Gli Ecosistemi - Telecom Italia

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Gli Ecosistemi - Telecom Italia
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Ciclo di incontri
“Gli ECOSISTEMI”
La biosfera
I piccoli mondi
Rappresentare un ecosistema
Evoluzione darwiniana e sistemi produttivi
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Ecosistemi –
Come “funziona” e come “cambia” il mondo
envenuti! Come da tradizione al Future Centre di Telecom
Italia ci si ritrova ogni tanto per una chiacchierata sul futuro.
In questo primo ciclo 2008-2009 affronteremo un tema affascinante, la trasformazione in essere delle strutture produttive mondiali sotto la spinta di una evoluzione tecnologica e infrastrutturale che cambia radicalmente come e dove si fa innovazione e si
producono nuovi prodotti e servizi.
Le grandi vie di comunicazione, dalle autostrade del mare in cui
enormi navi trasportano ciascuna fino a 10.000 container, ferrovie e
linee aeree e, ovviamente telecomunicazioni e computer che permettono di annullare le distanze hanno trasformato il mondo in una grande piazza in cui convivono milioni di aziende e miliardi di consumatori, ciascuna e ciascuno con i suoi obiettivi, desideri e interessi. Stiamo
entrando in un nuovo mondo, quello degli ecosistemi. In realtà il
mondo degli ecosistemi è il mondo vero, quello in cui siamo sempre
vissuti, noi e le migliaia di generazioni passate, i milioni di specie animali e vegetali che sono state protagoniste della evoluzione della biosfera. La novità è che oggi gli artefatti prodotti dall’uomo e le relazioni
tra i milioni di aziende che operano sul mercato hanno raggiunto una
densità tale e operano in un contesto di interazioni continue da comportarsi come un ecosistema essi stessi.
Il tema è importante e lo affronteremo per piccoli passi, piccoli tasselli, ciascuno interessante di per sé, molto diversi l’uno dall’altro,
eppure in grado, se visti insieme, di formare un mosaico che speriamo risulti facilmente comprensibile.
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La Biosfera: da Darwin a Dawkins
Iniziamo ad osservare l’ecosistema per eccellenza, quello della
natura. E’ stato sotto gli occhi di miliardi di persone per decine di
migliaia di anni. In realtà gli anni in cui si è iniziato a studiare in modo
sistematico e man mano comprendere la biosfera non sono poi tanti:
due-trecento.
Tuttavia, sempre più abbiamo i mezzi che ci consentono di andare
indietro nei millenni ad esplorare sulla base di reperti fossili la storia
della evoluzione. Quello che proviamo a fare in questo incontro è di
esplorare alcuni aspetti di questa evoluzione che ci saranno poi utili
nello sviluppare un ragionamento su altri tipi di ecosistemi.
Linneo, Darwin, Dawkins
Anche se greci, cinesi ed indiani avevano classificato animali e
piante, il primo vero contributo, che possiamo definire scientifico alla
classificazione e comprensione, avviene nel 1735 con la pubblicazione del libro “Systema naturae, siver tria regna naturae systematicae
proposita per classes, ordines, genera et species” da parte del naturalista svedese Carlo Linneo. E’ a lui che dobbiamo la classificazione
in Regno (Animalia), Phylum (Chordata), Classe (Mammalia), Ordine
(Primati), Famiglia (Hominide), Genere (Homo) e Specie (Homo
Sapiens).
Per Linneo tutte le specie esistenti erano sempre esistite dal
momento della creazione. Occorrerà attendere il secolo successivo,
con Charles Darwin, per arrivare ad una teoria in cui le specie erano
il risultato di una continua trasformazione e che quelle presenti nel
1800 non erano sempre esistite, tutt’altro. Più si andava indietro negli
anni e più le specie di oggi scomparivano, ma altre che oggi non ci
sono più lasciavano testimonianze fossili. La paleontologia ed anche
la teoria dell’evoluzione formulata da Darwin si scontravano con l’età
della Terra. Questa, secondo le teorie di allora, non avrebbe avuto più
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di 400 milioni di anni e questa datazione aveva ricevuto il sigillo di Lord
Kelvin, uno degli scienziati più influenti dell’epoca. Questi aveva applicato un metodo rigoroso per arrivare alla datazione, basato sulla temperatura della superficie terrestre e sul gradiente (differenza) di temperatura man mano che ci si addentrava nelle viscere della terra. Il
metodo era corretto, i calcoli pure. Il modello, però, era errato. Non
aveva cosiderato (anche perché a quel tempo non lo si sapeva) che
l’interno della Terra non era immobile, ma caratterizzato da flussi continui di materia. Avesse tenuto conto di questi, l’età della Terra sarebbe passata da 400 milioni ad oltre 4 miliardi di anni.
L’età della Terra è importante perché occorre molto tempo per raggiungere la enorme diversità della biosfera in cui oggi viviamo.
Darwin sosteneva che la datazione della Terra fosse errata e la
prova era nella evoluzione delle specie. Kelvin sosteneva che la teoria
dell’evoluzione fosse errata e la prova era nella datazione della Terra.
Oggi la diatriba è definitivamente risolta. La Terra ha un‘età di circa 4,5
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miliardi di anni e la teoria della evoluzione naturale è ormai parte del
sapere scientifico.
Oggi, la teoria di Darwin, di cui festeggiamo la ricorrenza dei 150
anni nel 2009, ha ricevuto ulteriori conferme ed anche “aggiustamenti” dalla lettura del codice della vita, il DNA. E’ da questa, oltre che sui
tanti ritrovamenti fossili di cui oggi disponiamo, che è stato possibile a
Richard Dawkins ripercorrere all’indietro il cammino dell‘evoluzione
nel bellissimo libro “Il racconto dell’antenato”.
Le stranezza della evoluzione vista “dai geni”
Una premessa: come nei famosi telefilm di Perry Mason dovrei promettere di dire tutta la verità, solo la verità e nient’altro che la verità.
E’ una promessa che non posso fare. Dire tutta la verità richiederebbe
un tempo di cui non disponiamo per cui facciamo di necessità virtù e
accontentiamoci di parte della verità e di diverse semplificazioni che
sono certo faranno inarcare il sopracciglio a qualunque studioso dell’evoluzione. D’altronde è meglio una verità parziale ma comprensibile ad una completa ma incomprensibile.
Ai più giovani è stato insegnato a scuola, i più anziani lo hanno
letto sui giornali e ascoltato in televisione: ciascuno di noi eredita dai
genitori i caratteri somatici attraverso piccoli frammenti contenuti nel
DNA: i geni. Questi sono raggruppati nei cromosomi.
In ogni nostra cellula abbiamo 23 coppie di cromosomi, ciascuno
contenente un filamento di DNA e svariate proteine. In ogni coppia un
cromosoma è ereditato dal padre, l’altro dalla madre. I filamenti di
DNA, chiamati anche “eliche” per la loro forma e scoperti da Crick,
Watson e Rosalind Franklin, contengono le istruzioni per costruire i
vari componenti elementari, i mattoni, che compongono gli organismi
viventi. Non è il caso di descrivere come questo avviene (è semplicemente complicato…) ma basta osservare che l’insieme di queste
istruzioni non solo consente di passare dall’embrione al bambino ma
consente anche la vita di tutti i giorni: queste istruzioni sono trasmes-
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se dai genitori al figlio. Ciascun filamento di DNA contiene moltissimi
geni (parti che hanno le istruzioni necessarie per costruire una particolare proteina), degli elementi che servono da regolazione (indicano,
ad esempio, quando attivare un gene e quando un altro), e altre
sequenze di informazioni che, anche se non sappiamo bene cosa
“servano”, si sono dimostrate importantissime per comprendere l’evoluzione delle specie. Il fatto di avere i capelli castani dipende da un
gene, così come il fatto di avere gli occhi azzurri. Nel primo caso basta
che esista un gene nella coppia di cromosomi che abbia l’istruzione
“capelli castani”, nel secondo occorre che tutti e due i geni presenti nei
due cromosomi dicano “occhi azzurri” (si dice in questo caso che il
gene è recessivo, nel primo che il gene è dominante). Il fatto di essere alti piuttosto che “bassi”, invece, dipende da un insieme di geni (che
regolano l’ormone della crescita) e da fattori alimentari…I giapponesi
hanno cambiato la loro dieta negli ultimi 20 anni ed hanno aumentato
la statura delle nuove generazioni di oltre 10 cm. I fiori hanno i petali
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di un certo colore perché hanno i geni che li indirizzano in quel verso,
ma se nel vaso delle ortensie mettiamo certe sostanze possiamo far
diventare i petali blu anziché rosa. Insomma, i caratteri somatici dipendono in gran parte da quello che sta scritto nel DNA di quell’essere,
ma non solo.
Questo accade per gli uomini, ma anche per i gatti, le farfalle e i
cipressi. Vale per tutti gli esseri viventi (anche se ciascuna specie ha
un suo numero di coppie di cromosomi, la specie umana ha 46 cromosomi, 23 coppie come la lepre, mentre il coniglio ne ha 22, la volpe
18 coppie come pure il lombrico, il martin pescatore 66 coppie, il
pesce rosso 50 coppie, il grano 21 e le felci più di 1000). Le cose sono
un po’ diverse per quegli esseri viventi che non hanno il concetto di
padre e madre, come nel caso di batteri, virus e simili. Ma non è il
caso di entrare in questi dettagli.
Prendiamo un singolo individuo, ad esempio “me”. Nelle mie cellule trovo i geni che ho ereditato da mio padre e mia madre. Ogni coppia di cromosomi ha infatti un elemento che arriva da mia madre ed
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uno da mio padre. Non ho, però, tutto il patrimonio genetico dei miei
genitori, avendo preso da ciascuno di loro solo “metà” del loro patrimonio genetico. Il loro patrimonio genetico era stato ereditato dai miei
nonni….Ora, prendiamo una coppia dei miei cromosomi ed osserviamo quello che è arrivato da mia madre. Questo faceva parte di una
coppia nelle cellule di mia madre di cui un elemento era derivato dal
nonno materno ed uno dalla nonna materna. Quindi io avrò ereditato
quel cromosoma o dal nonno materno o dalla nonna materna, non da
entrambi. Se avessi preso una diversa coppia di cromosomi, sarebbe
valsa la stessa regola per cui anche qui lo avrei ereditato (tramite mia
madre) o dal nonno materno o dalla nonna materna. E’ esperienza
comune dire guardando un bambino “ha i capelli neri come la
nonna…”. Nelle 23 coppie di cromosomi ne avremo quindi alcune che
ereditano da un nonno, altre da un altro nonno (le cose sono un po’
più complicate, ma accontentiamoci di questo tipo di rappresentazione che è sufficiente per i nostri scopi).
Chiaramente possiamo continuare la nostra risalita alla ricerca di
antenati più distanti per identificare da chi arrivano i nostri geni.
Scopriremo ad un certo punto che la maggior parte dei nostri antenati (considerati tali perché genitori dei genitori dei genitori….) non lo
sono affatto in termini di geni, in quanto da loro non abbiamo preso
assolutamente nulla.
In senso biologico quelli non sono affatto nostri antenati, non
abbiamo nulla in comune con loro.
Al limite nostro nonno potrebbe non esserlo affatto dal punto di
vista genetico, in quanto per uno strano (e veramente improbabile)
gioco del caso potremmo non avere in comune nessun gene con lui.
Eva ed Adamo, una strana coppia
Adamo ed Eva sono, ovviamente, i nostri antenati: tutti noi, e anche
tutte le persone che sono esistite devono “per forza” risalire ad una
prima coppia…
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1000 anni fa
500 anni fa
OGGI
Adamo: 130.000 anni fa
Eva:
60.000 anni fa
Nelle scienze l’approccio “per forza” non funziona.
Andiamo per gradi. Supponiamo di voler risalire alla coppia che ha
dato origine a tutte le persone che oggi sono al mondo. Risaliremo
all’indietro nel tempo ed arriveremo ad una coppia che ne è l’origine.
Proviamo ora a rifare questo stesso percorso, ma anziché partire
dai giorni nostri partiamo 150 anni fa. A quell’epoca esistevano sulla
terra alcune popolazioni che oggi non esistono più, come ad esempio
gli aborigeni della Tasmania. Quindi se partissimo da quel punto e
andassimo a ritroso nel tempo, arriveremmo ancora ad una coppia di
origine, ma questa sarebbe diversa da quella cui siamo arrivati partendo dalle persone che esistono oggi.
Abbiamo qui una prima stranezza. A seconda del momento da cui
partiamo per arrivare alla prima coppia …troviamo coppie diverse.
Purtoppo, non finisce qui.
Quando abbiamo visto che i nostri geni discendono tutti dai nostri
genitori (da una parte di quelli che hanno i nostri genitori) abbiamo
sorvolato su un punto: i geni contenuti nel cromosoma Y (se siamo
maschi) possono arrivare solo dal padre in quanto la madre non ha
quel cromosoma. Per cui, se esaminiamo un maschio siamo in grado
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di risalire alla sua “parentela” maschile, seguendo la storia dei geni
presenti sul cromosoma Y.
Per contro, al momento della fecondazione dell’uovo, il gamete
maschile porta il patrimonio ereditario (del padre) all’interno dell’uovo.
Tuttavia la parte citoplasmatica, quindi non il nucleo, arriva in toto dalla
madre. Ora in questa parte esiste anche del DNA, precisamente dentro ai mitocondri. Questi sono un retaggio antichissimo di batteri che
si sono trovati inglobati nelle cellule.
Quindi, se andiamo ad analizzare il DNA presente nei mitocondri,
possiamo risalire alla parentela per via femminile.
Bene: proviamo allora a risalire ai nostri antenati seguendo la traccia lasciata dal DNA presente su Y e quella presente sui mitocondri.
Sorpresa!
Adamo si scopre che è vissuto circa 130.000 anni fa, Eva è vissuta circa 60.000 anni fa. Decisamente una strana coppia…che di certo
non ha mai litigato, altro che mela!
L’evoluzione: DNA e selezione naturale
La vita inizia oltre 3 miliardi di anni fa, le prime traccie sono state
trovate in Australia ad Apex Chert. L’Australia, infatti, è l’unica parte di
terre emerse che non sono scivolate sotto la crosta terrestre come è
accaduto con tutte le altre. In Italia, come in America, in Asia, in Africa
non esistono rocce databili oltre 2 miliardi di anni fa. Questo ha lasciato gli scienziati molto perplessi fino alla comprensione dei movimenti
delle zolle di cui si compone la parte esterna della terra, in continuo
movimento e scivolamento l’una sotto le altre, per cui man mano la
crosta viene riassorbita all’interno della terra. Questo riassorbimento e
sostituzione con nuova crosta è importantissimo, in quanto porta in
superficie nuove sostanze che possono nutrire la vegetazione e questa il mondo animale. In Australia, dove questo non è avvenuto, il
suolo è ormai quasi sterile con enormi problemi per l’agricoltura.
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3.446.000.000 di anni fa
Circa 3 miliardi e mezzo di anni fa, quindi, la vita inizia sotto forma
di esseri unicellulari con una cellula senza un nucleo. Per arrivare alla
“invenzione” del nucleo dovranno passare millesettecento milioni di
anni, più di quanti ne siano stati necessari per la nascita della vita. E’
infatti intorno a 1,7 miliardi di anni fa che si ha traccia dei primi organismi unicellulari dotati di un nucleo e di un citoplasma ben diviso.
Passeranno altri mille milioni di anni per arrivare ai primi organismi
complessi e non semplicemente colonie di aggregati monocellulari,
come le spugne.
Vediamo allora, anche solo in termini di tempo, come vi sia stato
un enorme salto tra la materia inerte e la vita, uno altrettanto grande
per passare dalla vita in cellule senza nucleo alle prime strutture con
una separazione tra parte di controllo ed ereditarietà e parte operativa di acquisizione materiale dall’esterno per produrre energia e
costruire quanto serve alla vita “di tutti i giorni”. Anche il passaggio da
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esseri monocellulari a esseri multicellulari è stato, almeno a giudicare
dal tempo necessario, molto complicato.
Per contro, passare dai primi mammiferi (che hanno inventato una
lunga gestazione che permette uno sviluppo protetto del concepito)
all’uomo è stato un passaggio, relativamente parlando, rapidissimo.
Sembra che passare da un “canguro” ad un uomo sia molto più semplice che non da un batterio ad una ameba, con buona pace per il
nostro orgoglio di essere “uomini”!
Ritroviamo gli effetti di questi diversi tempi anche in termini di varietà: nel diagramma a ciambella dell’evoluzione si vede che la massima
parte è occupata da organismi senza nucleo, a cui seguono quelli ancora senza nucleo ma con strutture interne organizzate, come i batteri e
solo un decimo rappresenta organismi multicellulari, tra cui l’uomo.
Come è possibile questa varietà di specie che sono apparse sulla
terra? Il “trucco” sta nel DNA, questa lunga spirale che contiene il “programma” della vita nelle sue diverse forme. Immaginiamo che sia un
lungo nastro perforato, come quelli dei primi computer. Ad ogni insie-
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me di fori corrisponde un’istruzione su come fare una certa proteina (il
mattone di base degli esseri viventi). Esistono anche istruzioni relative a quando attivare altre istruzioni; un po’ come fanno i programmatori di oggi quando scrivono un programma e in questo richiamano
vari altri pezzi di programma magari scritti da altri.
Quando la cellula si suddivide per dare origine alla cellula uovo da
un lato (ovocita) ed al gamete maschile dall’altro, il lungo nastro del
DNA si apre in due stringhe e ciascuna viene complementata in modo
tale da formare due nuove coppie di nastro. In questo processo possono verificarsi variazioni, trasposizioni di pezzi da un punto all’altro,
copiature non esatte.
Nella maggioranza dei casi queste variazioni non hanno effetti (esistono infatti in ogni cellula coppie di cromosomi, uno derivato dal
padre e l’altro dalla madre, per cui un difetto di copiatura in uno in
genere viene ovviato dalla corretta copiatura nell’altro). In alcuni casi
queste variazioni portano ad effettive variazioni nel nuovo essere che
deriverà da quella cellula uovo o spermatica.
Nella stragrande maggioranza dei casi di variazione trasmessa alla
prole il risultato non è buono: il prodotto del concepimento non arriva
al termine, il neonato va incontro a morte prematura o è sterile e quindi la variazione non verrà propagata. Nei casi in cui il prodotto del concepimento è completamente vitale interviene il processo di selezione
naturale, la grande intuizione di Darwin: se la variante prodotta è
meglio adatta all’ecosistema in cui si trova a vivere, avrà un vantaggio
competitivo sulle altre e questo varrà per la sua progenie che nel
tempo prenderà il sopravvento.
Questo, ovviamente, richiede tempi molto, molto lunghi, tempi
comunque compatibili con l’età della Terra.
L’evoluzione avviene tramite un processo casuale di variazione (è
certamente prima nato l’uovo, dopo nasce la gallina, perlomeno la
genetica è servita a rispondere a questa domanda) associato ad un
processo di selezione causato dalla competizione con le altri varianti
di quella specie nell’ecosistema.
