02 frontespizio - Richard e Piggle

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02 frontespizio - Richard e Piggle
60 L. Baldassarre: L’emergere della pubertà in un Sé fragile: breve storia clinica di un paziente di undici anni
L’emergere della pubertà in un Sé fragile:
breve storia clinica di un paziente di undici anni
LUCREZIA BALDASSARRE
Sono gli istinti, i sentimenti che costituiscono la sostanza dell’anima.
La cognizione è solamente la sua superficie, il punto di contatto
con ciò che sta al di fuori di essa
C.S. Peirce, 1898
Crescere è per natura un atto aggressivo
D.W. Winnicott, 1950
Paolo ha undici anni e mezzo e mi è stato inviato dal suo pediatra per
“problemi di linguaggio”. Soffre di balbuzie “da sempre”: quando ha cominciato a parlare a due anni e mezzo era dislalico, dai quattro ai sei anni ha
seguito un trattamento di logopedia e a cinque anni è cominciata la balbuzie che di recente si è acuita andando a coinvolgere in maniera massiccia
anche la sua mimica facciale. Di Paolo i genitori riferiscono che non vuole
crescere. È molto selettivo nella scelta del cibo. Non vuole mai assaggiare
niente di nuovo, mangia poche cose e quasi tutte bianche. Ha raggiunto il
controllo dell’evacuazione prima dei tre anni ma ha sofferto e soffre tuttora,
occasionalmente, di stipsi. Ultimamente ha fatto una scenata ai genitori che
gli avevano raccomandato di usare un deodorante per coprire il suo odore di
sudore. Non ha amici e, sebbene secondo i genitori non abbia difficoltà scolastiche e abbia un buon rapporto con gli insegnanti, a scuola non socializza
quasi per niente. A detta del padre, “lui è più avanti degli altri, dei suoi compagni e, dunque, con loro si scoccia. Lui è più intelligente”. Le sedute con la
coppia dei genitori sono state connotate da uno sfondo ambivalente e dalla
presenza di un’aggressività strisciante che mi è apparsa da subito entrare
in gioco rispetto alla possibilità di intraprendere un percorso terapeutico del
figlio. Tuttavia, nell’ambito della consultazione, sembrava esistere un’alRichard e Piggle, 16, 1, 2008
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leanza con me rispetto all’aiuto per Paolo, alleanza basata sulla preoccupazione per il sintomo così invalidante: entrambi percepivano, infatti, la sofferenza del figlio (“anche se lui non la racconta”) ed erano desiderosi di aiutarlo ad alleviarla. Avevo comunque nella mente la necessità di avviare al
più presto, un lavoro con la coppia, difficile però da programmare, a causa
dei frequenti viaggi all’estero, per motivi di lavoro, del padre di P.
Il bisogno di aiuto espresso apertamente da Paolo ha costituito il perno
iniziale della psicoterapia. Il ragazzino sembrava consapevole delle sue difficoltà più di quanto lo fossero i suoi genitori, tanto da imporre all’intera
famiglia di tornare prima dalle vacanze natalizie per venire alle sedute.
Scrive Winnicott: “È come se segretamente egli (il paziente) chiedesse
al terapeuta che questi gli conceda un’opportunità o… la fede (belief in
human nature) in questo processo”; ciò “implica in maniera preminente,
quando si tratta di un bambino, la prospettiva del futuro” (Schacht 2001).
Paolo e io ci siamo visti regolarmente per due volte alla settimana per
tre mesi e mezzo fino a quando, dopo le vacanze di Pasqua, la terapia è stata
traumaticamente interrotta dal padre per telefono senza alcuna possibilità
di replica, senza neanche salutarsi. Ritornerò su questo aspetto nella parte
finale di questo scritto.
Quando lo vedo per la prima volta, Paolo ha un’aria spaesata: sta vicino
alla madre sulla soglia. Mamma e figlio entrano nell’ingresso dello studio
e la mamma dice al figlio: “Dài, vai !”. Lui la guarda e guarda me. Gli dico
il mio nome e gli chiedo il suo. Risponde sicuro: “Paolo”. Gli chiedo se se la
sente di venire con me. Annuisce e la mamma lo saluta. Ho l’impressione
che abbia come l’urgenza di lasciarlo a me, tanto che mi sorprendo a ricordarle l’orario di fine seduta.
