Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi
Transcript
Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi
Dottor Caos – 10 dieci pillole contro la crisi Autore: Marco Apolloni «Nutre la mente solo ciò che la rallegra» (Sant'Agostino, Le Confessioni) Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons Da Drugo a Nietzsche. Il disagio nichilistico dell'uomo 1. Il grande Lebowski (1998) Lasciate perdere le definizioni troppo concettuali della parola nichilismo, o titoli troppo altisonanti come L'essenza del nichilismo di Emanuele Severino, così come L'ospite inquietante di Umberto Galimberti: non qui, non ora! Tanto meno i teorizzatori assoluti del nichilismo: Nietzsche, Heidegger o chi per essi; anche se le radici risalirebbero a Socrate/Platone. Non ne capireste molto del nichilismo leggendo solo testi che si recitano “a pappagallo”, manco fossero le Sacre Scritture nelle Accademie. Tutti i libri che trattano di nichilismo da un punto di vista alto, filosofico o – peggio ancora – scientifico, non fanno che: confonderci le idee e complicarci quello che è invece un concetto molto semplice. La filosofia quando deve confrontarsi con due concetti cardine dell'ontologia, quali essere e nulla, sfoggia paroloni, tautologie, proposizioni logiche serrate, ma fa immancabilmente “cilecca”. Molto semplicemente: il nichilismo è l'irresistibile attrazione dell'essere che vuol convertirsi in nulla! Tutti noi, ogni volta che riponiamo lo sguardo sulla meta inesorabile che ci attende all'orizzonte, siamo percorsi dall'amletico dubbio «to be or not to be, that's the question». Per fortuna, messi alle strette, a prevalere, nella stragrande maggioranza dei casi, è il to be, cioè l'essere. Questo nostro dubbio è tanto umano quanto nichilistico. Ergo: non si può esser uomini senza esser al tempo stesso nichilisti, anche solo in parte. Già, tutti noi lo siamo stati, consapevolmente o non. Almeno una volta nella vita ci siamo chiesti con Socrate: la morte sarà poi tanto peggio della vita? Per fortuna, i momenti di nichilismo nel corso della nostra vita sono in numero inferiore a quelli di ottimismo. La bellezza della vita è talmente pervasiva che ci fa dimenticare ciò a cui – per nascita – siamo destinati, la morte. Tale bellezza, rivestendo di una patina dorata le nostre esistenze, ci fa passar sopra ai momenti più sconfortanti delle stesse; momenti in cui l'abisso ci strizza l'occhio. Chi fosse interessato alle odierne trasformazioni del nichilismo, può guardare l'illuminante pellicola dei fratelli Joel ed Ethan Coen (meglio noti come “il regista a due teste”): The Big Lebowski (1998). Questo per voi potrebbe essere un nichilistico inizio. Premetto che si tratta di un film assolutamente sconclusionato, privo di senso, caotico, che sa essere al tempo stesso ironico e malinconico insieme. La prima volta che me lo sorbii in televisione, avevo diciott'anni e in realtà cambiai canale a metà film. Mi aspettavo la solita americanata, una commedia intellettualmente poco pretenziosa sul bowling, tipo i lavori di Adam Sandler o Ben Stiller. E invece m'ero ritrovato davanti una commedia Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons zen, che faceva sembrare l'umorismo ebraico di Woody Allen una “vanzinata”. Questo per dirvi che non è un film facile, che ha tanti ammiratori quanti detrattori, come solo un gran film può avere. A proposito, non vi fidate delle opere che ricevono consensi unanimi... l'unanimità è spesso sinonimo di stupidità, omologazione, conformismo. Ovvero quanto di peggiore la mente umana riesca a partorire. Quindi, non vi scoraggiate se non riuscirete subito ad apprezzarlo. Se già, però, non ne rimarrete del tutto indifferenti, vorrà dire che questo film vi sarà entrato dentro. Tutti i prodotti artistici, siano essi film-libri-dischi-dipinti-sculture, hanno bisogno di essere guardati-letti-ascoltati-ammirati-contemplati almeno due volte, l'ideale sarebbe tre. Una volta per assaggiare, un'altra per capire, un'altra ancora per amare/odiare. Almeno, con me ha sempre funzionato così. Figuratevi, al primo ascolto mi è capitato di buttare nella tavoletta del cesso il disco The joshua tree degli U2, per poi innamorarmene perdutamente al secondo ascolto, “orecchiato” per caso in radio. Risultato: adesso gli U2 sono il mio gruppo preferito! Per farvela breve, secondo me tutte le opere d'arte – ammesso che non facciano davvero schifo, ma questo di solito lo si nota subito – meritano almeno due chance. Proprio per questo, vi dico, non lasciatevi tradire da una prima “distratta” visione de Il grande Lebowski. La trama, contorta, s'ispira al capolavoro di Raymond Chandler Il grande sonno, solo però in chiave semiseria. Il protagonista incontra un miliardario paraplegico suo omonimo, che gli proporrà di agire come corriere e consegnare il riscatto ai rapitori della sua infedele mogliettina, una