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Chi è più “bravo”?
L’uomo ovviamente. Non è saggio però chiedere all’oste se il vino
è buono. Cerchiamo di rispondere a questa domanda in modo più
neutrale.
Iniziamo con l’osservare che ogni essere presente sulla terra ha
una storia di 3,5 miliardi di anni, è arrivato a questo punto grazie ad
un’evoluzione lunghissima che è la stessa, in termini di tempo, di tutti
gli altri esseri. Non è vero, come alcuni credono, che l’uomo sia più
evoluto della scimmia, e neppure di una medusa.
Siamo tutti figli di quel caso che ha portato un’aggregazione di
atomi a essere configurata in modo tale da potersi duplicare in presenza di condizioni favorevoli. In questi 3 miliardi di anni ogni organismo, ogni specie ha cercato di sopravvivere e di replicarsi. La stragrande maggioranza non ce l’ha fatta. La grande varietà che vediamo
oggi è un minuscolo frammento di sopravvissuti (nel frattempo cambiati tramite il processo dell’evoluzione). Le preoccupazioni, giuste e
importantissime, per la sparizione di qualche specie fanno sorridere
se misurate sulla scala dell’evoluzione. Questa è stata marchiata da
25% di tutte le specie animali
conosciute
40% degli insetti
436.000 specie descritte
Dieta:
Ambienti:
detritivori, xilofagi, fitofagi, carnivori,
commensali e parassiti di altri animali,
coprofagi e necrofagi
Foreste pluviali, deserti, zone urbanizzate,
acque dolci e salate, dall’equatore ai ghiacci
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grandi sconvolgimenti che hanno portato alla sparizione di quasi tutte
le forme di vita. La più recente, chiamata “K-T line” dal periodo in cui
è avvenuta, circa 65 milioni di anni fa tra il Cretaceo e il Triassico (la K
deriva da Kreta, nome greco per indicare il calcare tipico dei sedimenti di quel periodo), si è portata via quasi tutti i dinosauri (meno quelli
che sono oggi gli uccelli…) e insieme a loro oltre il 70% delle specie
allora esistenti.
Questa non è stata neppure la più catastrofica. Quella del
Permiano-Triassico ha fatto scomparire il 50% delle famiglie e il 96%
delle specie marine esistenti.
Ciascuna di queste ecatombi di massa è stata causata da cambi
importanti nell’ecosistema e ha portato da un lato ad una sparizione
di moltissime specie e dall’altra allo sviluppo impetuoso di altre e delle
loro varianti. I fiori, sono un’ “invenzione” molto recente che i primi
mammiferi non hanno avuto il piacere di vedere….
Come facciamo, allora, ad eleggere il più bravo? Certamente mettiamo in concorso quelle specie che oggi esistono, visto che sono riuscite ad arrivare fin qui. I dinosauri li consideriamo tra i perdenti.
Lo stesso ragionamento lo potrebbe fare qualcuno tra uno, dieci,
cento milioni di anni, mettendo tra i perdenti quelle specie che oggi ci
sono ma allora non ci saranno più.
E in questo senso quali sono le specie che hanno le maggiori probabilità di sopravvivere a ulteriori inauspicabili, ma inevitabili, cataclismi? Certo quelle in grado di popolare ecosistemi molto diversi, di
resistere a condizioni estreme, di sopravvivere utilizzando forme di
energia molto diverse, di generare nuove specie, e quindi varietà sono
quelle su cui è più ovvio scommettere.
Le grandi estinzioni del passato hanno distrutto immense quantità
di specie, ma tra queste quelle che hanno pagato il prezzo maggiore
sono sempre state quelle marine. Il motivo è che il mare offre un ecosistema molto più uniforme rispetto a quelli che si trovano sulla terraferma per cui una alterazione a questo ecosistema colpisce tutte le
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specie, non essendocene alcune che si sono evolute per sopravvivere in ambienti diversi.
L’uomo ha buttato una bomba atomica sull’atollo di Bikini. A distanza di 20 anni l’ambiente era ancora radiottivo, rendendo impossibile la
vita a quasi tutti gli animali. Con qualche eccezione. Ad esempio si è
scoperto che l’atollo era abitato da alcune specie di coleotteri e piante.
I coleotteri sono in cima alla lista dei favoriti per la sopravvivenza a
cataclismi. Rappresentano il 25% delle specie oggi esistenti, se ne
contano oltre 430.000 specie (il 40% degli insetti) e sono in grado di
mangiare di tutto e hanno occupato quasi tutti gli ecosistemi.
Mi rendo conto che è brutto considerarli più bravi dell’uomo e certo
dobbiamo osservare che dove l’uomo non sarebbe in grado di vivere
con tecnologia e struttura organizzativa sociale è riuscito a creare
comunque condizioni per vivere. Quelle stesse strutture sociali, organizzative e tecnologiche, però, sono anche in grado di creare cataclismi artificiali, anticipando quelli naturali.
Differenziazione e occupazione di vari ecosistemi sono le caratteristiche vincenti nel lungo periodo.
Equilibrio di un ecosistema
In un ecosistema ciascun partecipante pensa per sé. Ve ne sono
alcuni che pare si alleino per conseguire uno scopo che va a vantaggio di entrambi. Ad esempio il pesce pagliaccio e l’anemone, l’uccellino che, mangiando gli insetti sulla pelle del rinoceronte, lo libera dal
fastidio. In altri casi abbiamo esempi più o meno tollerati di parassitismo: dalla remora che si attacca allo squalo all’orchidea che si attacca ad un albero. Non esiste comunque in un ecosistema il concetto di
un accordo tra i vari partecipanti. Molto semplicemente ciascuno “fa i
fatti propri” e questo nel tempo porta allo stabilirsi di un equilibrio. Se
faccio una cosa che infastidisce troppo un altro, questo cercherà di
reagire e sulla base dell’efficacia di quella reazione, io cambierò o
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meno il mio comportamento. Certamente le gazzelle non si accordano con i leoni affinchè questi ne mangino solo una piccola percentuale! Peraltro se in una zona un incremento di leoni portasse ad aumen-
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tare la percentuale di gazzelle mangiate, dopo un po’ di tempo queste
diminuirebbero al punto che i leoni inizierebbero a soffrire la fame,
diminuendo essi stessi.
La scomparsa dei leoni, per contro, porterebbe ad un forte aumento delle gazzelle che finirebbero per brucare tutta l’erba restando esse
stesse senza cibo.
In un ecosistema, pur non essendovi nè contratti nè avvocati, le
diverse relazioni tendono ad equilibrarsi.
Possiamo addirittura andare oltre, definendo un ecosistema come
un insieme di relazioni in equilibrio dinamico (cioè variabile nel tempo
intorno a certi punti).
A seconda dell’ecosistema abbiamo equilibri sostanzialmente stabili nell’intorno di una certa condizione, oppure equilibri ciclici (nel
mondo degli insetti questo è tipico in molte specie, come pure in quello delle meduse: a periodi di bassa popolazione se ne succedono altri
di alta popolazione).
Quando arriva uno sconosciuto…
Quando in un ecosistema in equilibrio arriva un nuovo attore l’ecosistema deve trovare un nuovo punto di equilibrio, in quanto vengono
a cambiare le sue relazioni. A volte questo “ingresso” risulta talmente
traumatico da portare in effetti alla distruzione dell’ecosistema precedente e alla creazione di un nuovo ecosistema.
E’ quanto è accaduto in Australia, quando i coloni importarono i
conigli. Questi si trovarono in un ambiente dove non esistevano predatori in grado di contenere la loro crescita che in breve tempo assunse vere e proprie dimensioni di una piaga distruggendo la vegetazione e con questa portando alla scomparsa di specie locali che di quella vegetazione vivevano.
L’introduzione delle volpi non solo non diminuì il problema, ma lo
rese peggiore. I conigli, infatti, “conoscevano” il pericolo volpe da millenni e cercavano di evitarle. Per contro i marsupiali non avevano mai
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incontrato le volpi e non scappavano. Dal punto di vista delle volpi una
cena a base di carne di marsupiale era equivalente a quella a base di
coniglio. Siccome il marsupiale era più facile da prendere che un coniglio, ben presto le volpi decisero che la cena a base di marsupiale era
da preferirsi, contribuendo ulteriormente a distruggere l’ecosistema
pre-esistente.
La perdita di quella poca vegetazione, che riusciva a sopravvivere
sullo sterile suolo australiano, ha portato in molte zone all’aumento
dell‘erosione di pioggia e vento causando forti mutamenti nel paesaggio.
L’avvento di nuovi attori che operano secondo regole diverse porta
ad un cambiamento radicale dell’ecosistema.
Cane, Lupo, Coyote… Gatto
Abbiamo citato spesso la parola “specie” nelle pagine precedenti.
Le specie sono importanti, perché ciascuna opera secondo certe
regole e complessivamente caratterizza l’ecosistema in cui vive.
Cosa si intende però con la parola “specie”? La definizione è stata
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dibattuta per molto tempo. Inizialmente due animali o piante erano
considerati appartenenti a specie diverse se avevano dei caratteri
morfologici (aspetto) marcatamente diversi. Nel tempo questa differenziazione si dimostrò problematica. All’interno di uno stesso gruppo
potevano esistere elementi con caratteristiche molto diverse.
Occorreva trovare una nuova definizione.
Al momento, sia pure con alcuni disaccordi, si tende a definire
come appartenenti alla stessa specie due animali, o piante, che sono
in grado di accoppiarsi e generare una prole.
Cane, lupo e coyote erano ritenuti appartenenti a specie diverse ma
sotto questa definizione sono stati raggruppati tutti nella stessa specie.
Il gatto, viceversa, appartiene ad una specie diversa, non essendo possibile un “incrocio” (non solo dal punto di vista caratteriale).
Nel tempo una specie va incontro a variazioni, evolve. Per un certo
periodo le diverse varianti rimangono compatibili e possono continuare ad incrociarsi tra loro e proliferare.
Questi incroci tendono a rallentare l’evoluzione. Si vede che quando individui di una stessa specie si trovano ad essere separati, in
modo che viene impedito il loro incontro (un pezzo di terraferma si
stacca e diventa un’isola, come è successo più e più volte a seguito
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dei movimenti della crosta terrestre), ciascun gruppo continua ad evolvere, ma questa evoluzione, che come ricordiamo deriva da variazioni casuali, tenderà a creare individui sempre più diversi tra i due gruppi. Ad un certo punto, anche se questi rientrassero in contatto sarebbero incapaci di generare una prole.
I due gruppi diventano cioè incompatibili l’uno con l’altro: è nata
una nuova specie.
Questa caratterizzazione di specie ovviamente non può essere
applicata a tutti quegli esseri (e sono la maggioranza) che non si riproducono tramite accoppiamento, come virus e batteri; questi, tuttavia,
sono talmente piccoli da essere invisibili e quindi … li trascuriamo.
Le catene alimentari
Abbiamo visto come i diversi attori di un ecosistema operino in
modo indipendente l’uno dall’altro, ma nel fare questo spesso si utilizzano a vicenda, mangiandosi l’un l’altro. In effetti le relazioni non sono
quasi mai simmetriche: il leone mangia la gazzella, ma questa non
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mangia il leone. La gazzella bruca l’erba, ma l’erba non bruca la gazzella. L’erba alta ruba lo spazio all’erba bassa e non viceversa.
In questo insieme di relazioni ogni attore diventa un trasformatore,
immagazzinatore e fornitore di energia: le piante convertono l’energia
solare e sali disciolti nel terreno in zuccheri e altre sostanze, che forniscono a loro volta energia agli erbivori, che la immagazzinano sotto
forma di grassi e proteine, pacchetti di energia questi utilizzati dai carnivori…che, a loro volta, morendo e decomponendosi riportano i sali
nel terreno per poter essere riconvertiti in pacchetti di energia da parte
delle piante.
Il sole è il punto di origine dell’energia (l’eccezione è costituita per
quegli habitat in cui la luce del sole non arriva mai, ad esempio nel
profondo degli oceani; qui le fonti di energia diventano i soffioni di gas
e acqua calda riscaldati dal magma terrestre). Tutto il complesso sistema vivente si basa su questa capacità di acquisire e trasformare
l’energia.
Le catene alimentari sono il meccanismo tramite cui l’energia viene
spostata da una specie all’altra.
Un’interruzione di questo processo condanna la specie all’estinzione. Noi diciamo che quell’animale è morto di fame, un fisico direbbe
che non è riuscito a mantenere il bilanciamento energetico.
Il consumo energetico
L’energia è alla base della fisica e il suo utilizzo e trasformazione
alla base di ogni ecosistema.
Ciascun organismo consuma energia in dipendenza dalla sua
massa, dall’ambiente e ovviamente dalle attività che compie. Un uomo
di 80 kg, che svolga un lavoro manuale, consuma in un giorno circa
3,5KWh. Gli basterebbe quindi l’energia ricavabile da 350 g di benzina. Siccome bere la benzina non è salutare, gli basta mangiare 450 g
di pasta condita con burro e cipolla. In realtà questo, per gli umani e a
differenza degli altri esseri viventi, costituisce solo una frazione del
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reale consumo energetico per la vita. Potremmo vivere senza una
meccanizzazione della agricoltura? Senza i trasporti che assicurano
che le merci prodotte arrivino al punto di consumo? Per non parlare,
poi, dei consumi più o meno voluttuari, l’auto per spostarci, le vacanze in aereo, la luce per illiminare la casa di notte, il riscaldamento….In
Italia ciascuna persona consuma un equivalente di 7 kg di petrolio,
cioè oltre 3 tonnellate all’anno.
Ovviamente non è solo l’uomo che necessita di energia per vivere,
anche gli animali e le piante, tutti gli organismi viventi per piccoli che
siano. E dal punto di vista dell’evoluzione si osserva che questa si è
mossa sui versanti dell’efficienza per necessitare di meno energia e
su quello della capacità di catturare energia. Le piante con le loro
foglie rappresentano questa capacità di aumentare la cattura dell’energia e la loro caduta durante l’inverno, l‘efficienza nell’utilizzo di
energia. Gli insetti sono un’altra dimostrazione della meraviglia dell’evoluzione: volare richiede circa 100 volte più energia che camminare sul terreno (un centometrista al massimo del suo sforzo richiede
circa 15 volte più energia che non se camminasse). L’evoluzione ha
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portato a sviluppare delle ali, che solo gli insetti hanno, con delle nervature elastiche in grado di riusare l’energia generata dai muscoli
aumentando l’efficienza del 50%.
Persino il senso della vista in una mosca si è affinato sotto il profilo energetico. Una mosca in volo utilizza circa il 10% dell’energia per
“vedere”, attivando tutti gli ocelli di cui dispone. Quando è ferma diminuisce il numero di ocelli utilizzati, abbattendo il consumo energetico.
Il consumo energetico è un parametro molto importante anche per
valutare l’impegno in ciascun ecosistema nel mantenimento ed evoluzione di una specie. Per gli umani potremmo considerare che occorra
circa una ventina di anni ad una coppia per generare il primo figlio e
almeno altri 10 per renderlo autonomo (molti di più nei paesi sviluppati, in cui il processo educativo, e anche l’età a cui si ha il primo figlio è
maggiore). In media una coppia genera due-tre figli. Alla fine, facendo
un po’ di conti, arriviamo al consumo di circa 100 tonnellate (equivalenti) di petrolio per “produrre” il nostro “successore”.
65 milioni di anni fa
Estinto il 70% delle specie esitenti
Nessun animale di peso superiore
a 25 kg sopravvisse
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Se paragoniamo questi numeri con quelli di un insetto, vediamo
quale sia il vantaggio competitivo in termini energetici: un insetto
(medio) utilizza circa 100.000 volte meno energia di un uomo, ha un
ciclo di riproduzione che si misura in mesi e non in anni e produce
centinaia di “successori” (esiste un’enorme variabilità da specie a specie, qui si fa un discorso medio). Questo significa che un insetto, in
media, utilizza per creare il suo successore, una quantità di energia
che è di 100 milioni, un miliardo di volte inferiore a quella di un uomo.
Non stupisce, allora, che al mondo gli insetti rappresentino i cinque
sesti delle specie multicellulari.
Se questo non bastasse, consideriamo il fatto che l’ecosistema
dell’uomo ha bisogno degli insetti, mentre quello degli insetti non ha
bisogno dell’uomo.
Il consumo in funzione della massa non è però lineare, anzi.
Quanto più l’animale è piccolo tanto più, in proporzione, deve mangiare e consumare ossigeno. Questo è uno dei motivi per cui i mammiferi marini sono molto grandi. Il loro volume consente di immagazzinare
più ossigeno e il suo consumo, rispetto alla massa, è inferiore rispetto a quello di un mammifero più piccolo. Ecco spiegato come mai le
balene e le orche riescono a passare tanto tempo sott’acqua senza…
annegare.
Nel momento in cui l’energia disponibile in un dato ecosistema
diminuisce, i “grandi” consumatori sono i primi a soffrirne. Questo è
quanto è accaduto 65 milioni di anni fa. Non vi è ancora certezza
assoluta su cosa abbia causato una sensibile riduzione di energia:
l’ipotesi che ha più consensi è quella di un meteorite, di cui si sono trovate le tracce dell’impatto in una depressione circolare di circa 150km
di diametro nella punta dello Yucatan. Una seconda ipotesi è una serie
di eruzioni in India. In entrambi i casi vi sarebbe stato un aumento di
Iridio nell’atmosfera di cui si trovano oggi le tracce nei sedimenti che
formano la già citata K-T line. Indipendentemente dalla causa scatenante, il risultato è stato una fitta polvere che ha avvolto la terra, ridu-
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cendo sensibilmente la quantità di energia solare in arrivo. Questo ha
portato alla scomparsa di tutti gli animali di peso superiore a 25 kg.
Tutte le cosiddette 5 grandi estinzioni:
1. Ordoviciano-Siluriano , 450-440 Milioni di anni fa (MYA). Sparì
l’ 85% di tutte le specie;
2. Devoniano, 375 MYA. Scomparve il 82% di tutte le specie;
3. Permiano-Triassico, 251MYA. Scomparve l’83% di tutte le specie di cui il 96% delle specie marine;
4. Triassico-Giurassico, 205 MYA. Scomparve il 76% delle specie;
5. Cretaceo-Tertiario, 65 MYA. Scomparve il 76% delle specie.
sono state legate ad una variazione dell’energia disponibile nell’ambiente, anche se le cause prime sono state probabilmente diverse. In particolare nel Permiano l’ipotesi che ha più consensi, è quella
di una conversione in gas degli strati di idrato di metano presenti negli
oceani, mentre per le altre si tende a far risalire la variazione ad impatto con meteoriti o ad eruzioni vulcaniche.
L’energia condiziona fortemente gli ecosistemi e in caso di una sua
riduzione i primi a soffrirne sono i “grandi” consumatori di energia.
