Valutazioni sul costo economico dei figli in Italia - UniFI
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Valutazioni sul costo economico dei figli in Italia - UniFI
Il costo dei figli in Italia - p. 1 s Valutazioni sul costo economico dei figli in Italia Gustavo De Santis DESAGT, V. T. Cannizzaro, 278, Un. di Messina E-mail: [email protected] 1 Introduzione Le scelte riproduttive costano? E quanto? E quanta influenza esercitano questi costi sulle scelte riproduttive? Si tratta di interrogativi di interesse generale, che possono essere sollevati in qualunque contesto, ma che appaiono di particolare rilevanza in un paese come l'Italia, caratterizzato da tempo da una fecondità molto bassa, largamente al di sotto del livello di rimpiazzo. Il costo complessivo dei figli si compone di due parti principali: vi è un costo diretto, che corrisponde a quanto una famiglia deve "tirare fuori di tasca" per mantenere la prole; e vi è un costo opportunità, che corrisponde invece a quanto la famiglia non guadagna (e quindi perde) perché vincolata nelle sue scelte lavorative dalla presenza di figli. I due costi, che hanno bisogno di dati elementari diversi, non vengono quasi mai stimati insieme (ma cfr. Gustafsson e Kjulin 1994). E, sfortunatamente, le conclusioni che si possono trarre dagli studi che seguono una strada possono non costituire una guida affidabile riguardo a ciò che si potrebbe ottenere dagli altri. Entrambi i costi (diretti e opportunità) non possono essere osservati o stimati direttamente: occorre quindi seguire una strada indiretta, che è però meno chiara da un punto di vista logico, e che impone il ricorso a ipotesi, alcune anche forti, e non necessariamente condivisibili. Inoltre, sulla base di ipotesi diverse si conseguono risultati anche sensibilmente diversi, orientarsi in queste scelte non è sempre facile. Per quanto riguarda poi i costi diretti, che sono qui il principale oggetto di interesse, conviene osservare che le stime si appoggiano su elaborazioni di micro-dati (i consumi delle famiglie), ma questi si caratterizzano per una forte variabilità, sono spesso rilevati con modalità diverse nel corso del tempo, e non sono perfettamente comparabili tra paesi. Non a caso, a mia conoscenza, il solo tentativo sistematico di operare un confronto del costo diretto dei figli tra paesi sviluppati, sulla base di un insieme di dati comparabili (i consumi delle famiglie) e di una metodologia comune, essenzialmente basata sul metodo di Engel (v. sotto) - risale ormai a diversi anni fa, al 1989 (Ekert-Jaffé 1994a). Forse i tempi sono ormai maturi per rilanciare, su basi parzialmente nuove, un secondo tentativo in questo senso: è un tema che riprenderò nelle conclusioni. 2 "Qualità" e "servizi" dei figli, e la seconda transizione demografica In parte, è l'oggetto stesso che si sta cercando di misurare - il costo del figlio - che appare sfuggente. I figli non si scambiano sul mercato, e non hanno perciò un prezzo direttamente osservabile. Hanno bensì un "costo di produzione", che è però formato da una pluralità di voci, grandi e piccole, e anch'esse non tutte direttamente o facilmente osservabili: ad esempio, quanto vale il tempo della madre che accudisce il piccolo? E p. 2 - Gustavo De Santis come calcolare l'aggravio di spesa che la presenza di figli comporta per una famiglia, considerando non solo i beni individuali, per i quali il calcolo è relativamente facile (abbigliamento, iscrizioni scolastiche o a altri corsi, ecc.), ma anche i beni collettivi, come ad esempio telefono, luce, riscaldamento, ecc.? E siamo poi sicuri che esista un costo tout court, senza altre qualificazioni? Così come il prezzo di un paio di scarpe può variare, e molto considerevolmente, in funzione della "qualità" di ciò che si compra (e del negozio in cui ci si reca), anche il costo di un figlio potrebbe dipendere dalla "qualità", e figli migliori potrebbero costare di più. È a Becker (1960, 1981) che si deve l'introduzione di questo concetto di "qualità del figlio", come anche, più in generale, l'irruzione dei paradigmi economici nel campo demografico, e in particolare negli studi sulla famiglia. Becker cercava di rispondere al seguente quesito: perché nelle società più opulente nascono meno bambini? I figli sono forse beni "inferiori", ovvero beni che si acquistano in sempre minor quantità man mano che si diventa più ricchi? Normalmente questo avviene quando vi è un qualche sostituto di miglior qualità, che inizialmente appariva troppo caro e quindi poco avvicinabile, ma che, man mano che il reddito aumenta, può essere acquistato con sempre minor sacrificio: così, nel campo dei trasporti, le biciclette e i mezzi pubblici vengono sostituiti dalle automobili private; tra gli alimenti, il burro soppianta la margarina; e, in ambito riproduttivo, i figli cedono terreno in favore di … di cosa? In fondo, i fautori della teoria della seconda transizione demografica1 (es. Lestaeghe e Surkyn 1988; Lestaeghe e Moors 1995), e, più in generale, tutti colori che pongono in secondo piano l'importanza della sfera economica proprio questo sostengono: che le preferenze dei giovani adulti, i potenziali genitori, si sono allontanate dalla "tradizione" (famiglia, figli, ecc.) e si sono spostate invece verso qualcosa di qualitativamente diverso, come ad esempio carriera, indipendenza, reversibilità delle scelte, possibilità di accesso a beni di consumo, ecc. A differenza degli economisti, i demografi generalmente non mettono tale "cambiamento di gusti" in (esplicita) relazione con l'aumentata disponibilità di reddito pro capite, ma il risultato ultimo è lo stesso: i figli sono oggi un qualcosa di meno appetibile che non in passato. Gli economisti, invece, che in generale diffidano delle spiegazioni basate sui cambiamenti di gusto dei consumatori, preferiscono collegare il calo della fecondità all'aumento del costo relativo di allevamento dei figli, che troverebbe la sua principale spiegazione nel fatto che i figli oggi "valgono di più": ricevono più risorse per ogni anno che passano in famiglia (soprattutto in termini di valore del tempo delle madri), e rimangono in famiglia più a lungo, perché passano più tempo a studiare, e entrano più tardi sul mercato del lavoro. È vero che, a quel punto, grazie alla maggior istruzione, ci entrano con maggiori potenzialità di guadagno, ma ciò non va a vantaggio dei genitori2. Questa idea può essere formalizzata in vario modo: ad es. Razin e Sadka (1995), la cui presentazione semplifico qui sostanzialmente, sostengono che è un po' come se i genitori avessero a disposizione un certo budget B per l'allevamento dei figli F, ognuno di essi con un suo costo unitario C, legato alla sua "qualità". Il budget B (=FC) è 1 Ovvero la discesa e la permanenza della fecondità al di sotto del livello di rimpiazzo, per un complesso di ragioni, tra cui prevalgono quelle relative allo spostamento del centro di interessi dalla sfera collettiva (famiglia, stato, religione, ecc.) alla sfera individuale. Tutte le scelte, incluse quelle di formare un'unione e mettere al mondo figli, sono ormai prese dai singoli (e non, per esempio, dalle famiglie, dal clan, ecc.) e solo in funzione di ciò che essi considerano il proprio vantaggio personale. 2 Anche se può essere implicitamente calcolato, se i genitori sono altruisti verso i figli: un concetto che Becker (1981) ha tentato di formalizzare, ma nelle cui complicazioni qui non si entrerà. - Il costo dei figli in Italia - p. 3 s (relativamente) fisso: ogni aumento di qualità e di costo per singolo figlio C, deve perciò necessariamente riflettersi in una diminuzione della quantità F. Osservo, di passaggio, che si potrebbe leggermente complicare l'equazione, considerando che il costo complessivo dei figli C è dato dal prodotto tra il tempo T durante il quale i figli rimangono a carico delle famiglie, e il costo medio c di ogni singolo anno di permanenza. Il vincolo di bilancio diventa pertanto B=FcT, e, in questo modo, si esplicita meglio una possibile contrapposizione tra la durata di permanenza in famiglia di ogni singolo figlio (T), e la fecondità (F), dato il vincolo di bilancio B. Ma, per riprendere il filo principale del discorso, l'introduzione della dimensione "qualitativa" (che non a tutti piace: v. per es. Robinson 1997), può ingenerare il sospetto che sia improprio cercare di calcolare il costo di un figlio, senza tener conto delle sue caratteristiche. Non credo tuttavia che questa obiezione assuma particolare rilievo in questo caso: tutti i tentativi di stima di cui parlerò più avanti tengono implicitamente conto della "qualità" del figlio, perché si basano sul comportamento effettivo delle famiglie, in particolare in termini di spese e di partecipazione dei genitori al mercato del lavoro. Ora, sia che i figli costino di più per ogni singolo anno passato in casa (ad esempio, perché sono vestiti, nutriti e accuditi meglio che non in passato miglioramento "qualitativo"), sia che passino più anni in famiglia (ad esempio, perché studiano più a lungo), l'eventuale aumento di costo dovrebbe emergere dai calcoli. Quel che semmai rimane in ombra, e che solo raramente è analizzato in termini formali, almeno a mia conoscenza, è l'eventuale esistenza (sviluppo, costo relativo, ecc.) di