pornodivaninfomane. Il rapimento si rivela una truffa colossale architettata dall'arzillo vecchietto – in bolletta, altro che miliardario –, che in realtà si scopre esser mantenuto da sua figlia Maude, un'artista libertina interpretata da Julianne Moore. Durante il dipanarsi della pellicola si segnalano un paio di apprezzabili sequenze oniriche, ovvero: Drugo sotto l'effetto di un allucinogeno in preda a mirabolanti trip, che vola sopra L.A. – città dov'è ambientata la storia –, oppure rincorso da forbici giganti, oppure conquistato dalla valchiria Maude/Moore stile Paura e delirio a Las Vegas (1998). Siamo al cospetto di un film a tal punto nichilista da poter essere usato come paradigma stesso del nichilismo. Il protagonista è Jeffrey Lebowski, un emarginato, un essere per metà uomo e per l'altra cane randagio, interpretato da un calzante Jeff Bridges, che in un'intervista al magazine Rolling Stone Italia ha ammesso: «Io sono Drugo». Già, Drugo è il soprannome del nostro eroe antieroico, antiretorico e donchisciottesco, con due amici a far le veci: uno di Ronzinante/Donny e l'altro di Sancho Panza/Walter. L'originale termine inglese recita Dude. C'è chi sostiene sarebbe stato più corretto tradurlo con Tizio, invece che con Drugo. Ma poco importa. Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons Nel film veniamo a sapere del suo passato che è stato quello di: un ex tecnico del suono in tour coi Metallica – da lui definiti, testuali parole «una manica di stronzi» –, nonché hippy “cazzuto” fra i promotori del Manifesto studentesco di Port Huron, datato 1962, e a favore di una Società Democratica. In poche parole, si tratta di un fuoriuscito dai mitici anni '70. Di quel periodo di grandi rivoluzioni culturali, Drugo si è portato dietro negli anni '90 – epoca in cui si svolge la vicenda, siamo nel periodo della Prima guerra irachena – soltanto due cose: la sua svolazzante chioma ribelle e la sua religione personale, la “Maria” intesa non come la madre di Gesù, of course. Nullatenente ormai da tempo, Drughetto o Drugantibus o Drughino – come preferite – gira per casa in sandali e accappatoio e, quando non è stravaccato sulla sua comoda poltrona, lo vediamo trascorrere piacevolmente il suo tempo tra: un bagnetto nella sua vasca casalinga a “piparsi” una canna distensiva, una discesa al supermercato in vestaglia, una partitella a bowling fra amici (anche se non lo si vede mai lanciare una sola palla in tutto il film). L'essenza di Drugo è racchiusa in questo dialogo tra lui e il magnate della pornografia Jackie Treehorn/Ben Gazzara: «Le nuove tecnologie ci permettono di fare cose entusiasmanti nel campo del software erotico alternativo, avanguardia del futuro, Drugo! Cento per cento elettronico!» dice Treehorn. «Uhm, mah… io mi faccio ancora le seghe a mano» risponde Drugo. Questa frase condensa la mentalità del nostro protagonista, un nichilista buono, verrebbe da dire. Sì, perché ci sono sia nichilisti buoni che cattivi. I primi nel film, oltre a Drugo, sono i due suoi amici: Walter Sobchak/John Goodman e Donny/Steve Buscemi. I secondi, invece, sono tre squinternati tedeschi, membri di un gruppo rock decadentista, gli Autobahn – probabile omaggio a un album del gruppo teutonico Kraftwerk –, interpretati da: Peter Stormare, Flea – bassista dei RHCP – e Torsten Voges. Il cocktail vincente servitoci dai fratelli Coen consiste nell'ampio corollario di personaggi con tutte le rotelle fuori posto, appartenenti a un'umanità marginale e proprio per ciò filosoficamente interessante. Un'umanità che ha perduto la bussola, dunque, nichilista! Sopra accennavo al fatto che esistono nel film, ma anche nella realtà – perché no –, nichilisti di due tipi: buoni e cattivi. Questo perché i primi, loro malgrado, finiscono sempre col fare la cosa giusta, seppur controvoglia, come Drugo & amici. Mentre i secondi sono degli pseudo-artisti falliti, che finiscono risucchiati in un vortice autodistruttivo, come i tre famigerati musicisti germanici. Fra i personaggi meglio caratterizzati ci sono: Walter, il veterano del Vietnam, che non si stanca mai di rinvangare il suo passato bellico – veri e propri topòs narrativi sono le sue interminabili tiritere sui suoi ex compagni d'arme caduti per servire la Patria; e lo sfigatissimo Donny, la mascotte dei Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons tre, che quando attacca a parlare non la smette più e per questo viene continuamente azzittito dai suoi due amici; Jesus Quintana/John Turturro, esperto giocatore di bowling che indossa una tutina viola attillata e si muove sul parquet con la stessa abilità di un torero nell'arena, memorabile è la sua battuta d'avvertimento «no se escherza con Jesus»; infine Sam Elliott soprannominato “i baffi del West”, nei panni del testimonial Marlboro Man in Thank you for smoking (2005), che qui invece rappresenta il Narratore, nonché