Indignatevi - Asterios Editore

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Indignatevi - Asterios Editore
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Emiliano Bazzanella
Indignatevi
A cura di Marina Devescovi
Asterios Editore
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Prima edizione: gennaio 2011
Prima ristampa: febbraio 2011
Asterios Editore è un marchio editoriale della
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Stampato in Italia
ISBN: 978-88-95146-33-1
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Prefazione
Questo breve testo nasce dalla suggestione di un libro
appena uscito in Francia che si intitola appunto Indignez-vous! È certamente un’epoca “degna” di “indignazione”, ma bisogna ripensare l’indignazione
stessa in modo che essa non diventi un risentimento
fine a se stesso, tanto sterile quanto astratto, ma si trasformi in un elemento rivoluzionario, in qualcosa insomma che sia davvero in grado di cambiare le cose.
In Italia, forse più che in Francia e nelle altre parti
del mondo, la “misura è colma”, come si suol dire.
Ma dobbiamo stare attenti a non accondiscendere
troppo ai facili moralismi, peraltro obiettivamente
spontanei alla luce dei sempre nuovi scandali che si
stanno ormai sormontando l’uno sull’altro. Indignarsi
non dev’essere inteso come un esercizio di elitarismo
morale, ma deve diventare uno strumento efficace,
una vera e propria pratica molto simile alla “cura di
sé” degli antichi greci o all’ortopraxia del pensiero ortodosso. Il comportamento “degno” diviene in questo
modo un comportamento “bello”, estetica ed etica si
rinsaldano in un esercizio e in una serie di pratiche
che però debbono essere sempre rinnovate.
Marina Devescovi
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Introduzione
Il termine “indignazione” rimanda al latino dignus,
degno, e proviene da una radice dec-, doc- che ritroviamo anche in “decoro” oppure in “decenza”. Il riflessivo del verbo “indignare” indica lo stato d’animo di
colui che si trova di fronte a qualcosa che è indegno,
cioè indecente e indecoroso, è il vivo risentimento, l’adirarsi che si prova per ciò che si ritiene moralmente riprovevole, ingiusto.
La situazione dell’Italia oggi è indubbiamente motivo di indignazione: lavoro sempre più precario, continue bolle finanziarie, moralità pubblica in declino,
corruzione diffusa, spettacolarizzazione della società,
sono tutte cose che ci pongono innanzi agli occhi una
realtà squallida, per non dire stanca. E anche noi, italiani, ci sentiamo un po’ rabbuiati, tristi, incapaci ormai
di lottare.
Ma l’indignazione non può limitarsi ad essere l’atteggiamento di chi, con una certa spocchia e dall’alto
della sua presunta superiorità morale, guarda gli altri
con disprezzo. Non è sufficiente adirarsi e poi però
non far nulla.
L’intento di questo pamphlet è tradurre l’indignazione in pratica effettiva, in un’azione che tutti possiamo compiere singolarmente. Vengono così
riproposte dieci situazioni per certi aspetti tutte accomunate dalla loro indecenza: riguardano il nostro
stile di vita, i nostri politici, il nostro atteggiamento
nei confronti del mondo, la nostra coscienza. Per ogni
situazione l’indignazione assumerà un connotato differente e talvolta assumerà anche le sembianze solo
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in apparenza negative di un “non fare” o di un certo
“rallentamento” come nel caso dei consumi spasmodici della nostra epoca; altre volte implicherà una vera
e propria reazione come nel caso del diffuso senso di
indifferenza che ci attanaglia, oppure diventerà paradossalmente una sorta di indignazione “riflessiva”,
cioè rivolta a noi stessi, come nel caso di Berlusconi,
specchio dei nostri tempi, ma anche proiezione di ciò
che noi italiani in fondo realmente siamo.
Vorremmo infine sottolineare l’angolatura dalla
quale le dieci situazioni “degne di indignazione” vengono analizzate: si tratta del cosiddetto “paradigma
immunitario” in base al quale gran parte dei dispositivi di potere e di sapere che hanno caratterizzato e
caratterizzano ancora oggi il mondo occidentale assumono soprattutto un ruolo “difensivo”. Il consumismo, dunque, con tutti i suoi strani e ossessivi rituali
non dev’essere semplicisticamente inteso come
un’aberrazione immorale della nostra società opulenta ed egoista, ma esso disegna una precisa strategia
auto-immunitaria, con tutti gli effetti di reazione ed
ipereazione del caso. Soltanto comprendendo i meccanismi intrinseci di questi dispositivi doppio-vincolanti e solo quando non ci riterremo più esenti da
colpe, come “anime belle” che si levano sopra il
mondo terreno, potremo finalmente indignarci in
modo efficace.
1. Indifferenza
Se volessimo tentare una caratterizzazione esaustiva
della nostra epoca, potremmo dire che essa è dominata
dall’indifferenza. In-differenza significa letteralmente
non-differenza, ossia appiattimento, omologazione, insensibilità morale. Per gli scettici greci rappresentava
un preciso atteggiamento filosofico, quasi un metodo
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per difendersi dai rischi del mondo esterno e dalle intemperanze del mondo interiore. L’adiaforia doveva in
questo modo condurre all’atarassia, cioè all’imperturbabilità del saggio che fa sì che ogni evento gli scorra
sulla pelle sempre uguale, monotono, ininfluente.
Per certi aspetti l’indifferenza è una forma di “difesa” o, se vogliamo, una reazione ad epoche passate
in cui la “differenza” ha contato forse troppo. L’antisemitismo rimane nella nostra memoria come l’esempio paradigmatico di un eccesso di differenza, l’essere
non solo diverso, ma pericoloso soltanto perché differente.
La nostra epoca si è in parte immunizzata da questo
eccesso. E ha fatto esattamente l’opposto: uniformare,
abolire ogni forma di differenziazione. Abolendo tuttavia le distanze e le distinzioni (e assecondando così
il concetto ormai usurato di “globalizzazione”) tutto
fluisce in maniera monocorde e monotona, e la nostra
vita diviene un puro flusso di accadimenti, indistinguibili l’uno dall’altro. Compriamo sempre più oggetti, li consumiamo, ci perdiamo nei meandri infiniti
del mondo televisivo e di internet. Tutto è ridotto ad
immagine, a qualcosa che “è-là”, che non ci può far
male e che rimane a una distanza di sicurezza. Che il
premier faccia festini a luci rosse (vedi ultra “Il caso
Ruby”) o che “rubi“ davvero, che l’opposizione “inciuci” o si prodighi continuamente a negare se stessa
e il proprio passato, oppure che venga violentata una
ragazza minorenne in pieno giorno e innanzi alla
folla, senza che nessuno intervenga: ecco tutto ciò è
indifferente, scialbamente indifferente e uniforme. E
intanto un bucaneve spunta a fatica in primavera al
primo sciogliersi delle nevi...
