Testo - Bibliografia del Parlamento italiano e degli studi elettorali

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Testo - Bibliografia del Parlamento italiano e degli studi elettorali
Valeria Galardini
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia: il ruolo del Parlamento nel procedimento decisionale europeo
1 - Introduzione; 1.1 - Lo spazio di libertà; 1.2 - Lo spazio di sicurezza; 1.3 - Lo
spazio di giustizia; 2 - Il ruolo del Parlamento nel procedimento decisionale europeo; 2.1 - Le procedure decisionali per l’adozione delle misure necessarie per
la creazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia; 2.2 - Il ruolo del Parlamento nazionale; 2.3 - La funzione del parere parlamentare; 3 - Il controllo democratico del Parlamento nazionale sullo spazio di libertà, sicurezza e giustizia:
osservazioni conclusive e prospettive di sviluppo; 4 - Il controllo democratico europeo: osservazioni conclusive e prospettive di sviluppo.
1 - Introduzione
Tra le novità introdotte dal Trattato di Amsterdam, ratificato in Italia dalla legge 16 giugno 1998, n. 209 ed entrato in vigore il 1° maggio
1999, risalta l’obiettivo di «conservare e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i
controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima» (1).
In verità, già nel Trattato di Maastrich i tre ambiti — libertà, sicurezza e giustizia — erano accomunati tutti nel titolo VI, il cosiddetto terzo pilastro dell’Unione europea, dedicato alla cooperazione nel settore
della giustizia e affari interni.
Tuttavia, il Trattato di Amsterdam ha posto gli affari interni in ambiti
istituzionali diversi, in quanto lo spazio di libertà è stato collocato nel titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea, nella versione consolidata con il trattato di Amsterdam (di seguito denominato trattato che
istituisce la Comunità europea) quindi è stato parzialmente comunitarizzato, mentre lo spazio di sicurezza (ove per sicurezza si intende essenzialmente la cooperazione tra le forze di polizia) e lo spazio di giustizia (ove
per giustizia si intende la cooperazione giudiziaria penale) sono rimasti nel
titolo VI del Trattato sull’Unione europea, nella versione consolidata con
il trattato di Amsterdam (di seguito denominato trattato che istituiscee
l’Unione europea), quindi in un quadro ancora intergovernativo, sia pur
profondamente riformato. Ma soprattutto, elaborando una nozione unitaria di spazio di libertà, sicurezza e giustizia, quale obiettivo programma-
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tico dell’Unione, il Trattato di Amsterdam ha inteso conservare un raccordo logico — concettuale tra le due metà del vecchio titolo VI del Trattato di Maastricht; tale raccordo si configura in effetti come un ambito di
elaborazione politica e normativa interdisciplinare (e interpilastro).
L’esigenza di programmare l’azione europea in questo settore in modo integrato deriva del resto anche da considerazioni di ordine pratico:
per esempio quelle derivanti dal fatto che l’immigrazione clandestina verso l’Europa comunitaria è sempre più gestita da organizzazioni criminali, diventa quindi difficile non correlare i diritti inerenti alla libertà di
circolazione delle persone con le esigenze di sicurezza interna e di tutela dell’ordine pubblico. Gli stessi accordi di Schengen e la relativa Convenzione di applicazione, firmati rispettivamente nel 1985 e nel 1990 che,
come si preciserà in seguito, hanno precorso, a latere dell’Unione, nell’ambito di una cooperazione rafforzata intergovernativa, la creazione di
uno spazio comune di libera circolazione, avevano previsto questo indispensabile connubio, stabilendo che l’abolizione dei controlli alle frontiere interne è raggiungibile solo contestualmente all’adozione di una
serie di misure di compensazione, che consentano di mantenere perlomeno inalterato (se non di incrementare) il livello complessivo di sicurezza all’interno dello spazio di libera circolazione.
Il concetto di spazio di libertà, sicurezza e giustizia non è definito in
termini organici e dettagliati dal Trattato di Amsterdam, ma risulta dall’insieme delle disposizioni contenute nel titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea e nel titolo VI del Trattato sull’Unione
europea. Le materie del nuovo titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea comprendono le attività in materia di visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle
persone. L’articolo 29 del Trattato sull’Unione europea prevede che un
elevato livello di sicurezza in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia
si assicura sviluppando tra gli Stati membri un’azione in comune nel settore della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, prevenendo e reprimendo il razzismo e la xenofobia. Tale obiettivo deve essere
perseguito contrastando in particolare il terrorismo, la tratta di esseri
umani, i reati contro i minori, il traffico illecito di droga e di armi, la corruzione e la frode attraverso una stretta cooperazione tra le forze di polizia, una più stretta cooperazione tra le autorità giudiziarie ed il
riavvicinamento, ove necessario, delle normative degli Stati membri.