La sparizione di un numero elevato di grandi attori dell’ecosistema
apre il campo ad una moltiplicazione dei piccoli. Questi sono coevi dei
grandi, non intervengono quindi a posteriore dell’estinzione, ma questa ne libera le potenzialità. A questa espansione corrisponde anche
una più rapida evoluzione e tutte le grandi estinzioni hanno visto emergere alcune forti innovazioni in termini di nuove specie che hanno
adottato nuovi modi di operare nell’ecosistema.
Come si è evoluta la “vista”?
Per chiudere questa prima parte sugli ecosistemi della biosfera,
osserviamo brevemente uno degli aspetti dell’evoluzione che negli
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ultimi 150 anni ha costituito il punto di dibattito più serrato tra evoluzionisti e creazionisti. Questi ultimi sostenevano che con le leggi su cui si
basa l’evoluzione sarebbe stato impossibile arrivare ad un organo così
complesso quale l’occhio in cui occorre che tutte le parti funzionino in
modo coerente e coordinato.
Oggi la diatriba è definitivamente chiusa a favore degli evoluzionisti. Non solo l’occhio è possibile in termini di evoluzione, ma la natura
ha sviluppato, nei milioni di anni che ha avuto a disposizione, diversi
modelli di occhio.
E’ proprio l’esistenza di questi diversi modelli di occhio che ci servirà per sviluppare poi un ragionamento sui sistemi economici, in cui
abbiamo diversi tipi di tecnologie e prodotti che dal punto di vista funzionale (di uso) sono sostanzialmente equivalenti.
Quello che noi oggi intendiamo per occhio nasce probabilmente
540 milioni di anni fa, in quella che i paleontologi chiamano la grande
espansione del Cambriano, in cui si moltiplicano i fossili che sono
giunti fino a noi. In realtà la capacità di visione parte dalla capacità di
Ø Creazionismo
Ø Evoluzionismo
Ø Tanti “occhi”
Ø Alcuni “sbagliati”
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sintetizzare delle sostanze (cromofori) legate alla vitamina A.
Sostanzialmente sono dei pigmenti, che si trovano già nei batteri e
che quindi risalgono a oltre 2 miliardi di anni fa, che quando vengono
colpiti dalla luce emettono un segnale. Proprio negli ultimi anni i genetisti hanno identificato in un gene (PAX6), comune a tutti gli organismi
in grado di vedere, quello che è alla base della vista.
In milioni di diverse specie oggi esistenti troviamo diverse varietà
di occhi, alcuni che addirittura faremmo difficoltà a chiamarli tali.
Anche l’evoluzione dell’occhio ha seguito, in specie diverse, percorsi diversi. Ad esempio nel caso degli occhi dei vertebrati, l’occhio
nasce come un adattamento del cervello e ritroviamo questa origine
nell’architettura della retina in cui l’innervazione è posta sopra la retina e non dietro. Questo diminuisce l’efficienza nella cattura della luce.
Addirittura abbiamo un punto cieco nel nostro campo visivo, quello in
cui il nervo ottico attraversa la retina; a questo supplisce il cervello
ricordandosi le immagini che arrivano raccolte dal movimento dell’occhio e ricostruendo una immagine completa, senza il punto cieco. Per
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contro altre specie, come ad esempio il nautilus, hanno visto l’occhio
evolversi dalle cellule della pelle e in questi occhi l’innervazione sta
dietro alla retina.
Quello che nasce come una zona sensibile alla luce, nel tempo
evolve in una zona concava. Questo permette non solo di sentire la
presenza o assenza di luce, ma anche di percepirne la direzione.
Infatti in una superficie concava alcune parti saranno più illuminate di
altre a seconda della provenienza della luce. Quanto più è concava la
superficie, tanto maggiore la capacità di discriminare la direzione del
raggio di luce. Questo porta all’affermarsi di una mezza sfera concava. Il passo successivo è quello in cui i bordi si inspessiscono, offrendo così protezione alle cellule fotosensibili. Questo attiva il secondo
passo: quanto più questo bordo chiude il passaggio della luce, tanto
più si percepiscono i dettagli di un oggetto, si ha la messa a fuoco.
Questo porta all’occhio dei vertebrati. Negli artropodi, il percorso è
diverso. Anzichè un‘evoluzione che passa attraverso la concavità la
direzione della luce viene catturata con la progressiva costruzione di
bordi attorno alle singole cellule fotosensibili. Questo porta a dei tubicini che cattureranno la luce in modo diverso a seconda della sua incidenza. Questa strada porta all’occhio convesso formato da centinaia,
migliaia di ocelli1.
Oggi abbiamo quindi una varietà di modi per “vedere” adottati in
modo diverso dalle diverse specie.
Alcuni di questi sono, dal punto di vista della qualità di immagine
catturata, meglio di altri. Teniamo però sempre a mente che tutti rappresentano quanto di più sofisticato esista. Non è corretto dire che il
nostro occhio è migliore di quello di una mosca: il nostro occhio, per
funzionare, ha bisogno di certe dimensioni minime, ben maggiori di
qualunque mosca. La mosca “ha adottato” una soluzione ottimale per
il suo rapporto con l’ecosistema.
1 Per chi fosse interessato ad esplorare maggiormente questo settore dell’evoluzione consiglio
“L’orologiaio cieco” di Richard Dawkins
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Questa varietà e la corrispondenza con l’ottimo per quella particolare specie ad oggi è destinata a crescere nei prossimi “milioni” di anni,
migliorando ulteriormente l’adattamento della specie all’ambiente.
Qui emerge l’ultimo punto fondamentale che interessa mettere in
luce per i ragionamenti che si faranno poi sui sistemi economici: una
specie progredisce in una certa direzione di migliore adattamento
all’ambiente (e alle sue mutate condizioni, pensiamo alla talpa che è
diventata cieca visto che l’ambiente sotterraneo non richiede la vista),
ma nel fare questo non può fare “passi indietro”, non può cioè smontare quanto è stato fatto in precedenza, per ricostruire in una direzione diversa, se nel fare questo diminuisce il livello di adattamento verso
l’ambiente.
L’evoluzione quindi obbliga ad andare avanti e se si arriva ad un
punto in cui occorrerebbe tornare indietro per potersi riadattare ad un
nuovo ambiente, quella specie semplicemente scompare.
Questo è quello che le grandi estinzioni ci insegnano: quando si
presenta un significativo cambiamento dell’ambiente quelle specie
che per puro caso sono adatte a sopravvivere lo fanno e continuano
ad evolvere, le altre scompaiono.
Bibliografia
1. Il racconto dell’antenato, Richard Dawkins, Mondadori, 2006
2. L’orologiaio cieco. Creazione o evoluzione? Richard Dawkins,
Mondadori, 2003
3. L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Charles Darwin,
Newton Compton, 2007
4. Linneo a Bologna. Giovanni Cristofolini e Donatella Biagi,
Allemandi, 2007
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Ciclo di incontri
“Gli ECOSISTEMI”
La biosfera
I piccoli mondi
Rappresentare un ecosistema
Evoluzione darwiniana e sistemi produttivi
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I Piccoli Mondi
uardiamoci attorno. Le cose che vediamo, quelle che facciamo, non sono mai isolate, ma fanno parte di un ecosistema caratterizzato da una varietà di relazioni. La casa si
trova sulle pendici di una collina, fa molto caldo e l’evaporazione porta ad un addensarsi di nuvole. Si scatena un temporale che
genera uno smottamento di terreno in una zona che è stata disboscata per far posto ad altre costruzioni che poi non sono mai state costruite per problemi con il piano regolatore. Lo smottamento travolge lo
steccato della casa, causando molti danni al giardino.
La colpa è del piano regolatore?
L’esempio, chiaramente, può far sorridere. Tuttavia, sono centinaia
le esemplificazioni di questo tipo che potremmo trovare sulle pagine
dei giornali.
Nelle diverse relazioni di causa ed effetto contenute nell’esempio
precedente, ve ne sono alcune che fanno parte di un sistema di regole ben precise, ad esempio la casa è stata originariamente costruita in
quel posto sulla base di permessi e azioni ben determinate; altre ricadono, invece, in quell’insieme di eventi aleatori difficili da definire in
modo preciso (come lo scatenarsi del temporale).
Negli ultimi decenni alcuni ricercatori hanno studiato questi fenomeni e con una certa sorpresa si è scoperto che è possibile applicare la matematica per realizzare modelli che li descrivono in modo
molto preciso.
Non solo. Si è scoperto che quegli stessi modelli si possono applicare a contesti molto diversi, dallo studio di epidemie, ai movimenti
delle azioni in borsa, dalle relazioni che si vengono a creare sul web
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tra persone che “chattano”, alla spiegazione di come “lievitano” le torte
quando vengono messe in forno.
Una delle applicazioni è quella della rappresentazione e studio
dell’Economia della Rete (Network Economy) e dell’impatto che le
evoluzioni tecnologiche possono avere sul mercato.
Vedremo nella quarta parte di questo ciclo proprio queste applicazioni. Per arrivarci, dopo aver esplorato un po’ alcuni dei concetti che
caratterizzano l’evoluzione della biosfera, è opportuno però dare uno
sguardo a questa recente teoria matematica, chiamata per le ragioni
che vedremo, dei “Piccoli Mondi”.
I ponti di Konigsberg
Konigsberg è una città russa che nel 1700 era parte della Prussia;
oggi il suo nome è Kaliningrad. Questa città è alla confluenza di due
fiumi che formano un’isola al centro della città; a quell’epoca erano
attraversati da sette ponti che consentivano l’accesso all’isola.
I ponti di Konigsberg
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Pare che i curiosi cittadini di Koningsberg si siano posti il problema
di trovare un modo per percorrere tutti i sette ponti senza però dover
transitare due volte per lo stesso.
Il problema venne risolto da uno dei più grandi matematici della
storia, Eulero, nel 1736 con la dimostrazione che tale percorso non
era possibile. La soluzione pratica la si ebbe solo nel 1875 con la
costruzione di un ottavo ponte!
La rilevanza di questo problema, che ovviamente può essere generalizzato nella domanda di trovare un percorso che unisca un numero
prefissato di punti collegati tra loro in vario modo, in modo tale che
vengano toccati tutti i punti una e una sola volta, risiede nella complessità del trovare una soluzione, complessità che ha dato origine ad una
nuova branca della matematica, lo studio dei grafi e la teoria dei gruppi (che ne consente la rappresentazione).
Sono moltissime le cose che possono essere descritte utilizzando
la teoria dei gruppi. Ad esempio, chi scrive un articolo, spesso cita nel
suo testo un altro autore. Andando a leggere gli articoli di quell’altro
autore, si scopriranno ulteriori citazioni e così via. Partendo da un qualunque autore si riesce a raggiungere, per “salti successivi”, un qualunque altro autore? Esiste, cioè, un percorso che ci porti, attraverso
un numero magari elevato di articoli, dall’uno all’altro?
La stessa domanda possiamo farcela quando stiamo guardando
una pagina del Web. In questa saranno presenti dei link ad altre pagine che avranno ulteriori link e così via. È possibile, partendo da una
pagina, arrivare a qualunque altra pagina?
È interessante notare che questa caratteristica di “esistenza” di un
percorso tra due nodi di un grafo, seguendo i legami esistenti tra un
nodo e l’altro, è una proprietà del grafo stesso. Non dipende cioè dalla
nostra abilità. Anzi, tramite la matematica è possibile dimostrare se un
grafo è completamente connesso (cioè da un qualunque nodo è possibile raggiungere un qualunque altro nodo), anche se in pratica può
essere difficilissimo (molto lungo) trovare una soluzione.
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Il numero di Bacon
Ci si potrebbe anche chiedere quale sia il precorso più breve per
passare da un punto ad un altro. I matematici hanno definito come
“numero di Erdos” il più piccolo numero di passi che occorre fare per
passare dall’autore di un articolo pubblicato su una rivista di matematica a un articolo scritto dal matematico Erdos. La regola è che si
passa da un articolo ad un altro che sia stato scritto da uno che è
coautore dell’articolo da cui si parte.
In questo gruppo (quello dei matematici che hanno scritto un articolo) risulta che la stragrande maggioranza dei matematici è separata da Erdos per un numero inferiore a 4 (occorrono cioè meno di 4 articoli, per passare da quello scritto da un certo matematico ad uno scritto da Erdos).
L’Università della Virginia ha messo in rete un calcolatore del
numero di Bacon. Questi è un attore americano che ha recitato in
diversi film. Inserendo il nome di un altro attore, ad esempio Sean
Connery, il sistema calcola il più piccolo numero di passi che occorre
fare per passare da quell’attore a Kevin Bacon. Nel caso di Sean
Connery, ad esempio, questo numero è 2. Infatti Sean Connery ha
recitato nel film “Gli Intoccabili”, in cui lavorava con Andy Garcia e questo ha recitato nel film “L’aria che respiro” con Kevin Bacon. Quindi a
Sean Connery occorre fare due passi per raggiungere Kevin Bacon
(Andy Garcia ha ovviamente numero 1, in quanto ha lavorato direttamente con Kavin Bacon).
Se provassimo a mettere un nome improbabile in termini di “vicinanza” a Kevin Bacon, come Moana Pozzi, che numero otterremmo?
3! Infatti Moana recitò nel 1986 con Mastroianni in “Ginger e Fred”,
Mastroianni con Marcia Gay Harden in “Used People” nel 1992 e questa con Kevin Bacon in “Rails&Ties” del 20071.
1 Potete divertirvi ad andare a cercare numeri di Bacon per i vostri attori preferiti al sito
http://oracleofbacon.org
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L’Oracolo di Bacon
L’Oracolo di Bacon
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Sei gradi di separazione
Non ci sono solo matematici ed attori. Ci siamo anche noi, con il
nostro insieme di relazioni. Mando un SMS ad un amico e so che lui
manda SMS ad altri suoi amici e così via. Se applicassi lo stesso
ragionamento visto per i matematici o gli attori, potrei chiedermi a
quante persone mi trovo collegato dopo 2, 3, 4, 1000 passi. Arriverei
a raggiungere tutte le persone esistenti al mondo? Ovviamente no.
Non potrei raggiungere quelle che non hanno un telefonino. Ma tra i 3
miliardi di persone che hanno un telefonino, quanti passi dovrei fare
per raggiungerne una a caso?
E se estendessimo il ragionamento alla conoscenza diretta, faccia
a faccia, non mediata dal telefonino?
È la domanda che si è posto uno psicologo sociale, Stanley
Milgram, che, nel 1967, condusse un esperimento per testare il livello
di connessione esistente tra persone.
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Per far questo, Milgram consegnò 296 lettere a persone scelte a
caso, residenti a Omaha nel Nebraska e a Wichita nel Kansas, chiedendo a ciascuna persona di far arrivare quella lettera alla persona
che veniva descritta nella lettera e che risiedeva a Boston. Se la
descrizione era sufficiente ad identificare la persona, la lettera avrebbe dovuto essere indirizzata alla persona. Se, come era altamente
probabile, quella persona risultava sconosciuta, la persona che riceveva la lettera avrebbe dovuto indirizzarla ad una persona di sua
conoscenza che potesse, secondo lui, avere maggiori probabilità di
conoscere la persona della lettera.
Se abito a Wichita e conosco una persona che abita a Boston,
posso immaginare che quella persona abbia maggiori probabilità di
conoscere la persona a cui mi chiedono di spedire la lettera e quindi
la spedirò a lui, chiedendogli di inoltrarla.
Milgram scoprì che in media occorrono 5,5 passaggi e concluse
che viviamo in un mondo molto connesso, in cui ogni persona è separata da qualunque altra persona, mediamente, per 6 passi.
In realtà, delle 296 lettere che aveva chiesto di spedire, ne arrivarono solo 64! Questo risultato di per sé era quindi non conclusivo.
Certo giocavano contro il fatto che qualcuno nella catena si era
certamente stancato della “catena di S. Antonio” e non aveva fatto proseguire le lettere. Inoltre l’esperimento non diceva nulla sul fatto che i
passaggi seguiti fossero effettivamente rappresentativi dei percorsi
più corti ottenibili.
Era, insomma, un esperimento più da sociologo che da matematico. La pubblicazione del risultato, tuttavia, incuriosì non poco diversi
matematici, anche perché sembrava una conferma a supposizioni che
erano state ventilate per la prima volta da Guglielmo Marconi, nel suo
discorso di accettazione del premio Nobel (nel 1967) e successivamente dallo scrittore svedese Frigyes Karinthy. Quest’ultimo sfidò a
identificare una persona da cui lui era separato da una catena di conoscenze più lunga di cinque passaggi.
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Sei gradi di separazione
In effetti, se supponiamo di conoscere 50 persone, che ciascuna di
queste conosca 50 persone e così via, dopo 6 passaggi (6 gradi di
separazione) arriveremmo al numero 15.656.877.551, ben di più della
popolazione sulla terra.
Questo sembrerebbe confermare la supposizione.
Tuttavia, se ragioniamo un po’ le cose non quadrano. Tra le 50 persone che conosco ve ne sono diverse che vedo con una certa assiduità e fanno parte di un cerchio ristretto di amici. È quindi molto probabile che queste si conoscano tra di loro, per cui il conto di moltiplicare
per 50 le 50 persone che conosco non funziona: molte di queste comprenderanno nella loro cerchia di conoscenti le stesse persone che ho
compreso nella mia cerchia di conoscenti.
In matematica, ma anche nel linguaggio di tutti i giorni, possiamo
dire che il legame esistente tra due amici, o quello in una cerchia di
amici, è un legame forte, mentre quello tra persone che si sono incrociate magari per caso e non si sono più riviste, è un legame debole.
Dal punto di vista della possibilità di raggiungere uno sconosciuto,
il legame debole è molto più importante del legame forte. Infatti, il
legame forte mi porta da un amico che probabilmente conosce le
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stesse persone che conosco io, mentre un legame debole mi apre un
mondo di conoscenze che non ho.
I legami forti rappresentano aggregazioni locali, mentre i legami
deboli forniscono la connettività complessiva.
Rimane quindi tutto da dimostrare se effettivamente sia possibile
raggiungere una qualunque persona in un massimo di 6 passaggi.
Quello che è certo, è che le relazioni tra le persone tendono ad assumere raggruppamenti che sono tipici dei “piccoli mondi”, molteplicità di
aggregazioni unite da legami deboli.
Questo vale ancora di più quando si fa riferimento a persone all’interno di una certa comunità ,come abbiamo visto per gli attori (il numero di Bacon) e per i matematici (il numero di Erdos). Un recente studio
di ricercatori di Microsoft sulle comunità on line ha nuovamente riscontrato questa caratteristica. Eric Horvitz e il suo gruppo di ricercatori
hanno esaminato 30 miliardi di SMS inviati da 180 milioni di persone in
tutto il mondo, raggiungendo la conclusione che, in media, esiste una
distanza di 6,6 passi tra una qualunque coppia in questo insieme.