L’enciclopedia virtuale Wikipedia che al suo decimo
compleanno nel 2011 si vanta d’aver superato in fatto
di consultazioni la storica Enciclopedia Britannica, costituisce lo specchio amaro di questa condizione. Tra
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le innumerevoli voci potete ad esempio trovare “Mariano Apicella” – ebbene sì proprio il menestrello di
Berlusconi! – assieme ad Aristotele, Kant, Einstein,
Mozart, in un continuum melassoso di pseudo-informazioni che i wikipediani hanno persino regolato con
proprie regole e criteri stilistici, profeti addirittura di
una nuova specie di “enciclopedicità“ capace in pochi
anni di fare piazza pulita di secoli di tradizione enciclopedica.
In tal modo le categorie con cui interpretiamo il
mondo sono tutte intercambiabili e omogenee: bello
e brutto, buono e cattivo, vero e falso. Tutto è indifferente e così possiamo ritenere bello ciò che è brutto,
come in molta arte contemporanea, oppure possiamo
dire e disdire, affermare una cosa e il suo contrario
nello stesso tempo e senza alcun timore di incorrere
nella reprimenda del nostro interlocutore. E ciò che
un tempo veniva considerato moralmente poco opportuno, oggi è divenuto indifferente se non proprio
positivo.
Ecco, l‘indignazione è esattamente l’opposto dell’indifferenza, è reazione-azione, per certi aspetti ribellione. È farsi carico della differenza assumendone
tutti i rischi.
2. Consumare, consumare, consumare
Uno degli effetti dell’indifferenza è il consumo. Tutto,
ma proprio tutto può essere oggetto di consumo.
Anche la cultura è divenuta soggetta o assoggettata
al mercato; e si consuma, come le patatine, i videogames, le vacanze tropicali, e come d’altronde si consumano emozioni, sensazioni, esperienze, idee, fedi e
credenze.
Il consumismo mette paradossalmente assieme Parmenide ed Eraclito: se l’indifferenza ci getta dentro
un mondo uniforme e quasi “sferico“ in cui non pos-
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sono esistere distinzioni e differenze, il consumo ci
ficca in un flusso di eventi differenziati mirabolante
ma quasi anestetizzante. Siamo indifferenti perché
consumiamo indifferentemente ogni cosa, e consumiamo in continuazione perché ciò che consumiamo
è indifferente.
Ma il consumo in se stesso è anche un rito collettivo,
è ahimé il tessuto connettivo che tiene assieme le società occidentali: tramontata l’antica communitas che
ci legava e ci responsabilizzava l’uno nei confronti
dell’altro, oggi tentiamo di recuperare uno “stare assieme” minimale all’interno dei centri commerciali o
dei cosiddetti megastore. In essi, come all’interno di
una chiesa o di un tempio, si compie una sorta di rito
vittimario che ricorda molto da vicino il meccanismo
del “capro espiatorio” descritto da R. Girard in La violenza e il sacro. Migliaia di persone fanno ressa ovunque nei diverticoli dei corridoi, dei negozi
specializzati monomarca, dei fast-food dei vari Ikea,
degli ascensori trasparenti che vanno sù e giù ritmicamente. In quest’affollamento smisurato aumenta
necessariamente la tensione sociale: s’innesca cioè
una “crisi mimetica” in cui tutti fanno le stesse cose e
fanno a gara per accaparrarsi più prodotti possibile.
È forse questo che intendeva Lacan quando diceva
che il desiderio è sempre desiderio dell’Altro: si desidera ciò che desidera l’Altro per il fatto stesso che
quello lo desidera; e l’oggetto del desiderio è assolutamente “indifferente”.
Ma la “crisi mimetica” dev’essere in qualche modo
risolta, poiché si corre il rischio d’una violenza diffusa
e incontrollabile. Nelle popolazioni del passato la risoluzione passava attraverso il sacrificio umano e il
capro espiatorio, successivamente ritualizzato con il
sacrificio degli animali domestici o con la stessa eucaristia, ad esempio; oggi, il rito vittimario consiste
nel consumo. In quest’ultimo il capro espiatorio con-
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siste negli oggetti infiniti da consumare, i quali sono
appunto capri espiatori molteplici, infiniti e in sé indifferenti, perché non c’è alcuna ragione intrinseca e
reale per consumarne alcuni al posto degli altri.
Macchina da consumo, ogni uomo è divenuto l’ingranaggio di un meccanismo che è allo stesso tempo
un rito antico portato all’eccesso, e un sistema autodifensivo per non pensare troppo e per distrarsi.
Indignarsi significa dunque interrompere la macchina celibe del consumo. Ma significa anche assumersi il rischio di uscire dal coro e diventare,
appunto, “diverso”.
3. Pil
L’economia è un’invenzione, osserva S. Latouche; e
oggi viviamo in un mondo “economico” che mostra
sempre di più i suoi connotati fittizi. L’uomo non affronta mai direttamente la realtà (o, meglio, il “reale”,
per dirla con Lacan): i processi di civilizzazione non
consistono che nella costruzione collettiva di enormi
sfere “climatiche” con le quali l’uomo si protegge dal
“fuori” creando per sé un mondo confortevole e addomesticato. Noi ci illudiamo talvolta di avere esperienze
“vere” e genuine, ma anche senza seguire rigorosamente Kant ci rendiamo conto che abbiamo a che fare
con le nostre costruzioni di senso, con delle vere e proprie finzioni che ci aiutano senz’altro a vivere meglio
e più sicuri, ma che parimenti ci ingannano.
