Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi

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Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi
Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi
Autore: Marco Apolloni
«Nutre la mente solo ciò che la rallegra» (Sant'Agostino, Le Confessioni)
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Da Drugo a Nietzsche. Il disagio nichilistico dell'uomo
1. Il grande Lebowski (1998)
Lasciate perdere le definizioni troppo concettuali della parola nichilismo, o titoli troppo altisonanti
come L'essenza del nichilismo di Emanuele Severino, così come L'ospite inquietante di Umberto
Galimberti: non qui, non ora! Tanto meno i teorizzatori assoluti del nichilismo: Nietzsche,
Heidegger o chi per essi; anche se le radici risalirebbero a Socrate/Platone. Non ne capireste molto
del nichilismo leggendo solo testi che si recitano “a pappagallo”, manco fossero le Sacre Scritture
nelle Accademie. Tutti i libri che trattano di nichilismo da un punto di vista alto, filosofico o –
peggio ancora – scientifico, non fanno che: confonderci le idee e complicarci quello che è invece un
concetto molto semplice.
La filosofia quando deve confrontarsi con due concetti cardine dell'ontologia, quali essere e nulla,
sfoggia paroloni, tautologie, proposizioni logiche serrate, ma fa immancabilmente “cilecca”. Molto
semplicemente: il nichilismo è l'irresistibile attrazione dell'essere che vuol convertirsi in nulla!
Tutti noi, ogni volta che riponiamo lo sguardo sulla meta inesorabile che ci attende all'orizzonte,
siamo percorsi dall'amletico dubbio «to be or not to be, that's the question». Per fortuna, messi alle
strette, a prevalere, nella stragrande maggioranza dei casi, è il to be, cioè l'essere. Questo nostro
dubbio è tanto umano quanto nichilistico. Ergo: non si può esser uomini senza esser al tempo stesso
nichilisti, anche solo in parte. Già, tutti noi lo siamo stati, consapevolmente o non. Almeno una
volta nella vita ci siamo chiesti con Socrate: la morte sarà poi tanto peggio della vita? Per fortuna, i
momenti di nichilismo nel corso della nostra vita sono in numero inferiore a quelli di ottimismo.
La bellezza della vita è talmente pervasiva che ci fa dimenticare ciò a cui – per nascita – siamo
destinati, la morte. Tale bellezza, rivestendo di una patina dorata le nostre esistenze, ci fa passar
sopra ai momenti più sconfortanti delle stesse; momenti in cui l'abisso ci strizza l'occhio.
Chi fosse interessato alle odierne trasformazioni del nichilismo, può guardare l'illuminante pellicola
dei fratelli Joel ed Ethan Coen (meglio noti come “il regista a due teste”): The Big Lebowski (1998).
Questo per voi potrebbe essere un nichilistico inizio. Premetto che si tratta di un film assolutamente
sconclusionato, privo di senso, caotico, che sa essere al tempo stesso ironico e malinconico insieme.
La prima volta che me lo sorbii in televisione, avevo diciott'anni e in realtà cambiai canale a metà
film. Mi aspettavo la solita americanata, una commedia intellettualmente poco pretenziosa sul
bowling, tipo i lavori di Adam Sandler o Ben Stiller. E invece m'ero ritrovato davanti una commedia
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zen, che faceva sembrare l'umorismo ebraico di Woody Allen una “vanzinata”. Questo per dirvi che
non è un film facile, che ha tanti ammiratori quanti detrattori, come solo un gran film può avere.
A proposito, non vi fidate delle opere che ricevono consensi unanimi... l'unanimità è spesso
sinonimo di stupidità, omologazione, conformismo. Ovvero quanto di peggiore la mente umana
riesca a partorire. Quindi, non vi scoraggiate se non riuscirete subito ad apprezzarlo. Se già, però,
non ne rimarrete del tutto indifferenti, vorrà dire che questo film vi sarà entrato dentro.
Tutti i prodotti artistici, siano essi film-libri-dischi-dipinti-sculture, hanno bisogno di essere
guardati-letti-ascoltati-ammirati-contemplati almeno due volte, l'ideale sarebbe tre. Una volta per
assaggiare, un'altra per capire, un'altra ancora per amare/odiare. Almeno, con me ha sempre
funzionato così. Figuratevi, al primo ascolto mi è capitato di buttare nella tavoletta del cesso il disco
The joshua tree degli U2, per poi innamorarmene perdutamente al secondo ascolto, “orecchiato” per
caso in radio. Risultato: adesso gli U2 sono il mio gruppo preferito!
Per farvela breve, secondo me tutte le opere d'arte – ammesso che non facciano davvero schifo, ma
questo di solito lo si nota subito – meritano almeno due chance. Proprio per questo, vi dico, non
lasciatevi tradire da una prima “distratta” visione de Il grande Lebowski.
La trama, contorta, s'ispira al capolavoro di Raymond Chandler Il grande sonno, solo però in chiave
semiseria. Il protagonista incontra un miliardario paraplegico suo omonimo, che gli proporrà di
agire come corriere e consegnare il riscatto ai rapitori della sua infedele mogliettina, una pornodivaninfomane. Il rapimento si rivela una truffa colossale architettata dall'arzillo vecchietto – in bolletta,
altro che miliardario –, che in realtà si scopre esser mantenuto da sua figlia Maude, un'artista
libertina interpretata da Julianne Moore.
