Padre Salvatore Vidal- un frate e un`eterna devozione S. Antiocu

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Padre Salvatore Vidal- un frate e un`eterna devozione S. Antiocu
Padre Salvatore Vidal- un frate e un’eterna devozione S. Antiocu, Patronu de sa Isola de Sardigna - Comun
Martedì 06 Marzo 2012 11:31
estratto da Annali di Storia e Archeologia Sulcitana, ( a cura di Roberto Lai) Nuova serie nr. 1.
edizioni Arciere. Monastir (CA) Grafiche Ghiani dicembre 2011.
Tra coloro che hanno contribuito a far rifulgere il nome di S. Antioco, merita un posto d’onore
Padre Salvatore Vidal. Egli dedicò ben due opere al santo sulcitano, nelle quali trapela il
profondo affetto e la devozione che a lui riservava, nonché la passione che ha sempre
caratterizzato la vita religiosa e le prediche di questo frate minore osservante. Inoltre, sebbene i
suoi scritti siano stati spesso oggetto di critiche, spetta comunque a lui, grande conoscitore
della Sardegna, il merito di aver dimostrato l’ampia diffusione e l’importanza del culto del santo
nell’intera isola.
Il suo vero nome era Giovanni Andrea Simone Contini, ma viene ricordato come Salvatore Vidal
o nella variante di Vitale, nome che scelse quando entrò nella regola dei Minori Osservanti e
che, da quel momento, utilizzò per firmare i suoi innumerevoli scritti1. Questo nome di
devozione non fu scelto a caso: egli infatti, attraverso esso, volle manifestare la sua profonda
venerazione per i santi Salvatore e Vitale. Nel corso della sua zelante e attivissima carriera
venne infatti incaricato, dalla provincia francescana di Cagliari, di curare a Roma il processo di
beatificazione di Fra Salvatore da Horta. Attraversò, poi, l’Italia per promuoverne il culto e
pubblicò, nel 1638, il testo intitolato Madreperla serafica della vita e miracoli del B. Salvatore da
Orta. Il nome Vitale si giustifica, invece, con il fatto che egli compì la professione religiosa
esattamente il giorno in cui si commemora il santo martire. Nacque a Maracalagonis, villaggio
distante sette miglia da Cagliari, il 26 ottobre 1581, da Antioco Contini e Sebastiana Pabis, in
una famiglia di buona condizione di cui egli più volte vantò, nelle sue opere, l’antica origine
romana. Venne, poi, battezzato presso la parrocchia di S. Maria. Si trasferì, ancora
adolescente, a Cagliari, dove iniziò i suoi studi e si laureò, a soli 23 anni, in Diritto Canonico e
Civile.
Già diversi anni prima, intraprese l’iter per l’ingresso nella vita religiosa: ad appena 12 anni, il 18
dicembre 1593, ricevette la tonsura e di lì compì i vari passi fino a quando, il 24 maggio del
1603, venne ordinato sacerdote. Cominciò, così, a curare le anime, prima, della parrocchia di
Muravera, dove fondò la Confraternita del Rosario e fece erigere una chiesetta e, in seguito,
della sua stessa città natale, Maracalagonis. A nominarlo parroco e commissario delegato
arcivescovile per il Sarrabus fu il nuovo arcivescovo di Cagliari, Francesco D’Esquivel, colui che
tanta importanza ebbe per il culto di S. Antioco, poiché su sua iniziativa, il 18 marzo del 1615,
avvenne l’inventio delle reliquie. Il frate non fu presente in quell’occasione, ma certamente
presenziò all’inventio dei corpi dei santi nella basilica di San Saturnino di Cagliari, esperienza
che lasciò un segno indelebile nel suo animo2. Nel frattempo, venne nominato commissario
della Santa Crociata in Sardegna e per questa ragione cominciò a viaggiare per l’intera isola,
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predicando sermoni appassionati. Vidal non era portato per la vita pastorale e così, nel 1618,
cominciò ad avvicinarsi ai francescani, entrando presso il convento dei Cappuccini di S. Antonio
e, in seguito, presso il convento di S. Maria di Gesù dell’Ordine dei Frati Minori di Cagliari,
dapprima vestendo l’abito religioso di quest’ordine e poi pronunciando i voti perpetui.