Il Pil (prodotto interno lordo) è il paradigma di questa illusione: si tratta di un indice che dovrebbe valutare la nostra ricchezza e soprattutto il nostro tasso di
crescita. Ma rimane una stringa di numeri, qualcosa
di simbolico che non è reale, ma rimanda a un qualcos’altro che sfugge. Attualmente siamo davvero
tanto più ricchi di vent’anni fa? E in questi tempi di
crisi possiamo veramente dire di stare meglio lo 0,5%-
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0,7% rispetto allo scorso anno? In che cosa consiste lo
0,1%?
La matematizzazione dell’economia è da sempre uno
dei miraggi dell’uomo: matematizzando si può controllare, misurare, si è insomma più vicini alla realtà.
Ma in questo modo l’economia “sa” di essere essa
stessa qualcosa di irreale, una sorta di “metafinzione”,
finzione della finzione, sogno nel sogno. Purtuttavia la
finzione economica ci condiziona e ci costringe alla fatica spossante dell’incremento e della crescita continua.
Dobbiamo produrre e consumare sempre di più, economicizzare ogni cosa, fare business e business del business: se i consumi illimitati producono sempre più
rifiuti, ecco l’industria del riciclo, dello smaltimento e
del trattamento; se si crea all’interno della società l’esigenza di un consumo più naturale ed ecologico, ecco
il business dell’ecologia, del biologico e del consumo
critico; se il consumo degli idrocarburi sta accelerando
i processi di riscaldamento del pianeta, ecco il nuovo
mercato delle energie alternative o il riapparire dell’ipotesi nucleare.
La fregatura – o la fortuna – è che in questo modo il
mercato riesce in qualche maniera ad autoregolarsi.
Esso è in parte in grado di autoimmunizzarsi e di controllare i propri eccessi, passando ad esempio da una
tipologia di consumo materiale e dissipatorio, ad un
consumo sempre più immateriale ed ecologicamente
sostenibile. Da un lato ci conduce verso un parossismo assurdo dei consumi, dall’altro regola le stesse
modalità di consumo in modo che quest’ultimo possa
perpetuarsi all’infinito: se non possiamo incrementare
l’introiezione del cibo, ecco che il consumo si sposta
sul wellness, ossia su tutte quelle paradossali strategie che servono ad ovviare gli effetti dell’eccessivo
consumo alimentare. Il Tapis Roulant costituisce
l’esempio emblematico di questo paradosso: “macchina celibe” che serve per correre in salotto stando
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immobili, essa utilizza l’energia motoria unicamente
per bruciare calorie e, quindi, per consentire il mantenimento di uno standard di consumo alimentare comunque elevato.
Ma a questo punto dobbiamo chiederci: che ne è
dell’uomo? Non staremo vivendo – come diceva G.
Deleuze – il dramma di trovarci all’interno del sogno
di un altro? Costretti a faticare e sudare per poter consumare ancora, per poi ancora faticare e sudare, e così
via all’infinito. L’indignazione prende a questo punto
una nuova forma: se talvolta essa assume le fattezze
di un disprezzo molto marcato, qui deve sposarsi con
il “meno”, con la decrescita e con il rallentamento.
Catturati dalla spirale del consumo rituale ed eccessivo, della finzione economica e della sua pervasività
a tutti i livelli dell’esistenza, dobbiamo pensare ad un
contromovimento o, meglio, ad una passività.
L’indignazione è allora anche sobrietà versus eccesso; meno versus più; lentezza versus velocità.
4. Finanza creativa
C’è uno strano meccanismo che regge il mercato. Esso
non si fonda su basi reali, quanto sugli indici di fiducia dei consumatori, su aspettative, fedi e credenze.
Entrati nel xxI° secolo la nostra visione del mondo, il
nostro futuro insomma è radicato sull’irrazionalità,
sulla scommessa finanziaria, sull’alea. Mentre la Fiat
sta perdendo quote di mercato, rimane pericolosamente indebitata, ha appena concordato la cassa integrazione per i lavoratori di Mirafiori e non ha quasi
alcun modello nuovo da presentare per il 2011, la divisione finanziaria tra una Fiat specializzata nell’auto
e una Fiat industriale (l’ex Iveco per interderci) ha
creato negli investitori l’illusione di un panorama
nuovo, che porterà dei vantaggi in termini di fatturato e di utili. Cosicché i titoli in Borsa sono letteral-
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mente – e irrazionalmente – “volati”.
Da quando i Greci hanno tentato di far prevalere il
lógos sul thymós (animo, temperamento, orgoglio), nella
società contemporanea assistiamo ad uno straordinario
capovolgimento per cui la razionalizzazione – cioè il
tentativo di “misurare“ la vita dell’uomo in tutti i suoi
aspetti e di economicizzare ogni cosa – ha conseguito
esattamente il risultato contrario: il mercato. Esso è un
serbatoio pulsionale ed emotivo, facilmente influenzabile come ogni pulsione e ogni emozione; ma non controllabile. Milioni e milioni di persone vivono oggi
soggetti alla labilità o, come dicono i tecnici, alla “volatilità” dei mercati.
Il dispositivo di potere che regge le società occidentali ci fa credere che ormai ogni aspetto dell’esistenza
sia controllabile. L’economicizzazione sistematica di
ogni aspetto della nostra vita lo conferma. Ma questo
eccesso di controllo, questo eccesso di razionalizzazione devono essere compensati e riequilibrati. Se
qualcosa come la fede o la credenza sono state relegate d’acchito ad aspetti marginali ed esotici del quotidiano, ecco che paradossalmente esse rientrano
dalla porta principale, sorreggendo quello che è il
cuore dell’economia. Il non-senso o, se vogliamo, il
reale nella sua “impossibilità” (impadroneggiabilità)
sospinto sempre in luoghi più remoti, ritorna in
pompa magna e con tutta la sua potenza ineffabile ed
imprevedibile.
Il marchingeno con cui il mercato si manifesta e fa
capolino è d’altra parte assai subdolo. L’uomo contemporaneo crede ormai di essere autonomo e vive
ebbro della sua apparente libertà. Invero esso è “soggetto”, nel senso di “as-soggettato”. Ma non alle bizze
del tempo o alle imprevedibili catastrofi naturali,
bensì al rating, o meglio, a quelle agenzie che sono deputate a stimare la solvibilità degli stati e delle
aziende. Basta un “+” in meno, o passare dalla AAA
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alla AA nella scala di valutazione per incrementare i
costi del debito e, quindi, per impoverirsi.
