1. La successione nel tempo di norme integratrici del precetto

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1. La successione nel tempo di norme integratrici del precetto
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giurisprudenziali – 2.1. Successione di leggi in ordine alla responsabilità dell’esercente
le professioni sanitarie alla luce del c.d. Decreto Balduzzi (d.l. 13 settembre 2012 n. 158,
conv. nella legge il cui art. 8.11.2012, n. 189) – 2.2. L’adesione all’U.E. di nuovi Paesi: i
riflessi sul reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12 del
d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 – 2.2.1. … e sul reato di omesso allontanamento dal territorio su ordine del questore ex art. 14, comma 5-ter del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (l’intervento delle Sezioni Unite) – 2.3. La modifica della nozione di piccolo imprenditore
di cui all’art. 1, comma 1, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, e i riflessi sui reati fallimentari
(l’intervento delle Sezioni Unite)
1. La successione nel tempo di norme integratrici del precetto penale
In dottrina e in giurisprudenza è ancora aperta, per la mancanza di soluzioni condivise, la disputa inerente all’applicabilità della disciplina della successione di leggi penali nel tempo, così come predisposta dal legislatore
nell’art. 2 c.p. anche nelle ipotesi di modifiche normative che interessino
norme extrapenali (o comunque extraprecetto) richiamate da norme penali in bianco ovvero da elementi normativi della fattispecie (si è visto nella
prima parte del presente capitolo che tale fenomeno viene identificato come
modifica cd. mediata della fattispecie). Il risvolto pratico della soluzione
esegetica che si ritenga di accogliere è di tutta evidenza, sol che si consideri
che dal medesimo dipende la normativa applicabile rispetto ai fatti commessi prima della modifica o dell’abrogazione della norma integratrice.
Le scuole di pensiero, tanto in dottrina che in giurisprudenza, sono essenzialmente quattro.
1.1. La tesi della cd. specificazione
Secondo la tesi della cd. specificazione l’abolitio criminis, fondandosi su una
successione di leggi penali, non potrebbe operare qualora la successione riguardi esclusivamente elementi normativi della fattispecie, poiché la norma
richiamata non integra la norma incriminatrice (la quale, si ricorda, è già
completa), non riflettendosi sulla fisionomia del reato e non contribuendo
ad esprimere l’opzione politico criminale racchiusa nella fattispecie astratta. Peraltro, tale orientamento riconosce natura integratrice sia alla norma
extrapenale richiamata da una norma penale in bianco (che a differenza
della norma contenete uno o più elementi normativi deve considerarsi incompleta e quindi bisognosa di integrazione), sia alla norma definitoria,
ossia quella norma, penale o extrapenale, attraverso la quale il legislatore
chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatici,
concorrendo ad individuare il contenuto del precetto penale. Pertanto, la
modifica di tali due tipologie di norme comporta una successione di leggi
penali rilevanti ex art. 2 c.p. (ad esempio, si è osservato, che una modifica
della norma definitoria tale da restringere l’ambito dell’incriminazione de-
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termina una parziale abolizione del reato con efficacia retroattiva, ex art. 2,
co. 2, c.p., rispetto ai fatti commessi prima della modifica).