Durante il dipanarsi della pellicola si segnalano un paio di apprezzabili sequenze oniriche, ovvero:
Drugo sotto l'effetto di un allucinogeno in preda a mirabolanti trip, che vola sopra L.A. – città dov'è
ambientata la storia –, oppure rincorso da forbici giganti, oppure conquistato dalla valchiria
Maude/Moore stile Paura e delirio a Las Vegas (1998).
Siamo al cospetto di un film a tal punto nichilista da poter essere usato come paradigma stesso del
nichilismo. Il protagonista è Jeffrey Lebowski, un emarginato, un essere per metà uomo e per l'altra
cane randagio, interpretato da un calzante Jeff Bridges, che in un'intervista al magazine Rolling
Stone Italia ha ammesso: «Io sono Drugo». Già, Drugo è il soprannome del nostro eroe antieroico,
antiretorico e donchisciottesco, con due amici a far le veci: uno di Ronzinante/Donny e l'altro di
Sancho Panza/Walter. L'originale termine inglese recita Dude. C'è chi sostiene sarebbe stato più
corretto tradurlo con Tizio, invece che con Drugo. Ma poco importa.
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Nel film veniamo a sapere del suo passato che è stato quello di: un ex tecnico del suono in tour coi
Metallica – da lui definiti, testuali parole «una manica di stronzi» –, nonché hippy “cazzuto” fra i
promotori del Manifesto studentesco di Port Huron, datato 1962, e a favore di una Società
Democratica. In poche parole, si tratta di un fuoriuscito dai mitici anni '70.
Di quel periodo di grandi rivoluzioni culturali, Drugo si è portato dietro negli anni '90 – epoca in cui
si svolge la vicenda, siamo nel periodo della Prima guerra irachena – soltanto due cose: la sua
svolazzante chioma ribelle e la sua religione personale, la “Maria” intesa non come la madre di
Gesù, of course.
Nullatenente ormai da tempo, Drughetto o Drugantibus o Drughino – come preferite – gira per casa
in sandali e accappatoio e, quando non è stravaccato sulla sua comoda poltrona, lo vediamo
trascorrere piacevolmente il suo tempo tra: un bagnetto nella sua vasca casalinga a “piparsi” una
canna distensiva, una discesa al supermercato in vestaglia, una partitella a bowling fra amici (anche
se non lo si vede mai lanciare una sola palla in tutto il film).
L'essenza di Drugo è racchiusa in questo dialogo tra lui e il magnate della pornografia Jackie
Treehorn/Ben Gazzara: «Le nuove tecnologie ci permettono di fare cose entusiasmanti nel campo
del software erotico alternativo, avanguardia del futuro, Drugo! Cento per cento elettronico!» dice
Treehorn. «Uhm, mah… io mi faccio ancora le seghe a mano» risponde Drugo. Questa frase
condensa la mentalità del nostro protagonista, un nichilista buono, verrebbe da dire. Sì, perché ci
sono sia nichilisti buoni che cattivi. I primi nel film, oltre a Drugo, sono i due suoi amici: Walter
Sobchak/John Goodman e Donny/Steve Buscemi. I secondi, invece, sono tre squinternati tedeschi,
membri di un gruppo rock decadentista, gli Autobahn – probabile omaggio a un album del gruppo
teutonico Kraftwerk –, interpretati da: Peter Stormare, Flea – bassista dei RHCP – e Torsten Voges.
Il cocktail vincente servitoci dai fratelli Coen consiste nell'ampio corollario di personaggi con tutte
le rotelle fuori posto, appartenenti a un'umanità marginale e proprio per ciò filosoficamente
interessante. Un'umanità che ha perduto la bussola, dunque, nichilista!
Sopra accennavo al fatto che esistono nel film, ma anche nella realtà – perché no –, nichilisti di due
tipi: buoni e cattivi. Questo perché i primi, loro malgrado, finiscono sempre col fare la cosa giusta,
seppur controvoglia, come Drugo & amici. Mentre i secondi sono degli pseudo-artisti falliti, che
finiscono risucchiati in un vortice autodistruttivo, come i tre famigerati musicisti germanici.
Fra i personaggi meglio caratterizzati ci sono: Walter, il veterano del Vietnam, che non si stanca mai
di rinvangare il suo passato bellico – veri e propri topòs narrativi sono le sue interminabili tiritere
sui suoi ex compagni d'arme caduti per servire la Patria; e lo sfigatissimo Donny, la mascotte dei
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tre, che quando attacca a parlare non la smette più e per questo viene continuamente azzittito dai
suoi due amici; Jesus Quintana/John Turturro, esperto giocatore di bowling che indossa una tutina
viola attillata e si muove sul parquet con la stessa abilità di un torero nell'arena, memorabile è la sua
battuta d'avvertimento «no se escherza con Jesus»; infine Sam Elliott soprannominato “i baffi del
West”, nei panni del testimonial Marlboro Man in Thank you for smoking (2005), che qui invece
rappresenta il Narratore, nonché la voce fuori campo che aprirà e chiuderà la storia (durante il film
ci regala una “cameo appearance” nel ruolo – a lui familiare – di cowboy, scambiando qualche
battuta proprio con Drugo).