beni alternativi ai figli. Mi spiego con un esempio: perché prendiamo l'autobus? Per spostarci, e raggiungere una certa località. Nell'operare questa scelta, da esseri razionali quali siamo, valutiamo anche le possibili alternative di mobilità: la bicicletta, l'auto, il taxi, ecc. Tenuto conto di un complesso di fattori (costo, comodità, disponibilità di tempo, ecc.), alla fine optiamo per la scelta che ci pare migliore: l'autobus, in questo esempio. Ma perché si fanno figli? In parte, questa può essere una conseguenza indesiderata di ciò che veramente ci sta a cuore, e cioè l'attività sessuale, e vi sono infatti chiavi di lettura del declino della fecondità che attribuiscono alla rivoluzione contraccettiva un ruolo di primissimo piano (Murphy 1993). Ma in parte sono proprio i figli a interessarci: perché? Alcune delle soddisfazioni che i figli possono dare non sono facilmente sostituibili con altro: ad esempio il senso d'immortalità che deriva dal sapere che qualcosa di noi resterà anche dopo la nostra morte; o il bisogno di maternità/paternità che è probabilmente innato in tutte le specie che sono sin qui riuscite a non estinguersi e che sembra particolarmente sviluppato nel sesso femminile (Foster 2000). Ma quasi tutto il resto può oggi trovare alternative: ad esempio, scambi affettivi anche profondi si possono avere con piccoli animali domestici (Demeny, 2003); un senso di compagnia e di partecipazione può derivare da una qualunque delle mille attività oggi possibili: televisione, telefono, internet, adesione a circoli culturali e ricreativi, ecc; la protezione del clan familiare dalle aggressioni dei vicini non è ormai più da tempo un fattore rilevante; alla protezione durante le fasi della malattia e della vecchiaia si può pensare di provvedere con l'aiuto della mano pubblica, o da soli, con i propri risparmi; lo sfruttamento del lavoro dei figli per la conduzione dell'azienda familiare è sempre meno rilevante nelle economie moderne, e comunque sempre più soggetto a vincoli e controlli da parte della collettività; ecc. In altre parole, è probabilmente falsa l'ipotesi del ceteris paribus su cui si fonda la maggior parte delle analisi: le altre condizioni sono tutte profondamente variate rispetto p. 4 - Gustavo De Santis a un passato anche relativamente recente, e gli studi che si concentrano solo su un aspetto, o comunque su poche dimensioni del problema, rischiano di produrre risultati distorti. Un rischio, peraltro, che grava anche su questo lavoro, dedicato alla valutazione dei costi dei figli. 3 I costi opportunità Gli studi sui costi dei figli sono spesso assai complicati, ma, ai nostri fini, è sufficiente considerarne qui i tratti essenziali. Per cominciare, immaginiamo che esista un ipotetico sistema economico a un solo bene (pane), e che esistano due famiglie di fornai: in quella più dedita al lavoro (L), marito e moglie producono e consumano ciascuno 2 kg di pane al giorno (4 kg in tutto); nell'altra, più dedita alla famiglia (F), la produzione e il consumo totale raggiungono solo i 3 kg, anche qui equiripartiti tra i coniugi. Ammettiamo ora che alla coppia F nasca un bambino, e che questi, esigendo cure e attenzioni materne, riduca la produzione giornaliera della signora F da 1.5 a 0.5 kg. di pane al giorno; per contro, il signor F si sforza ora di lavorare di più e porta quindi la sua produzione giornaliera a 2 kg di pane. La produzione della famiglia F è scesa così a 2.5 kg di pane: ma a quanto ammonta il consumo dei genitori, ora che c'è anche il figlio da sfamare? Si noti che è verosimile che neppure gli interessati sappiano rispondere a un'eventuale domanda diretta su questo punto: il pane potrebbe venir diviso a tavola, senza il bilancino, e i consumi di ciascuno dei tre familiari potrebbero derivare da circostanze del momento: appetito, umore, condizioni di salute, esigenze degli altri, altruismo dei genitori, ecc. Ammettiamo tuttavia che con appropriate tecniche di stima si riesca a stabilire che, dei 2.5 kg di pane prodotti dalla famiglia F, 2 vanno ai genitori (1 kg ciascuno) e 0.5 al figlio. E' evidente che il costo del figlio per F è di 1 kg di pane (0.5 di minor produzione, o costo opportunità, e 0.5 di minor consumo, o costo diretto), più un costo da misurare in termini di sforzo lavorativo aggiuntivo, perché, come si è detto, il signor F lavora adesso per produrre 2, non più solo 1.5 kg di pane al giorno. Ma a questa conclusione si può giungere solo se si ipotizza di conoscere la storia produttiva, feconda e di consumo di tutti i protagonisti, in un mondo, per giunta, estremamente semplificato. Nella realtà, quello che normalmente capita è di disporre di indagini trasversali: si sa soltanto che, a un certo momento, le famiglie F (2 adulti e un bambino) e L (2 adulti) producono e consumano rispettivamente 2.5 e 4 kg di pane. Come calcolare il costo del figlio in queste condizioni? Come accennato, capita spesso che la base di dati che consente di stimare il criterio di ripartizione del pane tra genitori e figlio in una certa famiglia, non sia la stessa che consente di stimare quale sarebbe stata la produzione di pane se il figlio non fosse nato: ecco perché le due stime dei costi (diretti e opportunità) di solito non possono essere prodotte congiuntamente. Concentriamoci, per ora, sul calcolo del solo costo opportunità. Sappiamo che, in un certo momento, la signora F, con figlio, produce 0.5 kg di pane, ma ignoriamo quanto ne avrebbe prodotto se il figlio non ci fosse stato. Con due sole famiglie, l'ipotesi più ragionevole potrebbe apparire quella di imputare alla signora F la produttività della signora L (senza figli): si approderebbe così a una stima di 1.5 kg di pane di costo opportunità (=2-0.5, e cioè produzione della signora L, senza figli meno produzione della signora F, con un figlio). Ma sappiamo che il calcolo è sbagliato, perché la signora F, prima del parto, produceva solo 1.5 kg di pane al giorno, non 2. Abbiamo allora - Il costo dei figli in Italia - p. 5 s bisogno di stimare la produttività potenziale della signora L tenendo conto di altre sue caratteristiche, come ad esempio età, istruzione, ecc. Con due sole donne, una stima così sofisticata è evidentemente impossibile. Ma con un congruo numero di osservazioni (cioè, cercando donne senza figli, ma per altri aspetti simili alla signora F, e osservando la loro produttività), si può sperare di pervenire a stime un po' più precise di quanto la signora F avrebbe potuto produrre se il figlio non le fosse nato. Il calcolo è però complicato da numerose circostanze. La prima è questa: le donne che producono figli costituiscono generalmente un sottoinsieme selezionato tra le donne con certe caratteristiche. Ad esempio, tra le donne laureate, potrebbe avvenire che coloro che finiranno col fare figli siano diverse dalle altre: potrebbero essere meno orientate al mercato e alla produzione, e più orientate verso la famiglia e la vita sociale. Se così fosse, anche in assenza di figli, la produzione di queste donne non sarebbe in ogni caso stata la stessa di quelle (non madri) usate come termine di paragone. A questo potenziale fattore di distorsione si cerca oggi di rimediare usando le cd. "correzioni di Heckman", cioè tecniche che, in vario modo, cercano di tenere sotto controllo questa possibile eterogeneità non osservata3. Le prime stime (Davies e Joshi 1994), suggerivano che il costo opportunità per il primo figlio potesse raggiungere in Inghilterra anche il 50% del guadagno potenziale di una donna, ma risultare molto più basso in paesi con buona protezione del lavoro femminile, come Francia e Svezia. Stime più recenti (Dankmeyer 1996; Davies, Joshi e Peronaci 2000; Joshi 2002), indicano in generale valori più bassi. Per il nostro paese queste spese sono state recentemente valutate tra il 15 e il 30% (Di Pino e Mucciardi 2002 e 2003). La tendenziale riduzione del valore dei costi opportunità rispetto al passato si deve, oltre che alla maggior sofisticazione del metodo di stima (con l'introduzione della correzione di Heckman,), anche al fatto che è sempre più raro per una donna abbandonare definitivamente la carriera lavorativa a seguito della nascita di un figlio, in particolare se il grado di istruzione è elevato e il lavoro, quindi, potenzialmente interessante e ben retribuito. Non a caso, le stime suggeriscono un costo opportunità generalmente più elevato, in termini relativi, per le donne meno istruite: sono queste, infatti, quelle che più facilmente abbandonano per lunghi periodi, o addirittura per sempre, il lavoro relativamente poco qualificato che stavano svolgendo prima della nascita del figlio. Tra le circostanze che rendono difficile la stima del costo opportunità dei figli, cui facevo riferimento prima, vi è però anche la seguente: vi sono indicazioni che, nelle coppie, a seguito della nascita di un figlio, le donne riducano la loro attività lavorativa per il mercato, e gli uomini invece la aumentino (Palomba e Sabbadini 1994), come nel precedente esempio dei fornai. In questo caso, è giusto ignorare l'aumento di reddito che deriva alla famiglia dalla maggiore attività lavorativa dell'uomo? E, se invece lo si considera, come contabilizzare il "sacrificio" cui l'uomo (in questo esempio) si assoggetta, rinunciando al proprio tempo libero? Inoltre, è legittimo considerare il reddito della famiglia tout court, senza tener conto di chi, dei due partner, lo guadagni? Si potrebbe infine considerare anche il seguente aspetto: per una sola donna/madre, è ragionevole ipotizzare che un suo eventuale cambiamento di condotta rispetto al mercato del lavoro non avrebbe prodotto apprezzabili effetti macro-economici. In altre parole: se la donna avesse continuato a lavorare (con la stessa intensità) anche dopo la 3 Per una presentazione non tecnica delle idee di Heckman, cfr. Schmidt e Kluve (2001). p. 6 - Gustavo De Santis nascita del figlio, il profilo dei redditi da lavoro delle donne con quelle caratteristiche non sarebbe mutato significativamente. Ma se l'esercizio viene condotto su scala più ampia, e riguarda tutte le donne diventate madri, è lecito continuare a mantenere questa ipotesi? E, se no, quale ipotesi alternativa si potrebbe ragionevolmente introdurre? Su questi interrogativi – oltre che sulle procedure di stima vere e proprie – i metodi per la valutazione dei costi opportunità potranno in futuro fare ulteriori significativi passi in avanti. 