Fu sempre in viaggio, trascorse la sua intera esistenza peregrinando per tutta l’Italia e non solo.
Andò, infatti, frequentemente in Spagna, inviato dai superiori, per occuparsi delle questioni
legate alla provincia di Sardegna. Nel 1623 fu inviato dal Ministro Generale dell’Ordine, Padre
Benigno da Genova, a Roma, presso il convento di San Pietro in Montorio, dove rimase per due
anni dedicandosi allo studio e all’insegnamento delle lingue orientali. In seguito, si ritirò per
qualche anno nel convento del Monte Averna. In questo luogo isolato iniziò a compilare le sue
opere, poi pubblicate grazie alla munificenza del Granduca di Toscana Ferdinando II e della
consorte Vittoria della Rovere, dai quali “era tenuto in molta stima e gran venerazione”3.
Predicò in molte città della provincia toscana, dove ottenne il ruolo di Teologo e Predicatore
generale, e in gran parte della Lombardia. Nel 1636 fu nuovamente in Sardegna dove, dopo
poco, iniziò a scrivere, spinto dai cittadini che volevano dimostrare la primazìa di Cagliari. Ebbe
inizio, così, il contrasto con lo scrittore sassarese Francesco Angelo de Vico. La contesa tra i
due cominciò con l’opera di Vico intitolata Historia general de la isla y reyno de Sardeña, alla
quale il nostro rispose con il Clypeus aureus excellentiae caralitanae, dove dimostrò il primato
di Cagliari.
Più tardi, continuò in questa strenua difesa campanilistica con il Propugnaculum triumphale in
adnotationes sive censuras auctoris innominati, nel quale si oppose a un libello anonimo in cui
si affermava che Cagliari non meritasse tale dignità, bensì solo il secondo podio tra le città
dell’isola. La diatriba con Vico si espresse in seguito con toni ancora più forti, soprattutto nella
Respuesta al historico Vico, dove con animosità replicò all’Apologatio honorifica a las
obiectiones que haze el P. Fr. Salvador Vida en su libro intitulado Clipeus Aureus del
sassarese. In quel periodo, a causa della questione primaziale religiosa, si vissero forti tensioni,
a testimonianza delle quali il frate, per aver affermato la preminenza di Cagliari e la presenza
del corpo di S. Antioco nell’isola di Sulci e non a Porto Torres, subì addirittura un’aggressione
notturna nel convento di San Pietro di Sassari, come lui stesso denunciò nella Vida, Martyrio y
Milagros de San Antiogo Sulcitano4. Trascorse gli ultimi anni della sua esistenza a Roma e si
spense nell’infermeria del convento generalizio di Santa Maria in Aracoeli, alle due del
pomeriggio di lunedì 28 gennaio 16475. Il suo corpo venne esposto il giorno seguente e anche
il mercoledì. Padre Onorato Finucci, nelle sue Memorie, racconta come giunse “infinito populo
alle sue esequie”; in molti, infatti, accorsero alla chiesa di S. Maria in Aracoeli, per omaggiare
colui che da tutti era acclamato come “servo di Dio”.