Piccoli Mondi
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Reti a invarianza di scala
Le reti che caratterizzano i piccoli mondi (con rete si intende l’insieme delle relazioni tra i diversi elementi di quel particolare piccolo
mondo) hanno l’interessante caratteristica di essere invarianti rispetto
alla scala. Questo significa che se anche aggiungiamo molti nuovi elementi, in generale il numero di passi che occorrerà fare, per passare
da un elemento all’altro, non varierà in modo significativo (come dire
che, supponendo veri i 6 gradi di separazione tra le persone sulla
Terra, oggi che siamo in 6 miliardi, questo grado di separazione rimarrà immutato, anche quando si arriverà a 10 miliardi di persone).
Non tutte le reti hanno questo comportamento. Ad esempio, una
rete stradale tende ad aumentare in modo significativo quanti più
“paesi” vengono collegati dalla rete. Al contrario, la rete formata dalle
rotte degli aerei tende a restare abbastanza stabile. Questo perché
nelle rotte aeree si vengono a creare dei nodi (hub), da cui si dipartono alcune rotte verso altri hub e quindi una raggiera che collega gli
aeroporti limitrofi. Se anche aggiungiamo un aeroporto, questo sarà
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collegato come gli altri ad un hub e quindi la separazione tra i vari nodi
non aumenta.
Le reti a invarianza di scala hanno un enorme vantaggio: mantengono basso il livello della complessità comunicativa anche quando le
dimensioni aumentano.
È grazie a questo che possiamo avere in natura organismi così
complessi: quello che tiene insieme un organismo è la comunicazione
tra le sue parti e questa sarebbe inefficace, se la sua complessità crescesse al crescere della complessità dell’organismo.
Lumaca, mosca, uomo, indipendentemente dalle dimensioni e
dalla sofisticazione dei comportamenti, sono tutti caratterizzati da una
rete di comunicazione a invarianza di scala.
Un esempio, molto bello esteticamente, è rappresentato dai frattali. Questi sono delle forme matematiche che vengono generate a partire da una relazione in cui, al variare dei parametri, si creano sottostrutture, ciascuna diversa dalle precedenti ma straordinariamente
simile al nostro occhio.
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E in natura abbiamo un’enorme quantità di forme che sono rappresentabili come frattali, dalle nuvole agli alberi, ai fiori…ai visi delle persone. I ricercatori addirittura utilizzano questo tipo di matematica per
semplificare la trasmissione di immagini, in quanto bastano poche
informazioni per descrivere sistemi enormemente complessi. Il fatto
che in natura moltissime cose abbiano questo aspetto, spiega anche
come mai il frattale evochi in ciascuno di noi un senso di “bello”. La
natura ci ha abituato, nei milioni di anni di evoluzione, ad apprezzare
quello che vediamo e quello che vediamo ha in generale forme simmetriche e ripetitive; pensate ai fiori, alle felci, al favo delle api, alle spirali di una chiocciola, alle creste di una montagna, al fulmine, ai nostri
bronchi e al sistema idrico di un fiume e dei suoi affluenti.
Simmetria e ripetizione sono proprietà fondamentali degli esseri
viventi (noi siamo simmetrici, anche se la nostra parte destra è leggermente diversa dalla sinistra…). L’evoluzione ha premiato la simmetria
e la ripetizione, perché queste sono “economiche” in termini di istruzioni per costruire un organismo.
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Il bello è…matematico!
Simmetria nella natura intorno a noi, nei fiori, negli animali. Ma
anche nelle montagne. Certo non è simmetria perfetta ma il nostro
cervello cattura questa potenziale simmetria e quanto più ciò che vede
si avvicina ad un modello di simmetria tanto più trova bella la visione.
Il Fujiama è considerata montagna sublime dai giapponesi proprio per
la sua forma simmetrica da qualunque punto la si guardi; da noi il
Cervino viene considerato bello in quanto la sua piramide pur essendo non proprio simmetrica vi si avvicina abbastanza.
Tendiamo a considerare come bello anche quello che, diciamo, ha
delle proporzioni armoniose. In realtà siamo nuovamente nel campo di
considerare bello ciò a cui siamo abituati. Perché una proporzione la
consideriamo armoniosa ed un’altra no? Se guardiamo al corpo degli
uomini (e delle donne) facciamo riferimento a ciò che è l’idealizzazione della norma. L’uomo di Leonardo con le sue proporzioni, le rappresentazioni in quadri rinascimentali...
In effetti gli artisti sono quelli che hanno saputo cogliere questo
senso di piacere estetico suscitato dall’armonia di forme e proporzioni e si sono adeguati riportandole nelle loro opere, rafforzando ancora di più a livello culturale ciò che consideriamo bello.
In natura troviamo con una impressionante regolarità alcune armonie, da quelle musicali (la scala di una ottava è composta da 5 chiavi
nere e 8 bianche per un totale di 13 semitoni) a quelle presenti nei
petali dei fiori (la margherita ha 34 o 55 petali, il girasole 55 o 89 petali..), dalla suddivione in 3 parti della banana e in 5 della mela. Un
matematico italiano del tardo medioevo, Fibonacci, scoprì una serie di
numeri che si collegava a questi accadimenti naturali. Si parte dalla
coppia 0,1 e si trova il successivo facendo la somma dei due precedenti. In questo modo otteniamo 0,1,1,2,3,5,8,13,21,34,55,89…..
Questa è la serie di Fibonacci. Se proviamo a fare la divisione tra
un numero e il suo predecessore (esclusa la prima coppia in quanto
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non si può dividere per 0) vediamo che il risultato è un numero che
molto rapidamente assume valori sempre più ristretti intorno ad un
numero irrazionale 1,618033…Questo numero, cui diciamo tendere il
rapporto, è stato chiamato º, (fi) e ricorre inaspettatamente in moltissimi campi. I greci lo conoscevano come segmento aureo (la suddivisione di un segmento in modo tale che la prima parte fosse nello stesso rapporto con il segmento stesso in cui la seconda parte era con la
prima parte.
Il nome, rapporto aureo, stava ad esprimere la bellezza che risultava da queste proporzioni. Il Partenone rispecchia questo rapporto,
così come le piramidi di Keophe e Kephern. I quadri di Leonardo, la
Gioconda e l’Ultima Cena hanno i vari componenti che rispecchiano
queste proporzioni. Le conchiglie crescono con queste proporzioni,
così come i fiori e gli alberi.
Ovviamente in natura vediamo delle approssimazioni ma l’interessante è che statisticamente parlando la media tende a º.
Questo non è frutto del caso ma di un insieme di vincoli e processi evolutivi (di cui abbiamo trattato nel precedente capitolo) che hanno
portato in questa direzione. L’esagono è il poligono che ha il minor
perimetro a parità di superficie se si vuole ricoprire un piano (ecco
perché le api che sono buone matematiche hanno deciso di costruire
i favi con degli esagoni: qualunque altro approccio avrebbe richiesto
molta più energia e fatica). Se si vuole far crescere la propria casa
massimizzando quento già fatto e minimizzando il materiale da utilizzare per l’espansione viene fuori una forma a spirale in cui il rapporto
tra i raggi è º. Anche i molluschi sanno la matematica e hanno adottato questo rapporto per le loro conchiglie.
La scoperta di queste “regolarità”, in qualunque ambito capitino
deve stimolare la nostra curiosità di capirne il perché. Non è mai un
caso: come abbiamo visto nel primo capitolo la natura evolve ottimizzando il consumo di energia all’interno di vincoli tipici dell’ecosistema.
Lo stesso, vedremo, capita nei sistemi economici globali.
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Le reti di comunicazione
Se guardiamo alla distribuzione della popolazione nel mondo,
vediamo che questa, nel corso dei millenni, si è raggruppata in piccoli
insediamenti man mano cresciuti, divenendo villaggi e città. Fino a due
secoli fa le comunicazioni erano molto difficoltose: in pratica le persone passavano tutta la loro vita in un raggio di poche decine di chilometri dal punto in cui erano nate. I gradi di separazione erano certamente
maggiori di quelli di oggi. Non solo. Al crescere della popolazione, e
quindi degli insediamenti, aumentava il numero di passi necessari per
raggiungere da un punto un altro qualunque punto sulla terra.
Il cambiamento è avvenuto con la creazione di sistemi di comunicazione “economicamente” efficienti. Non è stata, infatti, l’aumentata
velocità a cambiare le abitudini delle persone, favorendo la mobilità e
gli spostamenti, ma il costo sempre minore che questi comportavano.
Il “tempo” nel passato aveva un valore molto inferiore di quello che ha
oggi. Il problema non stava nell’intera giornata di viaggio per andare
da Padova a Venezia o la settimana necessaria per andare da Venezia
a Roma, ma nel costo.
Dal Mondo al... Piccolo Mondo
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Nel 1800 andare da Padova a Venezia con una carrozza costava
quanto oggi costerebbe andare in taxi da Venezia a Reggio Calabria,
più di quanto guadagnava un operaio in un mese.
Con lo stabilirsi di comunicazioni efficaci (economicamente sostenibili) le persone iniziano a muoversi molto di più. In realtà, le prime
cose che iniziano a muoversi sono le merci e i prodotti, accompagnate da “professionisti” del viaggio. Queste vie di comunicazione hanno
portato nel XIX e XX secolo, a creare punti di contatto tra posti e persone geograficamente separate. Quella che era una rete che al crescere dei nodi aumentava la sua “scala” si è trasformata in una rete ad
invarianza di scala. Sono le grandi vie di comunicazione marittime che
hanno portato a questo cambiamento. Via mare, infatti, si possono
ragigungere solo alcuni punti e su questi occorre far convergere le
mercanzie in partenza e smistarle quando arrivano. Cipro e Creta
Il mondo delle reti
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sono state per i veneziani dei punti di raccolta e smistamento così
come oggi è Memphis per Federal express. Notiamo come sia l’efficienza delle comunicazioni che porta alla creazione di nodi (hub). Se
si va a piedi conviene prendere la strada più breve tra due punti.
Invece, se si usa un mezzo veloce, ad esempio il treno, diventa più
vantaggioso creare dei punti uniti da treni veloci portando a questi
punti on treni locali chi vive in paesini.
Dal punto di vista delle comunicazioni è possibile immaginare varie
tipologie di rete. La più semplice è quella che vede tutti i punti da connettere dotati di un filo, strada che da loro arriva in un punto centrale
della rete. In questo modello, tutti i punti saranno ad una distanza 2
l’uno dall’altro: un passo per raggiungere il nodo centrale e un passo
per andare da questo al punto voluto.
Se questa è indubbiamente una rete semplice, ha, per contro, lo
svantaggio di necessitare di un numero molto elevato di cammini, uno
per ogni punto che viene aggiunto. Se immaginassimo di dover fare
una strada per ciascuna nuova casa che viene costruita, in modo da
poter arrivare ad un punto centrale da cui poi procedere verso qualunque altra casa, andremmo ben presto in rovina. Non solo. Per andare
dalla nostra casa a quella del vicino, dovremmo percorrere anche una
distanza lunghissima, prima andando al centro e poi tornando, praticamente, a casa nostra. È chiaro che una rete stradale fatta in questo
modo avrebbe poco senso.
In una rete di telecomunicazioni, invece, il problema della distanza
non si pone: visto che la nostra voce viaggia alla velocità della luce,
anche se per parlare con il nostro vicino si dovesse andare fino a
Roma per poi tornare alla casa di fianco a noi a Venezia, il ritardo
sarebbe impercettibile: se andare direttamente dalla nostra casa a
quella del vicino, attraversando la calle il tempo impiegato sarebbe di
0,1 milionesimo di secondo -30 metri di percorso-, passando da Roma
il tempo sarebbe, invece, di 3 millesimi di secondo, certo “molto di più”,
ma identico dal punto di vista del nostro orecchio! Si noti che se anzi-
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ché andare a Roma per poi tornare a Venezia, usassimo un satellite
per veicolare la nostra voce, il tempo impiegato salirebbe a due decimi di secondo e, in questo caso, il nostro orecchio se ne accorgerebbe. Questo ritardo era tipico nelle comunicazioni tra le due sponde
dell’Oceano negli anni ‘60, quando le comunicazioni venivano inviate
facendo ponte su un satellite. Oggi, quasi tutte le conversazioni passano sotto l’Oceano dentro a fibre ottiche e il ritardo non è più percepibile.
Se l’aspetto del ritardo non costituisce un problema, rimane però il
problema del costo del rame e della posa di una nuova coppia di fili da
casa nostra fino ad un punto centrale. Ecco allora, che una struttura di
rete decentralizzata diventa interessante. Nodi, case vicine fanno riferimento tutte ad un unico punto e poi vi saranno altre linee che collegheranno questo punto centrale ad altri punti centrali. Spesso, questo
approccio viene ripetuto, creando una vera e propria gerarchia di punti
“centrali”; il primo a livello di un’area densamente popolata, il secondo
a livello urbano, il terzo a livello regionale e così via.
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Internet... è un Piccolo Mondo
Se, ad esempio, volessimo fare una telefonata da Venezia ad un
amico che si trova ad Austin nel Texas, la nostra voce farebbe questa
strada: da casa nostra alla centrale di San Salvador, da questa alla
centrale intercontinentale di Roma, di qui alla centrale intercontinentale di Whiteplains negli USA per poi proseguire verso Dallas, in Texas
e poi arrivare alla centrale di Austin, da cui finalmente può essere collegata con la casa del nostro amico. Quanti sono i gradi di separazione in questo esempio? 6! E sarebbero 6 per la stragrande maggioranza dei numeri telefonici che volessimo raggiungere dal telefono di
casa nostra. Certo, molti dei numeri che facciamo sono verso amici
che vivono nella stessa città e quindi il numero di “passi” sarà inferiore, 2, 3 o 4.
Con l’aumentare del traffico telefonico sono state progressivamente aggiunte linee di collegamento trasversali, facendo perdere alla rete
telefonica quella caratteristica di gerarchia, che l’aveva contraddistinta per molti anni, assumendo sempre più una topologia di tipo distribuito.
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La rete Internet è basata sulla rete di telecomunicazioni e quindi ne
riprende la struttura topologica.
Se però osserviamo non la rete fisica, su cui scorrono le informazioni, ma la rete logica, cioè le connessioni esistenti tra le diverse
pagine del web, ovvero i link su cui, cliccando, si passa dall’una all’altra pagina, si scopre …il Piccolo Mondo.
È opportuno chiarire che l’interesse sul Piccolo Mondo non è di
pura curiosità. Gli antichi attribuivano a certe forme e a certi numeri
ricorrenti determinati poteri magici. Qui, invece, l’interesse è opposto.
Se la distribuzione normale, quella cioè che troviamo in fenomeni di
tipo casuale, non si verifica, questo suggerisce che debba esistere un
motivo. È questo che rende interessante il fenomeno dei Piccoli
Mondi. Qual è la causa che porta a questo tipo di aggregazione?
Nel caso delle reti di telecomunicazioni abbiamo visto che vi sono
motivi economici e “pratici” che portano ad architetture di rete di un
certo tipo. Nel caso delle pagine web il motivo è da ricercarsi nella tendenza di chi sviluppa una pagina web per renderla il più visibile possibile. Per far questo, oltre a introdurre il contenuto potenzialmente
interessante, inserisce anche dei collegamenti ad altre pagine.
In particolare tenderà ad inserire collegamenti verso quelle pagine
che sono più interessanti per i navigatori.
Uno studio effettuato sulla forma (topologia) del web, ha evidenziato come questo si presenti simile ad una farfalla, con un centro in cui
si trovano pagine che fanno da nodi di aggregazione e le ali che contengono l’una le pagine che puntano ai nodi centrali e l’altra le pagine
puntate dai nodi centrali. A queste, ovviamente, si aggiungono molte
altre parti del web più isolate. Il “grosso”, tuttavia, sta nella “farfalla” ed
è un Piccolo Mondo che presenta le caratteristiche di invarianza di
scala. Aumentando il numero di pagine web, il numero di click, per
passare da una di queste ad una qualunque altra pagina, non cambia
significativamente.
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Riferimenti bibliografici
Albert Lazlo Barabasi , “La scienza delle reti”, 2004, Einaudi
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Ciclo di incontri
“Gli ECOSISTEMI”
La biosfera
I piccoli mondi
Rappresentare un ecosistema
Evoluzione darwiniana e sistemi produttivi
3
Complesso significa impenetrabile?
ormai chiaro, come la complessità sia un elemento imprescindibile degli ecosistemi. In alcuni casi la complessità ha
indotto per lungo tempo a considerare casuale il modo di
“vivere” e di evolvere dell’ecosistema stesso e, come tale,
assolutamente imprevedibile. Negli incontri precedenti abbiamo visto
come molti ecosistemi, quello naturale, quello sociale, quello del web
si comportano in un modo che risulta rappresentabile con modelli
matematici.
Come abbiamo visto nella “puntata” precedente, la scoperta di
questi modelli e anche le tecniche utilizzate sono relativamente recenti; addirittura si sta lavorando molto per affinare questi approcci.
Creare un modello significa rappresentare quello che si vuole
osservare semplificando quegli aspetti che sono irrilevanti (ad esempio
se mi interessa studiare come un’auto si comporta in curva creo un
modello in cui non vado a rappresentare le modanature sulle portiere
in quanto queste sono del tutto ininfluenti nello studio che voglio fare).
La semplificazione è fondamentale in quanto permette di ridurre la
complessità e aiuta a focalizzarsi su ciò che veramente è di interesse.
Einstein diceva che occorre semplificare ma non si può esagerare:
se si semplifica troppo si ottiene una cosa diversa, il cui studio sarebbe del tutto irrilevante e non applicabile all’oggetto da cui si è partiti.
La rappresentazione fino a cinquanta anni fa era destinata all’uomo. Il modello è quello che troviamo sulle pitture rupestri risalenti a
10.000 anni fa e che consideriamo una testimonianza del fatto che a
quell’epoca esisteva un uomo come noi, in grado di astrarre concetti
dalla realtà, rappresentarli e renderli comprensibili ad altri. Nel tempo,
È
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3
con il miglioramento delle tecnologie di rappresentazione e della
capacità scientifica di creare astrazioni ed elaborarle, si sono creati
modelli sempre più sofisticati (cioè in grado di cogliere tutti gli aspetti
di interesse) e si è riusciti ad applicarli a contesti molto diversi. Ad
esempio, è una conquista recente la capacità di creare modelli dell’atmosfera tramite cui elaborare previsioni meteo.
Fino a cinquanta anni fa era l’uomo che attraverso il modello rappresentato si metteva a studiarne le caratteristiche. In questi ultimi cinquant’anni i modelli, e le loro rappresentazioni, sono sempre più dedicati ai computer. Lo studio viene effettuato tramite questi che poi si
fanno carico di creare essi stessi un modello per farci capire i risultati
ottenuti. Questo ha permesso di affrontare problemi al di fuori della
portata umana, ma ha anche generato non pochi dubbi sulla validità
dell’approccio.