4 I costi diretti: economisti e demografi Per la valutazione di quelli che qui ho chiamato costi diretti, e cioè le spese vere e proprie sostenute dalle famiglie, si possono seguire due strade diverse. Il modo più semplice e immediato appare quello di individuare, all'interno di un bilancio familiare, tutte le voci di spesa direttamente imputabili ai figli come, ad esempio, baby sitter, giocattoli, vestiti, "paghetta", ecc.: sommandole, si ottiene il totale cercato. Questo metodo, però, benché rilanciato in tempi recenti, tra gli altri, da Cigno (1996) e Colombino (2000), appare correttamente applicabile solo in rari casi. La maggior parte delle spese familiari non è, per natura, di tipo individuale: affitto, riscaldamento, luce, acqua, telefono, ecc. Anche spese originariamente nate come individuali possono in seguito cambiare natura: ad esempio, un paio di blue-jeans comprati per un figlio possono poi essere usati dal secondogenito. Infine, anche spese perfettamente individuali non sempre possono essere imputate a un particolare membro della famiglia. Questo dipende del grado di dettaglio della fonte: in Italia, ad esempio, si sa cosa è stato comprato e a che prezzo (es. un paio di scarpe), ma non chi ha proceduto all'acquisto, né chi ne è il beneficiario. La strada alternativa è quella di stimare le spese legate alla presenza del figlio per via indiretta, valutando cioè il tenore di vita della famiglia sulla base delle disponibilità economiche (la spesa complessiva) e del profilo dei consumi. Di questo metodo, una presentazione rigorosa richiederebbe l'introduzione di una formalizzazione complessa, e forse inopportuna in questa sede. Rimandando, per questa, ai lavori citati in bibliografia, introduco qui soltanto un breve inquadramento storico del problema, e accenno a quelle che ritengo siano le due diverse logiche sottostanti alle procedure di stima. Conviene notare, innanzi tutto, che farò qui riferimento al totale delle spese mensili, e non al reddito mensile, come indicatore delle disponibilità economiche della famiglia, per due ragioni principali: perché l'indagine Istat, che fornisce i consumi per capitoli di spesa (indispensabili, come vedremo più avanti, per il calcolo delle scale di equivalenza) non fornisce anche buone informazioni sui redditi4, e perché, sotto il profilo teorico, si può pensare che, in presenza di redditi variabili nel tempo, la spesa mensile costituisca, rispetto al reddito mensile, un indicatore più affidabile e più stabile delle "vere" possibilità di acquisto di medio/lungo periodo di una famiglia. Questo si deve al fatto che una famiglia è verosimilmente in grado di valutare correttamente le proprie prospettive di guadagno e di spesa (legate, ad esempio, al prevedibile futuro occupazionale dei suoi membri, all'eventuale possesso di capitali, ecc.), e di queste, oltre che del reddito corrente, tiene conto nel prendere le sue decisioni correnti di 4 E, viceversa, l'indagine Bankitalia, che fornisce buone indicazioni sui redditi, tratta solo marginalmente dei consumi. - Il costo dei figli in Italia - p. 7 s consumo5. Ciononostante, nel prosieguo parlerò normalmente di reddito (monetario e reale) per riferirmi alla spesa totale delle famiglie: la ragione è che il termine reddito evoca, nel sentire comune, le potenzialità di spesa (cioè la disponibilità di risorse economiche), che è quello che qui interessa, mentre il termine spesa fa invece pensare al comportamento concretamente adottato. L'analisi della relazione tra le variabili demografiche e i comportamenti di spesa ha visto l'interesse convergente di molti studiosi, ma con finalità diverse. Per semplicità espositiva, distinguerò tra due sole categorie, entrambe da considerare rappresentative di gruppi più ampi: gli economisti (i microeconomisti in particolare) e i demografi. Per i primi, l'obiettivo principale è definire sistemi completi di domanda che rispettino certe proprietà formali (ad esempio: la somma delle spese deve dare la spesa totale; l'aumento del prezzo relativo di un bene deve portare a una diminuzione relativa delle quantità consumate di quel bene, e deve esercitare effetti particolari - e tra loro coerenti - sulle quantità consumate anche degli altri beni, ecc.), e che siano empiricamente stimabili6. Le variabili demografiche entrano in questo quadro in maniera strumentale: servono per definire meglio le equazioni di domanda, e quindi per capire perché, ceteris paribus, famiglie diverse hanno comportamenti di consumo diversi, o perché certi consumi evolvono nel tempo in un certo modo. Per i demografi, e per gli altri studiosi del secondo gruppo, invece, l'obiettivo è diverso: è capire se certe situazioni familiari (es. avere in famiglia un figlio, o un anziano, o un portatore di handicap, ecc.) si associno a un aggravio dei costi, e cercare di misurare tale aggravio. Tutti gli altri aspetti del problema appaiono qui secondari, o addirittura irrilevanti: in particolare non interessano né la possibile modificazione del profilo complessivo dei consumi, né tutte le complicazioni formali e il rispetto dei complessi vincoli imposti dai sistemi completi di domanda. I due approcci hanno bensì in comune un elemento importante, che è la scala di equivalenza (ovvero un modo particolare di valutare il costo dei componenti familiari aggiuntivi - v. sotto), ma per gli economisti questo è solo uno dei problemi, che anzi talvolta può persino restare in sordina, e non essere ricavabile che ex-post, con particolari elaborazioni sui parametri ottenuti (cfr., ad esempio, Patrizii e Rossi 1991). Nel corso del tempo, mi pare che vi sia stata una progressiva separazione tra i due mondi: i demografi, quando si occupano di questi problemi, adottano in genere metodologie estremamente semplici, che portino direttamente al risultato che sta loro a cuore (la scala di equivalenza), ma che sono teoricamente deboli, e che, dal punto di vista empirico, producono probabilmente risultati in certa misura distorti (cfr. par. 7). I microeconomisti, invece, usano metodologie estremamente sofisticate, ma basate su presupposti spesso oscuri, fondate su ipotesi molto forti7, e presentate sovente con linguaggio adatto solo a un ristretto circolo di addetti ai lavori (per critiche dello stesso tenore, cfr. Citro e Michael 1995). 5 Ovvero il consumo è generalmente considerato un miglior indicatore del cd. "reddito permanente", anche se alcuni preferiscono invece riferirsi al reddito: ad es., Citro e Michael (1995), e Trivellato (1998). 6 La lista dei lavori di microeconomia dedicati a questi temi è lunghissima: un lettore interessato potrebbe forse cominciare da un buon manuale di microeconomia, passare poi al classico di Deaton e Muellbauer (1980a), e affrontare poi le altre letture, alcune delle quali citate in bibliografia. 