Entriamo nella stanza, mi siedo al mio posto. C’è silenzio, P. rimane in
piedi per qualche secondo e poi si siede di fronte a me. Il suo sguardo è
intenso e sperduto, preoccupato. Ha dei leggeri tic oculari e ogni tanto
muove la bocca suo malgrado. Fenichel (1945) scrive che “l’espressione del
viso è da considerarsi come un involontario equivalente degli affetti che,
per mezzo dell’empatia, informa gli altri sulla natura dei sentimenti del
soggetto”. Rimango colpita dalla quantità di disorientamento che P. mi
comunica, già a prima vista, attraverso il suo sguardo spaventato e le
numerose contrazioni del viso. Registro una richiesta molto intensa di vicinanza che mi coinvolge e mi preoccupa: sembra disperato.
Paolo ha molte difficoltà nel parlare: quando non riesce a dire una parola si
blocca, gira la testa verso sinistra e, quasi per darsi forza, la muove fino a
quando non riesce a pronunciarla. Quando si blocca, non ripete la parola o
la sillaba. Nel silenzio, rimane con la bocca aperta e con il collo contratto: fa
dei piccoli movimenti fino a quando riesce nuovamente a emettere il suono.
Dopo un’iniziale difficoltà, che si andrà sciogliendo nel corso della seduta,
P. mi racconterà molte cose. Non ha amici: in questo senso la scuola eleRichard e Piggle, 16, 1, 2008
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mentare è stata “un incubo”. Adesso va “un po’ meglio”, frequenta la prima
media e ha “quasi dodici anni”. Appare sovraccaricato dalle numerose
richieste che sente arrivare sia da parte delle maestre (“moltissimi, troppi
compiti”) che dai genitori, “…in fondo eravamo in vacanza, eppure sciavamo tutti i giorni dalle nove alle cinque con papà”. Potevo, sin dall’inizio,
cogliere un dialogo conflittuale interno tra un Super-io severo e aggressivo
che controlla, inibisce e paralizza e i moti pulsionali che faticano a fluire.
Mentre parla, mi viene in mente l’immagine di Atlante che deve tenere
tutto il mondo sulle sue spalle; faccio un commento in questo senso e, a questo punto, forse sentendo accolto e compreso il suo vissuto di sovraffaticamento, mi guarda attonito e, dopo un breve silenzio, mi racconta del canottaggio. È un’attività che frequenta controvoglia, a me suggerisce
un’immagine di un sé fragile, traballante: si descrive nella sua “canoa a un
posto, instabile” che oscilla nell’acqua e per di più “con il Tevere che si alza
e si abbassa” senza alcun preavviso. “Copre gli argini: e dunque come si
fa?”. Mi spiega, inoltre, che “il Tevere puzza” e anche la pizza che ha mangiato ultimamente “puzzava”. Osservo che “dev’essere schifoso mangiare
qualcosa che puzza”. Paolo sorride ed esclama: “Eh già!”.
Nello scrivere i primi appunti di questa seduta, avevo omesso questa
parte e me ne ero accorta solo rileggendola. Questo mi ha fatto riflettere
sulla fatica che P. deve fare per veicolare la sua immagine di “canottiere fragile e instabile”, sia internamente che con i suoi genitori. Canottiere che preferisce rifiutarsi di andare a canottaggio piuttosto che affrontare quelle
acque minacciose e fuori controllo, segnalando quanto questa instabilità lo
spaventi e quanto sia per lui difficile riuscire a navigare. Sembra che, a un
livello più profondo, la sua richiesta di aiuto sia legata al seguente interrogativo: come faccio a rimanere stabile nella mia canoa (mantenere un’integrazione) mentre il Tevere si alza e si abbassa a mia insaputa (aspetti legati
alla pubertà), senza avere nulla su cui puntellarmi quando gli argini vengono coperti (aspetti collegati ai limiti e alla conseguente differenziazione
dall’oggetto primario)?
Mi è stato subito chiaro come la sintomatologia di P. s’intrecciasse,
come un’edera invadente, al corso della sua crescita. Inoltre, P. collega il
Tevere che puzza e il cibo puzzolente. Mi viene in mente l’espressione “questa cosa puzza’’ per intendere “c’è del marcio” o “qualcosa non mi torna’’.