Tale impostazione è stata accolta anche in giurisprudenza. In una pronuncia della Cassazione si è sostenuto che l’istituto della successione delle
leggi penali (art. 2 c.p.) riguarda la successione nel tempo delle norme incriminatrici ovvero di quelle norme che definiscono la struttura essenziale
e circostanziata del reato. Nell’ambito di operatività dell’istituto in esame
non rientrano, invece, le vicende successorie di norme extra-penali che non
integrano la fattispecie incriminatrice nè quelle di atti o fatti amministrativi che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non
implicano una modifica della disposizione sanzionatoria penale, che resta,
pertanto, immutata e quindi in vigore. Ne consegue che la successione di
norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento e che, in tale ipotesi, non viene meno il disvalore penale del fatto
anteriormente commesso (cfr. Cass. 19.3.1999, n. 5457) fattispecie relativa
ad esercizio di attività venatoria vietata da una legge regionale al momento
della commissione del fatto, e successivamente consentita in virtù di abrogazione della medesima legge). Il medesimo principio di diritto è espresso
in un’altra decisone della Corte ove si legge che la disciplina relativa alla
successione delle leggi penali non si applica alla variazione nel tempo delle
norme extra-penali e degli atti o fatti amministrativi che non incidono sulla struttura essenziale e circostanziata del reato, ma si limitano a precisare
la fattispecie precettiva, delineando la portata del comando, che viene a
modificarsi nei contenuti a far data dal provvedimento innovativo; in detta
ipotesi, rimane fermo il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il relativo controllo sanzionatorio va effettuato
sulla base dei divieti esistenti al momento del fatto (cfr. Cass. 12.3.2002, n.
18193, principio affermato in tema di responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all’art. 17 della legge 4 marzo
1990 n. 107, configurato per inosservanza di norme regolamentari contenute nel D.M. 27 dicembre 1990, poi sostituito dal D.M. 25 gennaio 2001;
nello stesso senso Cass 25.10.2006, n. 2604, per cui, in tema di infortuni
sul lavoro, poiché le norme che disciplinano gli obblighi dei soggetti cui è
affidato il compito di tutelare la salute dei lavoratori non hanno funzione
integratrice del precetto penale, ma quella di individuazione delle persone alle quali incombe il dovere di osservare e far osservare le regole di
cautela, la loro modificazione nel senso di rimodulazione degli obblighi di
tutela non ricade sotto la disciplina della successione delle leggi penali nel
tempo e non può quindi avere come effetto quello di rendere legittima una
condotta precedentemente vietata in vista della valutazione della responsabilità penale dell’imputato (nella specie il coordinatore per la progetta-
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zione e l’esecuzione dei lavori, al quale era stata contestata la violazione
dell’obbligo di assicurare l’osservanza del piano di sicurezza a norma del
D.Lgs. n. 494 del 1996, pretendeva, in relazione ad infortunio occorso prima delle modifiche introdotte al citato decreto con D.Lgs. n. 528 del 1999,
che si applicasse l’art. 5 di quest’ultimo, secondo il quale non è più previsto
l’obbligo di “assicurare”, ma solo quello di “verificare” l’applicazione delle
disposizioni impartite dagli appaltatori).
1.2. La tesi della cd. incorporazione
Altra tesi è quella dell’incorporazione per cui i casi di modifica mediata
vanno tutti ricondotti nella disciplina dell’art. 2 c.p., facendo leva sull’incorporazione della disposizione integrativa dell’elemento normativo nella
stessa norma incriminatrice, così come sull’incorporazione della norma che
integra il precetto della norma penale in bianco. In altre parole, la disposizione integratrice, essendo esplicitamente o implicitamente richiamata dalla
norma incriminatrice, finisce per far corpo con essa. L’art. 2 c.p., secondo questa tesi, riguarda tutte le norme che costituiscono il necessario ed
indispensabile presupposto della norma incriminatrice o che concorrono a
determinarne, anche parzialmente e implicitamente, il sostanziale contenuto. In ossequio a tale tesi in giurisprudenza si è sostenuto che per norma
incriminatrice, rilevante ex art. 2 c.p., si intende la norma che definisce la
struttura essenziale e circostanziale del reato, comprese le fonti extrapenali che contribuiscono ad integrare la fattispecie penale. Pertanto qualsiasi
modifica delle fonti integratrici comporta un mutamento della norma incriminatrice, mutamento che è disciplinato dai principi stabiliti dall’art. 2 cod.
pen. (cfr. Cass. 29.12.1998, n. 4176, fattispecie in tema di liberalizzazione del
prezzo di vendita del pane operato con la delibera CIPE del 3 agosto 1993,
che ha così modificato il contenuto precettivo dell’art. 14 del d.lgs. c.p.s. n.