la voce fuori campo che aprirà e chiuderà la storia (durante il film ci regala una “cameo appearance” nel ruolo – a lui familiare – di cowboy, scambiando qualche battuta proprio con Drugo). La notorietà raggiunta da questa pellicola è tale per cui ogni anno negli States si celebra addirittura il “Lebowski Fest”, occasione di ritrovo per migliaia di fans sfegatati, agghindati da straccioni e trangugianti White Russian in onore del loro beniamino Drugo. E pensare che all'inizio il film raccolse dei tiepidi consensi, sia dalla critica che dal pubblico. Solo più tardi si guadagnò larghi consensi. Il suo iniziale flop nelle sale e successivo trionfo in formato home video fa pensare a una illustre pellicola, che ne ha ricalcato le orme... sto parlando di Donnie Darko (2001). Il genio lafargueano di Drugo potremmo così riassumerlo: «Altro che bere, fumare o drogarsi, soltanto lavorare nuoce gravemente alla salute». Se non è nichilismo buono il suo... 2. Riflessioni sulla sezione dello Zarathustra intitolata La visione e l'enigma Se Drugo è senz'altro l'esempio del nichilista buono o perlomeno “bonario”, visto che forse è troppo chiamare buono un assoluto menefreghista come lui, Nietzsche è stato consegnato alla posterità – con eccessiva fretta – come un nichilista della peggior risma, ispiratore del Terzo Reich e di tutte le sue nefandezze. Poco importa che mentre scriveva i suoi strali infuocati lo sfortunato – per tanti motivi, soprattutto in amore – Friedrich non poteva affatto prevedere l'ascesa di un futuro Hitler. Quest'ultimo più che per le idee di Nietzsche è arrivato al potere per colpa dell'inettitudine degli Alleati (i quali dopo la sconfitta della Germania nella Seconda guerra mondiale non hanno saputo reinnestarvi e farvi durare i semi della democrazia, naufragata nel disastroso esperimento della Repubblica di Weimar). Voler rintracciare a tutti i costi nelle idee di Nietzsche una “spia” della futura ascesa del nazismo è come voler imputare la colpa della pioggia ai raggi solari, vale a dire: mancherebbero troppi anelli nella catena di cause ed effetti. La causa del nazismo è la sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale. Stop! L'effetto di tutto ciò è stato il proliferare della follia nazista, la quale ha poi saputo astutamente far proprio il clima culturale di una Germania stremata, smaniosa di soddisfare Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons la sua incompiuta e incompresa – dalle altre Nazioni – vena imperialista. Vi dico tutto ciò per mettervi in guardia dalle facili condanne del Nietzsche-pensiero. Detto questo, vorrei ora soffermarmi sul Nietzsche-pensatore. Se è vero che un'opera può dare la cifra del suo autore, quest'opera è senz'altro, per il nostro “baffone”, lo Zarathustra. E visto che una singola parte di un testo può darci a sua volta la cifra della sua totalità, questa per quel che concerne lo Zarathustra, ce la dà la sezione intitolata La visione e l'enigma. Il pastore dell’enigma è il Tristano wagneriano, che c'invita a vivere al massimo, in maniera spericolata come canta Vasco Rossi. Per farlo è decisiva la volontà di potenza nietzscheana, che è affermazione suprema della vita, la quale rifugge il tanfo sepolcrale di un vissuto passivo (il tanto deprecato “lasciarsi vivere”). Per meglio dire: egli valorizza la vita, in quanto valore accorpante tutti gli altri. Nietzsche porta l’esempio degli antichi desiderosi di vivere, e dei moderni – invece – malati di vivere. E perciò rispolvera il vecchio mito arcadico, di una civiltà sanata sotto ogni aspetto. In essa sì che ci si poteva ancora immergere in un sonno ancestrale e ristoratore, capace di conciliare tutti i propri demoni e di far spuntare un pacificato sorriso al risveglio. Proprio come fece il dio-sorridente Dioniso Zagreo, rinato a nuova vita dopo esser stato “sbrindellato” dai Titani. La morale è davvero semplice, per citare Marco Aurelio Antonino: «La morte sorride a tutti, un uomo non deve fare altro che sorriderle di rimando». Questo celebre aforisma, che immagino Nietzsche approvasse in pieno, non dev'essere però frainteso. Nel senso che qualcuno potrebbe vederci – a torto – un'incondizionata rassegnazione nichilistica al proprio infausto destino. Per Nietzsche le cose stanno in altro modo. Sorridere alla nostra più acerrima nemica significherebbe vivere consci della sua limitatezza. E l'aforisma del filosofo stoico nonché imperatore romano dovrebbe insegnarci piuttosto a goderci ogni singolo e irripetibile istante delle nostre esistenze, che proprio perché unico è tanto più prezioso! Del resto l'essere-per-la-morte heideggeriano ha un senso abbastanza analogo. Ovvero pur sapendo che c'è un punto di arrivo nelle nostre vite, dobbiamo ancor più essere stimolati a far bene hic et nunc, così da poter venire ricordati dopo la nostra morte. «Tutto ciò che facciamo in vita