Oltre a segnalarmi le difficoltà primarie legate all’alimentazione, che
potremmo collegare alla preoccupazione della madre di averlo “allattato
troppo’’, cioè, tenuto troppo a sé (cosa che mi sembra rappresenti un’insight in rapporto alla qualità della loro relazione, che include il senso di tappargli la bocca), il riferimento all puzza sembra aprire uno scenario
rispetto a quanto le sue fasi libidiche siano state “puzzolenti’’, intruse, cioè,
da qualche cosa di sadico che le permea, dal quale P. si deve difendere e
che si manifesta tanto nel sintomo del linguaggio che si interrompe, quanto
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nel rifiuto del cibo. Si può notare come questo aspetto intrapsichico e il dialogo interno si inseriscano nel contesto dell’ambiente familiare all’interno
del quale i genitori gli propongono di mettersi il deodorante che, si sa, copre
l’odore.
Scrive Anna Freud (1971 p. 1128): “Con il crescente sviluppo dell’Io, il
funzionamento del processo secondario e la verbalizzazione avvengono
importanti cambiamenti nei canali attraverso i quali l’aggressività è scaricata [...]. Le parole da allora in poi dovrebbero prendere il posto dell’azione muscolare. Quindi, il piacere del bambino più grandicello nell’usare
parole ingiuriose che simultaneamente servono alla difesa contro l’analità
e l’aggressività’’. Considerando il sintomo che affligge Paolo, da quando ha
cinque anni, come un blocco dei moti pulsionali in cui la trasformazione del
linguaggio è interferita, sembra evidente come la possibilità di svolgere l’evento evolutivo di affrancarsi dalla sua base pulsionale sia ora ulteriormente complicata dall’istintualità emergente legata all’avvento della
pubertà. Penso che per P. si possa parlare di una ‘pseudo latenza’ (Arnoux
1999) nella quale, come nel film di François Truffaut I quattrocento colpi,
uno scolaro, anziché scrivere sul suo quaderno, ne strappa in continuazione le pagine perché le sporca con l’inchiostro. Questo sporcarsi impedisce di scrivere così come per P., durante la latenza, sembra che non sia
stato possibile scrivere una parte della sua storia perché il bambino si sentiva continuamente sporcato, intruso e intriso di qualche cosa di puzzolente che impediva la sua possibilità di esprimersi. L’interruzione del linguaggio si manifesta, ora, anche somaticamente. Questo mi fa pensare a
quanto P. sia stato malato anche durante la latenza e che i suoi disagi non
hanno favorito la costituzione del suo senso di Sé che, “tra le altre cose,
nasce e viene sostenuto in un rapporto di feedback e dalla necessità di mantenere quell’integrazione somato-psico-mentale’’ (Carratelli, Lanza, Ardizzone 2000, p.1).
Da subito mi sono dovuta confrontare, all’interno della relazione terapeutica con P., con gli aspetti puberali che acuivano l’istintualità e che,
andando a risignificare e a risessualizzare gli aspetti infantili, generavano
un continuo andirivieni fra spinta in avanti e regressione.
Nella seconda seduta P., appena entrato nella stanza, si sbottonerà il
primo bottone della camicia, lasciando libero il collo e tirando un sospiro di
sollievo. Ripeterà questo gesto per alcune sedute. Il gioco del calcio ci accompagnerà nel corso di tutte le sedute fino al momento dell’interruzione,
subendo nel tempo alcune trasformazioni. Il campo, (Disegno n. 1) è in un
primo momento costituito dalla superficie del tavolo su cui P. segna con il
nastro adesivo le linee di gioco: bordi, area, e porte. Un contenitore viene
sistemato per accogliere le palle entrate in rete.