Alcuni studiosi ancora oggi si rifiutano di accettare la dimostrazione che uno spazio piano, comunque suddiviso, sia sempre colorabile
tramite quattro colori in modo tale che non vi siano mai due stessi
colori che si trovino a confinare su di una linea. Questo è un problema
che ha occupato molti matematici negli ultimi 200 anni e che è stato
risolto tramite un computer.
I modelli
Parlando di modelli ci possono venire in mente un’infinità di cose.
Se parlo con un bambino lui pensa magari ad un modellino di aereo o
di automobile, se parlo con una donna pensa al modello di sartoria, se
parlo con un matematico pensa ad un insieme di equazioni.
Sono cose estremamente diverse tra loro, ma che hanno una
caratteristica comune: sono tutte “esempi” che riproducono alcuni
aspetti dell’originale in modo strumentale al fine per cui il modello è
stato creato.
Un esempio può sicuramente aiutare a capire la filosofia che sta
alla base dell’utilizzo dei modelli: per molti anni sono stati utilizzati
4
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modelli fisici di barche al fine di valutare quale fosse l’assetto che ne
determinava la più bassa resistenza al movimento in acqua. I modelli
utilizzati contenevano chiaramente tutti i dettagli necessari alla risoluzione di quel problema, ma non contenevano, ad esempio, particolari
non rilevanti a quel fine quali la strumentazione di bordo, le cabine,
etc. Spesso erano dei “modellini”, delle barche mignon il cui comportamento veniva verificato in vasche piuttosto che nel mare.
Certo non interessa sapere di che colore sono le pareti delle cabine per valutare la stabilità della barca.
Senza voler ricorrere a definizioni “scientifiche” possiamo dire che
un modello è un’immagine semplificata della realtà per la risoluzione
e spiegazione di problemi o fenomeni presenti nell’originale.
Un modello ovviamente non contiene mai tutte le sfaccettature del
problema reale… se le avesse non si tratterebbe più di un modello, ma
di una copia esatta del fenomeno/oggetto che si vuole rappresentare.
Il modello dunque contiene soltanto le caratteristiche fondamentali ed essenziali del problema che necessita di essere risolto o descritto, semplificandolo pur mantenendone inalterata la struttura.
La parola magica che permette di attribuire ad una rappresentazione la “dignità” di modello è “isomorfismo”. Non è il caso di addentrarci
in definizioni scientifiche della parola isomorfismo. Potrebbe bastare
qualche esempio. Direttamente da wikipedia:
• Un cubo compatto composto da legno e un cubo compatto composto da piombo sono entrambi cubi compatti; anche se il loro materiale è differente, le loro strutture geometriche sono isomorfe.
• Un normale mazzo di 52 carte da gioco con dorso verde e un normale mazzo di carte con dorso marrone: anche se il colore del dorso
è differente, i mazzi sono strutturalmente isomorfi. Le regole per un
gioco con 52 carte o l'andamento di una partita di un tale gioco sono
indifferrenti, indipendentemente dal mazzo che scegliamo.
• La Torre dell'Orologio di Londra e un orologio da polso: anche se
gli orologi variano molto in dimensione, i loro meccanismi di calcolo del tempo sono isomorfi.
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Guardiamo ad un “esperto” di modelli
Dopo tutto questo “straparlare” di isomorfismi si ha il diritto di preoccuparsi e chiedersi se questa rappresentazione per modelli faccia al
caso nostro. È bene allora iniziare subito a parlare di chi vive tutti i giorni solo ed esclusivamente di modelli: il nostro cervello, e quindi noi.
L’insieme delle informazioni che vengono raccolte dai nostri sensi
viene trasportato tramite i nervi al cervello. Questo trasporto termina
in zone diverse del cervello a seconda di quali siano le informazioni.
Alcune informazioni (che interpretiamo come dolore) vengono intercettate già a livello spinale e attivano una reazione immediata: BRUCIA! Sposta la mano. Anche queste informazioni proseguono comunque verso il cervello che effettua una prima operazione: capire da
dove arrivano. Il nostro cervello ha una mappa di noi stessi. Spesso
non ce ne rendiamo conto ma questa è fondamentale per la maggioranza di azioni che facciamo. Provate a toccarvi la punta del naso ad
occhi chiusi. Non è un problema anche se non vedete nulla. Il cervello ha il modello del nostro corpo e comanda i muscoli in modo opportuno. Chi ha subito un trauma al cervello o un ictus che abbia menomato la struttura che conosce questa mappa riesce a camminare solo
se si guarda i piedi, a prendere un oggetto solo se si guarda le mani.
Esiste una patologia in cui le persone colpite non riconoscono più il
loro corpo.
È interessante notare come il nostro cervello costruisca modelli per
tutto. Anche per le facce dei nostri amici. In questo modo è in grado di
riconoscere Mario anche se si è tagliato la barba, cosa che non sarebbe possibile se al posto del modello il cervello ricordasse esattamente l’immagine della faccia di Mario.
Queste caratteristiche sono comuni a tutti gli animali dotati di un
sistema nervoso (non vale ad esempio per i batteri). Negli animali
superiori, come cani, scimmie, delfini, il cervello costruisce modelli di
modelli, astrazioni sempre più sofisticate. Su queste astrazioni si basa
ad esempio il linguaggio, la comprensione della scrittura.
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Il giocare a palla presuppone la capacità di costruire e elaborare
modelli. Se tiro un calcio dove andrà a finire il pallone? Quanto in alto
devo saltare per colpire di testa quel pallone? Spesso il modello non
funziona. A volte perché lo abbiamo elaborato male, ad esempio
siamo stati ingannati da un’ombra, spesso perché il modello non
rispecchia la realtà. Ad esempio il vento fa variare la traiettoria del pallone e non riesco a colpirlo. Il mio modello non teneva conto dell’effetto del vento.
La nostra vita si svolge in un ecosistema estremamente complesso e la capacità di sopravvivere dipende dalla capacità di costruire ed
elaborare modelli.
Nel tempo l’uomo ha cercato di trasferire questo suo modo di comprendere l’ambiente e di interagire con questo, esternalizzando i
modelli in modo prima da condividerli con altri e, molto più recentemente, per affidarli a delle macchine.
Modelli per sistemi complessi
Sembra un gioco di parole ma semplificare è un’operazione che è
tanto più difficile quanto più è complessa la realtà da modellare. Lo
studio di modelli per gli ecosistemi, che abbiamo visto essere sistemi
estremamente complessi, è ben più complicato dello studio dei modelli di navi, e soprattutto non ci si può avvalere di modelli basati su regole precise come nel caso della nave, o come nel caso dei vestiti.
Il motivo sta non solo nell’elevato numero di variabili da considerare e dalle differenti tipologie di relazioni che esistono tra le variabili, ma
soprattutto nel fatto che non sono animati da una logica di tipo
sequenziale ma circolare.
Il problema non è “solo” tecnico: ci sono troppe variabili in gioco, più
di quante si riesca a controllare. È un problema di fondo, come ha scoperto Heisenberg. “Dio non gioca a dadi” sosteneva a piena voce
Einstein che dei modelli concettuali era maestro. Invece, così dimostra
la fisica quantistica, in natura, a livello delle particelle elementari, acca-
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dono cose che, pur essendo deterministiche e completamente rappresentate nel modello quantistico, restano indeterminate fino a che qualcuno non le osservi. Si noti che Leibniz e Newton sostenevano che se
si era in grado di conoscere le condizioni iniziali di un sistema fisico si
sarebbe potuto determinare in modo certo l’evoluzione di quel sistema.
La fisica del ‘900 non invalida questa affermazione. Molto semplicemente afferma (e le sperimentazioni lo dimostrano) che non è possibile neppure a livello concettuale conoscere tutte le condizioni iniziali di un sistema, sia pur semplice come un atomo di idrogeno. Ritroviamo questa
“casualità” anche a livello degli ecosistemi, siano questi biologici o artificiali, come ad esempio i sistemi economici.
Detto questo sappiamo bene che se diamo un colpo ad un bicchiere pieno di Coca Cola è certo che troveremo Coca Cola sparsa ovunque sul pavimento. Non saremo in grado di prevedere dove esattamente un certo atomo di Coca Cola vada a finire ma potremo descrivere con buona accuratezza le zone che verranno innaffiate e quelle
che resteranno asciutte. Tra queste due ne esisteranno altre a cui
potremo assegnare vari livelli di probabilità.
Nella vita di tutti i giorni questo è più che sufficiente. Quello che ci
serve sono modelli che riescano a farci comprendere fenomeni che
non sono intrinsecamente deterministici.
Nello studio dell’evoluzione di ecosistemi, in genere, quello che si
cerca di fare è di rappresentarli in termini di interazioni tra i diversi elementi che li compongono associando a ciascun elemento un proprio
modello di comportamento.
Il modello di comportamento deve però includere l’influenza che
ciascun altro elemento ha con ogni altro quando sono presenti quegli
elementi e non altri. In pratica, stiamo dicendo che la reciprocità e la
contemporaneità dell’interagire di tutti gli elementi, porta a comportamenti molto diversi da quelli che si avrebbero se gli elementi interagissero a coppie e sequenzialmente. Questo è alla base della imprevedibilità e della difficoltà che abbiamo nel modellare i comportamenti col-
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lettivi, frutto di una auto-organizzazione di tutti gli elementi che vi partecipano. Abbiamo così effetti come la “ola”, l’intesa immediata del
gioco di squadra, oppure effetti catastrofici del tipo “effetto branco”.
Questo modo di approcciare la modellazione di ecosistemi ha portato a sviluppare rappresentazioni dell’ecosistema che si basano sul
concetto di rete in cui i nodi sono gli elementi dell’ecosistema e i legami tra i nodi sono le interazioni che questi possono avere l’uno con l’altro. Ma non solo, si fa uso anche della rappresentazione inversa dove
i legami tra gli elementi dell’ecosistema diventano ora i soggetti o nodi
del sistema e, invece, gli elementi dell’ecosistema rappresentano i link
che tengono insieme la struttura dei nodi.
È interessante notare che il comportamento dei nodi spesso può
essere rappresentato in modo efficace sulla base delle interazioni che
questi hanno: non mi interessa sapere quanto veloce potrebbe andare una macchina ma solo vedere come si muove a fronte di una certa
pressione dell’acceleratore, della pendenza della strada e del carico.
Non sempre questo è sufficiente (uno psicologo forse è più interessato a cosa succede dentro la testa di una persona che non a come questa reagisce a certi stimoli) ma quando questo vale, il numero dei nodi
e le interazioni tra i nodi definiscono il comportamento globale del
sistema. Anche la topologia della rete, la sua forma, acquista una forte
importanza ai fini del comportamento globale.
La rappresentazione più nota di una rete è quella che viene fatta
disegnando dei punti (nodi) e delle linee che li collegano (archi). In
matematica gli oggetti che ne risultano prendono il nome di grafi e si
parla allora di teoria dei grafi, già accennata nel capitolo precedente.
Un grafo, dal punto di vista matematico, viene descritto da una
matrice cha abbia i nodi come elementi di riga o di colonna e all’incrocio tra due nodi contenga un valore 0 se i due nodi non sono connessi e un valore diverso da zero se sono connessi.
Per ricostruire nel modello le relazioni esistenti nella rete reale si
può ricorrere a modelli matematici che siano in grado di gestire sia
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l’elevato numero di variabili sia l’elevato numero di dati che definiscono le relazioni tra le variabili.
Le relazioni e i processi che da queste derivano sono rappresentabili utilizzando svariate tecniche matematiche. Esse esprimono la
relazione tra le variabili del sistema e le variabili esterne che possono
influenzarlo. Si noti come a volte sia necessario inventare delle nuove
tecniche per riuscire a modellare un sistema. Ad esempio, per la teoria della relatività, Einstein ha dovuto far uso di una nuova tecnica
matematica mai usata prima di allora (che a sua insaputa era stata già
inventata qualche decennio prima da un matematico italiano), il calcolo tensoriale.
Nel nostro caso le tecniche utilizzate ricadono in due categorie: la
teoria dei Gruppi e la teoria delle equazioni differenziali. Qui non
vogliamo addentrarci nei misteri della matematica ma possiamo cercare di capire a cosa possano servire queste due teorie. La prima ci è
molto familiare. Quando vi allacciate una scarpa costruite un gruppo:
effettuate cioè un insieme di operazioni in sequenza che trasformano
la “geometria” dei lacci. Un insieme di persone che operano su di un
progetto viene in genere chiamato gruppo. Questo corrisponde al
significato matematico di “gruppo”: elementi facenti parte di un insieme che interagiscono sulla base di un certo insieme di regole.
L’insieme è statico, l’elenco dei suoi componenti non ci dice nulla sulle
loro possibili interazioni.
Il gruppo, invece, esprime come quegli elementi interagiscano tra
loro. Questa spiegazione è sufficiente al caso nostro. Non sarebbe
sufficiente, però, per affrontare un esame di algebra all’università. La
seconda teoria di cui abbiamo bisogno è quella delle equazioni differenziali.
Certo ricorderete il paradosso di Zenone che con logica ferrea
dimostrava come Achille non potesse raggiungere la tartaruga se questa partiva con un vantaggio piccolo a piacere. Se questa, supponiamo, ha un vantaggio di un metro, così argomentava Zenone, Achille
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per raggiungerla, dovrà percorrere quel metro e per quanto sia veloce
impiegherà un certo tempo. In questo tempo la tartaruga, per lenta
che sia, percorrerà un piccolo spazio per cui, quando Achille sarà arrivato nel punto in cui stava prima la tartaruga, questa sarà già più
avanti. Il ragionamento può essere ripetuto all’infinito, ergo Achille non
raggiungerà mai la tartaruga. Il fatto che nella realtà non solo Achille
ma anche i meno veloci di noi siano in grado di raggiungere e superare senza sforzo la tartaruga, non turbava Zenone che restava fermo
sul suo ragionamento. E quel ragionamento era talmente buono che
sono occorsi quasi duemila anni per capire come mai non funzionava.
A questo hanno provveduto Leibniz e Newton inventando il calcolo differenziale.
Il fatto è che la matematica classica ha due punti in cui incespica:
lo zero e l’infinito. Questi in realtà sono due facce della stessa moneta, due punti di discontinuità.
Quando si studia l’evoluzione di un sistema vediamo alcuni elementi discreti (una relazione tra due elementi o c’è o non c’è) ed altri
continui (come si evolve una certa relazione). Quando si vogliono studiare i risultati di micro evoluzioni occorre avere gli strumenti che consentano di esaminare queste piccolissime variazioni. I meteorologi
sostengono che potrebbe bastare il battito d’ali di una farfalla in
Giappone per creare una variazione che, ripercuotendosi su tutto il
globo, porterà alla formazione di un uragano nell’Atlantico. Che crediamo o meno a questa affermazione certo è che l’evoluzione di ecosistemi complessi, come la diffusione di una epidemia piuttosto che una
variazione del mercato borsistico, deve essere trattata con equazioni
differenziali. Differenziali: lo dice il nome. Il punto è studiare cosa succede sulla base di piccole differenze.
Non crediate che il mondo delle equazioni differenziali sia una scoperta dell’uomo moderno (come abbiamo visto le facciamo risalire a
Newton e Leibniz). Gli insetti da milioni di anni hanno sviluppato un
modo di costruire il modello del mondo che si basa proprio su un
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approccio che per un matematico sarebbe tipico del calcolo differenziale. Questo è interessante anche per spiegare sia l’utilità dei modelli sia i loro punti di debolezza.
Le falene, così come moltissimi insetti notturni, si sono evolute sviluppando un sistema di navigazione che utilizza le stelle. La matematica ci insegna (teorema di Talete), e le falene lo sanno bene, che se
abbiamo un punto di riferimento all’infinito (diciamo molto molto
distante) e vogliamo andare in una certa direzione è sufficiente tenere a vista quel punto e muoversi mantenendo l’angolo costante tra la
linea di visuale verso il punto all’infinito (ad esempio la stella) e la direzione voluta.
Questo è quanto fanno le falene per riuscire a mantenere la direzione di notte. Se il punto di riferimento, però, non è all’infinito ma ad
una piccola distanza, mantenendo costante l’angolo, si otterrà una
direzione che si avvita su se stessa ed il nostro cammino seguirà una
spirale che ci porta a sbattere sul punto che abbiamo preso a riferimento. È quanto capita alle falene che in presenza di una luce come
di una lampadina elettrica sembrano impazzire e vanno a sbatterci
contro.
La falena utilizza correttamente un meccanismo differenziale, cioè
ad ogni istante va a vedere l’angolo con il punto luminoso ed aggiusta
la sua traiettoria in modo da mantenerlo costante. Siccome però il
punto luminoso non è una stella (distantissima) ma una lampadina
(vicinissima) ecco che si va a scontrare con questa. Il problema è che
le lampadine esistono da un centinaio di anni, il sistema di navigazione della falena basato su un modello differenziale si è sviluppato nel
corso di centinaia di milioni di anni.
Vediamo quindi il limite dei modelli. Funzionano, e bene, a patto
che le condizioni di partenza siano “giuste”.
Lo sviluppo di questi modelli per lo studio dei sistemi complessi si
è sviluppato rapidamente negli ultimi venti anni grazie allo sviluppo
della tecnologia dei computer, che ha reso “maneggevoli” e di facile
soluzione complessi sistemi matematici.
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Tuttavia formulare un modello matematico di un sistema dinamico
può essere difficile, costoso, o addirittura impossibile.
Il modello può richiedere parecchi sforzi e una conoscenza specialistica all’infuori del dominio di interessi, i dati numerici possono essere difficili da procurare.
Si può, in alternativa, passare ad un approccio qualitativo in cui
necessariamente la semplificazione nella rappresentazione del fenomeno passa attraverso un processo di approssimazione.
Approssimare tuttavia non significa togliere validità al ragionamento, al contrario se l’approssimazione è fatta con “buon senso” il risultato che si ottiene è molto più “utilizzabile” di uno che riporti tutti i dettagli possibili, ma inutilizzabile.
Questo perché talvolta raccogliere tutti quei dettagli richiede molto
tempo, e allora arrivano in ritardo anche i dettagli utili.
Altre volte la disponibilità di troppe informazioni rende impossibile
identificare quelle utili.
Se chiediamo “com’è il tempo” la risposta “Una bassa pressione
sta per interessare la zona…” probabilmente non ci soddisfa, forse
preferiremmo “è possibile che piova”.
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Questo, che a tutti sembra buon senso, e che, comunque non tutti
hanno, in matematica acquista una sua dignità: prende il nome di logica Fuzzy.
Seguendo questa logica si può perseguire un approccio qualitativo
e alternativo nella modellazione dei sistemi dinamici, in cui, identificati gli elementi costitutivi e rappresentati come dei nodi, le relazioni
saranno costituite da frecce connotate in modo diverso in funzione del
tipo e dell’intensità del legame che quel grafo esprime.
In questo modo si ottiene un’immagine che collega fatti e cose e li
elabora in valori, in politiche e in obiettivi. Ciò consente di fare previsioni su come interagiscono e si svolgono eventi complessi.