Parliamo ancora di numeri e in qualche modo di
“finzione” o, meglio, di tentativo di immunizzare e
controllare la realtà. Eppure questi tentativi sovente
maldestri hanno effetti “reali”, cioè possono davvero
pesare sulle persone e sugli individui. Ci troviamo innanzi al paradosso che uno stratagemma creato dall’uomo per creare sicurezza e ricchezza – l’economia
– alla fine possa trasformarsi in un’entità trascendente
e rivolgerglisi contro, avendo degli “effetti reali”, che,
propriamente, “fanno male“.
L’Italia ad esempio è appesa al giudizio delle agenzie di rating in ogni istante e noi dobbiamo renderci
conto che il rischio di default è dietro l’angolo, il che
significa azzeramento completo delle pensioni, fallimento delle banche, svalutazione, deflazione, completa perdita del potere d’acquisto. L’idea creativa
tremontiana sarebbe quella di far rifluire parte del risparmio privato, alacremente accumulato dagli italiani sin dal Dopoguerra, nelle casse pubbliche
mediante uno stillicidio delle imposte e un recupero
esasperato del credito che ha come avamposti l’Agenzia delle Entrate ed Equitalia. L’altra idea tremontiana
è quella di ridurre gli investimenti nella scuola, nelle
politiche sociali e nella cultura, perché “tanto non ti
danno da mangiare“!
Indignarsi significa qui ritenere che le attuali politiche economiche italiane invece di ipotizzare scenari alternativi su grande scala e di lungo periodo,
si limitino ad assolvere i compiti del più scontato
dei ragionieri.
5. Comunismo
Comunismo, ovvero la storia di come qualcosa di
bello possa trasformarsi in qualcosa di veramente
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brutto. Lasciamo però, almeno per una volta, da parte
Marx e i marxismi vari e chiediamoci: che cosa significa oggi comunismo, dopo il cosiddetto crollo delle
ideologie? E che cosa vuol dire essere comunisti oggi,
dove tale termine sembra piuttosto un’offesa o quantomeno un epiteto negativo? Nella parola “comunismo” risuonano il termine latino communis, “ciò che
è in comune” e l’idea della communitas: l’uomo è nello
stesso tempo un individuo con le proprie attitudini
soggettive ed un essere sociale all’interno di un
gruppo più ampio di consimili. Egli è “soggetto”, ma
contemporaneamente rischia di perdersi nella comunità di cui fa parte. Se da un lato dunque quest’ultima
lo protegge dai pericoli esterni, dall’altro lo minaccia
nella sua identità sottraendogli ciò che gli è più proprio. L’uomo è costretto così a vivere questo paradosso, questa continua tensione tra la perdita di se
stesso nell’Altro, e l’eccesso di individualismo che lo
rende più debole e più vulnerabile. Lo stalinismo ha
forse segnato l’acme del “comunitarismo”, mentre
oggi stiamo vivendo l’eccesso opposto, l’ipertrofia del
soggetto.
Se vogliamo rileggere il senso del comunismo alla
luce di queste osservazioni di fondo, ci accorgiamo allora come esso al di là di ogni ideologizzazione tocchi
i nervi più profondi della nostra esistenza. La nostra
condizione attuale si fonda sull’individualismo, sicché
consumiamo e compriamo collettivamente, ma come
se fossimo delle monadi leibniziane che non comunicano tra di loro. Ciascuno vive con mestizia la sua solitudine e cerca delle comuni-cazioni palliative come i
Social Network (Twitter, Facebook, MySpace) o gli
SMS: in questo modo ci illudiamo di sfuggire la solitudine immettendoci in una “comunità” virtuale, priva
dei rischi e dei pericoli che si annidano invece nella
communitas vera e propria. D’altronde l’ “essere comunista” è divenuta una condizione negativa e poco rac-
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comandabile, tantoché anche i “vecchi” comunisti,
qualora appellati in tal modo, tendono quasi a schermirsi e a sottrarsi, colti da ingiustificata vergogna.
Non possiamo negare la presenza nel “comunismo”
di un’originaria tendenza alla communitas che possiamo ritrovare ancora nella vita dei piccoli paesi,
dove la solidarietà non è appannaggio delle cosiddette hegeliane “anime belle” ma è un modo d’essere
intrinseco a ciascuno, forse la migliore forma di sopravvivenza. Lungi dal ripercorrere gli errori madornali dei vari socialismi reali, si tratterebbe di fare dell’
“essere comunista“ una sorta di atteggiamento metodico, ossia uno “sforzo” costante nel considerarsi
membri di una “comunità” in cui l’acqua, l’aria, la
terra e i suoi frutti, la cultura stessa non possono essere privatizzabili ma sono un patrimonio collettivo,
dei “doni” della natura.
Indignarsi è in questo caso avere il coraggio, oggi,
di definirsi “comunisti”, e ciò vale sia per coloro che
si sentono di “destra”, sia per coloro che si sentono
di “sinistra”.
6. Destra-sinistra, ovvero
“meglio la partita di calcio”
Certo è che a sentir parlare i cosiddetti leader della
“supposta” sinistra vien proprio da piangere. L’idea
che sovviene è che gli ex-comunisti siano in effetti del
tutto “castizzati” e che la loro preoccupazione sia
quella di trovare o escogitare qualche minima differenza – soprattutto formale – che li possa distinguere
dai candidati di destra. Una sorta di conatus essendi
spinoziano che non ha quale fine quello di progettare
una società e uno stato migliore, bensì quello di giustificare la propria elezione, il proprio “essere-lì”:
sulla poltrona insomma.
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Sulla questione di Mirafiori (vedi ultra) nella quale
si sono giocate molte carte per creare un futuro migliore o quantomeno “stabile” per il lavoro in Italia,
la posizione della sinistra è stata sorprendente: o “attendista” o addirittura “filo-confindustriale”, adducendo stomachevoli e cervellotiche giustificazioni che
oscillavano da una presunta – invero abbastanza misteriosa – modernizzazione dei rapporti di lavoro alla
necessità di temporeggiare e di mantenere comunque
le posizioni in attesa di tempi migliori.