7 La più grave delle quali mi pare la seguente: che le variazioni delle quantità consumate nel corso del tempo dipendano soltanto dalle poche variabili esplicitate nel modello (redditi, prezzi relativi e poche caratteristiche familiari), e non invece dai macro cambiamenti della società, in termini di evoluzione della tecnologia, della pubblicità, della moda, ecc. p. 8 - Gustavo De Santis Qui cercherò di estrarre, da questa letteratura, ciò che (mi) appare essenziale che un non economista sappia, in termini di presupposti di base, e di risultati empirici raggiunti, e cercherò di mostrare, con parole semplici, perché, a mio modo di vedere, il modello che userò più avanti (il DM2), può costituire, in questo campo di studi, un progresso e una sintesi rispetto a entrambe le impostazioni. Il primo a interessarsi in maniera scientifica all'influenza della composizione della famiglia sui comportamenti di consumo fu Engel, alla fine del 19° secolo. Nel suo caso, l'obiettivo principale era la determinazione della corretta scala di equivalenza, ovvero di una serie di fattori deflattivi volti a rendere comparabile il reddito di famiglie di diversa ampiezza. Ammettiamo, ad esempio, che la scala di equivalenza ε sia [1.00; 1.22; 1.47; 1.78] rispettivamente per le coppie con 0, 1, 2 e 3 figli: questo significa che se una coppia senza figli, qui presa come standard di riferimento, spende 1000 Euro al mese, una coppia con un figlio dovrebbe spendere 1220 Euro al mese per raggiungere lo stesso tenore di vita: se in concreto spende di meno, diremo che è più povera, in termini reali, se invece spende di più diremo che è più ricca. Non vi è dunque coincidenza tra spesa monetaria (X) e spesa reale, o "pro-capite aggiustata" (X/ε): quest'ultima tiene conto delle esigenze della famiglia, cioè delle bocche da sfamare, e si ottiene semplicemente dividendo la spesa monetaria X per la scala di equivalenza ε. Si noti che la stima della scala di equivalenza coincide con la stima del costo del componente aggiuntivo (il figlio in questo caso): l'unica particolarità, inevitabile, è il fatto che il costo viene valutato in termini relativi, rispetto a un termine convenzionale di paragone che, per definizione, vale 1. Tale termine di paragone è talvolta l'adulto che vive da solo, talaltra, come nell'esempio appena proposto, la coppia senza figli. Da cosa dipendono i comportamenti concreti di consumo, e cioè la spesa che ogni famiglia dedica a alimentazione, riscaldamento, trasporti, ecc.? Sembra ragionevole ipotizzare, almeno in prima approssimazione, che essi dipendano dal reddito reale, che tiene sinteticamente conto di due cose: da una parte, quanto la famiglia può spendere (variabile approssimata qui dalla spesa monetaria, X), dall'altra quanto grandi sono i suoi bisogni, sintetizzati nella scala di equivalenza ε. Ma se la spesa per il generico bene i (piqi - prezzo per quantità acquistata) dipende dal rapporto X/ε, allora, in generale, anche la quota di spesa, wi(=piqi/Σpiqi), che è empiricamente più comoda da trattare, dipende dalla "vera" disponibilità economica della famiglia, X/ε. Poiché sia la spesa totale X che le quote di spesa wi sono osservabili, la scala di equivalenza può (in genere) essere ricavata empiricamente dalla relazione X wi = f i ε 1) Questa, benché non esattamente in questi termini8, è la relazione inizialmente postulata da Engel per i suoi calcoli della scala di equivalenza. Si tratta di una relazione 8 In realtà, è molto più frequente trovare la stima della scala di equivalenza alla Engel, nella forma cd. di Working-Leser, e cioè, ad esempio, w=a+bln(X)+c(N-1)+u, dove w è la quota di spesa alimentare, X la spesa totale, N il numero di componenti della famiglia, a, b e c sono parametri da stimare e u è la componente di errore, di media nulla e varianza finita. Poiché, in questa impostazione, uguaglianza di reddito reale implica uguaglianza di quota di spesa alimentare, e viceversa, si ricava la scala di equivalenza come ε = exp[− (N − 1) c b] , che ha il vantaggio di non dipendere dal livello di reddito (o spesa) su cui si effettua il confronto. Carbonaro (Commissione Povertà 1985) ne ha proposto una variante, w=a+bln(X)+cln(N-1)+u, che gode anche della proprietà di costanza di elasticità. Questo significa che a parità di crescita relativa della famiglia (es. se i componenti raddoppiano, passando da 1 a 2, a 4, a 8, - Il costo dei figli in Italia - p. 9 s teoricamente valida per qualunque quota di spesa: Engel però la utilizzò solo in relazione alla quota di spese "necessarie", che in quel contesto (le famiglie di operai belgi, nel 1895) comprendevano alimentazione, vestiario e affitto, e coprivano oltre l'80% del totale delle spese, mentre il metodo di Engel si applica oggi esclusivamente alla quota di spesa alimentare, che, in Italia, arriva ormai solo al 20% circa del totale. Bisogna ancora esplicitare come le caratteristiche familiari empiricamente osservabili si legano alla scala ε. Qui si possono operare scelte diverse, ma poiché i coefficienti di una scala di equivalenza sono numeri relativi, è bene garantire che, per la famiglia standard, il coefficiente valga 1. Ad esempio, si potrebbe porre 2) ε=1+k(N-1) dove N è il numero dei componenti la famiglia, k un parametro da stimare empiricamente, e la scala ε vale 1 se N=1. In questa scala semplice conta solo il numero dei componenti, la cui influenza, per giunta, è, per definizione, di tipo lineare, con fattore di proporzionalità pari al parametro k. Ma si possono considerare anche scale più complesse, come ad esempio quelle definite più avanti, nelle equazioni (7) e (8). Torniamo all'equazione (1). Engel, come detto, la applicò ai soli beni necessari, e ottenne quindi un valore unico per la scala ε. Sfortunatamente, se si cerca di applicare questa procedura anche a altri beni (es. trasporti, cultura, ecc.) si ottengono stime diverse per i parametri (ad esempio, k nell'eq. 2, o c nella formule della nota 8), e quindi anche per la scala stessa ε. Come ovviare a questo inconveniente? Le soluzioni possibili sono diverse. Ordinando logicamente, ma non cronologicamente, quelle proposte nel corso del tempo, si possono forse individuare tre gruppi: a) La prima soluzione consiste nell'usare l'equazione (1) non solo su una particolare categoria di beni (es. gli alimentari) ma su tutti i beni contemporaneamente. Si ottiene così un sistema non lineare di equazioni (una per ogni tipologia di consumi), ognuna con incognite sue proprie (i vari parametri di regressione) più una incognita generale, comune a tutte le equazioni, che è la scala ε (con tutti i parametri che essa implica). Questa è (la versione semplificata a un solo anno del)l'idea di Ray (1983): il vantaggio è che essa va direttamente al cuore del problema, e consente stime della scala di equivalenza su dati di un singolo anno. Lo svantaggio però è che il modello forza l'effetto "presenza del figlio" a essere quasi9 lo stesso su tutte le voci di consumo, il che contrasta con la logica e con l'osservazione empirica. b) La seconda soluzione è la seguente: riconoscere che l'effetto dell'arrivo di un figlio sul comportamento di consumo non può essere ridotto a un solo effetto generale di "impoverimento". In realtà ogni voce di spesa ne sarà influenzata in maniera differente, e una famiglia che volesse garantire ai genitori, anche dopo la nascita del figlio, lo stesso livello di consumi dell'epoca precedente il parto dovrebbe comprare un po' più di tutto, ma con aumenti differenziati per bene. Ammettiamo, ad esempio, ecc.), si osserva una stessa crescita relativa della scala di equivalenza (che, come risulta dai calcoli empirici, passa da 1 a 1.67, a 2.78, a 4.63, ecc.). Questa è la cd. "scala Carbonaro" utilizzata a suo tempo dalla Commissione per lo studio della Povertà e dell'Emarginazione sociale (1985), e attualmente dall'Istat per le sue valutazioni sulla povertà, associate alla rilevazione annuale dei consumi delle famiglie (Istat 2002). È anche, con qualche modificazione, la scala utilizzata per il calcolo dell'ISEE, o indicatore della situazione economica equivalente della famiglia (Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 109 e successive modificazioni). 9 Ovvero: l'unico effetto economico che il modello riconosce al figlio è quello di rendere la famiglia più povera, riducendo il suo reddito equivalente X/ε: le variazioni dei consumi (cioè, le differenze rispetto alle famiglie senza figli) dipendono solo dalla maggiore povertà dei genitori, e non da altro. p. 10 - Gustavo De Santis che, prima, la coppia consumasse 100 gr. di latte al giorno e che ora il figlio ne richieda 100 solo per sé: il consumo complessivo della famiglia dovrebbe passare da 100 a 200, e cioè raddoppiare, per poter soddisfare tutte queste esigenze senza perdite in termini di tenore di vita. Per contro, ammettiamo che i due neo-genitori bevessero ciascuno un caffè al giorno prima del parto: poiché il figlio non consuma caffè, il consumo familiare di questa bevanda potrebbe restare invariato, senza implicare una limitazione rispetto alle abitudini pregresse: il costo del figlio specifico sul caffè è dunque zero; ecc. Il costo complessivo deriverà da un'opportuna sintesi di tutti questi effetti specifici sui singoli acquisti, ognuno moltiplicato per il suo prezzo. Questa, con varie specificazioni, è l'idea di quasi tutti coloro che, da Prais-Houthakker (1955) in poi, si sono occupati del problema della stima del costo dei figli all'interno dei sistemi completi di domanda, e che comprende, tra gli altri, Barten (1964), Gorman (1976), Pollak e Wales (1981), Rossi (1988), ecc. Il vantaggio è che il modello è flessibile, perché agisce voce per voce; lo svantaggio è che le stime sono difficili10, richiedono forti ipotesi ad hoc, e non sempre fanno emergere immediatamente l'elemento di sintesi più interessante per i demografi, la scala di equivalenza. c) La terza soluzione, più recente, è una sintesi delle prime due. Come in (b), si riconosce che l'effetto dell'arrivo di un figlio sul comportamento di consumo familiare non può essere ridotto a un solo effetto di costo, ma anziché stimare separatamente l'effetto sulle diverse categorie di consumo, per poi cercare una sintesi nella scala di equivalenza, si punta direttamente alla stima della scala ε (come in a), tenendo però contemporaneamente conto anche degli effetti specifici sui consumi dei singoli beni, come in (b). La principale differenza da (b) è che, grazie alla presenza di una stima diretta dell'effetto di costo generale, questi effetti residui, detti "di stile", diventano scostamenti da un effetto medio, che è appunto quello di impoverimento implicito nella scala di equivalenza11. Questa è l'idea del DM2 (De Santis e Maltagliati 2001, 2002 e 2003): il vantaggio è che, come in (a) le stime puntano direttamente a ciò che sta più a cuore, la scala di equivalenza (ma forniscono anche gli effetti "di stile" specifici per bene), e possono essere condotte con relativa facilità su un singolo anno di osservazioni. Gli svantaggi sono quelli consueti legati alle stime non lineari, e quindi iterative: il processo può arrestarsi in un punto che costituisce un ottimo locale, ma non un ottimo assoluto, e i parametri non sono necessariamente quelli migliori possibili. 