Il 30 gennaio, infine, alla presenza di alcuni signori suoi compaesani, che espressero la volontà
di traslarlo in Sardegna, “fu seppolto nella Cappella di S. Diego in una sepoltura antica al lato
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del Vangelo distinta da quella delli Sig.ri Cenci Padroni di detta Cappella e per maggior
sicurezza fu fermata la bocca di detta sepoltura con due spranghe di ferro”6. Si racconta che, in
quei due giorni, si dovette vestire il feretro più volte, poiché il popolo strappò brandelli di saio
per ottenere reliquie da venerare. Gli venivano attribuiti diversi miracoli: pare che riuscì ad
estinguere un incendio in un monastero, salvò suo nipote camminando tra le fiamme
rimanendone illeso e guarì un malato inviandogli una lettera. Si pensava possedesse il dono
della profezia e fu considerato un esempio da imitare per i francescani, che lo annoverarono tra
i padri venerabili della regola francescana. Padre Casimiro, nelle sue Memorie istoriche della
Chiesa e Convento di S. Maria in Araceli di Roma, lo elencò tra i religiosi francescani morti con
fama di santità e raccontò che egli “macerava il suo corpo con cilizi e flagelli, e non altro
mangiava, che erbe crude, o pane con fave ammollite nell’acqua; ed alle volte passava l’intero
spazio di sette giorni senz’altro gustare, che acqua e pane.
Dormiva poco e senza coricarsi, costumando solamente di appoggiare il capo alle mura”7.
Venne citato persino nel Necrologio della Provincia romana, nonostante lui appartenesse a
quella Toscana, e ciò a dimostrazione della grande considerazione che si aveva di lui
nell’ambiente francescano. Circa un anno dopo la sua morte, la provincia di San Saturnino di
Cagliari e l’Arcidiocesi cagliaritana promossero per Vidal un processo canonico e il confratello
Giovanni Maria Contu, nominato postulatore della causa, ne scrisse la biografia intitolata Vida
del Venerable Padre Fray Salvador Vidal marense, religioso observante del serafico patriarca
San Francesco, dalla quale si traggono preziose informazioni. A causa della sua fortissima
personalità, si registrano su di lui, ma soprattutto riguardo al suo ruolo di scrittore, opinioni
contrastanti. Molti giudicarono negativamente i suoi scritti, non solo per le fantasiose
ricostruzioni storiche ed etimologiche, ma anche per il forte atteggiamento campanilista che vi si
riscontra. Tra coloro che lo sottoposero a vere e proprie accuse, vi fu certamente Pasquale Tola
che lo descrisse come colui che “lasciò negli annali letterarii della Sardegna un nome assai
famoso, più per la stranezza e pel disordine, che pel merito delle molte scritture da lui date alla
luce”8 e ancora: “scrivea così come venivagliene il ticchio, e che senza molto pensare empiva
le carte d’inchiostro, parlando disordinatamente di ogni cosa, tramescolando il sacro col profano
e i più gravi coi più ridicoli argomenti, incerto egli medesimo del dove andrebbero a terminare le
sue parole, se per mala ventura del mondo letterario avesse una volta incominciato ad aprir
bocca.” 9 P. Tola criticava soprattutto il suo scrivere di getto e il fatto che le sue opere venissero
pubblicate senza essere sottoposte a limatura. Inoltre, per avvalorare il suo pensiero, utilizzò
persino lo sfogo di un noto critico, Giacomo Perizonio, che lo considerava l’autore più inetto e
pazzo che fosse mai nato.
Della stessa opinione era Siotto Pintor, che giudicò il frate ridicolo ed eccessivo nella difesa di
Cagliari e lo definì autore di “storiche stravaganze”10. Anche se in maniera più moderata, negli
stessi anni il Martini sottolineò che “gli mancava quella dirittura di giudizio formata alla scuola
della sana filosofia”11 e anche lui annotò come fosse solito pubblicare, senza aver prima
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ordinato i suoi lavori. Martini fu però meno caustico e, trovando attenuanti, affermò che, visti i
suoi continui viaggi e i suoi numerosi impegni religiosi, non avrebbe potuto trovare il tempo per
revisionare la gran quantità di opere redatte. Egli, inoltre, elogiò la scelta del frate di esprimersi
in quattro lingue diverse: il latino, l’italiano, il sardo e lo spagnolo. Persino il confratello Luca
Wadingo scrisse di lui “era meglio di facile penne che di maturo giudizio: molto scrisse e senza
ordine ragunò: sicchè in lui gli uomini assennati in lui bramano un metodo migliore, una dottrina
più castigata, uno stile più chiaro e semplice.” Non tutti, ovviamente, erano dello stesso parere.