Un passaggio significativo: dall’iniziale staticità (ognuno aveva il suo
lato e più che altro erano le mani a muoversi) la mobilità lungo il campo di
gioco è cresciuta. Correvamo con una certa energia su e giù per il campo, e
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Disegno 1
il corpo è entrato in scena. Da questo punto di vista, sono stata chiamata in
causa da P. a lottare con un “Dài, fatti sotto!’’. I punti vicini alla porta erano
aree calde nelle quali si verificavano continue ‘punizioni’ e ‘rigori’. Abbiamo
definito lo spazio centrale come quello di ‘libertà di lotta’ poiché, inizialmente, tutte quelle linee non permettevano di giocare: il movimento era
continuamente ostacolato. Appena c’è stato più movimento, è emerso il
bisogno di Paolo di dominarmi completamente: poteva decidere solamente
lui quando erano validi i gol, annullava smaccatamente quelli miei validi e
realizzava il cosiddetto ‘supercappottone’. Diventando io il suo oggetto soggettivo (Winnicott), la terapia ha progressivamente fornito, da questo
punto di vista, un clima regressivo nel quale P. sembrava recuperare delle
buone sensazioni per sé e un luogo in cui la regolarità fornita dal setting
(anche se lui veniva spesso in anticipo ed io lo facevo aspettare) ha, inizialmente, fornito un contenimento. I suoi tic labiali e oculari erano scomparsi:
in questo senso potremmo ipotizzare che le contrazioni possano essere “un
auto-holding che tramite l’aspetto corporeo contiene impulsi ed emozioni’’
(Sapio p. 339).
Nel complesso le sedute erano completamente occupate da questo gioco
sovraeccitato. La sua modalità nel parlare e nel movimento della testa era
costante. Il suo bloccare la testa verso sinistra lascia evocare un blocco nel
passato, che impedisce l’opportunità di guardare al futuro (Costis 2005).
Riporto per intero una seduta particolarmente esemplificativa in questo
senso dopo circa un mese di terapia.
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Paolo arriva con dieci minuti di anticipo e io lo faccio aspettare in sala d’attesa. Quando lo vado a prendere, lo trovo seduto che gioca con il cellulare.
Già sulla porta, tira fuori una nuova pallina di gomma che ha portato.
Da qualche seduta c’è un’alternanza fra il giocare a calcio con il tappo del
pennarello e alcune palline di gomma che lui porta. Nella seduta precedente P. mi aveva esplicitamente detto che lui aveva tante palline diverse
e che me le voleva far vedere. Nel corso della settimana successiva, sceglierà una pallina di gomma blu che lascerà e che diventerà la nostra pallina per giocare.
Lo scotch è quasi finito e P., nel finirlo, mi chiede nuovamente come faremo
le prossime volte per attaccare le porte e segnare il campo. Dicendomi questo, balbetta parecchio. Ha un’aria spaventata e sento di doverlo rassicurare sulla continuità del nostro gioco. Gli ricordo che eravamo rimasti d’accordo per prenderne dell’altro e che l’altra volta avevamo optato per quello
di carta, che si sarebbe visto di più, se lui era ancora d’accordo su questo.
“Ah sì, sì è vero, va bene’’. Quando dice questo, non balbetta. Mentre giochiamo, fa delle puzzette (accade spesso: penso all’eccitazione che gli procura il giocare misto al controllo legato all’analità, ma scelgo di non parlarne: sento che è ancora troppo presto per affrontare l’argomento). Il
campo di gioco è segnato sempre dalle stesse linee che, oggi in particolare,
ostacolano ancora di più il gioco, che è costellato da continue punizioni nei
miei confronti, fino a quando una mia mano viene ‘ammonita’: dovrò giocare con una mano sola. “Fallo! Fallo! Punizione!’’. Mentre giochiamo, sempre con un certo vigore, P. non balbetta durante la sua “telecronaca” della
partita. Fa di tutto per non subire un gol e, quando io di fatto non riesco a
segnare, dice “muro impenetrabile!’’. C’è sempre il ‘supercappottone’ in atto
nei miei confronti: segna solamente lui. Quando io insisto con la mano, P.
ripete “un po’ di privacy... un po’ di privacy...’’.