5 Scale di equivalenza, utilità e benessere Numerosi attacchi sono stati indirizzati sia ai metodi di stima, sia all'utilizzo delle scale di equivalenza, tra i quali due appaiono particolarmente insidiosi, perché contestano alla 10 E, soprattutto, richiedono necessariamente l'utilizzo di più anni di osservazioni, in modo da avere variabilità nei prezzi relativi e poter stimare la forma delle "curve di indifferenza", ovvero la disponibilità del consumatore a consumare meno di un certo bene e più di un altro, senza perdere in soddisfazione complessiva. 11 Incidentalmente, questo implica che gli effetti di stile hanno media nulla. Ad esempio: una volta stabilito che, in presenza di un figlio, una coppia dovrebbe poter spendere il 20% in più, si dice (implicitamente): "dovreste spendere il 20% in più per tutti i beni, quindi, per tornare all'esemplificazione del testo, sia di latte che di caffè. Potete però operare aggiustamenti: ma, rispetto a questo incremento medio (teorico), per ogni euro di spesa in più che dedicate al latte, dovete rinunciare a un euro di spesa in caffè". - Il costo dei figli in Italia - p. 11 s radice la logica che guida i calcoli. Entrambi fanno riferimento al concetto di "utilità", nell'accezione moderna (Broome 1991), cioè il grado di soddisfazione che ogni consumatore soggettivamente associa alla disponibilità di un certo ammontare di beni e di servizi. Per definizione, l'utilità di ogni individuo cresce, ceteris paribus, con il crescere di tali disponibilità, almeno fino al punto di "saturazione" - che però, in pratica, non si raggiunge mai. Le difficoltà nascono dal fatto che l'utilità non è empiricamente osservabile. Da tempo si è rinunciato all'idea di poterla "misurare" (per poter operare confronti e concludere, ad esempio, che l'utilità di A è il doppio di quella di B), ma sopravvive l'idea di poterla "rappresentare", cioè di poter dire se l'utilità di A è maggiore, uguale o minore di quella di B. È vero che anche in questa forma cd. "ordinale", il confronto di utilità tra persone diverse è un'operazione molto delicata e costituisce, in ultima analisi, un "atto di fede": non potremo mai essere sicuri che due individui A e B, identici per tutti i caratteri osservabili (es. sesso, età, composizione familiare, ecc.), ma diversi quanto a risorse disponibili, si ordinino rispetto all'utilità nel senso atteso a priori. In altre parole, se A guadagna più di B dovremmo aspettarci che anche la sua utilità sia maggiore, ma non potremo mai esserne certi. Analogamente, se il guadagno di A è identico a quello di B, o, più in generale, se il reddito equivalente X/ε di due individui qualunque è lo stesso, ci aspettiamo che anche la loro utilità lo sia, ma che cosa avvenga empiricamente resta un mistero. D'altra parte, non accettare questo passaggio logico (che uno stesso reddito equivalente produca una stessa utilità) equivale a escludere a priori la possibilità di confronti interpersonali di qualunque tipo. Forse è più corretto dire che in questo tipo di studi ci si limita al concetto di "utilità teoricamente attesa" per tutto ciò che attiene la sfera (pubblica) dei confronti interpersonali, e si lascia alla sfera privata, inconoscibile e inconfrontabile, il concetto puramente teorico di "utilità effettiva". Ma anche con questo artificio, del ricorso all'utilità attesa, non tutti i problemi sono risolti. Nella discussione del paragrafo precedente, ad esempio, abbiamo dato per scontato che il grado di utilità fosse lo stesso tra i membri di una famiglia, e in particolare tra i coniugi: è proprio questo livello, ignoto, ma comune a tutta la famiglia, e di cui si ha qualche indiretta indicazione empirica nei comportamenti di spesa, che si vorrebbe veder mantenuto dopo la nascita del figlio, e che costituisce la base per il calcolo delle scale di equivalenza12. Ma cosa avviene se l'ipotesi di uguaglianza di benessere tra i coniugi non risulta accettabile? Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, che tra di essi si instauri una specie di rapporto di forza, in cui entrambi cercano di costringere l'altro a cedere ai propri desideri, ma entrambi stanno attenti a non tirare troppo la corda, per non provocare la rottura dell'unione. La teoria dei giochi, e l'equilibrio cd. "di Nash", suggeriscono che il coniuge più forte riuscirà a assumere una posizione predominante all'interno della coppia, dove la forza del coniuge è data dalla massima utilità che questi potrebbe raggiungere al di fuori di quella unione13, mentre "posizione predominante" significa 12 In fondo, il quesito cui le scale cercano di rispondere è il seguente: "quanto bisogna dare in più a una famiglia cui nasce un figlio se si vuole che, dopo il parto, il tenore di vita dei membri pre-esistenti non si abbassi?". 13 In pratica: ammettiamo che U sia sposato con D, e che, senza matrimonio, U potrebbe trovare una soluzione (es. di single) che per lui soggettivamente vale 100, mentre D ne potrebbe trovare una che per lei soggettivamente vale 50. Occorre intanto che il matrimonio, nel suo complesso, valga almeno 150 (sommando opportunamente i redditi dei due, il valore del lavoro casalingo, il valore della compagnia, p. 12 - Gustavo De Santis semplicemente, ai nostri fini, che la sua utilità sarà diversa da quella del partner, e maggiore di essa. Ma se non esiste un'utilità comune, "della famiglia", come costruire scale di equivalenza? Vi sono in letteratura tentativi di verificare che, in effetti, la nozione di "utilità della famiglia" non è difendibile (Browning et alii 1994; Bourguignon 1999), o lo è solo con particolari accorgimenti (Lewbel 2003). Trovo però che queste obiezioni risultino convincenti in certi contesti, in particolare in alcuni paesi in via di sviluppo in cui il ruolo della donna o dei bambini è socialmente inferiore a quello dell'uomo, ma lo siano molto meno nei paesi sviluppati. Qui, la nozione di utilità della famiglia appare nel complesso difendibile: una bella casa va a vantaggio di tutti gli occupanti; quando si porta il cibo in tavola, è normale che questo sia per tutti della stessa qualità (anche se le quantità consumate possono differire); il decoro nel vestire è approssimativamente lo stesso per tutti i componenti (anche perché la presenza di un eventuale componente "straccione" getterebbe immediatamente discredito su tutti gli altri); ecc. E se il tenore materiale di vita è, almeno approssimativamente, lo stesso per tutti, a questo si può far riferimento come tenore di vita della famiglia, e su questa base costruire scale di equivalenza. La seconda critica, verte sul fatto che non solo il livello dei consumi, ma anche la stessa struttura familiare concorre a formare il grado di benessere individuale, e la costruzione di scale di equivalenza su questa base è quindi impossibile. Mi spiego con un esempio. Ammettiamo che due giovani adulti guadagnino entrambi 1000 euro al mese, e che entrambi spendano 100 euro al mese in videogiochi, riservando il resto a altri usi. Ammettiamo inoltre di aver scelto, come indicatore del tenore di vita, proprio la spesa in videogiochi, che, correttamente in questo caso, ci dice che i due giovani stanno egualmente bene (hanno la stessa "utilità"). Ammettiamo però che a un certo punto uno dei due compri l'automobile, e che le spese di manutenzione riducano il suo budget disponibile per videogiochi a soli 50 euro al mese. Sulla base del nostro indicatore siamo adesso portati alla conclusione che "l'automobilista" stia peggio del "pedone", perché può permettersi solo 50 euro mensili di divertimenti, e con l'applicazione di opportune tecniche di stima potremmo arrivare alla conclusione che l'automobilista potrebbe ricominciare a permettersi di spendere 100 euro in videogiochi, e quindi "star bene" come prima, solo se il suo guadagno salisse, in ipotesi, a 1500 euro mensili: la scala di equivalenza calcolata su questa base è dunque 1.5. Si tratta di una conclusione palesemente assurda, determinata dal non aver considerato che anche l'automobile entra a far parte del tenore di vita degli individui: in fondo, chi li costringe a comprarla? Contando tutte le spese per divertimento (compresa quindi l'automobile), si vedrebbe che, se è diversa la destinazione, è però uguale l'ammontare complessivo, e sono quindi uguali anche i tenori di vita. Sostituiamo adesso l'auto con un figlio, e lasciamo invariato tutto il resto, compresa la stima a 1.5 della scala di equivalenza: ora non sembra più tanto forzato concludere che, in effetti, poter