Gli annalisti francescani lo contemplavano nella cerchia degli scrittori illustri del proprio ordine.
Fra Giovanni di Sant’ Antonio di Salamanca, nella Biblioteca universa francescana (1732-1733),
oltre ad apprezzarlo come uomo pio e austero, lo elogiò come scrittore per la sua erudizione e
per la quantità di opere redatte, che addirittura definiva: “monumenti del suo sapere”. Nel
Necrologio Romano viene citato come “scrittore e predicatore esimio” che “ha lasciato alcune
opere assai pregevoli”12. Inoltre, secondo Padre Aleo, il frate con le sue opere aveva onorato la
patria e il suo ordine religioso13. Recentemente, S. Bullegas e, qualche decennio prima, F.
Alziator, nell’occuparsi di Vidal, hanno ampiamente dimostrato che l’assenza di rigore
scientifico, tanto criticata al frate, era propria del suo tempo e che molte idee ritenute fantasiose
erano condivise da altri intellettuali vissuti negli stessi anni14.
Tutti, invece, sono concordi nel riconoscergli le doti di predicatore: era definito “predicatore
dotto e veramente apostolico”15. Tutti, inoltre, apprezzavano: “li suoi religiosissimi costumi”16, il
suo essere uomo pio e devoto e fervente religioso dalla condotta irreprensibile, morto in odore
di santità. Manifestò grande capacità e ardore nelle sue prediche e nell’esercizio di pratiche
religiose. Fu lui, infatti, a istituire, nel convento francescano di S. Miniato vicino Firenze, il pio
esercizio della Via Crucis, che raccomandava nelle sue prediche. Nel Necrologio della Provincia
Romana, si ribadisce: “Visse sempre dedito al lavoro, alla preghiera ed alla mortificazione e
compì un fecondo apostolato.” 17 Vidal fu un autore estremamente prolifico, infatti si contano
moltissime opere tra quelle stampate e quelle rimaste manoscritte, nelle quali affrontò i più
disparati argomenti: storia sacra e profana, letteratura, poesia e soprattutto storie di santi. La
sua incredibile abilità nel ricordare, dimostrata anche nei risultati raggiunti negli studi, lo aiutò in
questa sua febbrile attività di scrittore18. Tra il 1636 e il 1638, si dedicò con grande intensità
alla scrittura, poiché una malattia provocata dal caldo estivo lo costrinse a una immobilità
temporanea. Fu così che, per evitare l’ozio, da lui definito maestro e madre dei vizi, si dedicò
alla stesura di ben sei opere di diverso soggetto, due delle quali dedicate a S. Antioco: un
poema in ottave scritto in dialetto sardo intitolato l’Urania Sulcitana: De sa vida, martyriu et
morte de su benaventuradu S. Antiocu, Patronu de sa Isola de Sardigna19, redatta nel
convento di San Pietro a Sassari, e la Vida, Martyrio y Milagros de San Antiogo sulcitano Patron
de la Isla de Sardegna, cuyo cuerpo se hallò en las catacùbas de su Iglesia de Sulcis el año
1615, à 18 de Marco, redatta tra giugno e luglio del 1638 nel convento dei frati Conventuali di
Iglesias e dedicata ai cinque giurati della città di Cagliari. Di quest’ultima, un esemplare
manoscritto, forse l’originale, è conservato nel fondo Baille della Biblioteca universitaria di
Cagliari20.