896/1947, che punisce gli esercenti che pongono in vendita merci a prezzi
superiori a quelli stabiliti).
Questa tesi è stata seguita anche dalle Sezioni Unite nella sentenza del
23.5.1987, Tuzet, in materia di qualifica soggettiva degli operatori ban‑
cari, rispetto al reato di peculato per distrazione ex art. 314 c.p. (testo originario). Secondo tale sentenza, talvolta richiamata da altre decisioni per
suffragare le conclusioni a cui pervengono, per legge incriminatrice deve
intendersi il complesso di tutti gli elementi rilevanti ai fini della descrizione
del fatto e, tra questi elementi, nei reati propri è indubbiamente compresa la
qualità di soggetto attivo. Pertanto, se la novatio legis (cioè la privatizzazione tout court dell’attività bancaria, senza distinzioni tra istituti di credito di
diritto pubblico o privato) riguarda la qualità del soggetto attivo, nel senso
che, come accaduto nel caso all’esame della decisione, fa venire meno in capo
al dipendente bancario di un istituto di credito di diritto pubblico la qualità
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di incaricato di pubblico servizio, necessaria per integrare il reato di peculato, non può non applicarsi in favore del dipendete medesimo il principio di
retroattività della legge più favorevole affermato dall’art. 2 c.p.
Significativo, nell’ambito della tesi in discussione, è il caso tratto da una
recente decisione di legittimità, intervenuta in ordine al reato di esercizio
di attività venatoria nei parchi, nella quale la Corte ha ritenuto che la
riperimetrazione della riserva naturale ad opera di un provvedimento amministrativo della Regione (nella specie Sicilia) faccia venir meno il reato,
rispetto al fatto commesso prima della riperimetrazione, in quanto risulta successivamente mancante la qualifica di parco dell’area di svolgimento dell’attività venatoria, elemento costitutivo della condotta punibile (cfr.
Cass. 1.2.2005, n. 9482). Secondo tale pronuncia ai fini dell’applicazione
dell’art. 2 c.p. deve tenersi conto anche di quelle norme che pur non ricomprese nel precetto penale, ne costituiscono tuttavia l’indispensabile presupposto o concorrono comunque a determinarne il contenuto (nella decisione
poi si precisa, ammiccando più o meno consapevolmente alla tesi che dà
rilevanza al disvalore penale, sui cui si dirà in seguito, che «Nella fattispecie,
è certamente applicabile l’art. 2, c.p., in quanto l’abolizione della fonte subprimaria
integrativa dell’ipotesi criminosa ha avuto l’effetto di annullare il disvalore penale
rispetto al concreto fatto contravvenzionale commesso, giacché è venuto a mancare
uno degli elementi costitutivi della condotta punibile (qualifica di parco dell’area Cass. 3^, n. 8454/99»).
Accoglie ugualmente la tesi in esame un’altra pronuncia del Supremo
Collegio in tema di violazione di domicilio (Cass. 8045/2005). Si sostiene
nel dictum che nel novero delle norme integratrici della legge penale, cui
è applicabile il principio di retroattività della legge più favorevole, ai sensi
dell’art. 2 comma 3 c.p., debbono ricomprendersi tutte quelle che intervengano nell’area di rilevanza penale di un fatto umano, escludendola, riducendola o comunque modificandola in senso migliorativo per l’agente; e ciò
quand’anche la nuova norma non rechi testuale statuizione in tal senso ma,
comunque, regoli significativamente il fatto in termini incompatibili con la
precedente disciplina penalistica ovvero incidenti, per il nuovo caso regolato, nella struttura della norma incriminatrice o, quanto meno, sul giudizio
di disvalore in essa espresso. (Nella specie, in applicazione di tale principio,
la Corte ha ritenuto che potesse valere ad escludere la configurabilità del
reato di violazione di domicilio — addebitato ad un esponente di un’associazione per la tutela degli animali per essersi egli introdotto e trattenuto,
per dichiarate finalità ispettive, contro la volonta del proprietario, in un locale privato adibito a canile — la sopravvenuta emanazione di una norma
regionale che imponeva ai gestori di strutture di ricovero per animali di
consentire l’accesso, senza bisogno di speciali procedure o autorizzazioni, ai
responsabili locali delle associazioni protezionistiche o animalistiche).