La notorietà raggiunta da questa pellicola è tale per cui ogni anno negli States si celebra addirittura
il “Lebowski Fest”, occasione di ritrovo per migliaia di fans sfegatati, agghindati da straccioni e
trangugianti White Russian in onore del loro beniamino Drugo. E pensare che all'inizio il film
raccolse dei tiepidi consensi, sia dalla critica che dal pubblico. Solo più tardi si guadagnò larghi
consensi. Il suo iniziale flop nelle sale e successivo trionfo in formato home video fa pensare a una
illustre pellicola, che ne ha ricalcato le orme... sto parlando di Donnie Darko (2001).
Il genio lafargueano di Drugo potremmo così riassumerlo: «Altro che bere, fumare o drogarsi,
soltanto lavorare nuoce gravemente alla salute». Se non è nichilismo buono il suo...
2. Riflessioni sulla sezione dello Zarathustra intitolata La visione e l'enigma
Se Drugo è senz'altro l'esempio del nichilista buono o perlomeno “bonario”, visto che forse è troppo
chiamare buono un assoluto menefreghista come lui, Nietzsche è stato consegnato alla posterità –
con eccessiva fretta – come un nichilista della peggior risma, ispiratore del Terzo Reich e di tutte le
sue nefandezze. Poco importa che mentre scriveva i suoi strali infuocati lo sfortunato – per tanti
motivi, soprattutto in amore – Friedrich non poteva affatto prevedere l'ascesa di un futuro Hitler.
Quest'ultimo più che per le idee di Nietzsche è arrivato al potere per colpa dell'inettitudine degli
Alleati (i quali dopo la sconfitta della Germania nella Seconda guerra mondiale non hanno saputo
reinnestarvi e farvi durare i semi della democrazia, naufragata nel disastroso esperimento della
Repubblica di Weimar).
Voler rintracciare a tutti i costi nelle idee di Nietzsche una “spia” della futura ascesa del nazismo è
come voler imputare la colpa della pioggia ai raggi solari, vale a dire: mancherebbero troppi anelli
nella catena di cause ed effetti. La causa del nazismo è la sconfitta della Germania nella Prima
guerra mondiale. Stop! L'effetto di tutto ciò è stato il proliferare della follia nazista, la quale ha poi
saputo astutamente far proprio il clima culturale di una Germania stremata, smaniosa di soddisfare
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la sua incompiuta e incompresa – dalle altre Nazioni – vena imperialista. Vi dico tutto ciò per
mettervi in guardia dalle facili condanne del Nietzsche-pensiero.
Detto questo, vorrei ora soffermarmi sul Nietzsche-pensatore. Se è vero che un'opera può dare la
cifra del suo autore, quest'opera è senz'altro, per il nostro “baffone”, lo Zarathustra. E visto che una
singola parte di un testo può darci a sua volta la cifra della sua totalità, questa per quel che concerne
lo Zarathustra, ce la dà la sezione intitolata La visione e l'enigma.
Il pastore dell’enigma è il Tristano wagneriano, che c'invita a vivere al massimo, in maniera
spericolata come canta Vasco Rossi. Per farlo è decisiva la volontà di potenza nietzscheana, che è
affermazione suprema della vita, la quale rifugge il tanfo sepolcrale di un vissuto passivo (il tanto
deprecato “lasciarsi vivere”). Per meglio dire: egli valorizza la vita, in quanto valore accorpante tutti
gli altri.
Nietzsche porta l’esempio degli antichi desiderosi di vivere, e dei moderni – invece – malati di
vivere. E perciò rispolvera il vecchio mito arcadico, di una civiltà sanata sotto ogni aspetto. In essa
sì che ci si poteva ancora immergere in un sonno ancestrale e ristoratore, capace di conciliare tutti i
propri demoni e di far spuntare un pacificato sorriso al risveglio. Proprio come fece il dio-sorridente
Dioniso Zagreo, rinato a nuova vita dopo esser stato “sbrindellato” dai Titani.
La morale è davvero semplice, per citare Marco Aurelio Antonino: «La morte sorride a tutti, un
uomo non deve fare altro che sorriderle di rimando». Questo celebre aforisma, che immagino
Nietzsche approvasse in pieno, non dev'essere però frainteso. Nel senso che qualcuno potrebbe
vederci – a torto – un'incondizionata rassegnazione nichilistica al proprio infausto destino. Per
Nietzsche le cose stanno in altro modo.
Sorridere alla nostra più acerrima nemica significherebbe vivere consci della sua limitatezza. E
l'aforisma del filosofo stoico nonché imperatore romano dovrebbe insegnarci piuttosto a goderci
ogni singolo e irripetibile istante delle nostre esistenze, che proprio perché unico è tanto più
prezioso! Del resto l'essere-per-la-morte heideggeriano ha un senso abbastanza analogo. Ovvero pur
sapendo che c'è un punto di arrivo nelle nostre vite, dobbiamo ancor più essere stimolati a far bene
hic et nunc, così da poter venire ricordati dopo la nostra morte.