Si dice, con una cantilena ormai stucchevole: dopo
il crollo del muro di Berlino sono finite le ideologie e
le parti politiche si confrontano sui “programmi”. Ma
la politica si riduce solo ad una “lista per la spesa”? È
possibile che una corrente di pensiero di origini ottocentesche e che si è rinvigorita durante la Resistenza,
alla fin fine differisca dalla parte avversa soltanto perché ad una voce del suo “programma” dice di investire 500 e non 200? Non esistono più – non dico
“utopie” – ma quantomeno “orizzonti”, spazi di
senso che siano in grado di sorreggere la nostra vita
quotidiana, di farci comprendere o perlomeno sconsigliare la fatica di andare sui nostri SUV ai Centri
commerciali ogni santissima domenica? È possibile
che la sinistra non abbia proprio niente da dire?
L’indifferenza ha colpito anche queste suddivisioni
ormai storicizzate, rendendole anacronistiche e portando a partigianerie svuotate d’ogni significato,
molto più simili all’antagonismo delle opposte tifoserie d‘un campionato di calcio che a quello di movimenti contrapposti di pensiero. L’uomo per sua
natura è “polemologico”, cioè è votato a Pólemos, alla
guerra: gli antichi Greci avevano inventato svariate
modalità per controllare e depotenziare questa innata
tendenza: la tragedia greca, con i suoi effetti catartici
e il suo carattere sacro; i riti simposiastici, nei quali i
maschi bevevano “vino puro” e concludevano le loro
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serate sovente accapigliandosi l’uno con altro, talvolta
declamando però poesie e filosofeggiando sull’amore
e sull’essere; le Olimpiadi, ove l’aggressività veniva
virata nella bellezza e nella simmetria del gesto atletico e delle sue regole. Oggi possiamo dire che questi
riti autoimmunitari sono il calcio...e appunto la politica. Io tifo per la Roma e sono di sinistra...io sono da
sempre interista, però voto Bersani...io tifo il Livorno
perché è la mia città ma voto Pdl.
L’effetto di questo svuotamento di senso è evidente
nello spettacolo spesso deprimente dei Talk Show politici: l’antagonismo è puramente “fisico”, oserei dire
“belluino” e quasi primitivo, e prevale soltanto il tentativo di soverchiare l’avversario con qualsiasi mezzo.
Non un contenuto, non un confronto sulle differenti
visioni del mondo o sui diversi modi di dare speranza
e un po’ di ottimismo a questa nostra società rattristata, vecchia e ingrigita.
Indignarsi vuol dire allora riprendere la discussione politica nelle nostre case, iniziare a pensare
che la democrazia rappresentativa non significa meramente una delega in bianco agli eletti, ma esige
anche un pensiero individuale autonomo e un personale intendimento.
7. B&B: Berlusconi-Bossi
Berlusconi non è l’opposto del comunismo, come
forse lui vorrebbe. Egli è invece l’oggetto privilegiato
della nostra massima indignazione innanzitutto perché ha fondato un -ismo, e poi perché di fatto costituisce una proiezione oscena di noi stessi. Uomo del
successo ad ogni prezzo, grande venditore e televenditore, maestro della comunicazione e dell’affabulazione, generoso ed eccessivo, narciso e altruista,
riconoscente e vendicativo, astuto e demagogo, egli
ha di fatto cambiato radicalmente la politica portando
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alla sua “velinizzazione”, cioè allo show mediatico
del Parlamento quale corollario di un’attività legislativa che invece viene decisa da poche persone nelle
sue ville private.
La magistratura tenta da lungo tempo di scardinare
questo meccanismo cercando di dimostrare quanto in
effetti il Berlusconi sia ladro, corruttore, truffatore,
evasore, perverso, e così via. Ma il tutto invano, forse
perché non vero, forse perché il premier può permettersi una difesa legale finora mai dispiegata da nessuno con siffatto potenziale, ma forse perché la cosa
non interessa o, addirittura, infastidisce l’opinione
pubblica.
Perché ciò avviene? Com’è possibile? La risposta è
abbastanza semplice, anche se non proprio scontata:
Berlusconi, in fondo e a modo suo, è sincero! Anche
se dice e disdice la medesima cosa nello spazio di
pochi giorni, di poche ore o di pochi secondi, egli fa
quello che fanno tanti di noi quando omettiamo le
piccole verità della nostra vita quotidiana o quando
cambiamo repentinamente parere per opportunismo.
Il buon Pansa sembra averlo perfettamente capito.
Berlusconi svolge così una funzione quasi terapeutica allorquando catalizza su di sé gran parte delle debolezze umane, per contrabilanciarle con qualità e
successi incredibili; è lo specchio del nostro Altro perverso e osceno che possiamo vedere esibito e riscattato pubblicamente; è una fonte di speranza e di
consolazione perché incarna un uomo come noi che
nonostante le sue bassezze e i suoi palesi difetti rimane un granduomo. È insomma un oggetto di consumo e noi siamo tutti – destra e sinistra – suoi
accaniti consumatori.
Alle scuole di marketing già negli anni Sessanta si
diceva che per vendere qualcosa bisogna innanzitutto
vendere se stessi: ebbene, Berlusconi vende se stesso
e lo si può notare sul suo volto sempre più segnato,
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emaciato e “consumato” nonostante i costanti e ripetuti interventi di chirurgia estetica. E per certi aspetti
il berlusconismo mostra in modo enfatico – e quasi
sincero – il mondo finzionale in cui vive oggi la nostra
società, poiché essa coincide con la stessa psicosi del
presidente, viviamo un po’ tutti la sua vita fittizia, imbellettata ed eccessiva, indifferente e agonistica. Tutti
compresa la fantomatica opposizione che non riesce
a far di meglio che fargli il verso, con un’imitazione
quasi scimmiesca.
I programmi Drive-In e Striscia la notizia, nel lungo
arco temporale che li separa, rappresentano i paradigmi del berlusconismo e di una mediacrazia così diffusa da fare della televisione l’unico vero “soggetto”.
Cioè noi siamo la televisione e la televisione sottentra
in continuazione nella nostra vita, nella politica, nel
privato: è per questo che Berlusconi un po’ lo siamo
tutti e talvolta ci fa schifo ed orrore, altre volte ci entusiama e galvanizza! Guy Lebord aveva per certi aspetti
anticipato quest’epoca: la sua società dello spettacolo
denunciò con grande anticipo come l’uomo moderno
tenda a mettere in immagine qualsiasi cosa, in modo
quasi animistico, per prenderne un po’ le distanze, oppure per averne maggiore controllo. Immaginificando
ogni evento, Berlusconi alfine lo domina e lo padroneggia, ne diviene il signore proprio quando gli eventi
sembrano avere il sopravvento.