disporre di soli 50 euro per videogiochi costituisca un indicatore di ecc.) - altrimenti l'unione si scioglierebbe. Ammettiamo ad esempio che il "valore dell'unione" sia 180: la coppia può perdurare, ma è presumibile che la divisione di questo prodotto congiunto non sarà paritaria, perché a U non converrebbe accontentarsi di 90, quando, stando da solo, potrebbe ottenere 100. Ammettiamo che la divisione rispecchi il potere originario dei due coniugi, e sia quindi 120 per U e 60 per D: ma questo significa che anche le scelte di consumo della famiglia saranno più influenzate dalle preferenze di U, la cui utilità è quindi maggiore di quella di D: non esiste una "utilità della famiglia", e manca quindi una base per calcolare le scale di equivalenza. - Il costo dei figli in Italia - p. 13 s relativa deprivazione per il secondo giovane, perché, poverino, ha un figlio da mantenere. Eppure dov'è la differenza? Nel primo caso ha scelto di comprare una macchina, nel secondo, ha scelto di "comprare" (cioè mettere al mondo, e pagare per) un figlio. Pare dunque impossibile costruire una scala di equivalenza sulla base dei comportamenti di consumo: qualunque sia la famiglia di cui si parla, bisogna sempre considerare che tutto (consumi e struttura familiare) è stato scelto tenendo in conto vincoli di bilancio, costi e preferenze individuali. Non mi pare che sia mai stata data una risposta convincente a questa potente obiezione, mossa, in forme leggermente diverse da numerosi autori, tra cui Pollak e Wales (1979); Hagenaars (1986); Blundell e Lewbel (1991); Patrizii and Rossi (1991); Blackorby e Donaldson (1994); Cigno (1996); van Praag and Warnaar (1997); Ferreira, Buse, e Chapman (1998); Colombino (2000); ecc. Vi sono bensì interventi che mettono a fuoco il problema del benessere del minore, che non ha "scelto di nascere", e men che meno in una famiglia relativamente povera (Deaton e Muellbauer 1980a e 1986; EkertJaffé 1994a,b; Bojer e Nelson 1999), ma l'argomento, nonostante la sua rilevanza, mi pare che non affronti il nodo della questione, che trovo essere il seguente. Un buon indicatore di utilità è in grado di portare a una corretta misura del costo relativo (ε) delle diverse situazioni, sia che queste siano frutto di scelta (come l'automobile o il figlio dell'esempio precedente), sia che dipendano invece da altre circostanze (malattia, invecchiamento, ecc.). In alcuni casi, questo procedimento indiretto, che passa attraverso la misura e il trattamento statistico di opportuni indicatori di utilità, è solo una delle possibili strade, e non necessariamente la migliore: per l'automobile, ad esempio, i costi di acquisto e di mantenimento potrebbero essere osservati direttamente. Ma per i figli, come si è detto, la maggior parte dei costi non è osservabile, e la valutazione indiretta, attraverso indicatori di utilità, appare l'unica possibile. Trovare per questa via il costo di un figlio non significa pretendere un sostegno pubblico per i genitori: serve soltanto a valutare l'abbassamento del tenore di vita connesso a questa scelta - così come la presenza dell'auto costringeva il nostro giovane automobilista a rinunciare in parte ai videogiochi. Altre considerazioni potranno poi, eventualmente, spingere verso forme di sostegno pubblico, tra cui, ad esempio, quelle sul tenore di vita dei minori (per il calcolo del quale, però, occorre utilizzare le scale di equivalenza), o sull'opportunità di sostenere o scoraggiare la fecondità, o altro ancora. Ma una cosa è il calcolo di un costo, un'altra è l'intervento per alleviarlo. Attenzione: questa procedura di stima funziona solo se, appunto, il nostro indicatore di utilità è "buono", e cioè se i comportamenti di spesa che esso misura risentono solo di un effetto reddito, e non anche di altri effetti (simboleggiamoli con Φ) legati all'evento il cui costo si cerca di misurare. Cioè se la vera relazione fosse 3) X wi = f i ; Φ ε e non la (1) come abbiamo supposto prima, attribuire solo alla scala ε (cioè al costo) la modifica dei comportamenti di consumo wi potrebbe portare a stime anche gravemente distorte. Per esempio, ammettiamo che la presenza dell'auto, oltre a "impoverire" il nostro giovane (ha meno denaro da dedicare ai videogiochi) cambi anche i suoi interessi, perché ora preferisce occupare il suo tempo in lunghi giri macchina, per farsi ammirare dalle ragazze. La sua spesa per i videogiochi crolla, e se non ci si rende conto che questo è avvenuto anche per un effetto di "stile di vita", si è portati a interpretare la scarsa spesa in videogiochi come indicazione di estrema povertà, e quindi di costo p. 14 - Gustavo De Santis molto elevato dell'automobile. Ma il difetto non è nell'impostazione teorica: è nella scelta empirica dell'indicatore di utilità, che dipende non solo da X/ε, come deve, ma anche da Φ. E come accennato, il sistema DM2 sopra succintamente descritto cerca di evitare proprio questo inconveniente, esplicitando e separando le due componenti di "stile" e di "costo" nei comportamenti concreti di spesa delle famiglie con e senza figli. 6 Il modello e i dati Le idee generali del DM2 si possono tradurre in modelli empirici diversi, che purtroppo però portano anche a risultati parzialmente diversi. Inoltre, tali risultati variano di anno in anno più di quanto sarebbe lecito sperare (cfr. paragrafo seguente) e risentono anche del raggruppamento delle voci di spesa: formare otto grandi categorie di spesa (come in questo caso), o meno o più, oppure raggruppare le voci elementari secondo criteri diversi (ad esempio, mettendo i "pasti fuori casa" una volta tra le spese alimentari e un'altra tra le altre spese), ha un effetto non trascurabile sulle stime dei parametri. Infine: le procedure non lineari di stima che il DM2 usa rendono incerti i risultati, perché quello che si ottiene potrebbe non costituire il miglior set di parametri, ma solo un ottimo locale. Tuttavia, queste riserve non riguardano il solo DM2: abbiamo scoperto che la stessa incertezza circonda anche stime condotte con altri metodi, benché di ciò non si trovi quasi traccia in letteratura (ma cfr. Bollino, Perali e Rossi 2000). Per questa applicazione, si è scelto il modello 2 X X DM2: wi = α i + β i log + δi log + φi + ui , ε ε 4) i = 1, 2, ..., I che non è altro che una specificazione del (3) dove, per maggior aderenza ai dati empiricamente osservati, si sono fatte dipendere le quote di spesa non direttamente dal "reddito" (ovvero il totale delle spese X), ma dal suo log, e dal quadrato di questo. Inoltre, l'effetto "stile", genericamente Φ, varia da bene a bene (cioè è φi), con un vincolo generale di bilancio, per cui Σφi=0. La stima è condotta simultaneamente su I voci di spesa (qui I=8). L'equazione (4) costituisce una generalizzazione sia dell'approccio mono-anno di Ray (1983), in cui mancano gli effetti di stile φi, 2 X X Ray: wi = α i + β i log + δ i log + ui ε ε 5) i = 1, 2, ..., I sia, e più ancora, del metodo di Engel, che può essere visto come un Ray (mono-anno) applicato ai soli beni alimentari 2 X X Engel: w1 = α1 + β1 log + δ1 log + u1 ε ε 6) 1=cibo Per tutti e tre i modelli, in cui la base è la coppia senza figli, si proporranno due versioni: una semplice e una complessa. Nella prima conta solo il numero dei figli F14 14 F (nello stile φi) conta i figli, e varia da 0 a 3. F1, F2 e F3, invece (nella scala ε) sono dummies, che valgono 1 se c'è un figlio di quell'ordine. Questo artificio consente di valutare la presenza di eventuali economie o diseconomie di scala. - Il costo dei figli in Italia - p. 15 s 3 Semplice: ε = 1 + ∑ k j F j 7) e j =1 φi = 1 + nF mentre nella seconda Complessa: ε = 1 + ∑ f j F j + eE + gG + lL + ∑ (t jT j ) + rR + yY 8) 3 2 j =1 j =1 φi = sfF + seE + sgG + slL + ∑ (st jT j ) + rR 2 j =1 conta anche l'età media dei figli E (in scarto da 9), l'età media dei genitori G (in scarto da 40), il lavoro della donna L (L=1 se la donna lavora), il titolo di studio T della donna15, la macro-regione di residenza (R=1 se la famiglia vive nel Centro-Nord) e lo scarto Y del reddito della famiglia dal reddito medio familiare dell'anno (in log), introdotto per valutare sinteticamente se è vero che la scala rimane approssimativamente costante per tutti i valori del reddito, oppure se varia, e eventualmente in che senso. La scala vale 1 per una coppia senza figli, con età media di 40 anni, reddito medio, che vive nel Mezzogiorno, in cui la donna, con licenza media, non lavora. Si ha inoltre un possibile effetto di stile φi, specifico per ogni capitolo di spesa, che è influenzato sostanzialmente dalle stesse variabili viste prima (salvo Y), ma con effetti che si manifestano ora in modo diverso, attraverso i parametri di stile (caratterizzati dalla lettera iniziale s). Questo modello è applicato ai micro-dati dell'indagine Istat sui bilanci familiari per gli anni dal 1987 al 2001: una serie lunga ma che ha lo svantaggio di presentare una discontinuità temporale in occasione della rilevazione del 1997 (Istat 1998). Fig. 1 - Famiglie, coppie* e spesa media mensile 35 000 2 800 2 600 30 000 25 000 2 200 2 000 20 000 1 800 15 000 1 600 Spesa mensile (Euro correnti) Famiglie e coppie nel campione 2 400 Famiglie Coppie X/mese(Euro) 1 400 10 000 1 200 5 000 1 000 1987 1988 1989 