«Tutto ciò che facciamo in vita riecheggia nell'eternità» sostiene Massimo Decimo Meridio «il
comandante dell'esercito del nord, generale delle legioni Phoenix, servo leale dell'unico vero
imperatore Marco Aurelio» per motivare alla battaglia le sue legioni, in una delle battute più ricche
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di pathos dell'intera storia del cinema. Qualcosa di analogo ce la dice anche Heidegger quando
distingue una vita autentica da un'altra inautentica, oltre al già citato Marco Aurelio storico (altra
cosa rispetto a quello hollywoodiano), e persino i samurai, guerrieri del medioevo giapponese, la
cui “bibbia nichilista”, l'Hagakure, recita che «la via del samurai è la morte».
La filosofia, a cominciare da Socrate, ha la pretesa di prepararci al nostro inevitabile epilogo. Poi la
religione cristiana e insieme ad essa tutte le altre religioni della terra, monoteiste e non, insegnano a
liberarci dalla nostra paura più atavica. Addirittura nel capolavoro di Tolstoj Guerra e Pace, il conte
Pierre Bezuchov viene a conoscenza che il comandamento più arduo, ma anche il più essenziale
della massoneria è: amare la morte, per cessare di temerla.
Ritengo questo mio excursus necessario al fine di meglio comprendere il significato della parabola
nietzscheana del pastore, il quale, per togliersi di dosso il veleno esistenziale, si decide a succhiare
il midollo della vita, staccando con un morso la testa del serpente, sputandone fuori il contenuto
velenoso. Come tutti i più efficaci antidoti ci suggeriscono: è necessario assimilare quel po' di
veleno affinché il nostro organismo se ne liberi del tutto. Il sonno riparatore del pastore ha il preciso
compito, dunque, di scandagliare i labirinti dell'inconscio così da ripulirlo, una volta per tutte.
In ultima analisi: il pastore è il gigante sovra-storico dotato della «forza plastica».
Nella Seconda inattuale Nietzsche ci dice che ad essere dotati di questa forza sono quegli individui
carismatici capaci d'infrangere il continuum benjaminiano della storia, che si avvicinano all'ideale
nietzscheano del Superuomo. Sono i vari Alessandro Magno, Giulio Cesare, Gengis Khan,
Napoleone Bonaparte... ovvero coloro i quali sostenuti dalla loro volontà son stati capaci di fare
epoca, consegnandosi alla posterità come personaggi epocali!
Il nano di cui ci parla Nietzsche al contrario non è che il lacerato uomo moderno, il cui dissidio
interiore lo porta a essere in balìa degli eventi e quindi soverchiato dal peso della storia.
Per usare un'evocativa immagine di Céline e del suo fantomatico Voyage: i tanti “nani” sono la
«carne da cannone» usata dagli individui eccezionali, perché dotati di forza plastica, per
manifestare il loro spirito thanatico, ovvero la loro freudiana pulsione autodistruttiva, a cui
dobbiamo lo sciagurato perpetrarsi dell'hegeliano «banco di macelleria», qual è la storia mondiale.
Il serpente è la vita che si rigenera di continuo, ricacciando indietro la morte. Il suo mordersi la
coda simboleggia l’eterno ritorno dell’uguale, e cioè: il punto di congiunzione tra l’inizio e la fine,
tra il passato e il futuro, che s’incontrano nell’i-s-t-a-n-t-e faustiano. Il serpente simboleggia,
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inoltre, il disgusto mortifero per la vita e proprio per questo occorre che il pastore lo morda per
accettarlo una buona volta, mettendosi così l’animo in pace.
Quest'animale abietto incarna sia la morte che la rinascita, poiché contiene in sé il veleno e
l’antiveleno. È un mellifluo seduttore, che cerca di attrarre a sé mediante false lusinghe. Perciò,
onde evitare di rimanerne ammaliati, occorre staccarne la testa con un morso repentino e dopodiché
sputarla il più lontano possibile, in maniera tale che non possa più insidiarci con le sue velenose
tentazioni. Tale morso è carico di una notevole valenza simbolica, in quanto segna l'inizio della
ribellione a un dio tirannico, che tenta in tutti modi di assoggettarci al suo irriducibile volere.
Mordere e staccare la testa del serpente permette al pastore di recidere il cordone ombelicale, che lo
teneva ancora avvinto all'utero materno. Il veleno del rettile contiene appunto l’antiveleno –
l’antidoto, infatti, si compone di una piccola dose del veleno stesso – e pertanto la sua ingestione
assume una valenza terapeutica, ossia: il pastore sprofondato nel baratro, non volendo soccombere,
finisce per risalire dal gorgo in cui era precipitato. Ippocrate – padre della medicina occidentale –
c'insegna che: è la natura stessa a curare, il medico può solo favorire il naturale decorso del
paziente. Non c'è guarigione senza un'effettiva volontà di guarire. Un procedimento piuttosto simile
risale alla tradizione alchemica, che prescriveva – per vincere la nausea – d’ingoiare un ributtante
rospo così poi da stare meglio.