Il “caso Ruby” costituisce un’ottima cartina di tornasole. Primo movimento: sconcerto di tutti per
l’enormità delle notizie diffuse; secondo movimento:
consulto con l’apparato legale del premier che evidenzia alcune falle nelle ipotesi accusatorie, soprattutto dal punto di vista formale; terzo movimento:
contrattacco mediatico personale del premier in cui
sostiene pubblicamente la propria innocenza; quarto
movimento: offensiva vera e propria del Pdl ricompattato che accusa il sistema giudizario per le inter-
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cettazioni illecite e per l’abuso di autorità; quinto movimento: urgenza di un provvedimento legislativo
che limiti le intercettazioni e punisca pecuniariamente
gli abusi. Bella fiction, no?
L’altra faccia del berlusconismo è il leghismo. Da
una parte troviamo l‘inflazione dell’immaginario e
della vita intesa come marketing; dall’altra quella
componente dell’esistenza che P. Sloterdijk chiama
thymós, animo, ira, orgoglio. La nostra civiltà inizia
infatti proprio con un inno all’ira nell’Iliade omerica:
“cantami o diva del pèlide Achille l’ira funesta che infiniti lutti addusse agli Achei”. Il berlusconismo cerca
da parte sua di soffocare e controllare il leghismo,
anestetizzando le coscienze e i moti dell’animo, distraendoci con la Tv, le fiction, i reality e le televendite. Ma la ruvidezza e trivialità del leghismo non
possono essere compresse più di tanto, e spiccano qua
e là con varie coloriture: xenofobia, omofobia, ignoranza. Anche la mitografia con cui il movimento leghista cerca di consolidare una propria fittizia
storicità si rifà alla barbarie, ad un universo celtico di
contadini e cacciatori che, in realtà, soltanto il contatto
con il mondo latino rese più civile ed evoluto.
Il leghista non vuole finzioni, schermi immaginari,
orpelli culturali: egli è e vuole essere ignorante, è e
vuole essere pulsionale perché gli uomini semplici
sono così, perchè sono più veri e sinceri! Il leghista è
vicino al popolo perché entrambi – il leghista e il popolo – sono ugualmente celti ignoranti, e invece di liberare il volgo da siffatta ignoranza, egli la vuole
promulgare, diffondere, facendone il vessillo della
propria politica. O come si dice nel linguaggio del
manegement, facendone la propria mission.
Ma come Berlusconi, anche Bossi incarna una parte
di noi: se il primo enfatizza le nostre tendenze narcisistiche, edonistiche e istrioniche, il secondo mostra
la nostra faccia più meschina, cioè quella d’un essere
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egoista, che vive di sensazioni ed emozioni, pensando
a se stesso, e senza alcuna mediazione del pensiero.
La grande capacità di costoro, dei leghisti, è quella di
sviscerare le nostre parti peggiori, e, anzi, di enfatizzarle: proprio il contrario di ciò che dovrebbero fare i
politici.
Berlusconi e Bossi sono indegni perché siamo noi
tutti indegni...e se dobbiamo indignarci, dobbiamo
farlo innanzitutto con noi stessi.
7a. “Il caso Ruby”
Non poteva mancare, quasi ad esergo del capitolo
precedente, un piccolo puntuale accenno al caso
Ruby, scoppiato in Italia nel gennaio 2011; ma non ci
si aspetti una posizione facilmente moralistica o perbenistica. Ancora una volta Berlusconi ci spiazza e finisce per incarnare la tipologia di “soggetto” che
caratterizza la nostra epoca. Se seguiamo appena per
qualche istante l’ultimo pensiero di Michel Foucault,
scopriamo come il nostro “essere soggetti” dipenda a
sua volta da un certo as-soggettamento. Il soggetto,
insomma, nasce in quanto “assoggettato”.
Il soggetto tipico dell’epoca per così dire cristiana e
che si estende fino alla fine dell’Ottocento, era caratterizzato da un doppio movimento: da un lato emergeva la sua versione “pubblica” che doveva essere
sottomessa alla Legge ed era quindi ossequiosa e ubbidiente; dall’altro lato serpeggiava un sé segreto, privato, peccaminoso e perverso, che ritualmente
doveva affiorare soltanto nei contesti occultati e controllati della “confessione”. Da questo movimento
nasce l’ipocrisia sociale, la totale divaricazione tra il
privato e il pubblico, tra il sé segreto e il sé pubblico,
socialmente degno e stimabile.
L’età contemporanea è connotata invece da un radicale mutamento di questa doppiezza. Lo possiamo
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facilmente riscontrare nei vari reality, il Grande Fratello in primis: il sé segreto è emerso alla superficie,
affiorato, “è-là” davanti a noi, che compie le sue perversioni più o meno normalizzate e legittimate.
Per certi aspetti, c’è una linea di continuità. Non è
più necessaria la “confessione”, cioè quel residuo ritualizzato di parresìa (o “veridizione”, “dire la verità”:
vedi ultra) che equilibri le due facce del sé. Ora è lecito
che il sé perverso si manifesti socialmente, a patto che
lo faccia negli ambiti sempre più ampi della privacy
(feste da 150 persone?).
Nuovo Eliogabalo, Berlusconi non si scompone e
anzi ci dice: io lo faccio e “posso” farlo. Ancora una
volta non ha alcun orrore, vergogna e pudore perché
“sa” che lui è come noi e le domande che susciterà
non saranno del tipo: “com’è possibile che un uomo
del suo livello e con le sue cariche pubbliche si comporti in tal modo?“, ma piuttosto: “come fa alla sua
età ad essere così efficiente e performante?...beato
lui!”. Berlusconi infila il coltello nella piaga, fa emergere il peggio che tutti noi siamo e in questo è il “migliore”.
E per questo dobbiamo ripetere: Berlusconi e Bossi
sono indegni perché siamo noi tutti indegni...e se
dobbiamo indignarci, dobbiamo farlo innanzitutto
con noi stessi.