riecheggia nell'eternità» sostiene Massimo Decimo Meridio «il comandante dell'esercito del nord, generale delle legioni Phoenix, servo leale dell'unico vero imperatore Marco Aurelio» per motivare alla battaglia le sue legioni, in una delle battute più ricche Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons di pathos dell'intera storia del cinema. Qualcosa di analogo ce la dice anche Heidegger quando distingue una vita autentica da un'altra inautentica, oltre al già citato Marco Aurelio storico (altra cosa rispetto a quello hollywoodiano), e persino i samurai, guerrieri del medioevo giapponese, la cui “bibbia nichilista”, l'Hagakure, recita che «la via del samurai è la morte». La filosofia, a cominciare da Socrate, ha la pretesa di prepararci al nostro inevitabile epilogo. Poi la religione cristiana e insieme ad essa tutte le altre religioni della terra, monoteiste e non, insegnano a liberarci dalla nostra paura più atavica. Addirittura nel capolavoro di Tolstoj Guerra e Pace, il conte Pierre Bezuchov viene a conoscenza che il comandamento più arduo, ma anche il più essenziale della massoneria è: amare la morte, per cessare di temerla. Ritengo questo mio excursus necessario al fine di meglio comprendere il significato della parabola nietzscheana del pastore, il quale, per togliersi di dosso il veleno esistenziale, si decide a succhiare il midollo della vita, staccando con un morso la testa del serpente, sputandone fuori il contenuto velenoso. Come tutti i più efficaci antidoti ci suggeriscono: è necessario assimilare quel po' di veleno affinché il nostro organismo se ne liberi del tutto. Il sonno riparatore del pastore ha il preciso compito, dunque, di scandagliare i labirinti dell'inconscio così da ripulirlo, una volta per tutte. In ultima analisi: il pastore è il gigante sovra-storico dotato della «forza plastica». Nella Seconda inattuale Nietzsche ci dice che ad essere dotati di questa forza sono quegli individui carismatici capaci d'infrangere il continuum benjaminiano della storia, che si avvicinano all'ideale nietzscheano del Superuomo. Sono i vari Alessandro Magno, Giulio Cesare, Gengis Khan, Napoleone Bonaparte... ovvero coloro i quali sostenuti dalla loro volontà son stati capaci di fare epoca, consegnandosi alla posterità come personaggi epocali! Il nano di cui ci parla Nietzsche al contrario non è che il lacerato uomo moderno, il cui dissidio interiore lo porta a essere in balìa degli eventi e quindi soverchiato dal peso della storia. Per usare un'evocativa immagine di Céline e del suo fantomatico Voyage: i tanti “nani” sono la «carne da cannone» usata dagli individui eccezionali, perché dotati di forza plastica, per manifestare il loro spirito thanatico, ovvero la loro freudiana pulsione autodistruttiva, a cui dobbiamo lo sciagurato perpetrarsi dell'hegeliano «banco di macelleria», qual è la storia mondiale. Il serpente è la vita che si rigenera di continuo, ricacciando indietro la morte. Il suo mordersi la coda simboleggia l’eterno ritorno dell’uguale, e cioè: il punto di congiunzione tra l’inizio e la fine, tra il passato e il futuro, che s’incontrano nell’i-s-t-a-n-t-e faustiano. Il serpente simboleggia, Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons inoltre, il disgusto mortifero per la vita e proprio per questo occorre che il pastore lo morda per accettarlo una buona volta, mettendosi così l’animo in pace. Quest'animale abietto incarna sia la morte che la rinascita, poiché contiene in sé il veleno e l’antiveleno. È un mellifluo seduttore, che cerca di attrarre a sé mediante false lusinghe. Perciò, onde evitare di rimanerne ammaliati, occorre staccarne la testa con un morso repentino e dopodiché sputarla il più lontano possibile, in maniera tale che non possa più insidiarci con le sue velenose tentazioni. Tale morso è carico di una notevole valenza simbolica, in quanto segna l'inizio della ribellione a un dio tirannico, che tenta in tutti modi di assoggettarci al suo irriducibile volere. Mordere e staccare la testa del serpente permette al pastore di recidere il cordone ombelicale, che lo teneva ancora avvinto all'utero materno. Il veleno del rettile contiene appunto l’antiveleno – l’antidoto, infatti, si compone di una piccola dose del veleno stesso – e pertanto la sua ingestione assume una valenza terapeutica, ossia: il pastore sprofondato nel baratro, non volendo soccombere, finisce per risalire dal gorgo in cui era precipitato. Ippocrate – padre della medicina occidentale – c'insegna che: è la natura stessa a curare, il medico può solo favorire il naturale decorso del paziente. Non c'è guarigione senza un'effettiva volontà di guarire. Un procedimento piuttosto simile risale alla tradizione alchemica, che prescriveva – per vincere la nausea – d’ingoiare un ributtante rospo così poi da stare meglio. L'insegnamento che possiamo trarne è il seguente: la vita ci