A precisare i contenuti di questo nuovo concetto — lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia — era anche intervenuta, già prima dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, una comunicazione della
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Commissione (2) e soprattutto, sulla base di un apposito mandato del
Consiglio europeo di Cardiff, un piano d’azione del Consiglio e della
Commissione (3). A seguire, va ricordato il Consiglio europeo straordinario, svoltosi a Tampere nell’ottobre del 1999 e da ultimo, su iniziativa
del Commissario europeo per la giustizia e gli affari interni, Antonio Vitorino, un documento (4) che rappresenta una sorta di tabella di marcia,
uno scoreboard (che può paragonarsi al libro bianco che ha portato alla
realizzazione del mercato unico), in cui vengono identificate le decisioni
da assumere, le relative scadenze e gli organi cui spetta la responsabilità
di portare a termine le azioni previste per la realizzazione dello spazio di
libertà, sicurezza e giustizia.
È da sottolineare sin d’ora l’importanza di questo metodo di lavoro,
che impegna le singole responsabilità nella realizzazione di un progetto
comune, tiene alto il ritmo dei lavori, oltre che garantire agli stessi la necessaria trasparenza. Questo quadro di controllo non è inoltre da intendersi in modo rigido e statico, bensì da vedersi in un divenire dinamico,
potendo arricchirsi in itinere di nuovi contributi ed idee. Si tratta quindi di uno strumento in continua evoluzione, rispetto al quale sono previste edizioni successive (almeno una per semestre) che tengano altresì
conto dei progressi realizzati e di eventuali ritardi.
Il Trattato di Amsterdam non affronta direttamente la questione del
ruolo del Parlamento (sia di quello europeo che dei parlamenti nazionali)
con specifico riferimento al controllo democratico sullo spazio di libertà,
sicurezza e giustizia, ma prevede, in un Protocollo allegato sul ruolo dei
parlamenti nazionali, che tutte le proposte legislative della Commissione
siano messe a disposizione dei governi degli Stati membri in tempo utile per consentire ai parlamenti nazionali di riceverle. Inoltre agli stessi
devono altresì essere trasmessi tutti i documenti di consultazione (libri
verdi, libri bianchi e comunicazioni) redatti dalla Commissione.
Il Parlamento europeo deve invece essere destinatario non solo delle
proposte legislative, ma anche delle proposte relative alle misure da adottare a norma del titolo VI del Trattato sull’Unione europea almeno sei
settimane prima della data in cui la decisione stessa dovrà essere adottata. Si evince quindi un mero obbligo di informazione dei governi nei
confronti dei parlamenti nazionali ( non potrebbe essere altrimenti in
quanto sono i rispettivi ordinamenti a disciplinare i rapporti e il controllo dei Parlamenti nazionali sui rispettivi governi relativamente alle
attività dell’Unione ); obbligo da attuare, evidentemente, nel medesimo
spazio temporale — sei settimane — previsto per il Parlamento europeo.
Il ruolo dell’istanza democratica europea appare invece, dalle disposi-
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zioni del Protocollo, senz’altro più incisivo, perché la stessa individuazione di un termine per la trasmissione dei progetti di decisione rende
più stringente il rapporto tra Parlamento, Consiglio e Commissione.
Inoltre, la previsione di un intervento e di un coinvolgimento del Parlamento europeo anche nelle materie che rientrano nel titolo VI del Trattato dell’Unione europea rappresentano una novità rispetto al passato e
sono un indice della volontà di attenuare il carattere intergovernativo del
cosiddetto testo pilastro dell’Unione europea. Il Protocollo prevede inoltre un ruolo più incisivo della (COSAC), Conferenza delle commissioni
per gli affari europei, che può esaminare qualsiasi proposta o iniziativa
legislativa concernente l’istituzione di uno spazio di libertà, sicurezza e
giustizia e trasmettere al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione qualsiasi contributo ritenga utile. Tuttavia la Conferenza delle
commissioni per gli affari europei non è un’istanza strutturata (generalmente si svolgono due riunioni l’anno), è una conferenza parlamentare
con i limiti che ne conseguono, tra cui, naturalmente, il carattere non
vincolante dei contributi che eventualmente ne derivino.