8. Flessibilità e precarietà
Secondo voi è meglio qualcosa di rigido o qualcosa di
elastico e flessibile? Meglio una legge che non conceda sfumature e sia monolitica, oppure una norma
aperta che consenta varie interpretazioni per adeguare l’astrattezza della sua enunciazione alla fattispecie? La comunicazione in effetti fa degli scherzi
interessanti: utilizza una qualità – la flessibilità, in
questo caso – che potrebbe essere positiva in astratto,
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applicandola però ad un contesto completamente differente e concreto. E il termine “lavoro flessibile” rappresenta il classico eufemismo con cui i media
cercano di addolcire un boccone amaro, oppure cercano letteralmente di “fregare”. Un altro concetto interessante è quello di “welfare”, parola molto diffusa
e sulla bocca di tutti proprio quando ci accorgiamo di
quanto lo Stato stia riducendo vieppiù la tutela nei
confronti dei più deboli. In questo caso è in gioco un
altro meccanismo di dissimulazione che suona pressapoco così: quando vuoi introdurre una norma spiacevole, inizia a parlare continuamente del suo
contrario come se fosse ciò a cui tu veramente miri.
Ecco allora che in un’epoca in cui lo Stato sta terzializzando sempre di più gli intereventi sociali con la
scusa dei risanamenti di bilancio e sta riducendo i finanziamenti nel settore penalizzando anche in parte
il volontariato e il terzo settore, assistiamo ad una
moltiplicazione – che in effetti sa un pò di beffa – di
discussioni, dibattiti, incontri, leggi su un “welfare”
inesistente e appartenente al passato.
Ma veniamo alla flessibilità o, meglio, alla precarizzazione del lavoro vista come una forma di progresso
e di modernizzazione. A Mirafiori si è svolto un referendum piuttosto scandaloso perché fondato sul ricatto: “tu, lavoratore della Fiat, sei assolutamente
libero di scegliere, ma se voti sì continui ad essere un
lavoratore della Fiat appunto, se voti no sei fuori
gioco. E se voti sì devi lavorare di più per meno!“ La
situazione mi ricorda un aneddoto raccontato da
Lacan nei suoi Scritti: la frase tantissime volte pronunciata dai banditi nei film western: “o la borsa o la vita”
rappresenta il classico “doppio-vincolo”, per cui sia
se consegni la borsa sia se non la consegni (e quindi
vieni ucciso) sei comunque destinato a perdere quella
dannata borsa...perché hai una canna da fucile puntata alla tempia!
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Tutto ciò viene venduto come un ineludibile processo di cambiamento e sviluppo delle relazioni sindacali e dei processi produttivi, per cui dovendo
competere con l’industria asiatica, la cosa migliore è
sposarne la filosofia e la metodologia, imitarla pedissequamente insomma. Ma siamo proprio convinti che
la strategia migliore sia quella di seguire i nostri competitors sul loro terreno, cioè flessibilizzando il lavoro,
diminuendo le retribuzioni, aumentando le ore lavorative e le pause intralavorative? Siamo convinti che
una schiavizzazione simile a quella dei lavoratori cinesi o balcanici sia cosa auspicabile e giusta nell’ottica
della “sacra” globalizzazione?
C’è indubbiamente qualcosa che non va e che stona.
E vengono in mente almeno due esempi abbastanza
significativi per evidenziare come il modello-Marchionne sia invero un modello “stupido”, senza futuro. Oppure un modello che nasconde altri fini, ben
dissimulati. Proprio mentre la Fiat annuncia l’ennesimo calo di vendite nel 2010, le grandi case produttrici tedesche aumentano le loro quote di mercato
nonostante la crisi mondiale. Costoro inoltre non producono in Bangladesh o in India, ma fabbricano le
loro automobili ancora in Germania: automobili vendute a prezzi superiori rispetto alla Fiat, e con operai
remunerati di gran lunga meglio. È in gioco evidentemente un meccanismo diverso dove ciò che conta
sono la qualità e la ricerca di nuovi prodotti...mentre
la Fiat continua a fare la stessa Punto e la stessa Panda
da anni perché nel 2008 il manegement prevedeva che
avrebbe venduto poco fino al 2012 a causa della crisi:
la classica previsione autorealizzantesi!
L’altro esempio è quello della Apple di Steve Jobs:
quando tutti gli analisti e tecnici non celavano il proprio scetticismo, veniva presentato quell’iPad – o tablet, come ormai si chiama più genericamente – che
attualmente sta cambiando il nostro modo di comu-
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nicare e di utilizzare il computer. Prodotto geniale che
mette assieme bellezza estetica, manipolabilità e sensazioni tattili, semplicità d’uso, utilità. Steve Jobs non
ha sfidato il mercato riducendo tutti i costi di produzione o risparmiando sulla ricerca, facendo cioè la
corsa autodistruttiva del prezzo più basso, ma ha “inventato” qualcosa di nuovo che cambia il nostro
modo di vivere!
L’indignazione si traduce in questo caso ancora
con un imperativo negativo: non consideriamo più
Marchionne un bravo manager o, per l’amor d’Iddio, un “rivoluzionario”!
9. Wikileaks
Nello stesso modo in cui noi non vogliamo saperne
più di tanto di Berlusconi poiché è l’Altro che siamo
noi stessi, il sistema non vuole conoscere i segreti che
si nascondono dietro l’attività diplomatica degli stati
e delle multinazionali. In altre parole è necessario che
il “segreto” venga mantenuto affiché la finzione in cui
viviamo “funzioni” per davvero. G. Bateson aveva
così individuato nel mistero o nel buco di conoscenza
il nucleo funzionale di ogni sistema informativo. La
religione, ad esempio, funziona proprio perché al suo
centro c’è un segreto, qualcosa che non si può sapere.
Allo stesso modo, sembra che l’uomo sguazzi in questo non-sapere, trasformandosi così in un “non-volersapere”.
Julien Assange ha avuto la grande colpa di aver
smascherato un gioco che tutti noi conosciamo, ha
cioè mostrato quel “trucco” che facevamo finta di non
vedere. Un po’ come il bambino che nonostante l’età
finge di credere in Babbo Natale per riceverne ancora
i regali. Che gli Stati Uniti vedessero con sospetto la
Cina è logico; che Berlusconi avesse una fama internazionale dubbia, ancora più ovvio. Che il Vaticano
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fosse intrallazzato in oscuri affari finanziari, è ancora
ancora più ovvio. E allora? Perché Assange rischia, attraverso un gioco machiavellico di estradizioni e di
pretesti (quando mai un buco nel preservativo più o
meno intenzionale ha cagionato un mandato di cattura inernazionale?), d’essere accusato di spionaggio
dagli Stati Uniti? Ha senso che una persona rischi la
vita per aver reso noto ciò ch’era già bell’e acclarato?