avvelena a poco a poco proprio come fa la serpe, quindi tanto vale sfidare la sorte e passare al contrattacco prima che sia troppo tardi. La funzione dell'animale velenoso è quella di curare la malattia del pastore e di far scaturire in lui l’enigmatica risata finale, simile a quella del dio rinato dalle sue stessi ceneri, Dioniso Zagreo, simbolo della vita eterna nonostante i Titani lo avessero fatto a brandelli, componendo così la razza umana. Dioniso morto e poi risorto, dalle cui parti smembrate sarebbe poi derivato l'uomo secondo la mitologia greca, rinvia al ciclo e riciclo della materia, per cui tutto si trasforma e nulla si distrugge secondo il principio di Lavoisier, quale nostra più plausibile aspirazione all'eternità, secondo la materialistica visione nietzscheana. Per la comprensione finale dell'enigma occorre prima rispondere ad alcune domande... 1) Chi è il cane che ulula? Diogene “il Cinico”, che con il suo ululato annuncia anziché la morte di Dio quella del suo padrone, il pastore appunto. Siamo al cospetto di una delle immagini più spettrali evocate ne La visione e l'enigma... Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons 2) Quando sale la luna? Ricordi funerei rievocano tristi episodi della vita privata dell’autore. Del resto è stato ampiamente documentato (da diversi studiosi nietzschiani), come questa sezione gotica dell’opera, sia debitrice degli influssi di uno dei periodi più bui dell’esistenza di Nietzsche, segnati dalle morti del padre e del fratello. Questo parto nietzschiano pare sia avvenuto durante la permanenza dell'autore in una pensione di Torino, in cui egli stava solo ore e ore al buio, anche di giorno, pur di stimolare le sue allucinazioni. 3) Dove si trova la porta carraia? All’ingresso dell’Ade, l’antro che immette nel Regno dei Morti. Esso profila desolati scenari cultuali, che svariano dai culti delle iniziazioni dionisiache ai culti mitraici, oltre a simboleggiare il punto d’incontro o l’aleph secondo lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, vale a dire: il punto laddove s’incontrano tutti gli altri punti e si riflette l’intero Universo. 4) Dove porta il sentiero in salita? Esso conduce alla conoscenza dall’alto, che è inaccessibile ai più e rappresenta il cammino iniziatico di ascensione-elevazione spirituale dell'uomo alla ricerca dei misteri della sapienza. L'uomo che viene qui supposto è una creatura meschina soggetta all'effimero senso comune e che accentra su di sé tutti i limiti «umani troppo umani» diremmo con Nietzsche. Si tratta di un piccolouomo, che è l'esatto opposto del Superuomo nietzscheano. La sua natura è condotta dallo spirito di gravità, che fa precipitare qualunque cosa verso il basso, ostacolando in tutti i modi la scalata del Superuomo verso l’alto. Questo piccolo-uomo rappresenta, inoltre, il popolino così cieco da credere nelle infinite possibilità del progresso umano, non accorgendosi minimamente dello sfacelo incontro al quale sta andando l'umanità. Anche nell'Amleto shakesperiano vi è un nano-talpa, il quale versa le sue «gocce di piombo» nelle orecchie del giovane principe di Danimarca. I «sette demoni» rappresentano le «sette solitudini» derivanti dai «sette giorni» della Creazione. Si noti la complessa simbologia biblica del numero «sette». Oltre che di nichilismo, dunque, in Nietzsche possiamo parlare pure di una sorta d’inconfessato relativismo: tutti i valori, infatti, sono per lui relativamente inutili. Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons 5) Chi è Zarathustra? Nella simbologia nietzscheana Zarathustra è la pietra filosofale. Questa definizione deriva dalla tradizione alchemica e indica una pietra speciale ottenuta fondendo e combinando tra loro elementi opposti. All’origine lo Zarathustra doveva essere dedicato al grande alchemico Paracelso e si sarebbe dovuto chiamare Paracelsi mirabilia. L’introduzione della figura profetica di Zarathustra, in particolare, la dobbiamo al filosofo neoplatonico Giorgio Gemisto Pletone, che riconobbe nel profeta indo-iranico il fondatore di tutte le principali religioni, cristianesimo compreso. In epoca rinascimentale Zarathustra diventò, oltre che profeta, anche: mago, medico e soprattutto alchimista. Da qui deriva il collegamento con Paracelso... che insegnava anzitutto ai suoi discepoli a fare di una cosa il contrario della stessa, tant'era convinto della coincidentia oppositorum. Per lui, infatti, la natura stessa della conoscenza è talmente composita da esser formata da una commistione di concetti opposti. Grazie a questa sua personale rivelazione si deve il superamento della vecchia morale dualistica occidentale, imperniata sui concetti antitetici di bene e male. Il concetto di bene perderebbe il suo valore intrinseco fino a svaporare del tutto, senza il suo giusto contrappeso del suo opposto, quello di male. In ultima istanza, l'un