Ferma restando la nozione unitaria del concetto di spazio di libertà,
sicurezza e giustizia, per una più razionale sistematicità degli argomenti,
questa relazione imposterà una trattazione separata dei tre ambiti —
libertà, sicurezza e giustizia.
1.1 - Lo spazio di libertà
Quando si parla di spazio di libertà viene subito in mente la libera
circolazione delle persone, non solo perché essa è una delle quattro libertà (insieme alla libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali) individuate nel Trattato di Roma come costitutive di un’Europa
unita, ma anche perché la libera circolazione — intesa come soppressione dei controlli alle frontiere interne — è qualcosa che è già insita nel
sentimento di appartenenza all’Unione europea. Poco importa, infatti,
che tale principio si sia concretamente realizzato (relativamente alle
persone), al di fuori del quadro giuridico ed istituzionale dell’Unione,
nell’ambito di una forma di cooperazione rafforzata intergovernativa che
ha avuto inizio con la firma, nel 1985, dell’Accordo di Schengen tra cinque paesi (la Francia, la Germania, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e il Belgio) (5). L’esperimento Schengen ha infatti avuto successo, dimostrato dal
numero di Stati che successivamente vi hanno aderito (Italia - 1990, Spagna e Portogallo - 1991, Grecia - 1992, - Austria - 1995, la Danimarca,
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Finlandia e Svezia - 1996) (6) e dalla decisione, contenuta in un apposito
Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam, di incorporare l’acquis (7)
di Schengen nel quadro giuridico dell’Unione europea. Per quanto riguarda l’Italia, la libera circolazione delle persone, attuata attraverso la
soppressione dei controlli alle frontiere terrestri, aeree e marittime, è una
realtà a partire dal 31 marzo 1998 quando, al termine di un periodo di
transizione, durato alcuni mesi (8), in cui sono stati verificati i concreti
progressi (in termini di adeguamento delle strutture, di formazione del
personale, di informatizzazione dei valichi di frontiera, ecc..) compiuti
dal nostro Paese per poter essere ammesso nell’area di libera circolazione, l’Italia è diventato a pieno titolo un paese Schengen (9).
Si può quindi affermare che l’acquis di Schengen, che peraltro comprende non solo norme in materia di libera circolazione, ma anche
disposizioni in materia di sicurezza e di cooperazione giudiziaria penale,
costituisce il nucleo del costituendo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Del resto, l’integrazione dell’acquis di Schengen nel quadro giuridico
dell’Unione europea è avvenuta secondo una ripartizione delle norme
nell’ambito del nuovo quadro istituzionale delineato dal Trattato di Amsterdam che, come si è detto, ha separato la cooperazione in materia di
giustizia e affari interni in due diversi ambiti: il Titolo IV del Trattato che
istituisce la Comunità europea ed il Titolo VI del Trattato che istituisce
l’Unione europea.
Le norme concernenti la soppressione dei controlli alle frontiere interne, e quindi la libera circolazione delle persone, sono confluite, come era
logico, nel Titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea, un
nuovo Titolo del Trattato che attua una parziale comunitarizzazione di alcune materie, e comprende altri argomenti di particolare rilievo, che rientrano solo in senso lato nel concetto di libera circolazione delle persone:
l’attraversamento delle frontiere esterne, sia dei cittadini dell’Unione che
di quelli dei paesi terzi; la politica dei visti, dell’asilo e verso i rifugiati; il
controllo dell’immigrazione e la lotta all’immigrazione clandestina, la cooperazione giudiziaria in materia civile, la cooperazione amministrativa in
quei settori e così via. Lo spazio di libertà non è quindi da intendersi solo
come spazio di libera circolazione delle persone, bensì come uno spazio
dove esistono regole minime comuni per vivere in un contesto di legalità,
di rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo, di certezza del diritto.