Ogni evento appartiene o eccita un nodo in una certa misura.
Quando un nodo è eccitato emette un flusso causale verso gli altri
nodi. Le frecce mostrano il grado con cui i nodi di concetto dipendono
gli uni dagli altri. Le frecce possono formare cicli chiusi (retroazione).
Il risultato è un grafo orientato
Le relazioni causali tra i nodi sono espresse da segni positivi e
negativi, e differenti pesi.
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La modellizzazione della rete sottostante un fenomeno può essere
di estrema utilità.
È interessante notare come il nostro cervello funzioni sulla base di
“circuiti”, connessioni tra neuroni, che operano proprio secondo lo
schema appena presentato. Un neurone può caricarsi elettricamente
e raggiunta una certa soglia, scaricare il segnale elettrico tramite i
suoi dendridi verso altri neuroni. La soglia non è fissa, ma dipende
dallo stato elettrico dei neuroni a cui è collegato. In questo modo il singolo neurone è influenzato dal contesto e a sua volta influenza il contesto. Quando la soglia è raggiunta il segnale elettrico va ad attivare i
neuroni che sono connessi e il ciclo si ripete. Si noti che esistono due
momenti: uno in cui il sistema è in equilibrio (non vi è passaggio di
segnali tra i neuroni) e l’altro in cui lo scambio di segnali porta ad una
nuova configurazione di sistema. Il sistema non è deterministico. Una
stessa sollecitazione può portare a stati diversi.
L’insieme delle connessioni tra neuroni (variabile nel tempo) rappresenta la rete e, implicitamente, il modello. Questo significa, ad
esempio, che la nostra capacità di elaborare informazioni e comprenderne il significato (la percezione), dipende fortemente da questo
modello, cioè da come sono connessi i 100 miliardi di neuroni che
abbiamo nel cervello. Ogni neurone è connesso a centinaia di altri
neuroni formando una rete il cui stato rappresenta i nostri ricordi, la
nostra capacità di comprendere i fenomeni e anche le risposte che
diamo a sollecitazioni esterne.
Gli scienziati nel momento in cui hanno iniziato a comprendere il
modo in cui il cervello elabora i segnali hanno provato a costruire delle
strutture in silicio in grado di duplicare queste modalità elaborative. A
differenza di un computer classico il cervello opera per approssimazioni, non in modo deterministico. Alcuni problemi sono meglio trattabili con questo tipo di approccio, ad esempio il riconoscimento di
immagini, il riconoscimento del parlato, l’analisi di fenomeni di massa
come lo studio della evoluzione di epidemie e anche fenomeni atmosferici.
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Per affrontare questo tipo di problemi sono state realizzate le reti
neurali il cui nome sottolinea la loro derivazione dai nostri neuroni.
Addirittura si è arrivati a creare circuiti ibridi in cui neuroni (di lumaca
o di lampreda) sono messi all’interno di un chip di silicio contenente
appositi tubicini in cui scorre del liquido per nutrire i neuroni e che
sono in grado di effettuare elaborazioni difficilmente realizzabili da un
puro chip in silicio. Notevole la dimostrazione in cui un chip di questo
tipo riesce a distinguere foglie “buone” da mangiare da quelle cattive.
Queste reti neurali non sono altro che modelli. Infatti, una rete è
adatta a interpretare una particolare situazione, per una situazione
diversa occorre fare una diversa rete neurale.
Come abbiamo già detto la maggior parte delle reti reali assume
una struttura a piccolo mondo.
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Le reti piccolo mondo sono reti in cui sono i legami deboli a fungere da ponte tra gli hub più popolosi.
Ma come mai la maggior parte dei sistemi complessi evolve spontaneamente in reti piccolo mondo?
Le reti piccolo mondo sono caratterizzate da una maggiore efficienza nella circolazione della informazione e da una alta tolleranza
agli errori, ai guasti casuali e agli attacchi non organizzati. Questa
struttura rende le reti piccolo mondo capaci di rispondere e adattarsi
ai cambiamenti casuali, in quanto l’alta tolleranza agli errori o ai guasti casuali impedisce la disgregazione totale del sistema.
Ma hanno un punto debole: attacchi mirati possono provocare la
totale frammentazione del sistema in brevissimo tempo!
Questa caratteristica può rappresesentare due facce della stessa
medaglia: un hacker con degli attacchi mirati può produrre gravissime
conseguenze. D’altra parte la conoscenza delle proprietà strutturali
delle reti piccolo mondo potrebbe aiutare nel tentativo di neutralizzare
le reti di cellule terroristiche decentrate tipo Al Qaeda. In questo senso
eliminare un nodo importante come Bin Laden potrebbe non essere
risolutivo, mentre per disgregare il sistema potrebbe essere più efficace agire sulle cellule ponte.
In campo epidemiologico, ad esempio, rispetto alle malattie in cui
il contagio avviene per contatto diretto, conoscere il modello di propagazione della rete sociale in cui l’epidemia è nata può aiutare a contenere l’espandersi della malattia.
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Questo permette di individuare i legami deboli che costituiscono il
ponte tra un piccolo mondo e l’altro, e di cercare di creare barriere
capaci di contenere la malattia, prima ancora di sapere quale microrganismo ne costituisca la causa e prima ancora di riuscire ad intervenire con un antitodo.
Una ricerca portata avanti dal Centro Ricerche Semeion (centro
ricerche di Roma che studia e modella fenomeni complessi) in collaborazione con Scotland Yard di Londra, ha consentito di ricostruire la
mappa della rete della droga nei quartieri di Londra1.
L’obiettivo era di individuare i punti di vulnerabilità dell’organizzazione: capire quali soggetti, in quali località, con quali tattiche è più
opportuno colpire per scardinare una rete del genere.
L’obiettivo è stato raggiunto introducendo la rappresentazione e
modellazione matematico-algoritmica per investigare le informazioni
non visibili, i legami deboli, e da essi risalire alle logiche nascoste che
tengono in piedi un’organizzazione criminale per poterla smantellare.
Conoscere e rappresentare correttamente un ecosistema, consente di identificare le informazioni sulle quali agire allo scopo di mantenerlo stazionario, farlo evolvere o distruggerlo.
The brain
Sulla scia di questo diffuso interesse verso i sistemi complessi e la
loro comprensione sono nati strumenti per aiutare la visualizzazione
concettuale di un ecosistema o meglio del suo modello visivo che più
è capace di rappresentarlo.
Uno di questi è “the brain”, il cervello, uno strumento che permette
di esplorare mondi complessi seguendo le relazioni tra i vari componenti consentendo di approcciare la comprensione, da parte di chi
guarda, da tutte le prospettive.
1 TV e stampa hanno dato ampio spazio alla cosa. Si veda Il Sole 24 Ore e L’Avvenire del
26 aprile 2007
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In “The Brain” le informazioni sono chiamate "thoughts", pensieri,
che, nel sistema complesso che vogliamo rappresentare, possono
essere file, pagine web, persone, idee.
Lo strumento consente di organizzarli intorno ad un pensiero centrale, circondato da tutti gli altri “thoughts” e il pensiero centrale viene
collegato agli altri attraverso link che esprimono la relazione che li
lega. Ogni link può essere diversamente caratterizzato in modo da
rappresentare al meglio il tipo di relazione che esprime.
Si ottiene così la rappresentazione dell’intero sistema.
Cliccando su qualsiasi thought, questo viene posto al centro del
display e intorno ad esso vengono automaticamente riposizionati gli
altri “thoughts” in funzione della relazione precedentemente specificata. Spostandosi sugli altri thoughts, si riesce a navigare all’interno
della rete del sistema complesso che si vuole osservare senza mai
“perdersi”2.
The brain in definitiva, così come altri sistemi dello stesso tipo, consente un tipo di rappresentazione che esce dalla consueta logica
gerarchica sequenziale, spesso incapace di esprimere la complessità
delle relazioni che caratterizzano il mondo reale.
2 The Brain di Kurzweil
http://www.kurzweilai.net/brain/frame.html?startThought=Artificial%20Intelligence%20(AI)
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Riferimenti bibliografici
Juan Contreras, Juan P. Paz, David Amaya and Antonio Pineda,
“Realistic Ecosystem Modelling with Fuzzy Cognitive Maps”
International Journal of Computational Intelligence Research N.2
2007.
CACTUS (Chaos and Complexity Theoretical University Studies)
GROUP CATANIA, “”Reti Complesse” www.ct.infn.ot/cactus.
Francesco Pino, “Modelli matematici applicati agli ecosistemi”,
www.tesionline.it.
Corrado Manara, “Logica Booleana, Logica Fuzzy e Soft Computing”,
Dipartimento di Matematica e Informatica Università degli Studi di
Salerno.
Charles Seife, “Zero, la storia di una idea pericolosa”, Bollati
Boringhieri, 2002
Elizabeth Pisani, “La saggezza delle prostitute”, Isbn Edizioni, 2008
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Ciclo di incontri
“Gli ECOSISTEMI”
La biosfera
I piccoli mondi
Rappresentare un ecosistema
Evoluzione darwiniana
e sistemi produttivi
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arrivato il momento di tirare le fila. Nella prima parte abbiamo visto alcune delle caratteristiche degli ecosistemi biologici, nella seconda come la teoria matematica dei piccoli
mondi sia in grado di rappresentare le relazioni che si vengono a creare tra i partecipanti ad un ecosistema e come queste stesse rappresentazioni si applichino anche ad ecosistemi non biologici,
come il mondo dei trasporti aerei e di Internet; nella terza parte abbiamo appreso alcuni degli strumenti che consentono di creare dei
modelli di ecosistema in modo da poter effettuare delle simulazioni,
poter rispondere a domande del tipo “cosa succederebbe a quell’ecosistema se…” e abbiamo visto come in effetti questi modelli e strumenti consentano di effettuare previsioni meteo, previsioni di diffusione di epidemie e studiare come meglio intervenire per cambiarne il
corso.
Ora occupiamoci dell’ecosistema formato da consumatori, produttori e fornitori di servizi. Nei cicli successivi vedremo più in dettaglio
alcuni di questi ecosistemi, per ora limitiamoci a considerarli in termini generali.
La prima domanda da porsi è se, effettivamente, l’insieme formato
da consumatori, produttori, fornitori di servizi, prodotti, servizi, tecnologie e le relazioni tra questi costituisca un ecosistema.
La seconda domanda che ci porremo è come si possano declinare le caratteristiche che abbiamo osservato in un ecosistema biologico agli ecosistemi di business chiedendoci, ad esempio, cosa voglia
dire evoluzione in questo contesto.
È
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Il sistema produttivo è un ecosistema?
Il commercio è stato uno degli elementi che ha caratterizzato l’evoluzione sociale dell’uomo. Inizialmente ciascun uomo o nucleo familiare intraprendeva quelle attività che gli consentivano di nutrirsi e di ripararsi dai pericoli dell’ambiente (compresi quelli del freddo o di temperature troppo elevate). Questi sono stati definiti da Maslow come bisogni primari (le 4 F: feed, fuck, fight and flee –cioè mangiare, riprodursi, combattere e scappare). Il modo con cui questi bisogni primari
sono stati soddisfatti è diventato via via più sofisticato nel tempo. Ad
esempio, il bisogno di attaccare e difendersi (fight and flee) è stato
affrontato tramite una struttura sociale in cui la garanzia di sicurezza
è demandata ad un insieme di leggi e di persone, strumenti, in grado
di farle rispettare.
Su come si sia creata la struttura sociale si sono succedute teorie
affascinati che ancora oggi costituiscono l’ossatura del pensiero politico moderno. Hobbes, Locke e Rousseau, hanno, ognuno a suo
modo, spiegato il cosiddetto patto sociale, che ha fatto passare l’uomo da uno stato di natura ad uno stato sociale con delle leggi super
partes che ne garantissero la sopravvivenza.
Il mangiare è diventato un elemento terminale di una struttura sempre più complessa in cui molte azioni vengono demandate ad altri
(seminare, raccogliere, far la farina, fare il pane, portarlo in negozio…)
e vengono ricompensate tramite lo strumento denaro (all’inizio tramite baratto, poi attraverso i beni-moneta come ad esempio il sale).
In questa evoluzione hanno giocato alcune delle caratteristiche
che abbiamo visto formano il successo di un ecosistema, la “specializzazione”. Ad esempio è più efficiente avere qualcuno che pensa a
seminare e raccogliere, qualcun altro che pensa a macinare, un altro
ancora a fare il pane e a renderlo disponibile in molti negozi. Ciascuna
di queste attività si è inoltre evoluta nel tempo, ad esempio con la
meccanizzazione dell’agricoltura, ed ha fruito di innovazioni prove-
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nienti da altri settori, ad esempio la chimica dei fertilizzanti e le sostanze antiparassiti.
Via via, quindi, si sono venute a creare relazioni sempre più complesse tra persone, e poi aziende, che avevano ben poco in comune e
che agivano, come capita negli ecosistemi biologici, per avere uno spazio di sopravvivenza (fare soldi con cui comprare cose di interesse).
Queste strutture sono diventate sempre più efficienti nel tempo fino
ad essere regolamentate tramite leggi locali che tendono a salvaguardare gli interessi dei singoli e complessivamente quelli della comunità.
Il primo a formulare una rappresentazione di questi complessi processi produttivi è stato Taylor nel suo libro, ancor oggi riferimento per
gli studenti di economia, “la ricchezza delle nazioni”.
La teoria economica che veniva esposta (con le semplificazioni
che sono la linea guida di questi incontri) mette in luce come parzializzando le attività necessarie alla produzione di ricchezza (come
quella di poter alla fine disporre di pane da mangiare) su più attori si
raggiunga una ottimizzazione complessiva. Taylor in realtà si è spinto
ancora oltre parlando di parcellizzazione delle attività, suddividendo in
microfasi anche le singole attività necessarie a produrre un bene, arrivando alla catena di montaggio che ancora oggi esiste nelle nostre
fabbriche.
Ma torniamo al processo del pane: il legame tra i diversi attori è
esplicito (io trasformo il grano in farina acquistando il grano dal contadino e tu compri da me la farina per fare il pane) e spesso regolato da
leggi o comunque sottoposto ad una contrattazione tra gli attori.
Quando compro la farina devo pagare un certo prezzo che è quello
che mi chiede il contadino ma se sono in un sistema competitivo
posso paragonare quel prezzo a quello che mi chiedono altri contadini e decidere da chi comprare. Questo porta a quello che abbiamo
chiamato equilibrio dinamico del sistema. L’insieme di attori e relazioni tra questi può essere rappresentato come anelli congiunti l’uno
all’altro a formare una catena in cui l’attività di ogni attore è un anello
che si lega al precedente ed al successivo in quanto utilizza il risulta-
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to dell’attività dell’attore precedente (in senso temporale, chi fa la farina viene prima di chi fa il pane) e pone il risultato della propria attività al servizio di un altro.
In pratica l’attività di ogni attore genera un valore aggiuntivo rispetto a quello che era disponibile nel semilavorato prodotto dall’attore
precendente. Questa successione di incrementi di valore prende il
nome di catena del valore.
Quasi tutte le attività produttive oggi sono rappresentabili tramite
catene del valore con le materie prime (ferro, cemento, idee) alla cima
della catena e il prodotto utilizzato dal consumatore finale al fondo della
catena. Ciascuna attività, anello della catena, ha potenzialmente diversi attori in grado di farla e questi, in effetti, competono per essere loro
a fare quella attività. Chi decide è l’attore che si trova a valle e che sceglie da chi acquistare il risultato. In genere chi compra decide da chi
comprare anche se, in alcuni casi, chi vende può decidere a chi vendere; nel primo caso si compra a chi offre il prezzo inferiore, nel secondo caso a chi è disponibile a pagare il prezzo maggiore.
È ovvio che per guadagnarci ogni attore nella catena deve comprare dall’anello precedente ad un prezzo inferiore di quanto riesce a vendere all’anello successivo. Tale differenza di prezzo deve inglobare le
spese che sostiene nell’attività. Il suo guadagno, in effetti, è la differenza tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto comprensivo delle
spese dell’attività.
Introducendo efficienza (ad esempio adottando nuove tecnologie
per eseguire l’attività) scendono i costi e quindi aumenta il suo guadagno (il margine).
Quello che succede, in presenza di più attori in grado di svolgere
una certa attività, è che questo margine tende a diminuire nel tempo
in quanto a parità di prodotto (semilavorato offerto) il compratore tenderà ad acquistare da chi gli farà il prezzo inferiore. Questo vale su
tutti i punti della catena del valore per cui nel tempo ogni miglioramento di efficienza nella catena produttiva si traduce in una diminuzione di
prezzo per il consumatore finale.
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È quello che vediamo nel campo dell’elettronica (ad esempio i
televisori a schermo piatto). L’innovazione nei processi produttivi permette di produrre a costi sempre inferiori ma non sono le aziende
produttrici ad aumentare i loro guadagni bensì i consumatori ad ottenere prodotti sempre migliori e sempre meno cari. Questa evoluzione
ha mandato in crisi i distributori che si trovano nei magazzini prodotti che valgono sempre meno. Di qui il paradosso di un mercato che si
espande ma che al tempo stesso diminuisce i guadagni di chi opera
in quel settore.
Questo lo si vede in particolare nel mondo dei contenuti in cui non
vi è un costo di duplicazione ed il costo di trasmissione tende a zero.
Il risultato è che il contenuto tende a valere sempre meno; questo è il
motivo per cui su Internet troviamo così tanto contenuto a costo zero.
Questo ha obbligato persino l’Enciclopedia Britannica ad aprire gratuitamente i suoi contenuti e neppur questo è stato sufficiente visto che
oggi l’enciclopedia più consultata è Wikipedia. Per inciso, Wikipedia
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esce dallo schema della catena del valore che invece caratterizza
l’Enciclopedia Britannica (e tutte le altre enciclopedie). Mentre in queste esistono contratti ben precisi tra editore e contributori di articoli,
correttori di bozze, stampatori… e tra editore e fruitore, nel caso di
Wikipedia la contribuzione di contenuti è del tutto volontaria e la correzione degli stessi è demandata alla comunità. Non esiste alcun contratto tra i diversi attori.
Questa è una anomalia nei sistemi produttivi che si è presentata
quando l’innovazione tecnologica ha consentito di migliorare l’efficienza del sistema produttivo. Quanto più il costo di un prodotto dipende
dal costo della produzione tanto più l’innovazione che migliora il processo produttivo porta ad un abbattimento dei costi al cliente finale
lasciando l’onere degli investimenti a chi produce e il vantaggio di quegli investimenti a chi consuma.
Competizione e Alternative
Ancora più di recente si sono venute a creare catene alternative
che partendo dalla stessa materia prima arrivano agli stessi consumatori. Un esempio è costituito dai film. Sono prodotti da una azienda e
possono essere visti dal consumatore finale andando al cinema,
acquistando (o affittando) il DVD, guardandoli sulla televisione satellitare o con la IPTV come video on demand.