Il tutto è abbastanza concitato e non è possibile un dialogo fino a quando
lui comincia a parlare un linguaggio strano, nel quale non si capisce niente,
ma il tono delle voce esprime un rimprovero. Sembra un papero. Inizialmente rispondo nello stesso modo, uso il suo linguaggio e poi esclamo: “Ma
questo è un linguaggio da papero!’’. Lui sorride e insiste muovendo anche
le mani (puntando il dito) come a farmi vedere ciò che non va. Io: “Questo
papero è arrabbiato’’. Mi guarda. Questo ci permette di stabilire il limite
fra quello che il portiere può fare o non fare. Il gioco riprende. Per un po’
sembriamo due cuccioli che giocano, ci divertiamo, è la prima volta che giochiamo, e poi lui viene vicino alle mie mani.
Dopo il nostro contatto si ferma, si distanzia da me ancora di più (c’è sempre il tavolo fra di noi) occupando un altro spazio della stanza. Come
facendo un passo di danza, intona un motivo pop: “Un movimento sensual…’’. Mi dice che è stanco. Commento che abbiamo fatto una partita
intensa, che forse si vuole riposare. Si siede sulla sedia, assume una posizione rilassata. Anch’io mi siedo al mio posto. Commento: “Paolo si riposa’’
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e poi c’è silenzio. Sento importante il tavolo che ci separa: segna un limite
entro il quale lui può accedere, senza spaventarsi troppo, a un’area più privata, personale. Io posso stare insieme a lui, silenziosamente. Penso all’importanza della discrezione rispetto al “movimento sensual”. Poiché ha difficoltà al momento di separarsi, lo avviso con un po’ di anticipo del termine
della seduta. Mi dice che non vuole andarsene: «Questo orologio è farlocco».
Chiedo se deve tornare a casa da solo. Mi dice di sì e comincia a giocare con
il cellulare. Gli dico che ci gioca quando si sente solo (penso che ci giocava
anche quando era in sala d’attesa). Gli dico che penserò a lui mentre
prende l’autobus e che, forse, nel tragitto giocherà con il cellulare.
Risponde che non può perché si sente male nell’autobus e non ce la fa. «Sai,
mia sorella non la sopporto… Rompe le palle tutti i giorni». La seduta è
proprio finita.
Gutton (2000) nel suo Psicoterapia dell’adolescenza mette in luce come
il pubertario non nasce dall’infantile, ma nel corso dell’infanzia e l’importanza, affinché emerga, del fatto che non sia spezzata la continuità con l’infantile. Credo che questa seduta sia particolarmente esemplificativa in questo senso nella sequenza: ‘un po’ di privacy’ – linguaggio da papero – gioco
infantile (cuccioli) – diversa connotazione delle mani che si toccano – ‘un
movimento sensual’. Specificamente, possiamo ipotizzare che P. mi abbia
fatto vedere quanto la sua balbuzie, che lo affligge da sempre, sia legata al
controllo dell’espressione di aspetti aggressivi che, se fluentemente espressi,
gli fornirebbero la possibilità di separarsi dandogli modo di dire ciò che non
gli piace e ciò da cui si sente invaso, garantendogli dei limiti (ciò che il portiere può fare o non fare) che gli permetterebbero di accedere a elementi più
istintuali, vitali, senza esserne travolto.
In riferimento agli articoli di Winnicott (1945, 1950), nei quali l’autore
parla dell’aggressività come una testimonianza di vita e vitalità che deve
essere fusa con esperienze istintuali collegate con la vita erotica, sembra che
il sintomo di P. sia caricato di impulsi aggressivi anali sadici che lo controllano, come lui controlla me, inibendo e bloccando quella spinta innata verso
l’autorealizzazione. Come scrive Winnicott (1950 p. 248, 249): «In stato di
eccitazione il suo amore (del bambino) può giungere fino a un attacco immaginario al corpo della madre. È questa l’aggressività che fa parte dell’amore.
Lo si può osservare, in una certa misura, come dissociazione, tra gli aspetti
tranquilli e gli aspetti eccitati della personalità, per cui dei bambini, che di
solito sono gentili e amabili, non saranno più loro stessi e compiranno atti
aggressivi contro le persone che amano [...]. Se l’aggressività sparisce si verifica pure una perdita della capacità di amare e, cioè, di stabilire delle relazioni oggettuali».