L'insegnamento che possiamo trarne è il seguente: la vita ci avvelena a poco a poco proprio come fa
la serpe, quindi tanto vale sfidare la sorte e passare al contrattacco prima che sia troppo tardi. La
funzione dell'animale velenoso è quella di curare la malattia del pastore e di far scaturire in lui
l’enigmatica risata finale, simile a quella del dio rinato dalle sue stessi ceneri, Dioniso Zagreo,
simbolo della vita eterna nonostante i Titani lo avessero fatto a brandelli, componendo così la razza
umana. Dioniso morto e poi risorto, dalle cui parti smembrate sarebbe poi derivato l'uomo secondo
la mitologia greca, rinvia al ciclo e riciclo della materia, per cui tutto si trasforma e nulla si
distrugge secondo il principio di Lavoisier, quale nostra più plausibile aspirazione all'eternità,
secondo la materialistica visione nietzscheana.
Per la comprensione finale dell'enigma occorre prima rispondere ad alcune domande...
1) Chi è il cane che ulula? Diogene “il Cinico”, che con il suo ululato annuncia anziché la morte di
Dio quella del suo padrone, il pastore appunto. Siamo al cospetto di una delle immagini più spettrali
evocate ne La visione e l'enigma...
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2) Quando sale la luna? Ricordi funerei rievocano tristi episodi della vita privata dell’autore. Del
resto è stato ampiamente documentato (da diversi studiosi nietzschiani), come questa sezione gotica
dell’opera, sia debitrice degli influssi di uno dei periodi più bui dell’esistenza di Nietzsche, segnati
dalle morti del padre e del fratello. Questo parto nietzschiano pare sia avvenuto durante la
permanenza dell'autore in una pensione di Torino, in cui egli stava solo ore e ore al buio, anche di
giorno, pur di stimolare le sue allucinazioni.
3) Dove si trova la porta carraia? All’ingresso dell’Ade, l’antro che immette nel Regno dei Morti.
Esso profila desolati scenari cultuali, che svariano dai culti delle iniziazioni dionisiache ai culti
mitraici, oltre a simboleggiare il punto d’incontro o l’aleph secondo lo scrittore argentino Jorge Luis
Borges, vale a dire: il punto laddove s’incontrano tutti gli altri punti e si riflette l’intero Universo.
4) Dove porta il sentiero in salita? Esso conduce alla conoscenza dall’alto, che è inaccessibile ai
più e rappresenta il cammino iniziatico di ascensione-elevazione spirituale dell'uomo alla ricerca dei
misteri della sapienza.
L'uomo che viene qui supposto è una creatura meschina soggetta all'effimero senso comune e che
accentra su di sé tutti i limiti «umani troppo umani» diremmo con Nietzsche. Si tratta di un piccolouomo, che è l'esatto opposto del Superuomo nietzscheano. La sua natura è condotta dallo spirito di
gravità, che fa precipitare qualunque cosa verso il basso, ostacolando in tutti i modi la scalata del
Superuomo verso l’alto.
Questo piccolo-uomo rappresenta, inoltre, il popolino così cieco da credere nelle infinite possibilità
del progresso umano, non accorgendosi minimamente dello sfacelo incontro al quale sta andando
l'umanità. Anche nell'Amleto shakesperiano vi è un nano-talpa, il quale versa le sue «gocce di
piombo» nelle orecchie del giovane principe di Danimarca.
I «sette demoni» rappresentano le «sette solitudini» derivanti dai «sette giorni» della Creazione. Si
noti la complessa simbologia biblica del numero «sette».
Oltre che di nichilismo, dunque, in Nietzsche possiamo parlare pure di una sorta d’inconfessato
relativismo: tutti i valori, infatti, sono per lui relativamente inutili.
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5) Chi è Zarathustra? Nella simbologia nietzscheana Zarathustra è la pietra filosofale. Questa
definizione deriva dalla tradizione alchemica e indica una pietra speciale ottenuta fondendo e
combinando tra loro elementi opposti. All’origine lo Zarathustra doveva essere dedicato al grande
alchemico Paracelso e si sarebbe dovuto chiamare Paracelsi mirabilia.
L’introduzione della figura profetica di Zarathustra, in particolare, la dobbiamo al filosofo
neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone, che riconobbe nel profeta indo-iranico il fondatore di tutte le
principali religioni, cristianesimo compreso. In epoca rinascimentale Zarathustra diventò, oltre che
profeta, anche: mago, medico e soprattutto alchimista. Da qui deriva il collegamento con
Paracelso... che insegnava anzitutto ai suoi discepoli a fare di una cosa il contrario della stessa,
tant'era convinto della coincidentia oppositorum. Per lui, infatti, la natura stessa della conoscenza è
talmente composita da esser formata da una commistione di concetti opposti. Grazie a questa sua
personale rivelazione si deve il superamento della vecchia morale dualistica occidentale, imperniata
sui concetti antitetici di bene e male. Il concetto di bene perderebbe il suo valore intrinseco fino a
svaporare del tutto, senza il suo giusto contrappeso del suo opposto, quello di male. In ultima
istanza, l'un termine non può esserci dato senza l'altro.