Non a caso si è voluto definire questo nuovo Titolo IV di parziale comunitarizzazione, poiché il complesso delle regole decisionali ivi previste
non sono ancora corrispondenti ad un metodo comunitario vero e proprio, in quanto il diritto di iniziativa è condiviso dalla Commissione con
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gli Stati membri, le decisioni sono assunte dal Consiglio all’unanimità e
l’intervento del Parlamento europeo non è ancora codecisione, bensì consultazione obbligatoria (10). Indubbiamente però, il Trattato di Amsterdam ha voluto individuare un percorso (cinque anni) nell’ambito del
quale perfezionare la comunitarizzazione dei settori contemplati nel Titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea: la decisione in tal
senso dovrà tuttavia essere assunta all’unanimità dal Consiglio, elemento
questo che desta perplessità se si considera la tutela delle proprie prerogative ed interessi da parte degli Stati nazionali soprattutto in alcune materie, quali l’immigrazione e l’asilo (11). Lo stesso Commissario europeo
per la giustizia e gli affari interni Vitorino, nell’ambito di un’audizione dinanzi al Comitato parlamentare Schengen-Europol (12), ha precisato che
«la Commissione ha proposto, nel suo rapporto alla Conferenza intergovernativa in corso, di rispettare il periodo transitorio di cinque anni.
Quindi dopo i cinque anni è ben chiaro che è finito il periodo di transizione e quindi si ritorna all’ortodossia comunitaria, cioè monopolio dell’iniziativa della Commissione, decisioni a maggioranza qualificata, con
procedura di codecisione del Parlamento europeo». Ed ha quindi lasciato intendere che la comunitarizzazione dei settori contemplati nel Titolo
IV del Trattato che istituisce la Comunità europea (da realizzarsi, secondo
il Trattato di Amsterdam, coraggiosamente da un lato ma prudentemente dall’altro, nell’ambito di un periodo transitorio di cinque anni), dovrà
comunque avvenire, con il raggiungimento auspicabile dell’unanimità tra
gli Stati membri o, eventualmente, in via residuale, modificando la norma
in oggetto nell’ambito della Conferenza intergovernativa in corso.
Lo stesso Commissario Vitorino ha del resto indicato, raccogliendo
l’invito in tal senso contenuto nelle conclusioni del Consiglio europeo di
Tampere, priorità e scadenze ben precise nella tabella di marcia COM
(2000) 167, cui si è fatto riferimento in precedenza, precisando che in
quasi tutte le aree della giustizia e degli affari interni, la competenza per
la realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia ha natura partenariale in considerazione delle regole decisionali che si sono esposte e
richiede quindi una responsabilità condivisa. Nello scoreboard si possono individuare obiettivi a breve termine e obiettivi a lungo termine, intendendo con i primi quelli da realizzare entro il 2001.
Le priorità, per quanto concerne le politiche connesse con la libera
circolazione delle persone e quindi con la realizzazione di uno spazio di
libertà, inteso in senso ampio, sono:
1) una politica comune in materia di migrazioni e di asilo, da realizzarsi in particolare attraverso il partenariato con i paesi di origine (13);
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2) un regime comune europeo in materia di asilo che garantisca il
principio di non refoulement, ed in prospettiva definisca una procedura
comune per concedere l’asilo e uno status uniforme in tutta l’Unione per
coloro che lo hanno ottenuto (elementi questi che dovrebbero limitare se
non escludere del tutto i cosiddetti movimenti secondari dei richiedenti
asilo, cioè quegli spostamenti che si motivano oggi con la necessità di recarsi in quello Stato che presenta condizioni migliori per il riconoscimento del diritto di asilo). È posta inoltre nel documento la necessità di
giungere ad un regime almeno equilibrato se non comune fra gli Stati
membri per la protezione temporanea degli sfollati, emergenza questa
che l’Italia ha vissuto in primissima linea in occasione della guerra in Kosovo, ma che richiede — una volta superata l’emergenza — una comune
solidarietà tra gli Stati membri ed una conseguente suddivisione degli
oneri;
3) una gestione comune dei flussi migratori migliorando in particolare la cooperazione con i paesi di origine e di transito ed assicurare altresì
un equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi, riavvicinando le condizioni di ammissione e di soggiorno.
In particolare riguardo a quest’ultimo punto, nonostante anche Tampere abbia riconfermato il carattere aperto della costruzione europea, affermando esplicitamente che la libertà di circolazione, da godere in
condizioni di sicurezza e di giustizia «non dovrebbe essere appannaggio
esclusivo dei cittadini dell’Unione », sembra vi sia ancora una gestione
autonoma da parte dei vari Stati membri delle rispettive regole di ammissione e di soggiorno dei cittadini del paesi Terzi. Lo dimostra, ad
esempio, la recente chiusura unilaterale delle frontiere (gennaio 2000) da
parte del Belgio in pendenza di una procedura di regolarizzazione di sans
papiers, cui ha fatto seguito un’analoga decisione da parte del Lussemburgo, ove evidentemente, pur non essendo in corso alcuna procedura di
regolarizzazione, si sono voluti evitare eventuali contraccolpi conseguenti alla decisione del Belgio (14). Decisione che è stata applicata sulla base dell’articolo 2, comma 2, della Convenzione di Schengen, una clausola
di salvaguardia che consente la temporanea reintroduzione dei controlli
alle frontiere (15) nazionali.