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Nell’Urania il frate scelse di utilizzare il dialetto logudorese, combinato, in alcuni punti, col
campidanese per migliorarne la rima, perché convinto che la lingua sarda fosse più fedele al
latino rispetto allo spagnolo e all’italiano. L’opera è dedicata a Don Giovanni Dexart, un patrizio
cagliaritano, uditore della Sacra Rota. Vidal stesso ammise che sarebbe stato necessario
sottoporre la sua opera a una revisione, tuttavia, come scrisse il Bullegas, ciò non avvenne,
poiché, probabilmente, dovette approfittare della somma di denaro messa a disposizione da
Dexart per la pubblicazione di un’opera su S. Antioco. Inoltre lo stesso Vidal dichiarò al
cagliaritano che avrebbe scritto di lì a poco un’altra opera sul santo, questa volta però in prosa
ed in castigliano, da identificare forse con la Vida, rimasta poi manoscritta21. Nel poema, il frate
racconta la storia del santo dalla nascita sino alla morte, avvenuta in una grotta sull’Isola di
Sulci, traendo la maggior parte di notizie dalla più antica fonte storica che si possiede sul santo:
la Passio sancti Antiochi martyris, scritta dai benedettini tra la fine del XI e l’inizio del XII secolo.
Di quest’opera, di cui l’originale è andato perduto, si conserva solo una copia fatta eseguire, nel
1621, dall’arcivescovo di Cagliari Francesco D’Esquivel. Dal poema di Vidal, si evince che S.
Antioco discendeva da una nobile stirpe e che, assieme al fratello Platano, nacque cristiano,
poiché il padre si convertì al Cristianesimo, prima della sua nascita, ricevendo il battesimo.
Antioco studiò le arti liberali ad Antiochia e si laureò in medicina, si trasferì quindi ad
Alessandria, dove operò i primi miracoli.
La fama del suo valore arrivò presto in Mauritania e giunse sino alle orecchie dell’imperatore
Adriano a Roma. Nel frattempo, Antioco partì per giungere a Calatra, città d’origine del padre,
dove continuò ad operare miracoli e a convertire, per mezzo del battesimo, genti pagane.
L’imperatore Adriano, preoccupato per l’operato dei due fratelli, giunse in Mauritania, dove i due
furono accusati e imprigionati in quanto cristiani. Per primo venne torturato ed ucciso Platano,
nel tentativo di convincere Antioco ad abbandonare la sua fede. Non ottenuto lo scopo
desiderato, anche Antioco venne sottoposto a una serie di supplizi, tutti superati
miracolosamente: da principio, fu costretto nudo alla tortura delle torce impeciate, con le quali si
tentò invano di dargli fuoco, poi venne fatto entrare in un pentolone ricolmo di liquidi bollenti, ma
rimase illeso, infine venne dato alle belve che ebbero, verso di lui, l’atteggiamento di agnelli
mansueti. L’imperatore decise, a quel punto, di esiliare il santo nell’isola di Sulci. Una volta
arrivato a destinazione, Antioco si rifugiò in una grotta dove continuò a convertire, ma quando
venne raggiunto dai soldati romani per essere tradotto prigioniero a Cagliari, morì secondo
quanto era stato più volte annunciato dall’arcangelo Gabriele, che nel corso del poema spesso
interviene per confortare e comunicare al santo la volontà del Signore. Il linguaggio è
fortemente espressivo, infatti Vidal utilizzò spesso l’artificio retorico della metafora. S. Antioco
viene definito cedro, albero considerato simbolo d’immortalità per la sua longevità, nonché
simbolo di misericordia e di pietà, per via dei suoi frutti salutari22.
È chiamato anche garofano, da sempre definito il fiore di Dio e, secondo una leggenda
medievale, nato dalle lacrime della Vergine, versate per la morte del figlio23. Il fratello Platano
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si rivolge a lui chiamandolo cipresso, simbolo di morte e di dolore, spesso presente nelle
immagini sacre raffiguranti il martirio di santi24. Nella descrizione del primo supplizio, quando le
fiamme non lo ferirono e il suo corpo non subì alcuna lesione, è definito divina salamandra e
sacro empiro, due animali che si pensava fossero immuni dalle fiamme25. La metafora è
mutuata anche dal repertorio mitologico quando viene chiamato Atlante mauritano poiché, al
pari del personaggio mitologico che portava sulle spalle il mondo intero, anch’egli sopportava un
grande peso26. Nel corso del poema viene ancora definito come: stella refulgente, forte
Atleta27, Luce gloriosa28 e alunno del sole29. Dal racconto trapela, chiaramente, la
partecipazione emotiva del frate quando riuscì a far vacillare, per un attimo, l’imperatore
Adriano che, confuso per il fallimento dei supplizi cui lo sottoponeva, ammise l’esistenza del Dio
dei cristiani.