Per P. c’è il bisogno di controllare e trattenere per la paura della perdita
che sarebbe spaventosa, il che mi fa riflettere sul fatto che ci sia stata una
separazione precoce dalla madre che, di fatto, non gli permette di separarsi
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così come mostra quando regredisce e parla con il linguaggio di papero: suoni
non differenziati che altrimenti implicherebbero una separazione (separazione dei suoni delle parole) che, diventando linguaggio fornirebbero anche
la possibilità di rappresentarla (Lebovici). P. deve, dunque, trattenere il
suono, la parola perché essa, come una lama, andrebbe a tagliare.
Ancora c’è da segnalare anche il bisogno di vicinanza fisica di P.
espresso dalla vicinanza delle mani e dall’espressione “marcaggio stretto”
che userà nelle sedute successive, in relazione alla madre che lo esortava
continuamente a lavarsi le mani, come se il contatto non fosse possibile (è
qualcosa che “sporca”). È come se P. fosse stato maneggiato e trattato come
un bambino che puzza. Nella relazione transferale emerge un controllo su
di me che riproduce il modo in cui egli si è sentito controllato: un modo
sadico, nel quale non c’è neanche separazione fisica, essendo tutti e due
immersi nella puzza.
Nella seduta successiva P. metterà un cerchio centrale e si lamenterà
del fatto che è tutto storto. Però, è la prima volta che rappresenta il suo
Sé! Possiamo ipotizzare una spinta da parte dell’ambiente nei confronti
dell’Io a crescere precocemente ignorando queste aree di non elaborazione.
Da qui l’incapacità di reggere i nuovi compiti, compiti super egoici ai quali
non ha potuto far fronte: anche io devo giocare con una mano sola, specchiando la sua menomazione. Nella sua condizione di difficoltà di linguaggio, P. era costretto a studiare altre due lingue: lo spagnolo e l’inglese.
Sadismo genitoriale? Confusione delle lingue? Rispetto al controllo esercitato su di me, e alle continue punizioni e rigori cui mi sottoponeva, si può
pensare a un tipo di controllo come impossessamento per il terrore della
perdita. Ho pensato spesso a quanto dietro a questo aspetto di tracotanza,
che metteva a dura prova la mia resistenza, ci fosse vivo per Paolo il bisogno di sopravvivenza. Quest’aggressività a me indirizzata, P. la rivolgeva
d’altra parte anche verso se stesso, come era evidente, per esempio, della
sua onicofagia.
Durante il mese successivo c’è stata una discussione e un confronto sul
fatto che ogni volta bisognava ricostruire il campo con il nastro adesivo sul
tavolo. Abbiamo concordato di costruire un campo fisso, di cartone, che verrà
colorato di verde da P. con i pastelli a cera. La foga con la quale il lavoro
viene eseguito testimonia l’importanza, per P., del contatto sensoriale nel
quale il paziente sperimenta che il cartone può essere aggredito senza
danno. Disegno n. 2a fotografia del nuovo campo. Le linee del campo saranno
rosse. Prima di disegnarle, P. mi racconterà che a casa ha osservato bene
come è fatto un campo di calcio su uno dei suoi giochi della Playstation, si
potesse portare a casa qualcosa dei nostri incontri. C’era un principio di continuità dell’esperienza. Si può osservare come il cerchio centrale è minuscolo. Un cerchio con due punti. La maggior parte dello spazio è occupata
dall’area della porta e dalla linea del rigore. Le porte erano esterne: due
parallelepipedi di carta con un lato mancante per poter fare gol.
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Disegno 2 a
Impieghiamo più sedute nella costruzione di questo nuovo campo. Ci
spostiamo dal tavolo al pavimento. Il clima delle sedute diventa meno
maniacale, senza essere occupato solamente dal gioco eccitato ininterrotto,
e sembra esserci anche una dimensione di piacere dell’Io (Winnicott 1971)
che dà corso all’elemento ludico e che richiede una certa sospensione dell’eccitazione. Questo ci fornisce l’occasione di costruire e creare il nuovo
campo di calcio che sembra essere un prodotto del transfert, un rappresentante di qualche cosa che è nato all’interno della terapia, che mette in scena
l’area condivisa fra di noi e in cui si svolgono, si proiettano e sono messi in
scena i movimenti del mondo interno di P. e della relazione di transfert. Il
linguaggio da papero si trasforma nella morra cinese, “carta, sasso, forbici’’,
in cui pronunciamo la frase all’unisono come fosse una canzone, per decidere
chi deve andare a prendere la pallina quando esce dal campo.