Stiamo vivendo in un mondo finzionale, fittizio, illusorio e psicotico, fatto di immagini virtuali e di
sogni impossibili, e Assange ci ha mostrato proprio
questo, la falsità della nostra condizione e il desiderio
inconscio di mantenere questa falsità. Ancora Lacan:
Assange ci ha mostrato il cosiddetto “attraversamento del fantasma”, cioè ci ha schiaffato davanti la
pesante realtà di vivere una vita alienata, vissuta da
altri, dove il primo “altro” siamo paradossalmente
proprio noi stessi. Siamo continuamente presi in giro
e, pur essendone consapevoli, non facciamo nulla poiché in fondo è ciò che vogliamo. Per paura di affrontare la realtà? Per pigrizia? E perché in fondo,
nonostante le querule recriminazioni e le continue lagnaze, siamo contenti di vivere in questa maniera?
In questo Assange incarna l’antica figura del “parresiasta”. Nell’antica Grecia la parresìa consisteva in
una pratica socialmente codificata in cui il soggetto
diceva la verità in faccia al tiranno anche a rischio
della propria vita. Si trattava di una vera e propria autoregolazione della democrazia poiché attraverso la
veridizione potevano scatenarsi dei cambiamenti in
un regime sempre sull’orlo dell’oligarchia o nella dittatura. Ma la parresìa risultava tale soltanto s‘era in
gioco la vita del parresiasta, cioè se la verità veniva
in qualche modo garantita dalla buonafede dello
stesso interlocutore. Oggi tutti noi potremmo essere
dei parresiasti, ma tacciamo perché invece abbiamo
paura di perdere qualcosa e, tutto sommato, il sistema
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in cui viviamo ci va bene così. Assange non l’ha fatto
e sta rischiando, anche se “dietrologicamente” e meschinamente pensiamo che lo stia facendo per qualche tornaconto personale: fama, notorietà, narcisismo,
occulte trame internazionali, soldi.
Iniziamo allora ad indignarci davvero diventando
un po’ tutti parresiasti, iniziamo a dire la verità
anche a scapito del nostro personale interesse! Perché l’indignazione, anzi, è soprattutto parresìa.
10. Quelli del calcio
Il calcio – si dice – è forse il più bello sport del mondo.
Mette assieme tutti gli elementi fondamentali del
gioco: l’aleatorietà del movimento della palla, l’agonismo e il contatto fisico, la tecnica e l’invenzione, il
gioco di squadra, la tattica e la strategia, lo scatto e la
resistenza, la forza e la velocità. E non a caso Berlusconi, prima ancora del suo esordio in politica, ha acquistato il Milan riportandolo ai tempi di Nereo
Rocco e di Gianni Rivera. Il calcio insomma è paradossalmente un “dispositivo”.
Come qualsiasi gioco, il calcio implica una “cornice” che ci dice praticamente “questo è un gioco”.
Due piccoli gattini s’azzuffano, soffiano, attaccano e
si difendono, ma in qualche modo marcano uno spazio di finzione, segnalano al compagno di gioco che
quei morsetti e quelle graffiatine non sono vere. Analogamente quando ci rechiamo allo stadio, entriamo
di fatto in una “cornice” virtuale dove molte regole
della società “esterna” vengono temporaneamente sospese. Vi siete mai chiesti perché nel campo da gioco
entrare su un avversario a gamba tesa non è reato,
mentre se voi faceste la stessa cosa nella via principale
della vostra città vi ritrovereste in quattro e quattr’otto in questura? La risposta insiste proprio in questa “cornice” inesistente che sospende per qualche ora
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la nostra vita normale. È una cornice importante che
riecheggia una ritualità antica che assolveva una precisa funzione immunitaria.
Nell’indifferenza in cui stiamo vivendo, il calcio invero assolve una funzione non dissimile dalla tragedia
greca. Nuovo rito pagano, essa sublima catarticamente
il thymós, proietta in uno spectaculum tragico le contraddizioni della nostra esistenza quotidiana. Se la politica
ha ormai abdicato alle proprie funzioni prioritarie, se
sono ininfluenti la destra o la sinistra, il conservatorismo reazionario o il liberismo azzardato, il vetero-comunismo o il vetero-fascismo, ecco che il proscenio
viene occupato da un nuovo rito, da un nuovo spectaculum. Luogo catartico della nostra esistenza e delle nostre contraddizioni, il calcio costituisce la nuova
religione della società italiana. Mou, Ibracadabra, Leo,
Digno...altro che Togliatti, De Gasperi, Nenni o Saragat! Le nostre coordinate di riferimento sono completamente cambiate.
Il risultato è duplice e invita ad una seria riflessione
sulla nostra epoca. Mentre a Mirafiori si contrattano i
diritti fondamentali del lavoro, con una retrocessione
alle condizioni di primi dell’Ottocento (quelle condizioni che ispirarono Il Capitale di Marx, ad esempio),
gli stipendi dei calciatori superano il milione di euro.
È giusto? Non pare un’assurda sperequazione che dei
giovinetti guadagnino in un anno quanto un lavoratore della Fiat percepirebbe alla catena di montaggio
in una vita di lavoro? È giusto, risponderei, fintantoché il calcio copre delle falle che la società non riesce
a coprire.
L’indignazione qui ci suggerisce che in tutte le
cose della nostra vita sociale, non dobbiamo limitarci a guardare, ma dobbiamo agire e reagire. Il calcio non guardiamolo soltanto alla TV, ma
finalmente e in prima persona GIOCHIAMOLO!
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Indice
Prefazione, 3
Introduzione, 4
1. Indifferenza, 5
2. Consumare, consumare, consumare, 7
3. Pil, 9
4. Finanza creativa, 11
5. Comunismo, 13
6. Destra-sinistra, ovvero
“meglio la partita di calcio”, 15
7. B&B: Berlusconi-Bossi, 17
7a. Il caso Ruby, 21
8. Flessibilità e precarietà, 23
9. Wikileaks, 25
10. Quelli del calcio, 27
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