In quei casi, come quello del consumo di film, in cui esiste una o
più alternative il consumatore decide sulla base delle proprie esigenze ed il prezzo diventa uno dei fattori importanti.
L’innovazione, l’evoluzione che avviene all’interno di un anello della
catena ha impatto sulla catena stessa e di riflesso sulle altre nella
misura in cui migliora il prodotto finale dal punto di vista del cliente (ivi
compreso, ovviamente, la diminuzione del prezzo). L’innovazione
introdotta in una catena, quindi, obbliga gli attori presenti in altre catene ad aggiornarsi per restare competitivi sul mercato. Un esempio è
quello dei contenuti ad alta definizione. Man mano che il mercato
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dispone di televisori HD e aumenta l’offerta di contenuti HD il consumatore preferirà rivolgersi a quella catena che gli permette la visione
HD. Ecco allora che chi fornisce contenuti via IPTV deve fare in modo
di poter fornire contenuti HD visto che il satellite lo permette. Questo
pone una maggiore richiesta di banda all’infrastruttura di telecomunicazioni. Iniziamo qui a vedere come un elemento di innovazione introdotto in una catena si propaghi negli effetti ad altri attori che non
hanno alcuna relazione con questa catena. Un elemento locale ha un
impatto globale. Stiamo entrando nel mondo degli ecosistemi di business.
Ecosistemi
Negli ultimi anni le telecomunicazioni e Internet in particolare,
insieme a vari altri fattori hanno reso sempre meno costosa la produzione di certi prodotti (specie quelli immateriali) e soprattutto la loro
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distribuzione. Questo ha spalancato le porte ad una miriade di piccole imprese (di cui alcune sono diventate giganti nel giro di qualche
anno, un ulteriore effetto dell‘efficacia delle nuove catene distributive).
Infatti, sviluppare un’applicazione per un computer può richiedere
uno sforzo di risorse limitato ed una volta sviluppata l’applicazione può
essere resa disponibile tramite download via Internet con un costo
distributivo praticamente nullo. Nel software, a differenza della produzione di un’auto, il costo dipende solo dalla sua progettazione, non
dalla costruzione delle singole copie. Per un autoveicolo ogni auto in
più richiede un costo legato al materiale impiegato ed ai sistemi di produzione necessari. Una applicazione software, invece, una volta creata, può essere duplicata e inviata all’utilizzatore a costo zero.
Così come nel mercato dell’auto parliamo di un indotto, cioè di
quell’insieme di aziende che producono prodotti e servizi (ad esempio
le officine meccaniche e chi vende apparati stereo per l’auto), anche
nel mondo del software si può parlare di business indotto. Si pensi ad
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esempio alle centinaia di aziende che sviluppano software da aggiungere a Microsoft Flight Simulator o a quelle che sviluppano plug in
(aggiuntivi) per Photoshop di Adobe.
Mentre nel mondo degli atomi (cioè degli oggetti fisici), spesso,
questa produzione di componenti aggiuntivi era scoraggiata dal produttore principale che insisteva sui “pezzi originali”, pena la decadenza della garanzia in quanto percepiva questi add on come una diminuizione alle sue prospettive di guadagno, nel caso del software in
genere questi componenti aggiuntivi prodotti indipendentemente da
altri attori che non hanno alcun legame con l’azienda che ha prodotto
l’applicazione al cuore di questo mercato, sono ben visti ed anzi incoraggiati. Tipicamente le grandi aziende produttrici, come le citate
Microsoft e Adobe, ma ora anche gli Operatori di Telecomunicazione,
mettono gratuitamente a disposizione di terze parti gli strumenti che
facilitano la costruzione di aggiuntivi in quanto questi aumentano il
valore del loro prodotto. La varietà, come abbiamo visto parlando di
ecosistemi, è uno degli elementi di valore.
In effetti, il motivo per cui i sistemi produttivi, tecnologici ed economici assumono la connotazione di ecosistemi è dovuta alla estrema
numerosità di attori indipendenti uniti da un tessuto connettivo rappresentato da un mercato sempre più libero e competitivo. Viene a cadere la pianificazione dell’evoluzione ed a questa si sostituisce un’evoluzione che diventa auto-generata e auto-controllata, così come accade
nel mondo biologico. Uno studio sull‘evoluzione dei sistemi tecnologici e di business ha messo in luce come questi possano essere modellizzati tramite i piccoli mondi, lo stesso modello utilizzato per modellizzare gli ecosistemi biologici.
A questo punto è il momento di tornare agli ecosistemi biologici e
ad alcune delle loro caratteristiche per vedere come queste si ritrovino negli ecosistemi tecnologici e di business.
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Caratteristiche degli Ecosistemi Tecnologici e di Business
Vedremo ora come si possono rapportare le caratteristiche osservate negli ecosistemi biologici con quelle degli ecosistemi produttivi. In
questo passaggio la tecnologia svolge un po’ il ruolo del DNA mentre
il business rappresenta il valore dell’ecosistema e il mercato il campo
di battaglia su cui avviene l’evoluzione e su cui si confrontano i diversi attori.
Evoluzione
Abbiamo visto come l’evoluzione di un ecosistema biologico sia
dipendente da due fattori: una mutazione casuale all’atto della duplicazione della catena del DNA che dà origine alla cellula uovo o al
gamete e al processo di selezione effettuato dall’ambiente che favorisce gli individui più adatti a sfruttare le energie e risorse disponibili per
generare una progenie.
Nel caso degli ecosistemi di business ritroviamo questi due elementi sotto il nome di Innovazione tecnologica, di processo e di marketing e sotto quello di Selezione operata dai consumatori, cioè dal
mercato. Il prodotto che riesce a far convergere su di sé l’interesse (e
i soldi) del mercato si crea uno spazio. Inoltre, il successo sul mercato spingerà altri attori all’imitazione e nel fare questo emergeranno piccole variazioni nell’offerta e sarà nuovamente il mercato a decidere
quale sia migliore. La raccolta di energia e risorse (soldi) dal mercato
rende disponibili risorse alle aziende per investire su nuovi prodotti e
quindi genera ulteriore evoluzione.
Notiamo come l’innovazione abbia quelle caratteristiche di semi
casualità. Non possiamo sapere se domani sarà inventato qualcosa di
nuovo nè cosa; non sappiamo, ad esempio come sarà possibile
aumentare la capacità elaborativa dei computer nella prossima decade ma l’esperienza ci dice che le migliaia di ricercatori in tutto il mondo
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troveranno una soluzione e che quindi l’innovazione proseguirà nei
prossimi anni.
Così come accade negli ecosistemi biologici l’evoluzione accade in
parallelo e, a seconda delle condizioni al contorno, dell’ecosistema,
può prendere o meno una certa direzione. Lo abbiamo visto nella storia millenaria dell’uomo con Società separate da oceani che hanno a
volte inventato le stesse cose, come forme più o meno equivalenti di
scrittura, il denaro, sistemi di telecomunicazioni, dal tamburo a segnali di fumo…In alcuni casi una Società si è evoluta grazie ad alcune
invenzioni che non hanno “attecchito” in altre, come ad esempio la
ruota che pur essendo conosciuta come forma dai Maia ed utilizzata
come altare non ha trovato applicazioni per il trasporto mentre in quasi
tutte le altre parti del mondo ha accorciato le distanze, richiesto la
costruzione di strade adatte a carri e quindi di organizzazioni per il loro
mantenimento e sicurezza.
Nel mondo attuale abbiamo di fronte un paradosso: la caduta di
barriere tra gruppi e gruppi, tra diverse aree geografiche (tutto il
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mondo è paese) ma allo stesso tempo questa globalità lascia spazio
all’emergere di comunità relativamente chiuse con interessi specifici.
Le singole persone sono a volte parte di un’unica comunità, altre volte
sono contemporaneamente parte di più comunità.
Abbiamo quindi, dal punto di vista del business la coesistenza di
più ecosistemi, alcuni separati, altri parzialmente sovrapposti.
L’evoluzione avviene all’interno di un ecosistema e spesso si propaga
ad altri, spesso trovando successo in un ecosistema diverso rispetto
a quello in cui è nato. In questo senso vediamo una differenza tra evoluzione all’interno di un ecosistema biologico e quella all’interno di un
ecosistema di biz.
Successo
Il successo per una specie biologica può essere misurato in termini di quanto quella specie riesce ad occupare uno o più ecosistemi e
nella capacità di diversificarsi che la rende in grado di adattarsi al
mutare delle condizioni assicurandosi quindi una progenie.
In un ecosistema economico spesso misuriamo il successo di un
prodotto, un servizio, un’azienda, in termini di market share, cioè di
quale è la sua quota di mercato e in termini di che capacità abbia di
rinnovarsi ( ad esempio quanto tempo passa tra una versione di un
prodotto ed il successivo) e dalla varietà di prodotti simili che man
mano iniziano a popolare il mercato.
Non solo. Spesso un indicatore di successo è rappresentato dalle
imitazioni che vengono generate ed anche dalla quantità e varietà di
altri prodotti, servizi e aziende che sfruttano questo successo.
Notiamo come le imitazioni a cui può dar origine un prodotto sono
elementi di competizione che in modo più o meno efficace vanno ad
erodere il suo successo. Invece, quei prodotti che lo affiancano contribuiscono ad aumentare il suo successo in quanto generano valore.
Negli ecosistemi questo è quanto capita: la presenza di molte specie
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porta ad un complessivo irrobustimento dell’ecosistema ed aumento
del suo valore pur aumentando la competizione sulle risorse.
Un ovvio esempio è rappresentato dall’iPod. In un certo senso questo è emerso nel mondo dell’intrattenimento musicale da passeggio,
che ha visto l’evoluzione dai Walkman ai lettori Mp3, differenziandosi
per la presenza di una catena del valore che aggregava diversi attori
attraverso iTune e che per il suo successo ha portato alla moltiplicazione di prodotti che sfruttano il mercato costituito da milioni di iPod
per proporre aggiuntivi che ne aumentano il valore. Oggi esiste un
ecosistema con oltre 3000 prodotti che si sono sviluppati “all’ombra”
dell’iPod.
Un’ulteriore evoluzione è stata la recente apertura della piattaforma di iTouch e iPhone, entrambi risultati di una evoluzione tecnologica che ha reso disponibile a costi contenuti schermi più grandi e touch
screen. Questa apertura ha ulteriormente arricchito l’ecosistema con
l’offerta di servizi, applicazioni, da parte di una miriade di attori.
Competizione Interna
Le specie biologiche competono per l’accesso alle risorse. Si noti
come il leone non compete con la gazzella, semplicemente se la man-
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gia, mentre compete con il giaguaro che pure vuole mangiarsi la gazzella. Ritroviamo questa caratteristica negli ecosistemi di business con
la competizione tra tecnologie che possono fornire lo stesso tipo di
prestazioni; ad esempio, il tubo a raggi catodici, LCD e Plasma competono per aver successo nel settore degli schermi televisivi, e nella
competizione di tutti i prodotti e servizi rispetto alla risorsa “soldi” che
vogliono ottenere dal mercato. La competizione sul mercato è strettamente collegata alla competizione tra tecnologie nel senso che queste ultime possono consentire un vantaggio sul mercato (la tecnologia
a tubo catodico è stata uccisa da LCD e Plasma in quanto queste
sono preferite dal mercato) e nel senso che il mercato indirizza la successiva evoluzione tecnologica fornendo investimenti al miglioramento di quelle tecnologie che si dimostrano appetibili al mercato.
Notiamo come nel caso di competizione interna tra tecnologie non
si hanno degli sconvolgimenti particolari. Gli attori che sono protagonisti in una tecnologia di successo tendono ad investire anche su
nuove tecnologie, e lo fanno anche grazie ai ricavi generati dalle tecnologie che hanno posto sul mercato.
Quindi nel tempo si trovano ad essere protagonisti anche nelle
nuove tecnologie. Il passaggio da una tecnologia ad un’altra può portare all’emergere di nuove posizioni di forza, ad esempio nel caso dei
televisori si è passati da un dominio di Philips, Sony e RCA sui tubi
catodici, ad uno di Philips, Samsung, Sony e Toshiba sugli LCD.
Sul mercato spesso agiscono altre forze che decidono il successo
di un prodotto servizio. In genere la tecnologia non è l’elemento principe. Sul mass market le mode ed il design hanno un fortissimo impatto nelle scelte dei clienti e quindi nel decretare il successo di una “specie” (prodotto).
Si noti come gli schermi “piatti” siano stati percepiti dal mercato
come una discontinuità ma in realtà dal punto di vista degli attori questo non è vero. Sono, infatti, sostanzialmente gli stessi attori che conducono la competizione nell’ecosistema e che si sono gradualmente
convertiti alle nuove tecnologie.
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Competizione Esterna
Ogni tanto in un ecosistema biologico arriva un nuovo attore che
gioca la partita della sopravvivenza con regole diverse. Se questo
nuovo attore compete con le risorse utilizzate da altri attori dell’ecosistema si crea una situazione in cui la competizione non è più equa,
bilanciata, in quanto gli attori operano con regole diverse. È il caso del
coniglio immesso nell’ecosistema australiano che non avendo alcun
predatore, che mangiandolo limitasse la sua crescita, si è rapidamente trasformato in un flagello andando a brucare gran parte della vegetazione locale. Non esistevano, in quell’ecosistema, quelle relazioni in
grado di mantenere l’equilibrio tra i diversi attori.
In un ecosistema di business gli attori operano con delle regole che
si sono consolidate nel tempo. Se in questo ecosistema viene immesso un nuovo attore che utilizza regole completamente diverse l’equilibrio scricchiola. È il caso, ad esempio, di Google che entra nel mondo
della comunicazione avendo per obiettivo la remunerazione dalla pubblicità. Avendo questo obiettivo deve portare su di sé il maggior numero di navigatori ed offre a questi un servizio di ricerca informazioni
completamente gratuito. Addirittura inizia a progettare delle reti di
accesso wireless (wifi) tramite cui consentire ai navigatori di accedere al suo motore di ricerca offrendo connessioni gratuite.
Dal punto di vista dei navigatori, il cui obiettivo è quello di raggiungere le informazioni, è meglio chi offre connettività gratuita di chi te la
fa pagare. D’altra parte, il modello di business degli Operatori si basa
sull’offerta di connettività a fronte di un corrispettivo. Fornirla gratis
non è semplicemente sostenibile.
Discontinuità
In un ecosistema biologico può verificarsi una situazione in cui
cambiano certi elementi fondamentali per l’ecosistema e questo porta
ad un forte cambiamento degli attori e delle relazioni. Possiamo dire
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che tramite una discontinuità quell’ecosistema è stato sostituito da un
altro.
Negli anni 70 l’industria siderurgica aveva raggiunto uno stato di
maturità e consolidamento. Il mercato era dominato da poche industrie basate a Yokohama, Pittsburg e nel bacino della Ruhr.
A quell’epoca una nuova tecnologia iniziò ad emergere, quella dei
mini laminatoi. A differenza di quelli in uso, questi erano molto meno
costosi, 100 volte più economici, ma la qualità del prodotto era inferiore. Per questo motivo i “grandi” produttori decisero che non erano di
loro interesse. Notiamo come il disinteresse non era relativo alle tecnologie ma al cambio del processo complessivo che questa comportava. Da centralizzazione volumi e efficienza si passava a localizzazione e piccoli volumi.
Il basso costo, tuttavia, stimolò molti piccoli imprenditori ad installarli in varie parti del mondo. La scarsa qualità del prodotto consentiva di
produrre solo i tondini di ferro utilizzati per la costruzione di gabbie per
il cemento armato. Per questa applicazione la qualità era sufficiente ed
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il minor costo (dovuto al minor impatto dei costi di distribuzione, non a
quelli di produzione che non beneficiando dell’efficienza e dei volumi di
scala dei grandi laminatoi erano più elevati) assicurò loro un ingresso
nel mercato. La perdita per i grandi era limitata visto che questo settore rappresentava qualche punto percentuale del loro business. Nel giro
di qualche anno la tecnologia migliorò e con i piccoli laminatoi si iniziarono a costruire le lamiere corrugate, un prodotto questo di notevole
interesse per molti paesi in via di sviluppo in cui le lamiere corrugate
sono usate come tetti per le case. La fetta di mercato diventava maggiore, intorno al 15%, ma dal punto di vista dei grandi era ancora marginale. Ancora qualche anno e il miglioramento tecnologico consentì ai
piccoli laminatoi di allargare l’offerta a costi contenuti di prodotto, maggiore flessibilità visto che la produzione era locale con il risultato che
negli anni 80 man mano sparirono tutti i grandi.
Questo fenomeno lo troviamo in vari altri settori, dalla scomparsa
di alcuni grandi dal mondo dei mainframe prima (Honeywell,
Univac,…) a quello dei minicomputer (Digital).
In generale la dirompenza tecnologica si estrinseca nel mercato
con un abbattimento di costi accompagnato ad un cambiamento di
regole che, in effetti, impediscono di rispondere solo tramite un guadagno di efficienza.
La risposta dei grandi, in effetti, passa in genere tramite un tentativo di diventare ancora più efficiente in quello che fanno, abbattendo
ulteriormente i costi ma il problema ad un certo punto diventa che è
quello che fanno che non va più bene. Nel caso dei mini laminatoi l’ingresso di questi nel mercato è stato reso possibile da una tecnologia
di minor costo ma poi la dirompenza è stata conseguenza della capacità di questi di lavorare in modo molto più flessibile rispondendo a
richieste specifiche.
Nel caso dei produttori di computer il passaggio da mainframes a
minicomputer e poi ai PC ha, di fatto, allargato il mercato, creato volumi e ucciso il modello del computer aziendale prima e dipartimentale
poi passando a quello del Personal Computer.
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Altri esempi più vicini temporalmente sono l’abbandono del telefono fisso a favore del mobile in diversi strati di mercato, prossimamente il passaggio da una sanità per grandi numeri ad una personalizzata che trasforma la medicina in un servizio...
Catene alimentari
Le catene alimentari in un ecosistema biologico sono notevolmente complesse al punto che ancora oggi, in molti casi, non sappiamo
con certezza cosa succederebbe in presenza di una alterazione (il
settore della pesca industriale ne è un tipico esempio).
Nei sistemi di business fino a poco tempo fa le cose erano molto
più semplici in quanto lo scambio di risorse avviene tramite regolari
contratti frutto della negoziazione tra attori. Sappiamo quindi, ad
esempio, spiegare molto bene la ciclicità dei prezzi dei chip di memoria sulla base delle richieste del mercato.
Negli ultimi tempi, tuttavia, il numero di attori e di relazioni è
aumentato e si hanno sempre più relazioni che non sono predeterminate tramite contratti.
Nel mondo della finanza questo è accaduto nel giro di poco tempo
portando ad una perdita di controllo dell’intero sistema (perlomeno per
certe parti).