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Alla medesima conclusione della tesi dell’incorporazione alcuni autori
pervengono per altra via, e cioè sottolineando che il concetto di “fatto” non
può non assumere il medesimo significato tanto nel comma 1 che nel comma
2 dell’art. 2 c.p. Se nell’ipotesi di nuova incriminazione (co. 1) il concetto
di fatto ricomprende l’insieme di tutti i presupposti rilevanti in concreto ai
fini dell’applicazione della fattispecie incriminatrice, non si comprende per
quale ragionalo stesso concetto non debba valere rispetto alle ipotesi di abolizione dell’incriminazione preesistente (co. 2). È evidente allora che l’intervento legislativo posteriore, incidendo su uno dei presupposti di rilevanza
del fatto necessario ai fini della configurabilità dell’illecito, fa sì che esso non
costituisca più reato e non possa dunque più essere punito.
1.3. La tesi del cd. restringimento operativo
Stando invece alla tesi del cd. restringimento operativo la disciplina dell’abolitio criminis è inapplicabile laddove vi sia stata abrogazione di norme integratrici di elementi normativi, atteso che la legge abrogatrice non introduce
alcuna differente valutazione dell’astratta fattispecie incriminatrice e del suo
significato di disvalore, ma elimina o modifica disposizioni penali o extrapenali che si limitano ad influire nel singolo caso sulla concreta applicabilità
della norma incriminatrice stessa: la modifica della norma richiamata non si
ripercuote sulla fisionomia del reato. In altri termini la modifica o l’abrogazione della norma integratrice dell’elemento normativo determina una variazione in via particolare (riferita cioè solo a determinate fattispecie) e non
in via generale, frutto di una diversa valutazione astratta sulla fattispecie
complessivamente considerata.
Questo orientamento è stato seguito dalla giurisprudenza nei casi di modificazioni delle qualifiche soggettive, prima pubblicistiche poi privatistiche,
di determinati enti, come nel caso della privatizzazione dell’Enel rispetto al
reato di contraffazione dei sigilli posti sulla calotta del contatore elettrico di cui all’art. 468 c.p. (cfr. Cass. 25.2.1997) e rispetto al reato di truffa
aggravata ex art. 640, co. 2, n. 1), nella parte in cui si riferisce all’ente pubblico (cfr. Cass. 21.9.1993). In entrambi i casi la Suprema Corte ha concluso
che la privatizzazione dell’Enel, cioè la sua trasformazione da ente pubblico
economico a società per azioni, non ha inciso sulla sussistenza del reato
previsto dall’art. 468 c.p. (in cui si fa riferimento all’ente pubblico), nonché
della predetta ipotesi aggravata di truffa rispetto ai fatti commessi prima
della privatizzazione dell’Enel.
1.4. La tesi che dà rilevanza al persistere o meno del disvalore della fattispecie
Infine, va menzionata la tesi che dà rilevanza alla persistenza o meno del
disvalore. Per tale tesi occorre distinguere a seconda che l’elemento normativo o la norma richiamata dalla norma penale in bianco siano o non in
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grado di incidere sulla portata e sul disvalore astratto della fattispecie incriminatrice. Questa tesi indaga in concreto la voluntas legis, non ritenendo
a priori che l’abrogazione o la modifica della norma integratrice non sia in
grado di incidere sulla fattispecie criminosa. Si rende pertanto necessario
verificare se la suddetta abrogazione o modifica muti o meno il giudizio di
disvalore del fatto.