1990 1991 Fonte: Elaborazioni su microdati Istat 1992 1993 1994 Anni 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 * Coppie di 18-64 anni, con 0-3 figli di 0-17 i La figura 1 presenta, in sintesi, le principali caratteristiche di questa base di dati: un campione annualmente composto da 21-34 mila famiglie si riduce, per effetto della 15 Lo standard è una donna con licenza media. Le due dummies T1 e T2 valgono 1 se la donna è, rispettivamente, meno o più istruita. p. 16 - Gustavo De Santis selezione operata (solo coppie di adulti, con le caratteristiche sopra indicate) a 7-14 mila famiglie per anno. L'indagine informa sulla composizione della famiglia, le caratteristiche di ogni componente (sesso, età, relazione con la persona di riferimento, titolo di studio, ecc.), e le spese familiari, dettagliate in 75 voci elementari fino al 1996, e in 280 dal 1997. Per le spese, che complessivamente crescono da 1100 a 2500 Euro al mese (a prezzi correnti), abbiamo proceduto a una riaggregazione in 8 grandi categorie (cibo, vestiario, casa/energia, mobili, salute, trasporti, istruzione/cultura, altro), le cui quote sono illustrate nella fig. 2: nel corso dei 15 anni esaminati, si nota una riduzione della spesa per cibo (dal 30 al 20%, approssimativamente), compensata da un aumento delle spese per la casa (dal 20 al 26%) e per ricreazione e cultura (dal 6 all'11%). Fig. 2 - Quote di spesa per 8 categorie 100% 90% 80% 70% Altro Ricr./Cult. Trasporti Salute Mobili Casa Vestiario Alimentari 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0% 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 La qualità dell'indagine appare nel complesso buona16, anche perché vanta una lunga tradizione (esiste dal 1963, ed è diventata annuale dal 1968), e riveste una grande importanza in Italia per stime di contabilità nazionale, per la valutazione della povertà, per la costruzione di indici dei prezzi, etc. In ogni caso, è l'unica fonte che informi contemporaneamente sui consumi e sulle caratteristiche strutturali delle famiglie. L'informazione sul reddito è poco utilizzabile (fornita per classi, è spesso assente, ed è scarsamente controllata): si userà quindi il totale delle spese come indicatore delle disponibilità economiche della famiglia. Uno dei problemi che emergono con l'uso di micro dati (familiari) di consumo è la loro estrema variabilità. Ne segue che anche modelli di regressione che appaiono ottimi su dati raggruppati, presentano invece qui una scarsa bontà di adattamento, e questo 16 Si possono però segnalare alcuni aspetti negativi: la percentuale di contatti falliti (famiglie che rifiutano l'indagine, o che la accettano ma forniscono poi risultati giudicati non utilizzabili) è del 12% circa; il valore dei consumi privati che ne emerge non coincide esattamente con i dati della Contabilità Nazionale (cfr. l'introduzione a ciascuno dei volumi pubblicati annualmente in occasione dell'uscita dei risultati); la distribuzione per età della popolazione indagata non corrisponde esattamente a quella che emerge da altre fonti ufficiali (Cicali e De Santis 2002). A partire dal 1997, infine, la dimensione campionaria si riduce sensibilmente, e i dati utilizzabili ancora di più, perché i dati rilasciati dall'Istat passano attraverso un programma a tutela della riservatezza, che cancella alcune informazioni per alcune famiglie. - Il costo dei figli in Italia - p. 17 s anche se il valore dei parametri stimati varia di poco17. Una seconda, e più spiacevole conseguenza, è che quasi ogni "complicazione" nella procedura di stima (come l'introduzione di non-linearità, o variabili aggiuntive, ecc.) appare statisticamente giustificata, il che rende difficile stabilire quando fermarsi con le "complicazioni" del modello (Bollino, Perali e Rossi 2000). 7 Risultati empirici Il costo di un figlio appare diverso in funzione del metodo di stima che si adotta. Nelle versioni semplici, le stime variano dal 33% di Engel al 13% di Ray, con un 17% prodotto dal DM2 (base: bilancio di una coppia senza figli=100%). Ma qui si "dimentica" che i figli sono più frequenti in famiglie con certe caratteristiche (es. del Mezzogiorno), che possono a loro volta avere influenza sulle quote di spesa. Fig. 3 - Costi medi di un figlio (versione semplice) 45% 40% 35% (Coppia = 100%) 30% 25% Engel, 0.33 Ray, 0.14 DM2, 0.17 20% 15% 10% 5% 0% 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Cercare di tenerne conto (come si fa nei modelli complessi), porta a stime di costo più elevate, comprese tra il 20% (Ray) e il 66% (Engel), con un (a mio parere ragionevole) 22% prodotto dal metodo DM2. 17 Come si è verificato in alcune prove, i cui risultati non sono qui riportati. p. 18 - Gustavo De Santis Fig. 4 - Costi medi di un figlio (versione complessa) 100% 90% 80% (Coppia = 100%) 70% 60% Engel, 0.67 Ray, 0.2 50% DM2, 0.22 40% 30% 20% 10% 0% 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Fig. 5 - Costo dei figli per ordine di nascita (metodi complessi) 35.0% 29.6% 30.0% 25.0% 22.5% (Coppia=100%) 21.2% 20.0% 20.3% 19.1% 17.3% Ray, 0.2 DM2, 0.22 15.0% 10.0% 5.0% 0.0% 1° figlio 2° figlio 3° figlio Contrariamente a ciò che si pensa di solito, i costi non sembrano diminuire significativamente con l'ordine di nascita. Anzi, essi appaiono in genere leggermente in crescita: con il DM2 (complesso), ad esempio, essi passerebbero dal 19, al 23 al 30%, rispettivamente per il primo, il secondo e il terzo figlio. Lo stesso avviene con Engel, mentre applicando Ray le economie di scala che pure emergono appaiono nel complesso modeste (tab. 1). A mia conoscenza, il tema non è molto trattato in letteratura: credo che questo derivi dal fatto che la conclusione (l'esistenza di economie di scala) era data per scontata, o forzata nel modello (cfr. nota 8, ad esempio) e non è (quasi) mai stata sottoposta a verifica, come in questa applicazione, in cui i figli sono stati aggiunti uno alla volta. Ma il risultato sembra confermato anche da alcune applicazioni (non mostrate qui) su altri tipi di famiglie: se il primo componente costa 1, i componenti aggiuntivi - Il costo dei figli in Italia - p. 19 s costano significativamente meno di 1, ma il loro costo cresce con l'ordine di "apparizione" in famiglia, orientativamente da 0.5 fino a 0.75. Consideriamo infine brevemente anche con l'aiuto della tab. 1, altre caratteristiche dei costi. Notiamo intanto che vi è una netta cesura con il passaggio al nuovo tipo di rilevazione dell'Istat, indipendentemente dal metodo di stima adottato: anche nel caso di Engel, la sostanziale stabilità complessiva deriva da effetti contrapposti sui figli di diverso ordine. Tab. 1 - Confronti di costi, dei figli e di altro Periodo Variabile 1987-96 1997-01 Metodo Engel (semplice) 1° figlio 32.1% 18.3% 2° figlio 36.1% 43.9% 3° figlio 20.6% 47.3% Figlio medio * 33.0% 33.2% Periodo Totale Variabile 1987-96 1997-01 Totale Metodo DM2 27.5% 1° figlio 25.7% 5.9% 19.1% 38.7% 2° figlio 26.6% 14.2% 22.5% 29.5% 3° figlio 29.5% 29.8% 29.6% 33.0% Figlio medio * 26.5% 12.0% 21.7% Età dei figli 2.4% 1.3% 2.1% Età dei genitori 1.0% 0.7% 0.9% Istr. madre: bassa -3.9% 3.4% -1.5% Metodo Ray (complesso) 1° figlio 26.0% 11.6% 21.2% Istr. madre: alta 8.1% 11.4% 9.2% 2° figlio 24.5% 11.9% 20.3% Lavoro madre 1.3% 4.0% 2.2% 3° figlio 17.9% 16.0% 17.3% Residenza al CN 1.1% 7.3% 3.1% Figlio medio * 24.6% 12.1% 20.4% Reddito sopra media -20.7% -24.2% -21.9% * Media ponderata del 1° (43%), 2° (48%) e 3° (9%) figlio Anche l'età dei figli contribuisce alla crescita dei costi: ogni loro anno in più comporta un aggravio di spese pari a circa 2 punti percentuali18. D'altra parte, lo stesso effetto di aumento dei costi si osserva con il crescere dell'età dei genitori, in ragione, in questo caso, di circa un punto percentuale per ogni anno di età. Una madre con grado di istruzione relativamente elevato (licenza superiore o laurea) contribuisce a aggravare i costi della prole: potrebbe essere il segno di una maggiore attenzione verso il figlio (che risulterebbe così di "più alta qualità"), ma potrebbe anche derivare, più semplicemente, dalla maggior propensione di questo tipo di famiglie a comprare sul mercato certi beni e servizi: ad esempio baby sitter, colf, ecc. Per lo stesso motivo, presumibilmente, il costo del figlio è un po' più elevato (di circa 2-3 punti percentuali) per le madri che lavorano, e per le famiglie che risiedono nel Centro-Nord. Nel complesso, è presumibile che allevare figli comporti anche costi fissi: il costo relativo appare infatti più elevato per le famiglie con redditi inferiori alla media. D'altra parte, a parità di reddito "reale" (cioè di reddito equivalente X/ε), tutte le variabili considerate esercitano effetti "di stile" sulla quota di spesa dedicata alle varie voci. Consideriamo, ad esempio, la quota di spesa alimentare, la chiave del metodo di Engel: pur a parità di tenore di vita, questa risulta più alta se vi sono figli (soprattutto se piccoli) e se le madri sono poco istruite. Viceversa, tale quota diminuisce se le madri sono istruite, se lavorano, e se la famiglia risiede al Centro-nord. Queste indicazioni suggeriscono il senso e la misura della presumibile distorsione nelle scale di equivalenza che si introduce quando si utilizza il metodo di Engel per la stima delle scale di equivalenza. 