Per gli alchemici ogni cosa ha il suo doppio e questo è il più grande insegnamento da essi
trasmessoci. L’Uno diventa Due e il Due ridiventa Uno, «Uno col Tutto» dirà poi Hölderlin.
Tutto quel che c’è adesso, è una metamorfosi di qualcosa che c’è già stato prima e che sarà poi.
Come recita il primo principio della termodinamica enunciato dal chimico francese Lavoisier:
«Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». La trasformazione della materia organica è la
più ferrea prova a carico della visione panteistica della vita di Nietzsche, Hölderlin e tanti altri. Il
mito nietzschiano dell'eterno ritorno cos'è, a pensarci bene, se non l'ennesima riprova della
veridicità del concetto tutto è uno. Se tutto ritorna, difatti, ciò si deve a una fondamentale identicità
del tutto.
Riagganciandoci al testo nietzschiano: la metamorfosi della serpe, che da nera diventa aurea,
simboleggia il cambiamento sopraggiunto in Zarathustra, da viandante a profeta.
Nietzsche nello Zarathustra predica il ritorno all’età dell’oro della Grecia antica, periodo al quale
ha dedicato – tra l’altro – la sua opera giovanile La nascita della tragedia. Proprio per questo
motivo potremmo considerarlo: il profeta moderno della tragedia.
L’ellenismo ha preparato il terreno all’avvento del cristianesimo. Ancor prima di Cristo, come
giustamente rileva Nietzsche nell'opera summenzionata, Socrate è stato l'elemento di novità
introdotto nel mondo antico, che ha ucciso il senso del tragico e con sé la tragedia attica. Questo
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fatto Nietzsche non lo perdonò mai a Socrate, che lui considerò sempre una spina nel fianco e allo
stesso tempo uno spettro onnipresente. Al contrario ha sempre stimato grandemente Gesù, in quanto
con il comandamento di amare il prossimo è stato capace di trasvalutare tutti valori precedenti.
Tuttavia, pur mantenendo grande ammirazione per la figura di Cristo, Nietzsche condanna ne
L'anticristo la teologia paolina, poiché – a suo dire – Paolo ha deviato dalla rotta tracciata da Gesù.
Per lui il vero anticristo è l'apostolo di Tarso, mentre l'unico vero cristiano è morto sulla croce...
Il forte legame che Nietzsche intrattiene con la tragedia è imputabile alla sua visione dionisiaca del
mondo, la quale gli ha permesso di assaporare il calice dolce-amaro della vita, facendoci però una
risata sopra, alla maniera del già citato Dioniso Zagreo. A proposito di quest'ultimo, il suo
smembramento a opera dei Titani starebbe a significare la scissione stessa dell’io individuale,
sempre più lacerato.
In definitiva, l'enigmatica risata di Dioniso risulta tanto più indecifrabile considerando che in essa
vengono racchiuse le abissali profondità dell’animo umano. È la risata di chi sa bene cosa aspettarsi
dalla vita, vale a dire: il suo inevitabile complemento, la morte appunto.
A differenza di Cristo, anch’egli rinato, Dioniso non abbandona mai il suo gregge per sedere alla
destra di alcun Padre onnipotente e per ciò si comporta da buon pastore. Gesù al contrario promette
di ritornare non prima della fine dei tempi, abbandonando a se stessa l'umanità.
6) Quale interpretazione possiamo dare all’enigma propostoci da Nietzsche? Sputando via la testa
del serpente, il pastore respinge la malattia mortale di cui soffre l’uomo moderno che è
paradossalmente vivere, di cui Tristano è la summa. Dopo aver assaporato il più sincero disgusto, il
pastore ricomincia a vivere bene, che per i Greci coincideva col vivere filosoficamente. E chi è il
filosofo se non chi cerca la sapienza (philo-sophia vuol dire appunto amore della sapienza)?
Partendo però dal presupposto che: nessuno la possiede.
3. Perdere il controllo
Credere si pensa sia una parola bandita dal vocabolario di un nichilista. Tuttavia persino un
discepolo del nulla, contrariamente a quanto si pensa, crede in qualcosa. Il nulla è pur sempre parte
del tutto. Senza l'uno, infatti, il secondo non avrebbe ragione d'essere. Non è vero che Nietzsche
non aveva un credo, in qualcosa credeva: nel Caos! In esso lui riscontrava il principio fondante
ogni cosa. Come si può vedere, dunque, non ci si può dire sul serio contro o anti qualcosa senza in
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qualche modo farne parte.
Se proprio devo dirla tutta: nutro una sincera antipatia contro tutti gli anti di questo mondo. Siano
essi: antipolitici, antireligiosi, anticonformisti, anticristiani e chi più ne ha più ne metta. Bisognerà
pure che qualcuno si assuma la responsabilità di essere per qualcosa... siamo tutti buoni a demolire,
non altrettanto a costruire. Il mondo in cui viviamo non sa più che farsene dei distruttori, per questo
dobbiamo tramutarci in costruttori. L'epoca delle distorsioni del pensiero nietzscheano e del
superomismo è finita da un pezzo, esattamente in concomitanza con le due carneficine mondiali.