Seguendo tale impostazione la giurisprudenza di legittimità costantemente ritiene che nel caso della calunnia ex art. 368 c.p. il disvalore astratto
del reato permane anche in caso di abrogazione della norma che prevede
come reato il fatto per cui il soggetto è stato falsamente incolpato, perché
la falsa incolpazione continua a mantenere il suo significato offensivo anche
dopo che sia stato abrogato il reato oggetto di incolpazione. Diversamente
opina la giurisprudenza nell’ipotesi di associazione per delinquere ex art.
416 c.p. nel caso di sopravvenuta depenalizzazione del reato fine del sodalizio criminoso, posto che, in tal caso, il pericolo per l’ordine pubblico non
permarrebbe più quando il delitto-scopo non sia più tale (cfr. Cass. 9.3.2005,
n. 13382; App. Firenze, 21.6.1991).
Un’altra pronuncia della Suprema Corte, sebbene non abbia aderito
espressamente a tale ultima tesi (trattatasi del reato di evasione dei diritti di
confine a seguito dell’abolizione delle barriere doganali in ambito europeo),
ha dato rilevanza alla persistenza della lesione all’interesse tutelato (ossia l’omesso pagamento dei diritti doganali) ritenendola non venuta meno,
esprimendo, pur sempre, un giudizio di valore sulla fattispecie concreta rispetto a quella astratta (cfr. Cass. 11.5.2006, n. 21197).
Si è anche sostenuto che In caso di successione nel tempo di norme
extrapenali integratrici del precetto penale, deve ritenersi inapplicabile il
principio previsto dall’articolo 2, comma terzo, cod.pen. qualora si tratti di
modifiche della disciplina integratrice della fattispecie penale che non incidano sulla struttura essenziale del reato, ma comportino esclusivamente una
variazione del contenuto del precetto delineando la portata del comando; ciò
si verifica, in particolare, allorquando la nuova disciplina non abbia inteso
far venir meno il disvalore sociale della condotta, e quindi l’illiceità penale
della stessa, ma si sia limitata a modificare i presupposti per l’applicazione
della norma incriminatrice penale (cfr. Cass. 22.2.2006, n. 17230, principio
affermato in una vicenda relativa al trattamento da riservare alla sostanza
“norefredina” o “fenilpropanolamina”, che, successivamente alla commissione dei fatti “sub iudice”, relativamente ai quali era stato contestato il reato
di cui all’articolo 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, era stata ricompresa tra i
“precursori”, ossia tra le sostanze suscettibili di impiego per la produzione di
sostanze stupefacenti o psicotrope. Secondo la difesa, da ciò sarebbe dovuto
derivare, in ossequio al disposto dell’articolo 2, comma terzo, cod. pen., che
la disciplina applicabile avrebbe dovuto essere quella, più favorevole, di cui
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all’articolo 70 dello stesso d.P.R.; la Corte ha invece rigettato la doglianza
con le argomentazioni di cui sopra, evidenziando, peraltro, che del principio
espresso dall’articolo 2, comma terzo, cod. pen. si sarebbe dovuto semmai
fare applicazione solo nella diversa ipotesi in cui la nuova disciplina, anziché limitarsi a regolamentare diversamente i presupposti per l’applicazione
della norma penale, avesse esclusa l’illiceità oggettiva della condotta: ad
esempio, nel caso di una modifica tabellare che avesse portato ad escludere
la natura stupefacente di una determinata sostanza).