Come evidenzia più volte Bullegas, Vidal amava giocare con le parole, utilizzando un linguaggio
veloce e fantasioso. Innumerevoli sono gli esempi e, tra tutti, il più eloquente è il verso: Turbat
Turbone turbidos turbantes, in cui si allude a Turbone, tribuno dell’imperatore, che doveva
turbare i torbidi mussulmani definiti turbanti30. Non tutti gli storici sono concordi sull’origine del
santo, infatti da alcuni era considerato africano, mentre altri lo ritenevano un santo locale31.
Nell’Urania, Vidal lo indica come mauretano, precisamente, nato in Marocco, figlio di un uomo
africano che si convertì al Cristianesimo32. Il proemio inizia con il riferimento all’origine, che
verrà poi ribadita un’infinità di volte in tutto il poema: “Canto su cavalleri Maurìtanu” 33. In tal
senso, interessanti sono le due ottave in cui l’imperatore Adriano si rivolge a Renusio, principe
di Utica e senatore, nonché storico, esprimendo il dubbio sulla provenienza di Antioco, in
quanto aveva sentito dire fosse sardo. A questo dubbio l’interlocutore risponde con fermezza
che Antioco era della Mauretania, come era risaputo ovunque, e non sardo, anche perché il suo
nome non era affatto diffuso sull’isola. Egli conclude il discorso, però, dichiarando che la madre
di Antioco si chiamasse Rosa e fosse sarda34.
Il riferimento alla madre manca nella Passio e fu per primo padre Vidal, derivandola
probabilmente dalla tradizione orale, a indicarla per iscritto. Torna poi a citare la madre Rosa o
Rosula nell’ultima ottava del poema, quando, in suo onore e per il glorioso martire suo figlio,
vengono sparse rose35. Nonostante lo consideri nato in Mauretania, non c’è alcun riferimento
evidente alla pelle scura, le poche descrizioni della carnagione sono ambigue e tendono a
rilevare il contrario o semmai un colorito mulatto. Nell’ultima ottava del XI canto, l’Arcangelo
Gabriele, dopo averlo rinfrancato e avergli assicurato che la sua morte non avverrà in Africa ma
in Sardegna, gli tocca la fronte bianca: Et toccadu qui l’hàt su fronte chiaru36. Altro riferimento
alla carnagione è alla fine del poema, quando, prima di morire, il santo piange e chiede a Dio di
abbreviare la sua esistenza. A quel punto, Vidal descrive le lacrime scendere lungo le gote
d’alabastru finu, alludendo perciò al colore giallo–bruno in cui più frequentemente si presenta
questo tipo di pietra37. Solo una volta, nel poema, viene indicato come “moro” , precisamente
quando viene così definito dal timoniere della barca, durante il viaggio verso l’isola di Sulci.
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Poiché imperversava una terribile tempesta e la nave rischiava il naufragio, il timoniere propose
al capitano di gettare Antioco in mare, poiché ritenuto la causa del tempo avverso.
Probabilmente, in questo caso, l’aggettivo non è riferito al colore nero della pelle, ma è piuttosto
un’allusione alla provenienza, poiché è definito arabo e moro. Un’altra ipotesi è quella che
l’aggettivo sia utilizzato come offesa, dato che S. Antioco viene descritto come un uomo cattivo,
arabo, moro, indiavolato, incantatore e mago38. Anche nella Vida, Martyrio y Milagros de San
Antiogo sulcitano, il frate descrisse come candida la pelle del santo, quando narrò il supplizio
del fuoco al quale venne sottoposto: su candido y generoso cuerpo. Le fiamme non riuscirono a
lesionare la pelle del santo, ma, al contrario, lo rinfrescarono come rugiada a tal punto che
sembrava ricoperto di rose, piuttosto che di fiamme39. Contemplando, perciò, anche le due
opere di Vidal, risultano pochi i casi in cui il santo viene descritto o raffigurato con la pelle scura.