termine non può esserci dato senza l'altro. Per gli alchemici ogni cosa ha il suo doppio e questo è il più grande insegnamento da essi trasmessoci. L’Uno diventa Due e il Due ridiventa Uno, «Uno col Tutto» dirà poi Hölderlin. Tutto quel che c’è adesso, è una metamorfosi di qualcosa che c’è già stato prima e che sarà poi. Come recita il primo principio della termodinamica enunciato dal chimico francese Lavoisier: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma». La trasformazione della materia organica è la più ferrea prova a carico della visione panteistica della vita di Nietzsche, Hölderlin e tanti altri. Il mito nietzschiano dell'eterno ritorno cos'è, a pensarci bene, se non l'ennesima riprova della veridicità del concetto tutto è uno. Se tutto ritorna, difatti, ciò si deve a una fondamentale identicità del tutto. Riagganciandoci al testo nietzschiano: la metamorfosi della serpe, che da nera diventa aurea, simboleggia il cambiamento sopraggiunto in Zarathustra, da viandante a profeta. Nietzsche nello Zarathustra predica il ritorno all’età dell’oro della Grecia antica, periodo al quale ha dedicato – tra l’altro – la sua opera giovanile La nascita della tragedia. Proprio per questo motivo potremmo considerarlo: il profeta moderno della tragedia. L’ellenismo ha preparato il terreno all’avvento del cristianesimo. Ancor prima di Cristo, come giustamente rileva Nietzsche nell'opera summenzionata, Socrate è stato l'elemento di novità introdotto nel mondo antico, che ha ucciso il senso del tragico e con sé la tragedia attica. Questo Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons fatto Nietzsche non lo perdonò mai a Socrate, che lui considerò sempre una spina nel fianco e allo stesso tempo uno spettro onnipresente. Al contrario ha sempre stimato grandemente Gesù, in quanto con il comandamento di amare il prossimo è stato capace di trasvalutare tutti valori precedenti. Tuttavia, pur mantenendo grande ammirazione per la figura di Cristo, Nietzsche condanna ne L'anticristo la teologia paolina, poiché – a suo dire – Paolo ha deviato dalla rotta tracciata da Gesù. Per lui il vero anticristo è l'apostolo di Tarso, mentre l'unico vero cristiano è morto sulla croce... Il forte legame che Nietzsche intrattiene con la tragedia è imputabile alla sua visione dionisiaca del mondo, la quale gli ha permesso di assaporare il calice dolce-amaro della vita, facendoci però una risata sopra, alla maniera del già citato Dioniso Zagreo. A proposito di quest'ultimo, il suo smembramento a opera dei Titani starebbe a significare la scissione stessa dell’io individuale, sempre più lacerato. In definitiva, l'enigmatica risata di Dioniso risulta tanto più indecifrabile considerando che in essa vengono racchiuse le abissali profondità dell’animo umano. È la risata di chi sa bene cosa aspettarsi dalla vita, vale a dire: il suo inevitabile complemento, la morte appunto. A differenza di Cristo, anch’egli rinato, Dioniso non abbandona mai il suo gregge per sedere alla destra di alcun Padre onnipotente e per ciò si comporta da buon pastore. Gesù al contrario promette di ritornare non prima della fine dei tempi, abbandonando a se stessa l'umanità. 6) Quale interpretazione possiamo dare all’enigma propostoci da Nietzsche? Sputando via la testa del serpente, il pastore respinge la malattia mortale di cui soffre l’uomo moderno che è paradossalmente vivere, di cui Tristano è la summa. Dopo aver assaporato il più sincero disgusto, il pastore ricomincia a vivere bene, che per i Greci coincideva col vivere filosoficamente. E chi è il filosofo se non chi cerca la sapienza (philo-sophia vuol dire appunto amore della sapienza)? Partendo però dal presupposto che: nessuno la possiede. 3. Perdere il controllo Credere si pensa sia una parola bandita dal vocabolario di un nichilista. Tuttavia persino un discepolo del nulla, contrariamente a quanto si pensa, crede in qualcosa. Il nulla è pur sempre parte del tutto. Senza l'uno, infatti, il secondo non avrebbe ragione d'essere. Non è vero che Nietzsche non aveva un credo, in qualcosa credeva: nel Caos! In esso lui riscontrava il principio fondante ogni cosa. Come si può vedere, dunque, non ci si può dire sul serio contro o anti qualcosa senza in Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons qualche modo farne parte. Se proprio devo dirla tutta: nutro una sincera antipatia contro tutti gli anti di questo mondo. Siano essi: antipolitici, antireligiosi, anticonformisti, anticristiani e chi più ne ha più ne metta. Bisognerà pure che qualcuno si assuma la responsabilità di essere per qualcosa... siamo tutti buoni a demolire, non altrettanto a costruire. Il mondo in cui viviamo non sa più che farsene dei distruttori, per questo dobbiamo tramutarci in costruttori. L'epoca delle distorsioni del pensiero nietzscheano e del superomismo è finita da un pezzo, esattamente in concomitanza