innescano delle emozioni contrastanti
nella relazione con il malato, una sorta di risentimento per il tradimento delle aspettative di
vita insieme. L’assistente famigliare non avendo una ‘passato’ da ricordare con il paziente,
impara a conoscerlo e a gestirlo per quanto egli è in grado di dare al presente, creando quindi meno occasioni di tensione e di aggressività.
“Io sono come una in più della famiglia. Mangio al tavolo con loro. Aiuto il malato e se mangia con le mani... bisogna lasciar stare... se le lavano dopo. Altrimenti si agitano. E non è giusto riempirli di tranquillanti. Bisogna cercare di non contraddirli, essere solo vicini per essere sicuri che non succeda niente di male”.
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“È una malattia brutta, arrivano a un punto che non riconoscono più nessuno. Non c’è altra
maniera che accettarla. E non tutti ci riescono. Qualcuno capisce qualcuno no. Qualcuno l’accetta qualcuno no. Qualcuno è presente qualcuno no”.
“Ho lavorato per una famiglia dove c’erano due figli. Un figlio aveva capito benissimo la situazione e l’altro no. Quello che aveva capito era più vicino al papà, l’altro veniva poco a trovarlo. E quando veniva il papà non lo riconosceva e lui si arrabbiava. Non bisogna arrabbiarsi,
bisogna capire che è una cosa fuori dal normale, bisogna accettare il fatto che è così”.
“Le famiglie sono più arrabbiate. Nessuno si aspetta questa malattia. Ci sono delle aspettative sulla vita. Subentra l’ansia, la depressione. Bisogna vivere la cosa per capire, per sentire
quello che sentono loro”.
Il lavoro dell’assistente famigliare, specie se a tempo pieno, implica una grande assunzione di
responsabilità per la salute del paziente. Ne deriva un elevato grado di stress sia per le già
descritte condizioni di comunicazione sia per la delicatezza del ruolo anche nei confronti della
famiglia. Ne deriva come per le badanti sia molto sentito il bisogno di potersi prendere del
tempo per sé. Poter scaricare la tensione e la fatica. Sono quindi ritenute fondamentali le ore
libere e la possibilità di confrontarsi sui problemi che si devono quotidianamente affrontare.
Anche una formazione adeguata è ritenuta importante anche, e forse soprattutto, in preparazione prima di iniziare un’assistenza con questa tipologia di malati.
“L’unico modo per riprendere energia sono le ore libere. Staccare”.
“Se c’è la famiglia disponibile anche un confronto serve per scaricarsi. Ma spesso la famiglia
non lo fa, perchè aspettano il momento in cui tu arrivi per andare via loro, per prendersi i loro
spazi”.
“Parlare serve per sfogarsi però una volta che tu sei dentro è la stessa ruota che va. Riunirsi,
parlare... però quando torni al lavoro è la stessa cosa.
Devi essere preparato sul tipo di malattia, devi sapere che cosa ti aspetta”.
“La prima cosa importantissima da affrontare è la responsabilità che bisogna prendersi di
queste persone”.
“Quando ho fatto il corso cercavano di farci capire la maniera di alzarlo, di trattarlo. Sono
cose che servono perchè se si seguono questi consigli ci sono risultati in questo lavoro”.
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Metodologia della ricerca
Nello svolgimento dell’indagine sono stati utilizzati differenti metodi di ricerca.
Per la definizione della prima parte “Dati e indicatori” è stata adottata una metodologia quantitativa. Per la descrizione dei dati relativi alla popolazione si è svolta un’analisi dati di tipo
secondario. L’analisi della letteratura specifica sul tema Alzheimer è stata utilizzata per rapportare le stime su base europea al contesto locale biellese.
Sono state richieste estrazioni dati ad hoc a: CSI Piemonte per i dati relativi alle invalidità
civili; AslBi per la banca dati ADI e per la banca dati dell’Unità di Valutazione Alzheimer. È
stata realizzata una ricerca tramite scheda di rilevazione inviata a tutte le case di riposo della
provincia di Biella. Si è svolta una ricerca sui materiali dell’archivio progetti domiciliarità del
Consorzio socio-assistenziale Iris.
Per quanto riguarda la seconda parte e la terza parte della ricerca - “Il punto di vista delle
famiglie e dei malati di Alzheimer” e “La situazione secondo gli operatori” - è stata adottata
una metodologia qualitativa. Per indagare i vari punti di vista degli attori coinvolti sono state
effettuate interviste individuali e di gruppo e focus-group. Nella presentazione di questa parte
sono state inserite le citazioni più significative dalle molte testimonianze raccolte.
Ringraziamenti
Roberta Bellinaso (per la tesi di laurea “Comunicare con le persone affette dalla demenza di Alzheimer:
esperienze dei “caregiver”)
Ivana Bernardi (Coordinatore Infermieristico - Distretto 2 AslBi)
Nadia Bonino (responsabile Nucleo B Belletti Bona)
Enrico Buscaglia (Medico di Medicina Generale AslBi)
Luciano Caser (geriatra AslBi)
Laura Cazzulino (responsabile qualità Belletti Bona)
Anna Collobiano (psicologa Cerino Zegna e Centro della Memoria)
Luciano Conforti (CD Casa di giorno di Biella)
Franco Ferlisi (AIMA)
Maria Lucia Floris (Adest del Consorzio Cissabo)
Paola Garbella (direttore generale Cerino Zegna)
Tiziana Giacoletti (Centro diurno Cerino Zegna)
infermieri (varie zone: Andorno, Biella, Mongrando, distretto2)
Sonia Messina (responsabile qualità Cerino Zegna)
Claudie Miglietti (AIMA)
Enrico Modina (Medico di Medicina Generale AslBi)
Giada Molinaroli (assistente sociale Consorzio Iris)
Stefano Morenghi (CCRB - coordinamento case di riposo)
Maurizio Orso (CD Tutt’al dì di Candelo)
Ortone (geriatra AslBi)
Stefania Papa (Centro della Memoria)
Carlo Peruselli (direttore della Struttura complessa Cure palliative AslBi)
Emanuela Petit (responsabile CD Maria Grazia di Lessona)
Caterina Pidello (Centro della Memoria)
Carlo Prastaro (direttore della Struttura semplice cure primarie Distretto 2 - AslBi)
Maurizia Regis (Nucleo Alzheimer Temporaneo – Cerino Zegna)
Maria Jesus Salvatierra (assistente familiare)
Monica Tolosi (assistente sociale Consorzio Cissabo)
Paola Vetticoz (associazione Filo d’Arianna)
Emanuela Zanotti (associazione Barioglio)
Paola Zago (GRAB – coordinamento case di riposo)
Un ringraziamento particolare a tutti famigliari incontrati durante l’indagine.
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