Il niente è parente stretto dell'ente. Il pensiero orientale lo dice da sempre ed è il motivo per cui
risulta inconcepibile per la filosofia occidentale, così biecamente dualista.
Tutto è uno! Quando questo modo di pensare monista trionferà anche in Occidente, allora sì che
potremmo scoprire delle paradossali, ma proprio per ciò tanto più veritiere concordanze tra
cristianesimo e nichilismo, come ha fatto Severino e ancor prima di lui Dostoevskij. Soprattutto
considerando che il nichilismo è nato in seno al cristianesimo, diventandone il rovescio della
medaglia. Semmai occorrerebbe distinguere il cristianesimo originario, da quello della Chiesa che a
Cristo afferma di ispirarsi.
Il segreto della vita è contenuto nella Sacra Bibbia: polvere siamo e polvere torneremo. Un
insegnamento, questo, che si direbbe nichilista. Tuttavia c'è un modo per sfuggire alla tentazione
nichilista: perdere il controllo!
L'uomo da sempre si è posto il problema dell'aver tutto sotto controllo. Sfido chiunque ad
ammettere di non essere schiavo della parola: controllo. La maggior parte di noi cerca in tutti i modi
di controllare ogni situazione della sua vita e per far ciò finisce nel circolo vizioso del nichilismo,
che come il veleno di un serpente paralizza le nostre sinapsi cerebrali, togliendoci la lucidità del
pensiero.
Tutti temiamo l'ignoto, ovvero quel che è fuori dalla nostra portata. Ma se ci pensiamo bene: a noi
nulla è noto, e ciò significa che non abbiamo niente sotto controllo. Pensare il contrario è
“l'illusione delle illusioni”, la suprema illusione potremmo dire. La verità è ben diversa. Ovvero che
tutti: nasciamo, viviamo e infine moriamo...
Per Martin Heidegger la morte altro non è che l'evento per eccellenza, che tutti aspettiamo e che
fonda l'autenticità stessa delle nostre vite, tutte – senza eccezione alcuna – incentrate sul niente, che
come ho già detto: è parente stretto dell'ente. Per ciò la filosofia heideggeriana viene collocata
nell'orbita nichilista e forse è per lo stesso motivo che ha simpatizzato con l'evento di gran lunga
peggiore del Novecento: l'ideologia “criminale” nazista.
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Penso che il nichilismo di Heidegger affondi le proprie radici nella filosofia del non-sapere
socratica. Per cui, citando a memoria Socrate dalla sua Apologia: «Non si può sapere chi di noi vada
verso il meglio, se io a morire o voi a vivere». Come se morte e vita fossero per lui le due facce
della stessa medaglia, impastate nello stesso elemento. Il “figlio del Caos” Nietzsche pur nella sua
nominale presa di distanza da Socrate, non poté non convenire con lui su molti punti, tra cui
l'origine della vita dal brodo primordiale.
Nietzsche – sulle orme della mitologia greca – credeva che il Caos fosse la scaturigine di ogni cosa.
Quindi riteneva che dal nulla si fosse originato il tutto. Per quanto può sembrare paradossale anche
la scienza sembrerebbe convenire su questo... basta menzionare: 1) la legge della termodinamica di
Lavoisier; 2) la teoria del Big Bang, seconda la quale l'Universo da noi abitato sarebbe scaturito da
una caotica espansione degli elementi, che hanno poi originato il sacro e inviolabile mistero della
vita.
La mitologia greca di cui è debitrice Nietzsche dovette le sue idee al vicino Oriente, nella fattispecie
al pensiero orientale, che insegna per paradossi secondo una logica anch'essa paradossale. Dal
non-essere per un orientale può essere derivato l'essere semplicemente perché questi non si pone i
limiti imposti dalla logica parmenidea-aristotelica occidentale, infischiandosene del principio di non
contraddizione.
L'Hagakure insegnava ai samurai che la loro vita era appesa a un filo sottilissimo, che avrebbe
potuto spezzarsi da un momento all'altro, a causa di: un colpo di spada, di lancia o di pugnale; per
una frecciata colta nel pieno della mischia; per una banale rissa in taverna; per avvelenamento; e
così via. Ergo: i samurai invece che piangersi addosso e pensare al loro inevitabile destino, proprio
sapendo di poter morire da un momento all'altro si liberarono dal pensiero della morte, ancor
peggiore della morte stessa!
Sull'esempio dei samurai, rimango convinto che quello del controllo sia un falso problema per
l'uomo; solo perdendolo, infatti, potremmo vivere e assaporare appieno il gusto dolce-amaro della
vita.