con le due carneficine mondiali. Il niente è parente stretto dell'ente. Il pensiero orientale lo dice da sempre ed è il motivo per cui risulta inconcepibile per la filosofia occidentale, così biecamente dualista. Tutto è uno! Quando questo modo di pensare monista trionferà anche in Occidente, allora sì che potremmo scoprire delle paradossali, ma proprio per ciò tanto più veritiere concordanze tra cristianesimo e nichilismo, come ha fatto Severino e ancor prima di lui Dostoevskij. Soprattutto considerando che il nichilismo è nato in seno al cristianesimo, diventandone il rovescio della medaglia. Semmai occorrerebbe distinguere il cristianesimo originario, da quello della Chiesa che a Cristo afferma di ispirarsi. Il segreto della vita è contenuto nella Sacra Bibbia: polvere siamo e polvere torneremo. Un insegnamento, questo, che si direbbe nichilista. Tuttavia c'è un modo per sfuggire alla tentazione nichilista: perdere il controllo! L'uomo da sempre si è posto il problema dell'aver tutto sotto controllo. Sfido chiunque ad ammettere di non essere schiavo della parola: controllo. La maggior parte di noi cerca in tutti i modi di controllare ogni situazione della sua vita e per far ciò finisce nel circolo vizioso del nichilismo, che come il veleno di un serpente paralizza le nostre sinapsi cerebrali, togliendoci la lucidità del pensiero. Tutti temiamo l'ignoto, ovvero quel che è fuori dalla nostra portata. Ma se ci pensiamo bene: a noi nulla è noto, e ciò significa che non abbiamo niente sotto controllo. Pensare il contrario è “l'illusione delle illusioni”, la suprema illusione potremmo dire. La verità è ben diversa. Ovvero che tutti: nasciamo, viviamo e infine moriamo... Per Martin Heidegger la morte altro non è che l'evento per eccellenza, che tutti aspettiamo e che fonda l'autenticità stessa delle nostre vite, tutte – senza eccezione alcuna – incentrate sul niente, che come ho già detto: è parente stretto dell'ente. Per ciò la filosofia heideggeriana viene collocata nell'orbita nichilista e forse è per lo stesso motivo che ha simpatizzato con l'evento di gran lunga peggiore del Novecento: l'ideologia “criminale” nazista. Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons Penso che il nichilismo di Heidegger affondi le proprie radici nella filosofia del non-sapere socratica. Per cui, citando a memoria Socrate dalla sua Apologia: «Non si può sapere chi di noi vada verso il meglio, se io a morire o voi a vivere». Come se morte e vita fossero per lui le due facce della stessa medaglia, impastate nello stesso elemento. Il “figlio del Caos” Nietzsche pur nella sua nominale presa di distanza da Socrate, non poté non convenire con lui su molti punti, tra cui l'origine della vita dal brodo primordiale. Nietzsche – sulle orme della mitologia greca – credeva che il Caos fosse la scaturigine di ogni cosa. Quindi riteneva che dal nulla si fosse originato il tutto. Per quanto può sembrare paradossale anche la scienza sembrerebbe convenire su questo... basta menzionare: 1) la legge della termodinamica di Lavoisier; 2) la teoria del Big Bang, seconda la quale l'Universo da noi abitato sarebbe scaturito da una caotica espansione degli elementi, che hanno poi originato il sacro e inviolabile mistero della vita. La mitologia greca di cui è debitrice Nietzsche dovette le sue idee al vicino Oriente, nella fattispecie al pensiero orientale, che insegna per paradossi secondo una logica anch'essa paradossale. Dal non-essere per un orientale può essere derivato l'essere semplicemente perché questi non si pone i limiti imposti dalla logica parmenidea-aristotelica occidentale, infischiandosene del principio di non contraddizione. L'Hagakure insegnava ai samurai che la loro vita era appesa a un filo sottilissimo, che avrebbe potuto spezzarsi da un momento all'altro, a causa di: un colpo di spada, di lancia o di pugnale; per una frecciata colta nel pieno della mischia; per una banale rissa in taverna; per avvelenamento; e così via. Ergo: i samurai invece che piangersi addosso e pensare al loro inevitabile destino, proprio sapendo di poter morire da un momento all'altro si liberarono dal pensiero della morte, ancor peggiore della morte stessa! Sull'esempio dei samurai, rimango convinto che quello del controllo sia un falso problema per l'uomo; solo perdendolo, infatti, potremmo vivere e assaporare appieno il gusto dolce-amaro della vita. 4. Il nichilista buono La scienza non perde occasione per ricordarci che la vita è un evento casuale. A quanto pare... esistiamo per caso e saperlo non ci fa di certo stare meglio, eppure tant'è. Non basta tutto l'umorismo delle battute di Woody Allen per indorarci la pillola: esistere per caso è una spiacevole verità. E si sa come noi uomini siamo più inclini a credere a ciò che è piacevole, anche se dovesse essere un inganno, com'è secondo alcuni la religione. Non secondo me, però, e