Così come nei bio ecosistemi non si conoscono a sufficienza le
relazioni e gli attori che accedono in via spesso indiretta ad una risorsa e che quindi al variare del comportamento generano situazioni inattese, così nella finanza si sono venute a creare matasse intorcinate di
coperture di rischio in cui alla fine non si sa quale sia la situazione reale
e si va incontro a esplosione di bubboni come è stato il caso della
Enron con i derivative e di alcune banche con i mutui garantiti tramite
il meccanismo dei subprime. La borsa stessa ormai ha reazioni dell’ordine dei secondi in quanto gli ordini di vendita e acquisto sono gestiti
da computer programmati sulla base di stime di rischio e di prese di
posizione su più piazze in contemporanea. Ovvio qui il parallelo con
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quello visto nel capitolo precedente sulla dimostrazione del teorema
dei 4 colori, da alcuni rifiutata in quanto effettuata tramite un computer.
Nel mondo della finanza sono sempre più i computer a decidere istantaneamente cosa vendere e comprare e non sono pochi quelli che
sostengono che questa sia una pericolosa perdita di controllo.
Questi fenomeni, oggi sotto gli occhi di tutti, hanno portato ad una
percezione negativa dell’ecosistema finanziario/economico in quanto
se ne vedono soprattutto i risvolti legati alla perdita di controllo da
parte del singolo ma anche degli organi centrali (ricordiamo come
questo sia esattamente in linea con il concetto di ecosistema in cui
non esiste un punto centrale di controllo).
Tuttavia, specie a livello economico, la trasformazione da catene di
valore ad ecosistema ha portato ad un forte sviluppo del mercato sia
a livello di offerta che di domanda.
Oggi abbiamo una miriade di prodotti che spesso si “tirano la volata” l’uno all’altro. Anzi, spesso si sente la lamentela che un certo prodotto ha difficoltà ad avere successo perché non vi è una sinergia da
parte di altri attori in altri segmenti di business che creino le condizioni per un aumento della domanda.
Si pensi ad esempio alla lamentela da parte dei produttori di televisori HD per la bassa offerta di contenuti HD che potrebbe stimolare
molto di più il mercato. Simmetrica l’osservazione da parte di produttori di contenuti che non ritengono ancora conveniente produrre in HD
visto che ci sono troppe poche famiglie che potrebbero ricevere quel
contenuto.
Il fenomeno del gatto che si morde la coda è tipico non solo degli
ecosistemi ma del posizionamento di mercato di una catena del valore. Negli ecosistemi, tuttavia, si esce dalla discussione tra due attori
per entrare in un contesto variegato che, in effetti, aumenta il valore
complessivo del sistema.
Ad esempio, nel caso dell’HD, alcuni consumatori hanno iniziato a
considerare l’acquisto di un televisore HD non per vedere film o spettacoli che ancora non sono disponibili ma per avere uno schermo di
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qualità su cui vedere i contenuti prodotti da loro stessi. Vedremo nel
prossimo ciclo di conferenze come utilizzando un televisore HD cambia completamente la fruizione delle fotografie che scattiamo con la
nostra “macchinetta digitale” (che per quanto poco costosa ha una
definizione superiore persino agli schermi HD di oggi ma che comunque offrono una qualità di visione delle foto che abbiamo scattato
enormemente maggiore).
I venditori di macchine fotografiche stanno progressivamente rendendo disponibili interfacce HD sulle macchine fotografiche (interfacce HDMI) in quanto la differenza di costo è trascurabile (ma non lo è
affatto nel passare dalla creazione di uno spettacolo in risoluzione
classica ad uno in HD, in cui tutto costa di più, compreso il trucco per
gli attori).
La tecnologia, progredendo, rende possibile utilizzare la macchina
fotografica anche per fare filmati ad altissima risoluzione. Questo spin-
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ge ulteriormente il mercato ad acquistare televisori in HD.
All’aumentare della disponibilità di questi diventerà interessante
anche per i produttori di contenuti professionali passare all’HD ma nel
frattempo le persone avranno imparato ad usare il televisore come
uno schermo per i loro contenuti e avranno in qualche misura cambiato l’ecosistema che precedentemente vedeva nei fornitori di contenuti
e nei broadcaster i veri padroni del televisore.
Le relazioni sono molto più complesse di quelle presentate e in
qualche misura rendono difficile prevedere l’evoluzione del mercato.
Altri esempi di catene alimentari sono quelle rappresentate dal
mondo dell’iPod in cui alla catena di valore costruita da Apple con una
varietà di aziende che utilizzano iTunes per veicolare i contenuti si
sono andate sovrapponendo una varietà di altre aziende non legate
da alcun contratto con Apple che approfittano del mercato creato dagli
iPod per proporre aggiuntivi (ormai se ne contano più di 3000) che
aggiungono diversità all’ecosistema aumentandone il valore così
come abbiamo visto capitare per gli ecosistemi biologici.
Negli ecosistemi di business le catene alimentari sono estremamente importanti in quanto definiscono le relazioni tra attori, risorse e
consumatori, determinano il valore complessivo e gli spostamenti di
valore all’interno dell’ecosistema. Piccole variazioni in un punto possono avere impatti molto forti altrove.
È qui che si applica al meglio la teoria dei piccoli mondi ed è qui
che occorre studiare come modellare al meglio componenti ed interazioni.
Punti di non ritorno
Trattando di discontinuità abbiamo visto come vi siano stati diversi
casi in cui aziende di successo, ben radicate e riconosciute dal mercato che hanno continuato a far sempre meglio il “loro mestiere” si
siano ad un certo punto trovate a scomparire. Non è che queste aziende non avessero la consapevolezza di un cambiamento in corso o che
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il prodotto che in quel momento portava i soldi alle casse dell’azienda
sarebbe andato incontro ad una crisi. Il fatto è che quelle aziende si
erano configurate nel tempo a far sempre meglio, essere più efficienti, quella cosa che aveva portato loro successo e il riconfigurarsi
avrebbe significato perdere i ricavi dell’oggi a fronte di un incerto
domani. La maggior parte delle aziende non è stata in grado di reinventarsi perché questo significava passare attraverso la distruzione
del loro patrimonio di valori e competenze.
Tra i grandi dei mainframes l’unica sopravvissuta è stata IBM che
ad un certo punto, pur essendo all’apice del successo, ha deciso di
creare una divisione completamente separata per investire in un mercato che non c’era, quello dei PC. Quando negli anni questo mercato
si è espanso ed ha causato la fine dei mainframes (in realtà questi esistono ancora ma non sono più l’elemento trainante e chi viveva solo
di questi ha dovuto abbandonare) IBM ha potuto contare sui PC.
Negli anni successivi l’evoluzione del mercato è stata tale che IBM
ha dovuto spostarsi sul settore dei servizi e ha abbandonato (vendendo ai cinesi di Lenovo) la fabbricazione di PC.
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L’evoluzione stessa dei mercati, la globalizzazione che aumenta la
competizione, la necessità per le aziende di essere sempre più efficienti e quindi di far sempre meglio quello che stanno facendo porta
con sé il dilemma di come essere focalizzati ma al tempo stesso
garantirsi il futuro sapendo che non esistono più posizioni di rendita,
neppure in termini di clienti. Questi infatti hanno abbandonato il principio di fedeltà ad una marca e sono estremamente volubili.
Lo si vede certamente nel settore delle telecomuncazioni dove
abbiamo più clienti virtuali che persone in Italia (oltre 100 milioni la
somma dei clienti dichiarati dagli operatori in Italia a fronte di una
popolazione di 56 milioni di persone), frutto della volatilità dei clienti
che hanno più SIM e che le usano a seconda della convenienza.
Questo fenomeno è particolarmente sentito in tutti quei casi in cui
ci si trova di fronte ad un prodotto immateriale, come è appunto la
comunicazione. Telefonare con un operatore o con un altro è sostanzialmente indifferente dal punto di vista del cliente/utilizzatore. La qualità del servizio non è sostanzialmente percepita in positivo, ma solo
in negativo (quando non si riesce a telefonare, se si riesce la qualità
della connessione è sostanzialmente indistinguibile).
Consumo energetico
Abbiamo visto come il consumo energetico sia un elemento fondamentale per gli ecosistemi biologici e come da questo dipendano le
possibilità di sopravvivenza delle specie nel lungo termine in presenza di variazioni delle condizioni complessive, con il vantaggio a favore
di chi riesce meglio ad accaparrarsi le risorse energetiche e di chi consuma meno.
Possiamo trasporre questo concetto di consumo energetico a livello degli ecosistemi economici in cui questo parametro è tradotto in termini di reale consumo da parte di singole tecnologie (viene favorita
quella più parca nei momenti di crisi energetica) e in termini di utilizzo
in generale di risorse per la creazione, offerta, distribuzione e mante-
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nimento di un prodotto. Tra queste risorse le più importanti sono l’acqua, le materie prime, il capitale umano (il livello di educazione scolastica), le risorse energetiche. Sono invece praticamente scomparse
(con poche eccezioni) le vie di comunicazione (il famoso sbocco al
mare che aveva caratterizzato la politica di molte nazioni nel XIX e XX
secolo) in quanto l’efficienza dei trasporti è ormai quasi ovunque
disponibile.
Gli ultimi cento anni sono stati anni che hanno visto una sovrabbondanza di energia a costi estremamente ridotti. Le cose ora stanno
cambiando.
Molto spesso non è neppure chiaro quale sia il livello dei problemi.
Si parla di riscaldamento planetario dovuto a emissioni di CO2, un elemento certamente importante. Non è invece percepito l’enorme consumo di risorse che sta caratterizzando la nostra società produttiva. Il
cibo che consumiamo in un pasto normale ha richiesto per la sua produzione 3000 litri di acqua, un kg di pane richiede 1000 litri di acqua
(per innaffiare il grano da cui si è prodotta la farina necessaria a fare
il pane).
Nei prossimi 20 anni (50 secondo i più ottimisti) un miliardo di persone dovrà spostarsi da dove vive in quanto l’innalzamento del mare
allagherà molte zone costiere su cui si è concentrata la popolazione e
questo ridurrà anche le zone coltivabili richiedendo l’uso di terre che
oggi non sono economicamente coltivabili.
Non esiste alcuna soluzione in vista per questo enorme problema
che non passi attraverso coltivazioni GMO (organismi geneticamente
modificati) in grado di ingegnerizzare piante a minor consumo di
acqua, in grado di crescere rapidamente anche con meno fertilizzanti
e con meno anticrittogamici. Alcune nazioni stanno velocemente
andando in questa direzione (USA e Cina), in Europa c’è una forte
resistenza che è di tipo culturale e percettivo piuttosto che scientifico.
Il rame che verrà consumato nei prossimi 20 anni supererà in
quantità quello utilizzato in tutti gli anni precedenti della storia dell’uomo sulla terra.
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La nostra società in Italia utilizza diverse migliaia di kg di ferro a
persona (da quello usato nel cemento armato, ai trasporti), in Cina il
rapporto attuale è di circa 240 kg a persona. Per progredire la Cina ha
bisogno di aumentare la disponibilità di ferro e questo ha già alterato
i mercati con un costo che è decuplicato negli ultimi anni.
La tecnologia, abbattendo i costi, ha reso possibile a 6 miliardi di
persone di vivere su questo pianeta. Non era mai successo prima e
tutti gli indicatori ci dicono che questo numero è destinato a crescere
ancora. Non solo. Dal punto di vista energetico la crescita sarà maggiore del numero di persone in quanto oggi abbiamo una situazione in
cui meno di 2 miliardi di persone consumano l’80% dell’energia mentre in futuro si avrà un livellamento (verso l’alto) che porterà gli stimati 8 miliardi di persone di inizio prossima decade a consumare l’equivalente di 10 di oggi e nel 2050 ad avere un consumo equivalente
rispetto ad oggi di 50 miliardi di persone.
Secondo uno studio della comunità europea il solo consumo energetico dovuto alle apparecchiature domestiche che si interfacciano
con la rete a larga banda è stimato al 2012 in 50 TWh, con un probabile consumo per l’Italia di 5-6 TWh. Per un confronto si pensi che l’intera rete di telecomunicazioni oggi, consuma in Italia circa 2 TWh e
che si sta lavorando per contenere questo consumo nei prossimi anni.
Ancora a fine anni 90 il consumo domestico dovuto ad apparati connessi alla rete era praticamente nullo. Entro 5 anni questo varrà 3-4
volte il consumo della rete.
Non si pensi inoltre che il consumo sia relativo solo a quello degli
apparati elettrici di oggi. Sempre più avremo sistemi di rilevazione dati,
ad esempio nei campi per rilevare la presenza di certi tipi di insetti e
quindi dosare in modo ottimale gli anticrittogamici o misure elettroniche per allontanarli, le auto che un tempo consumavano solo per il trasporto sempre più consumano per funzioni associate al trasporto
come intrattenimento dei passeggeri, acquisizione informazioni, sistemi di sicurezza. Questo consumo è talmente rilevante che si sta lavorando per passare dai sistemi di alimentazione odierni a 12 V a siste-
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mi a 48 V che consentono di fornire maggiore energia a parità di
dimensione dei fili, fili che in un’auto hanno raggiunto diversi km di lunghezza. La parte elettronica dell’auto (che contribuisce anche a controllare i consumi per il trasporto) ha ormai un costo che si avvicina al
40% del totale e che salirà ulteriormente nei prossimi anni. Solo 20
anni fa questo costo era praticamente inesistente.
Non c’è produzione di energia in grado di rispondere a questa
richiesta che non sia derivante da un misto di eolico (in crescita),
idroelettrico, carbone (con tecnologie pulite di estrazione e combustione) e nucleare (dalla fissione di oggi basata su uranio arricchito a
quella basata su torio e uranio 238 a cui si aggiungerà verso metà
secolo la fusione). Nonostante i progressi dal punto di vista della produzione dell’energia e di minore emissione di CO2, il costo dell’energia sarà molto più elevato di quello di oggi, più vicino ai 1000$ al barile (equivalente) che ai cento attuali.
Questo tipo di evoluzione, maggior uso di energia a livello globale
indotto dall’uso più diffuso delle tecnologie e maggiore costo unitario
dell’energia, spinge ciascuna azienda e i consumatori a porre maggio-
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re attenzione al consumo energetico. Questo si traduce in un vantaggio sul mercato per quei prodotti in grado di consumare meno. La diminuzione di consumo a livello del singolo prodotto viene in genere ottenuta sia con un‘evoluzione a livello dei materiali impiegati (smart
materials) sia tramite una maggiore interazione del prodotto con l’ambiente allo scopo di minimizzare l’energia istantanea sulla base di
quello che l’ambiente può offrire o richiedere.
Questo porta anche ad una trasformazione di prodotti in servizi,
rendendoli flessibili e in grado di interagire tra di loro, e apre i prodotti alla erogazione di servizi da parte di imprese che nulla hanno a che
vedere con la loro produzione.
In sintesi, apre alla trasformazione da catene di valore a ecosistemi. Questo concetto è importante in quanto stabilisce un collegamento forte tra evoluzione tecnologica e il suo uso nel mercato che porta
non solo a nuove funzionalità ma, soprattutto, ad una trasformazione
del mercato stesso aumentando il numero di attori e l’interazione tra
questi. Interazione che per gran parte passerà attraverso la rete e i
prodotti servizi, non attraverso accordi espliciti tra i produttori, si inserirà quindi in un contesto di ecosistemi e non di catene del valore.
Ecosistemi produttivi e di mercato
Nei prossimi cicli di incontri al Future Centre si prenderanno in
esame diversi, nuovi, ecosistemi produttivi e di business, da quelli che
ruotano attorno alla fotografia digitale alla Internet delle Cose, dal collegamento tra atomi e bit all’utilizzo delle ombre digitali per creare servizi.
Le similitudini evidenziate tra evoluzione darwiniana degli ecosistemi biologici e quella degli ecosistemi produttivi e di mercato ha soprattutto un valore di suggestione, non vuole essere una affermazione di
identità.
Gli studi che vengono fatti sui primi possono servire a valutare i
secondi in termine di applicazione di modelli.
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Ad esempio, uno studio fatto sull’evoluzione dei batteri in un sistema chiuso, come un piattino di Petri (i contenitori piatti contenenti
sostanze nutritive che consentono la crescita in vitro dei batteri), ha
evidenziato come in una prima fase, in cui i batteri sono pochi, quelli
in grado di moltiplicarsi più rapidamente vanno ad avere il predominio
in quell’ecosistema. Tuttavia, una volta che l’occupazione dell’ecosistema è terminata, quei tipi di batteri che saranno in grado di differenziarsi portando a generazioni di batteri in grado di sfruttare la nuova
situazione di equilibrio, prenderanno il sopravvento e così via.
L’evoluzione diventa quindi il fattore di successo in un ecosistema
maturo.
Il parallelo con la diffusione dei telefonini è significativo in quanto si
possono andare a trasporre nelle equazioni differenziali che modellano la crescita e l’evoluzione dei batteri nel sistema chiuso, i parametri
di mercato e di diffusione dei telefonini, così come li stiamo osservando oggi. Il modello ci dice che anche per i telefonini abbiamo una
prima fase in cui il mercato non è ancora maturo (ci sono molti che
non hanno ancora un telefonino, ad esempio in India e in Cina) e in
questa fase quello che conta è abbassare i prezzi in modo tale che
tutti abbiano risorse a sufficienza per acquistarne uno. Quando il mercato diventa saturo (tutti hanno un telefonino come in Italia), l’ulteriore evoluzione richiede un continuo cambiamento di modelli (questo stimola la sostituzione).
Quali sono le funzionalità che spingono un consumatore a cambiare il proprio telefonino (e quindi le spinte di mercato che portano i produttori a creare nuovi modelli di un certo tipo piuttosto che di un altro)?
L’elemento ecosistema prende il sopravvento in queste evoluzioni: il
design, la moda, è probabilmente al primo posto, la disponibilità di servizi di community (come lo scambio di fotografie in locale, tramite
Bluetooth, spinge i ragazzi a volere telefonini che abbiano queste funzionalità), la disponibilità di accessi a informazioni a costo zero (con il
wifi) che diventa possibile solo se a livello complessivo si sviluppa una
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04_Ecosistemi
20-10-2008
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connettività a costo zero, quindi tramite aree locali wifi, che a sua volta
avviene se una miriade di possibili fornitori intravede un vantaggio nell’approntamento di accessi wifi, un sistema regolatorio che lo permette, un sistema di business indiretto che riesce a estrarre valore (far
pagare qualcuno) per questa connettività.
A questi elementi si vanno a sommare quelli di nuovi servizi resi
possibili dal mix nuovi telefonini e nuovi mezzi di accesso alle informazioni. Questi nuovi servizi, a differenza del passato in cui era
l’Operatore a svilupparli, sono in massima parte sviluppati da miriadi
di aziende che sfruttano la presenza di valore dell’ecosistema ed al
tempo stesso ne accrescono il valore.
Riferimenti bibliografici
G.M. Hodgson, Economics in the Shadows of Darwin and Marx:
Essays on Institutional and Evolutionary Themes
Samuel Bowles, Microeconomics: Behavior, Institutions, and Evolution
(The Roundtable Series in Behavioral Economics)
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