4. Il nichilista buono
La scienza non perde occasione per ricordarci che la vita è un evento casuale. A quanto pare...
esistiamo per caso e saperlo non ci fa di certo stare meglio, eppure tant'è. Non basta tutto
l'umorismo delle battute di Woody Allen per indorarci la pillola: esistere per caso è una spiacevole
verità. E si sa come noi uomini siamo più inclini a credere a ciò che è piacevole, anche se dovesse
essere un inganno, com'è secondo alcuni la religione. Non secondo me, però, e i motivi che adduco
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per una difesa a oltranza della religione è che nel dubbio trovo molto più auspicabile supporre una
che i giusti verranno ricompensati e gli ingiusti puniti, se non in questa vita perlomeno nell'altra.
Pur con tutta la buona volontà, ho smesso di credere che sia possibile una giustizia terrena, hic et
nunc. Crederla possibile questa sì che è una piacevole menzogna, ancor più menzognera di chi crede
ingenuamente in una giustizia ultraterrena. Con ciò, non dico che alcuni colpevoli non vengano
puniti, qui e ora, ma di sicuro non tutti i farabutti ricevono, su questa Terra, ciò che si meritano,
purtroppo.
Credete come vi pare, personalmente trovo sia ancora ragionevole sperare in una vita migliore che
ci ricompensi dei torti subìti in questa. Forse è una favoletta per poppanti o forse no, chi può dirlo
con certezza? E in un contesto del genere, oggi come ieri molto dubbioso, non ci resta che
crogiolarci nel dubbio.
A differenza di Nietzsche accolgo volentieri l'ipotesi di un Dio universale, capace di affratellare tutti
gli uomini ed essere per essi un ponte, non una barriera.
Certi atei “incalliti” prendono a mo' di esempio le malefatte delle religioni nel corso della storia per
auspicare l'inesistenza di un sommo Dio-giudice. A costoro rispondo: fate bene a ricordarci le
vittime cadute in nome della religione, ma d'altro canto senza di essa non è detto che non ce ne
sarebbero state di più. Secondo me dietro le guerre di religione si cela sempre gli unici veri e
intramontabili due motivi di tutte le guerre: il denaro e il potere (quasi sempre collegati l'uno
all'altra). A volte si può e deve dubitare legittimamente delle istituzioni religiose (qualora si rintracci
la presenza deturpante di questi due elementi: smania di ricchezza e derive autoritaria), ma giammai
della buona fede della religione. Nulla può inficiare le buone opere compiute da tutte le religioni del
mondo, il cui merito più grande è stato quello d'impedire il trionfo del karamazoviano tutto è
permesso; poiché se lo fosse davvero... altro che guerre di religione, l'umanità si sarebbe già autoannientata!
La presenza del male nel mondo non può servire da giustificazione per l'inesistenza di Dio. D'altro
canto la religione stessa c'insegna che insieme al bene c'è anche il male, che è inestirpabile in
quanto mette radici profonde persino nel più innocente di noi. Se scavassimo a fondo scopriremmo
che nessuno di noi è del tutto buono... persino il più virtuoso, infatti, non può sfuggire al più
elementare dei peccati: la vanità. Da San Francesco a Cesare Borgia non c'è cristiano che sia
scampato ad essa. Certo, il secondo ha collezionato altri peccati ben più efferati: stupro, omicidio,
tortura, congiura (l'elenco sarebbe molto più lungo). Ciò non toglie, però, la matrice comune
dell'essere umano, ovvero la vanità stessa, che tutti possediamo in grande o piccola misura. Chi dice
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di non possederne affatto e di annientarsi per gli altri è anch'esso affetto da un'infinitesimale punta
di vanità: l'autocommiserazione.
Chi di noi non si è almeno una volta autocommiserato in vita sua? A me è capitato alcune volte e
non ho problemi ad ammetterlo. Autocommiserarsi è sintomo di vanità, poiché chi si abbandona a
questo esercizio lo fa pensando di essere superiore agli altri e di non meritare le stesse miserie che
gli altri – loro sì comuni mortali – si trovano a dover affrontare. Perciò quando capitano a noi esse
ci sembrano immeritate e infinitamente ingiuste, dall'alto della nostra incrollabile vanità. È pur
sempre vero, tuttavia, che la vanità stessa è ciò che tiene unito il nostro io. Se essa scomparisse,
poveri noi. È ciò che ci permette di volerci bene nonostante tutto. Chi non si vuol bene almeno un
po' e rinuncia alla vanità potrebbe arrivare finanche a farsi del male.
Il nichilista buono come Drugo non c'è dubbio che si voglia bene, beandosi della sua completa
inoperosità. Lo stesso c'intima di fare l'incompreso Nietzsche, che per sua sfortuna è passato per
nichilista cattivo, quando in realtà la sua filosofia aveva come manifesto il volersi bene
infischiandosene di tutto e di tutti, fin tanto da ingoiare il veleno esistenziale per poi sputarlo fuori,
rinascendo a una vita attiva, cioè voluta, e non più passiva, ossia subìta.
Ricapitolando, dunque, la volontà di potenza nietzscheana può anche andar bene, purché però si
rispetti il precetto universale della religione che è e non potrebbe essere altrimenti, a seconda
positivo o negativo: positivo, fai agli altri quello che vuoi sia fatto a te; negativo, non fare agli altri
ciò che non vuoi ti venga fatto.
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