i motivi che adduco Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons per una difesa a oltranza della religione è che nel dubbio trovo molto più auspicabile supporre una che i giusti verranno ricompensati e gli ingiusti puniti, se non in questa vita perlomeno nell'altra. Pur con tutta la buona volontà, ho smesso di credere che sia possibile una giustizia terrena, hic et nunc. Crederla possibile questa sì che è una piacevole menzogna, ancor più menzognera di chi crede ingenuamente in una giustizia ultraterrena. Con ciò, non dico che alcuni colpevoli non vengano puniti, qui e ora, ma di sicuro non tutti i farabutti ricevono, su questa Terra, ciò che si meritano, purtroppo. Credete come vi pare, personalmente trovo sia ancora ragionevole sperare in una vita migliore che ci ricompensi dei torti subìti in questa. Forse è una favoletta per poppanti o forse no, chi può dirlo con certezza? E in un contesto del genere, oggi come ieri molto dubbioso, non ci resta che crogiolarci nel dubbio. A differenza di Nietzsche accolgo volentieri l'ipotesi di un Dio universale, capace di affratellare tutti gli uomini ed essere per essi un ponte, non una barriera. Certi atei “incalliti” prendono a mo' di esempio le malefatte delle religioni nel corso della storia per auspicare l'inesistenza di un sommo Dio-giudice. A costoro rispondo: fate bene a ricordarci le vittime cadute in nome della religione, ma d'altro canto senza di essa non è detto che non ce ne sarebbero state di più. Secondo me dietro le guerre di religione si cela sempre gli unici veri e intramontabili due motivi di tutte le guerre: il denaro e il potere (quasi sempre collegati l'uno all'altra). A volte si può e deve dubitare legittimamente delle istituzioni religiose (qualora si rintracci la presenza deturpante di questi due elementi: smania di ricchezza e derive autoritaria), ma giammai della buona fede della religione. Nulla può inficiare le buone opere compiute da tutte le religioni del mondo, il cui merito più grande è stato quello d'impedire il trionfo del karamazoviano tutto è permesso; poiché se lo fosse davvero... altro che guerre di religione, l'umanità si sarebbe già autoannientata! La presenza del male nel mondo non può servire da giustificazione per l'inesistenza di Dio. D'altro canto la religione stessa c'insegna che insieme al bene c'è anche il male, che è inestirpabile in quanto mette radici profonde persino nel più innocente di noi. Se scavassimo a fondo scopriremmo che nessuno di noi è del tutto buono... persino il più virtuoso, infatti, non può sfuggire al più elementare dei peccati: la vanità. Da San Francesco a Cesare Borgia non c'è cristiano che sia scampato ad essa. Certo, il secondo ha collezionato altri peccati ben più efferati: stupro, omicidio, tortura, congiura (l'elenco sarebbe molto più lungo). Ciò non toglie, però, la matrice comune dell'essere umano, ovvero la vanità stessa, che tutti possediamo in grande o piccola misura. Chi dice Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons di non possederne affatto e di annientarsi per gli altri è anch'esso affetto da un'infinitesimale punta di vanità: l'autocommiserazione. Chi di noi non si è almeno una volta autocommiserato in vita sua? A me è capitato alcune volte e non ho problemi ad ammetterlo. Autocommiserarsi è sintomo di vanità, poiché chi si abbandona a questo esercizio lo fa pensando di essere superiore agli altri e di non meritare le stesse miserie che gli altri – loro sì comuni mortali – si trovano a dover affrontare. Perciò quando capitano a noi esse ci sembrano immeritate e infinitamente ingiuste, dall'alto della nostra incrollabile vanità. È pur sempre vero, tuttavia, che la vanità stessa è ciò che tiene unito il nostro io. Se essa scomparisse, poveri noi. È ciò che ci permette di volerci bene nonostante tutto. Chi non si vuol bene almeno un po' e rinuncia alla vanità potrebbe arrivare finanche a farsi del male. Il nichilista buono come Drugo non c'è dubbio che si voglia bene, beandosi della sua completa inoperosità. Lo stesso c'intima di fare l'incompreso Nietzsche, che per sua sfortuna è passato per nichilista cattivo, quando in realtà la sua filosofia aveva come manifesto il volersi bene infischiandosene di tutto e di tutti, fin tanto da ingoiare il veleno esistenziale per poi sputarlo fuori, rinascendo a una vita attiva, cioè voluta, e non più passiva, ossia subìta. Ricapitolando, dunque, la volontà di potenza nietzscheana può anche andar bene, purché però si rispetti il precetto universale della religione che è e non potrebbe essere altrimenti, a seconda positivo o negativo: positivo, fai agli altri quello che vuoi sia fatto a te; negativo, non fare agli altri ciò che non vuoi ti venga fatto. Collettivo Idra © 2013 - I diritti dei testi di questo sito appartengono ai legittimi proprietari e i contenuti sono distribuiti con licenza Creative Commons