1.5. Considerazioni sull’operatività delle tesi esposte
La tesi da ultimo esaminata, negli ultimi anni prevalente nella giurisprudenza di legittimità, presenta evidenti affinità con quella del cd. restringimento
operativo. A ben riflettere, anche quest’ultima, per come formulata, dà rilevanza all’incidenza della modifica esterna alla norma penale sulla fisionomia
del reato. Può accadere infatti che la modifica della norma extrapenale non
comporti una modifica in via particolare della norma incriminatrice, riferita
cioè solo a taluna delle ipotesi riconducibili nella stessa, ma in via generale
incidendo sul giudizio di disvalore sotteso al reato. Si pensi al caso, del tutto
ipotetico, della modifica in senso restrittivo della nozione di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio di cui rispettivamente agli artt. 357
e 358 c.p. In tal caso non si potrebbe sostenere che tale modifica incida in
via particolare sulle norme che prevedono come soggetti attivi coloro che
rivestono tali qualifiche. In realtà, una siffatta modifica muta in generale la
portata del reato, venendo ristretta per tutti i casi riconducibili alla norma
medesima la categoria del soggetto che può commettere il reato. La scelta di
ridurre la portata dei concetti di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico
servizio è pure espressione di un diverso modo di concepire in astratto il
reato, poiché il legislatore sancisce che taluni soggetti non lo possono più
commettere. Pertanto, nell’esempio considerato sia accogliendo la tesi del
cd. restringimento operativo, sia seguendo quella che appunta l’attenzione
sulla permanenza o meno del disvalore si dovrebbe concludere ritenendo
sussistente un fenomeno di successione di leggi penali rilevante ex art. 2,
co. 2, c.p. rispetto a coloro che hanno commesso il fatto sotto il vigore della
precedente norma definitoria non rientrano più nella nuova nozione. Anche
accogliendo la prima della tesi esposte, quella della cd. specificazione, la
conclusione, nell’esempio fatto, sarebbe la medesima, vista la modifica di
una norma definitoria.
In conclusione, la tesi della cd. specificazione e quella dell’incorporazione giungono a conclusioni opposte anche se, per così dire, rigide, nel senso
che la prima esclude a priori che la norme extrapenali richiamate da elementi normativi diano luogo ad un fenomeno di successione di leggi penali nel
tempo (fatta eccezione per quelle richiamate da norma penali in bianco o per
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le norme definitorie in cui la soluzione è esattamente opposta), mentre la seconda tesi ritiene, senza distinguere tra norme contenenti elementi normativi e norme penali in bianco, che la sola modifica delle norme extrapenali dà
comunque luogo all’applicazione della disciplina di cui all’art. 2 c.p.
Diversamente le altre due tesi, quella del cd. restringimento operativo e
quella del disvalore della fattispecie, richiedono un indagine caso per caso, al
fine di verificare l’incidenza della modifica sulla fisionomia del reato.
Un’ipotesi applicativa particolarmente interessante è stata sottoposta
al vaglio del Tribunale di Napoli nella sentenza del 29 ottobre 2006. Il
giudice campano si è pronunciato su un caso di detenzione di sostanza stupefacente in misura superiore al quantitativo indicato dal decreto ministeriale, la cui soglia è esplicitamente richiamata dal nuovo art. 73 del d.p.r.
n. 309/1990, al fine di stabilire una presunzione semplice di destinazione
allo spaccio di sostanze stupefacenti o psicotrope in caso di superamento
della stessa. Il decreto del Ministro della Salute, adottato di concerto con
il Ministro della Giustizia, è stato emesso in data 11 aprile 2006, ed è
stato successivamente modificato dal decreto ministeriale emanato il 15
novembre 2006 al fine di innalzare il quantitativo massimo di sostanza
stupefacente detenibile per l’uso personale, con riferimento al delta-9- tetraidrocannabinolo (THC), da mg. 500 a mg. 1000. Ad avviso del tribunale partenopeo, “il nuovo atto normativo regolamentare non ha determinato
una modificazione di un elemento extrapenale integrativo del precetto penale, né
ha prodotto un effettivo fenomeno di successione di leggi nel tempo. Il predetto
Decreto Ministeriale, infatti, disciplina solo un parametro indiziario, di natura
normativa, relativo al quantitativo di stupefacente sotto il quale si può presumere,
in difetto di elementi contrari, una destinazione della droga ad uso personale. È
dunque semplicemente mutato uno degli elementi indiziari – il cd. quantitativo
soglia – utile per valutare la destinazione al fine di spaccio o all’impiego personale della droga detenuta”.