Prima delle vacanze pasquali, ho avuto modo di incontrare i genitori di
P. con i quali abbiamo condiviso alcuni cambiamenti del figlio. La mamma
ha riferito che P. ha cominciato a mangiare la carne e non si è più rifiutato
di mangiare la pizza rossa anche se non è esattamente quella che lui ha chiesto. Ha un amico con il quale ha piacere di incontrarsi e con il quale, quando
gioca, non balbetta. Prendiamo in considerazione l’ipotesi di aumentare la
frequenza delle sedute dopo l’estate.
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Come ho già scritto, il giorno in cui P. deve tornare in seduta, dopo le
vacanze di Pasqua, il padre mi annuncia che non sarebbe più venuto. Mi
sento anch’io violentemente tagliata via e, dunque, bloccata proprio quando
la terapia stava cominciando ad avere un ritmo.
A posteriori, potremmo dire che la brusca interruzione sia avvenuta
proprio quando si era stabilita una relazione fra P. e me, in cui lui poteva
essere aiutato a processare la sua aggressività, cosa che, forse, gli avrebbe
permesso di potersi esprimere più liberamente. Purtroppo, mi rendo conto
che non c’è stata una sufficiente alleanza terapeutica con i genitori, avendo
io dato, probabilmente, troppo poco spazio alle loro resistenze. Ho avuto
modo di ripensare a come questo atto sia stato plurideterminato e probabilmente connesso anche con la separazione dovuta alle vacanze. Si può pensare che i genitori di P. abbiano aderito alla proposta della terapia del figlio
con lo stesso stile con cui hanno deciso di interrompere.
Vorrei mettere in relazione la decisione dei genitori al sintomo di P., nel
quale la dinamica della balbuzie rimanda a un’interruzione del ritmo e a un
senso di tentennamento in cui non c’è mediazione fra l’aderire o il lasciare
andare: o si è insieme appiccicati o si ‘molla’. Anch’io ho subìto il trauma in
prima persona, divenendo oggetto di evacuazione e proiezione massiva.
Cogliendomi impreparata rispetto a una interruzione, i genitori di P. hanno
messo anche me in una posizione passiva (quella di subire l’interruzione)
analoga a quella di P. che, reso passivo, esprime l’interruzione nella forma
interrotta del suo linguaggio.
Le vacanze hanno così riproposto il trauma legato alla separazione in
cui non si è preparati ai movimenti dell’altro e non si riesce a tollerare la frustrazione e la rabbia per essere stati lasciati: non c’è lo spazio per potersi
rappresentare la separazione e non se ne può parlare nell’ambito dell’intera
famiglia. Mi sembra importante ricordare, in questo senso, come il padre,
con i suoi continui viaggi all’estero, ammetta come unica possibilità di relazione oggettuale quella discontinua e come questo sia motivo di rabbia non
comunicata da parte della moglie. Infine, rispetto alla questione del venire
da solo alle sedute, in cui inizialmente c’è stata una negoziazione con la
madre, che successivamente gli ha imposto di venire da solo (doveva accompagnare la sorella a danza) mi sono chiesta quanto questa per P. sia stata
una nuova spinta dalla quale si è sentito espulso. Forse una richiesta di crescita troppo veloce in cui la madre sembra avere difficoltà a entrare in contatto con aspetti regressivi del figlio così da permettergli di crescere.
Scrive Arnoux (1999 p. 52-53): “La pubertà allontana dalla quiete, del
tutto relativa, della latenza. L’emergenza pulsionale distanzia i primi
legami con i genitori e queste separazioni possono essere vissute come delle
perdite più o meno accettabili’’. Perdite che in questo caso sembrano reciproche: sia di P. sia dei genitori. Per i genitori hanno forse pesato i loro
traumi separativi inelaborati (unioni precedenti sentite come fallimenti) e il
fatto che la nascita di P. sia stata programmata piuttosto razionalmente,
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lasciando poco spazio all’espressione della pulsionalità. C’è da chiedersi
quanto spazio sia lasciato all’imprevisto e al lasciarsi andare, quale trauma
abbia subìto l’espressione della pulsionalità e quanto interferisca nell’accettare nel figlio l’imprevedibilità e la non controllabilità del corpo che la
pubertà veicola.