18 La base è sempre il bilancio di una coppia senza figli. Si ricordi che lo standard di partenza è un figlio di 9 anni: figli più giovani costano quindi meno del 24% mediamente stimato, e figli più anziani costano di più. p. 20 - Gustavo De Santis Tab. 2 - Effetti di stile nel metodo DM2 Periodo Variabile 1987-96 1997-01 Quota di spesa in cibo Figli 0.3% 0.9% Età dei figli -0.1% 0.0% Età dei genitori 0.0% 0.1% Istr. madre: bassa 0.5% 0.9% Istr. madre: alta -1.0% -1.9% Lavoro madre -0.6% -1.2% Residenza al CN -1.7% -5.6% Totale 0.5% -0.1% 0.0% 0.6% -1.3% -0.8% -3.0% 8 Conclusioni Lo scopo principale di questo lavoro è mostrare che, rispetto a una famiglia di base comunque definita (ad esempio: una coppia senza figli), qualunque variazione può, in linea di principio, produrre due effetti, di costo e di stile: per esempio l'arrivo di un figlio, l'invecchiamento dei componenti, ecc. Ciò implica che nella stima delle scale di equivalenza è necessario tenere sotto controllo vari tipi di rischi. Il primo, e più frequente, è quello di omettere gli effetti di stile dall'analisi, come implicitamente si fa con i metodi di Engel e di Ray. Questo, come anche il non modellarli adeguatamente, può portare a risultati distorti. Il secondo rischio è quello di concentrarsi sul solo oggetto di interesse, ad esempio la presenza di figli, e dimenticare che famiglie più feconde si caratterizzano anche per altri tratti peculiari (cioè sono eterogenee): in questo caso, la variazione nel profilo dei consumi che si attribuisce alla presenza di figli potrebbe dipendere invece da altri fattori non tenuti sotto controllo: di nuovo, la conseguenza è una potenziale distorsione nelle stime. Il terzo rischio, opposto al secondo, è quello di cercare di tenere tutto sotto controllo: età, istruzione, lavoro, residenza, ecc. Purtroppo, un modello così complesso, soprattutto se il numero delle osservazioni è limitato, o affetto da errori di varia natura, e se le variabili indipendenti sono multicollineari, si scontra presto con limiti computazionali: i tempi di elaborazione si allungano, i parametri stimati possono diventare instabili, ecc. Infine, benché il metodo DM2 qui discusso sia applicabile anche su un solo anno di osservazioni, la variabilità temporale dei risultati consiglia prudenza, e suggerisce quindi, ove possibile, di applicare comunque il metodo, sia pur separatamente, su più anni: solo così si può essere ragionevolmente certi dei risultati trovati. In sintesi, il metodo DM2 porta a una stima del costo medio del figlio che si avvicina al 22% del bilancio di una coppia senza figli: meno di quanto il metodo di Engel, più familiare ai demografi, sembri suggerire (33-67%), ma più di quanto si ottiene con altri metodi di stima, che non superano praticamente mai il 20%, qui raggiunto dal metodo di Ray, nella versione più dettagliata. È tanto? È poco? Basta per spiegare la bassa fecondità italiana? È difficile dirlo in assenza di confronti internazionali di costo dei figli basati su una metodologia uniforme: colgo qui dunque l'occasione per lanciare la proposta di tentare una stima comparativa internazionale di costo dei figli, sulla falsariga di quanto tentato nel 1989 (Ekert-Jaffé 1994a), ma, questa volta, sviluppando analisi nazionali sulla base sul metodo DM2. In - Il costo dei figli in Italia - p. 21 s attesa dei risultati di tali confronti, si può per il momento solo ragionare in astratto, in termini di livello e di variazione dei costi. Il livello è, a mio giudizio, elevato: se si trattasse di una tassa, esplicitamente imposta dallo Stato su certe categorie di individui (i "produttori di bambini"), un'aliquota di quest'ordine di grandezza apparirebbe inaccettabile, tanto più che tale tassa è imposta non una tantum, ma per un periodo di 20-30 anni, e che a questo costo diretto va ancora aggiunto il costo opportunità. Certo, resta da chiedersi come mai il costo apparisse sopportabile in passato, quando la fecondità era più elevata, e non più sopportabile oggi: le mie stime non suggeriscono che questo costo sia venuto aumentando negli anni dal 1987 al 2001, ma, per il vero, si tratta di un periodo relativamente corto, al cui interno la fecondità è variata poco. Per il passato, le variazioni congiunte di fecondità e di costo non potranno probabilmente mai essere studiate in dettaglio. Per il futuro, invece, e per altri paesi (da confrontare con l'Italia), approfondimenti sono possibili: anzi, sono già in corso. Ringraziamenti e precisazioni Questa ricerca ha beneficiato del contributo del MUIR e dell'Ateneo di Messina (COFIN 2000, La bassa fecondità italiana tra costrizioni economiche e cambio di valori, coordinatore nazionale Massimo Livi Bacci). Tutte le elaborazioni qui condotte (con l'ausilio di Mauro Maltagliati, co-inventore del metodo DM2, che qui ringrazio) si basano sui micro-dati dell'Indagine Istat sui Bilanci di Famiglia, ma non implicano alcuna responsabilità da parte dell'Istat stesso. Ringrazio Margherita Carlucci per la lettura critica di una versione preliminare di questo lavoro. Riferimenti bibliografici A. Ando, F. 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Riassunto Il costo dei figli si compone di due parti. Da un lato vi sono i mancati guadagni (o costi opportunità) legati al tempo che i genitori, le madri in particolare, trascorrono con i figli. In Italia, si può stimare che questi costi opportunità si aggirino oggi intorno al 1030% del reddito potenziale di una donna. Dall'altro, vi sono i costi diretti, che si valutano preferibilmente attraverso la costruzione di scale di equivalenza. Il metodo presentato qui (detto DM2 - o Modello di Decomposizione degli effetti delle Modificazioni Demografiche della famiglia), porta a una stima, per il periodo 1987-2001, pari al 22% del bilancio di una coppia senza figli. Le spese sembrano crescere leggermente con l'ordine di nascita (19, 23 e 30% rispettivamente per 1°, 2° e 3° figlio), e con l'età dei figli (circa 2 punti percentuali per ogni anno). Ancora, il costo appare maggiore per le madri più istruite e che lavorano fuori casa: in entrambi i casi, presumibilmente, perché queste sono portate a fare meno "in proprio" e a comprare di più "sul mercato" ciò che serve alla famiglia e al bambino (es. custodia dei figli, pulizia della casa, preparazione dei pasti, ecc.). Il lavoro sviluppa anche aspetti teorici, e discute in particolare perché la costruzione delle scale di equivalenza è difendibile, e perché il metodo qui proposto (DM2) potrebbe costituire un soddisfacente punto di equilibrio tra metodi più semplici, ma probabilmente distorti (Engel, Ray), e i più sofisticati sistemi completi di domanda, che sono però più complicati, e sono comunque anch'essi, benché in maniera più sottile, soggetti a rischi di distorsione. - Fig. 1 - Famiglie, coppie* e spesa media mensile 35.000 2.800 2.600 30.000 Famiglie 25.000 2.200 Coppie X/mese(Euro) 2.000 20.000 1.800 15.000 1.600 1.400 10.000 1.200 5.000 1.000 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 Anni Fonte: Elaborazioni su microdati Istat 1995 1996 1997 1998 1999 2000 * Coppie di 18-64 anni, con 0-3 figli di 0-17 anni 2001 Spesa mensile (Euro correnti) Famiglie e coppie nel campione 2.400 Fig. 2 - Quote di spesa per 8 categorie 100% 90% 80% 70% Altro Ricr./Cult. 60% Trasporti Salute 50% Mobili Casa 40% Vestiario Alimentari 30% 20% 10% 0% 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Fig. 3 - Costi medi di un figlio (versione semplice) 45% 40% 35% (Coppia = 100%) 30% 25% Engel, 0.33 Ray, 0.14 DM2, 0.17 20% 15% 10% 5% 0% 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Fig. 4 - Costi medi di un figlio (versione complessa) 100% 90% 80% (Coppia = 100%) 70% 60% Engel, 0.67 50% Ray, 0.2 DM2, 0.22 40% 30% 20% 10% 0% 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 Fig. 5 - Costo dei figli per ordine di nascita (metodi complessi) 35,0% 29,6% 30,0% 25,0% 22,5% 21,2% (Coppia=100%) 20,3% 19,1% 20,0% 17,3% Ray, 0.2 DM2, 0.22 15,0% 10,0% 5,0% 0,0% 1° figlio 2° figlio 3° figlio Tab. 1 - Confronti di costi, dei figli e di altro Periodo Variabile 1987-96 1997-01 Totale Metodo Engel (semplice) 1° figlio 32,1% 18,3% 27,5% 2° figlio 36,1% 43,9% 38,7% 3° figlio 20,6% 47,3% 29,5% Figlio medio * 33,0% 33,2% 33,0% Periodo 1987-96 1997-01 Totale Metodo DM2 1° figlio 25,7% 5,9% 19,1% 2° figlio 26,6% 14,2% 22,5% 3° figlio 29,5% 29,8% 29,6% Figlio medio * 26,5% 12,0% 21,7% Età dei figli 2,4% 1,3% 2,1% Età dei genitori 1,0% 0,7% 0,9% Metodo Ray (complesso) Istr. madre: bassa -3,9% 3,4% -1,5% 1° figlio 26,0% 11,6% 21,2% Istr. madre: alta 8,1% 11,4% 9,2% 2° figlio 24,5% 11,9% 20,3% Lavoro madre 1,3% 4,0% 2,2% 3° figlio 17,9% 16,0% 17,3% Residenza al CN 1,1% 7,3% 3,1% Figlio medio * 24,6% 12,1% 20,4% Reddito sopra media -20,7% -24,2% -21,9% * Media ponderata dei figli per ordine (il 1°, 2° e 3° pesano, rispettivamente, 43, 48% e 9%). Variabile Tab. 2 - Effetti di stile nel metodo DM2 Periodo 1987-96 1997-01 Quota di spesa in cibo Figli 0,3% 0,9% Età dei figli -0,1% 0,0% Età dei genitori 0,0% 0,1% Istr. madre: bassa 0,5% 0,9% Istr. madre: alta -1,0% -1,9% Lavoro madre -0,6% -1,2% Residenza al CN -1,7% -5,6% Variabile Totale 0,5% -0,1% 0,0% 0,6% -1,3% -0,8% -3,0%