Quanto sostenuto dal Tribunale di Napoli è condivisbile. Infatti, anche
volendo aderire alla tesi della cd. incorporazione, va escluso che si possa ritenere sussistente nel caso esaminato un’ipotesi di abrogazione ex art. 2, co.
2, c.p., atteso che la norma regolamentare richiamata si riferisce ad un indizio del reato e non ad un suo elemento costitutivo, sicché non viene integrata la struttura essenziale della fattispecie (in argomento, v. Cass. 12.3.2002,
che pur sostenendo che le leggi penali di cui all’art. 2 non sono solo quelle
in senso stretto, ma anche le norme extrapenali che determinano o concorrono a determinare le fattispecie di reato, ritiene che restano esclude quelle
norme che non incidono sulla struttura essenziale e circostanziata del reato,
ma si limitano a precisare la fattispecie precettiva). A maggior ragione la
soluzione proposta dal Giudice napoletano va suffragata qualora si accolga
una qualunque delle ulteriori tesi di cui si è detto.
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2. Applicazioni giurisprudenziali
Come si è visto dall’indagine fin qui svolta, la giurisprudenza ha fatto uso,
di volta in volta e con riferimento a diverse ipotesi criminose, di tutte le tesi
prospettate. Di seguito si soffermerà l’attenzione sulle fattispecie più significative di cui il diritto vivente si è di recente occupato.
2.1. Successione di leggi in ordine alla responsabilità dell’esercente le professioni
sanitarie alla luce del c.d. Decreto Balduzzi (d.l. 13 settembre 2012 n. 158,
conv. nella legge il cui art. 8.11.2012, n. 189)
La portata delle colpa professionale medica è stata incisa dal d.l. 13 settembre 2012 n. 158, il cui art. 3, comma 1, rubricato “Responsabilità professionale
dell’esercente le professioni sanitarie”, prevede un particolare regime di responsabilità per colpa del medico. La formulazione definitiva di tale comma, a seguito della legge 8.11.2012, n. 189, che ne ha modificato l’originario contenuto, prevede che “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della
propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità
scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque
fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di
cui al primo periodo”.
La norma dà rilevanza alle c.d. guidelines nell’accertamento della colpa
medica: il medico che le applica non risponde per colpa lieve, il medico che
non le applica risponde anche per colpa lieve.
La norma costituisce, per certi versi, un ritorno al passato, cioè all’orientamento giurisprudenziale che distingueva tra colpa lieve e colpa grave anche in ambito penale (applicando analogicamente l’art. 2236 c.c.), solo che
la nuova norma non distingue tra i canoni della colpa e sembra dunque
riferire la colpa lieve anche ai casi di imprudenza e negligenza (come faceva
la giurisprudenza più risalente, ma poi superata). Peraltro, la nuova norma
non prevede la non punibilità per colpa lieve in generale, ma la circoscrive ai
soli casi di rispetto delle linee guida, sicché, per converso, si deve escludere
l’operatività della colpa lieve al di fuori di tale ambito.
La norma produce un effetto favorevole e può pertanto operare anche per
il passato ex art. 2 co. 2 c.p., avere cioè un effetto retroattivo nei processi
pendenti e per le decisioni già in giudicato (art. 673 c.p.p.) per (parziale)
abolitio criminis, allorché dal corpo della motivazione della sentenza emerga
che si è trattato di colpa lieve e il medico si sia attenuto alle linee guida e
buoni prassi.
In questo senso la Suprema Corte ha affermato che “la nuova normativa
ha parzialmente decriminalizzato le fattispecie colpose in questione; con conseguente applicazione dell’art.2 c.p.”. Precisa la Corte: “L’innovazione esclude la rile-