Per P. mi sembra interessante ricordare che la sua dislalia è cominciata
quando è nata la sorella e, una volta trattato l’aspetto pedagogico, si è manifestata la balbuzie. Questa si acuisce proprio a ‘quasi dodici anni’ interferendo nel suo processo di soggettivazione, un processo sia cognitivo che emotivo che mette in atto e fertilizza la personalità. L’unica cosa che mi ha detto
il padre per telefono è che volevano fare una terapia specifica anti-balbuzie.
Come a restaurare un aspetto narcisistico: c’è un figlio balbuziente e un
padre che sembra voler aggiustare il pezzo che non va. E una madre che possiamo ipotizzare, attraverso una separazione precoce (riproposta nel non
accompagnarlo alle sedute), lo espelle e così, paradossalmente, lo trattiene a
sé impedendogli la crescita. A quali difficoltà andrà incontro P. nella costruzione della propria soggettività quando, ancora una volta, viene tagliata
fuori la dimensione emotiva? Come sarà interferita la sua adolescenza?
Riconsiderando il materiale e osservando il cerchio centrale (Disegno n.
2b) si possono notare due punti all’interno del cerchio e uno fuori: sembra che
ci sia per P. una colonizzazione dell’oggetto primario dal quale non c’è separazione: l’aggressività, quindi, si rivolge contro se stessi credendo di rivolgerla contro l’oggetto primario colonizzatore. C’è una simmetria fra l’oggetto
interno e l’oggetto esterno che sembra aprire uno squarcio su una zona inelaborabile in cui la difesa è l’intellettualizzazione, l’annientamento, la negazione. Il misconoscimento dell’altro corrisponde al misconoscimento dell’oggetto interno. Il modo in cui la terapia è stata interrotta sembra cancellare
con un colpo di spugna tutto il lavoro fatto fino ad allora. Penso di essere
entrata in contatto con il vero Sé di Paolo quando anch’io sono stata messa
di fronte a questa separazione precoce. Quando ho iniziato a scrivere questo
lavoro, mi è venuta una forte nausea, una sorta di immersione in una lotta
intestina: pensavo di non riuscire a trovare le parole che potessero raccontare e descrivere il caso. Sembra che ci sia una grande angoscia di vuoto:
come quando per esempio P. mi diceva che non aveva portato la pallina o
aveva paura di impiegare più tempo nella costruzione del nuovo campo. Il Sé
è percepito come vuoto (Fonagy – Target, 2005) ed è paralizzato rispetto a
questo oggetto interno. Il dolore è talmente forte che non ci può essere il fluire
dei moti pulsionali. L’andare verso l’oggetto esterno è, quindi, bloccato. Questo ci mostra come P. sia profondamente in contatto con la madre, che non
ha rapporto coi suoi moti pulsionali né tolleranza per l’eccitazione del figlio,
invaso da questa relazione primaria. Non c’è rapporto con la vitalità, non c’è
possibilità di dis-identificarsi e separarsi dall’oggetto invasivo. In questo scenario l’aggressività necessaria alla crescita non ha senso, diventa rabbia narcisistica, si incanala nel controllo sadico dell’oggetto e l’affettività è coartata.
Richard e Piggle, 16, 1, 2008
L. Baldassarre: L’emergere della pubertà in un Sé fragile: breve storia clinica di un paziente di undici anni 51
Disegno 2 b
Riassunto
L’A. riferisce il percorso psicoterapeutico interrotto precocemente di un paziente di 11 anni con un sintomo di grave balbuzie. Il materiale clinico evidenzia le sue
difficoltà a integrare i propri impulsi aggressivi e libidici rimessi in gioco dall’inizio
della pubertà ma anche la remissione dei sintomi, anche se in un breve percorso
terapeutico. L’A. collega le sintomatologie presenti nel paziente anche nella prima
infanzia e nella latenza e le lega ai processi emergenti della pubertà imminente.
Parole chiave: pubertà, balbuzie.
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Lucrezia Baldassarre, psicoterapeuta.
Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence:
Viale Parioli, 54
00197 Roma
Richard e Piggle, 16, 1, 2008