Anche nella maggior parte delle opere d’arte che ripropongono la sua effige, sia statuette che
dipinti, viene rappresentato con l’incarnato chiaro. Esistono dei casi in cui il colore nero è
limitato alle sole mani, come, ad esempio, nella statua posta nella cappella a sinistra del
presbiterio della Cattedrale di Iglesias 52 storia e archeologia sulcitana e nella tela esposta
nella sagrestia della stessa chiesa.
Ciò può essere giustificato con il fatto che S. Antioco, durante il martirio, fu costretto a entrare in
una caldaia ricolma di pece, perciò il colore sulle mani indicherebbe questa sostanza oleosa40.
Al di là di questa spiegazione, con la scelta di sbiancare la pelle del martire si è voluta evitare,
evidentemente, l’allusione ai mussulmani, in un’epoca nella quale i Turchi rappresentavano una
minaccia per i Cristiani. Per la stessa ragione, si è scelto di eliminare il turbante, presente solo
in alcune opere sul capo di S. Antioco, essendo anche questo un elemento che poteva
facilmente ricondurre al mondo islamico. Vidal, nelle sue due opere, si spinse oltre il colorito
della pelle nella descrizione fisica del santo, definendolo un uomo dalla statura esagerata,
allineandosi così a un’antica tradizione che voleva grandiosa la corporatura del martire.
Secondo Padre Pili, altro frate che grande venerazione riservò a S. Antioco, si alludeva in
questo modo alla statura morale del santo41. In conclusione, al di là delle critiche che possono
essere mosse agli scritti di Vidal, si deve riconoscere che, in esse, egli testimoniò l’antichità del
culto del santo e la sua importanza e diffusione in tutta la Sardegna. Dimostrò l’antichità del
culto soprattutto nella Vida, riportando il ritrovamento, avvenuto nel 1637 sull’altare maggiore
della Basilica di S. Antioco, di una pergamena in cui si riferiva che, nel 1102, la chiesa veniva
riconsacrata, dopo la profanazione dei Mori, dal vescovo sulcitano Gregorio, in onore della
Vergine Maria e Sancti Antiochi corpore eius presenti42. Nella stessa opera, elencò la lunga
serie di miracoli dovuti all’intercessione del santo, avvalendosi, come fonte, del Process de
miracles del glorioso S. Antiogo e del Quaderno. Llista y nota redatti, il primo in occasione del
processo sui miracoli attribuiti al santo, istruito ad Iglesias nel 1593, il secondo dopo l’invenzio
delle reliquie del santo, poi pubblicato nel 161843. Nell’Urania, egli dimostrò la diffusione del
culto del santo in tutta la Sardegna, infatti precisò che dall’isola di Sulci il corpo avrebbe
profumato nel tempo: per y s’amplu Regnu Sardu vale a dire “per il vasto Regno Sardo”44; e poi
ancora asserì che, quando fosse stato trovato il corpo del santo, si sarebbero fatti teatri
esultanti in ogni zona della Sardegna: Ma quando siat su corpus acatadu, […] A faguer hàt
Sardigna in ogni stadu Fumantes theatros d’emula conquista, come egli certamente ebbe modo
di riscontrare nei suoi lunghi viaggi per l’intera isola45. Ma, soprattutto, il frate ha avuto una
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parte importante nel riconoscimento del ruolo del santo come patrono della Sardegna,
ribadendolo più volte nelle due opere; è infatti definito in questa veste nel titolo di entrambe,
nonché nella prima ottava del proemio dell’Urania, dove è citato col sinonimo di avvocato:
Advocadu de s’Isula Cethina Sardigna46; infine, nella frase dell’ultimo canto, si sottolinea in
generale la sua funzione: Advocadu Patronu, et Protectore advòca, patrocìna, et protège47.
Roberto Lai
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