Si tratta tuttavia di una disposizione che, sia pur da intendersi come
clausola di salvaguardia, va certamente nella direzione opposta a quella
della creazione di uno spazio unico di libera circolazione, non solo per
ragioni di merito, ma anche per il meccanismo decisionale che la caratterizza, potenzialmente privo di trasparenza e di dibattito, per cui appa-
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re indispensabile modificare intanto le procedure di avvertimento previo
e di autorizzazione tacita per ripristinare, sia pur per un periodo di tempo limitato, i controlli alle frontiere. In un secondo momento, sarà necessario forse riconsiderare la valenza complessiva della norma. Lo stesso
Commissario europeo Vitorino ha infatti inserito la comunitarizzazione
di questa disposizione della Convenzione di Schengen tra gli obiettivi più
immediati nel quadro d’azione per la realizzazione dello spazio di libertà,
sicurezza e giustizia nella convinzione peraltro che allo stato attuale il
«convertire le disposizioni della Convenzione in atti legislativi di Amsterdam dipenderà dall’evolversi della situazione» (Cfr. parte introduttiva del documento stesso). D’altra parte, la ricollocazione dell’acquis di
Schengen nel quadro comunitario richiede un approccio graduale e prudente, sia sotto il profilo tecnico che politico.
Nella citata tabella di marcia, sono state inoltre inserite altre norme
connesse alla politica dei visti, ai controlli alle frontiere esterne, all’ulteriore sviluppo di una politica comune in materia di documenti falsi, tutte questioni derivanti dalla Convenzione di Schengen.
Quanto agli strumenti previsti dal titolo IV del Trattato che istituisce
la Comunità europea per porre in essere uno spazio di libertà , si rinvia
al capitolo 2.1.
1.2 - Lo spazio di sicurezza
Come si è anticipato, per spazio di sicurezza si intenderà essenzialmente la cooperazione tra le forze di polizia, per circoscrivere il tema ed
affrontarlo in modo più organico, visto che nel concetto di sicurezza si
possono altrimenti ricomprendere molte altre disposizioni del Trattato,
ad esempio quelle in materia di tutela degli interessi finanziari della CE
e si può altresì ampliare la nozione alla tutela dell’ambiente, della produzione alimentare ecc. In questa sede si cercherà invece di affrontare il
tema della sicurezza in riferimento alla tutela dei cittadini nei confronti
della criminalità organizzata, ed in particolare quella dedita al terrorismo, alla tratta di esseri umani, al traffico illecito di droga e di armi, alla corruzione e alla frode, così come stabilito nel già citato piano
d’azione del Consiglio e della Commissione sul modo migliore per realizzare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
La globalizzazione del crimine e l’internazionalizzazione delle organizzazioni criminali hanno sempre più obbligato gli Stati a non considerare più sufficiente né efficace garantire l’ordine pubblico e la sicurezza
interna senza al contempo dotarsi di strumenti di coordinamento inte-
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grato con gli altri Stati membri volti a prevenire e reprimere reati che assumono sempre più una connotazione sovranazionale. Riemerge quindi
chiaramente quel filo conduttore che lega insieme i tre obiettivi della
creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, ed è del resto lo
stesso Trattato di Amsterdam che, all’articolo 61, lettera e) del Trattato
che istituisce la Comunità europea stabilisce un rapporto diretto tra le
misure relative alla libertà di movimento delle persone e quelle relative
alla prevenzione e alla lotta contro la criminalità organizzata, effettuando
un rinvio alle disposizioni del Trattato sull’Unione europea e quindi evidentemente alla cooperazione tra forze di polizia e giudiziaria penale, di
cui al Titolo VI del Trattato sull’Unione europea. L’articolo 30 del Ttattato sull’Unione europea chiarisce con una certa precisione quali siano le
misure da adottare nel settore della cooperazione di polizia, valorizzando in particolare il ruolo dell’Ufficio europeo di polizia EUROPOL, nato da una Convenzione del 1995 (16); entrata formalmente in vigore il 1°
ottobre del 1998 (17) e divenuta operativa il 1° luglio del 1999 (18).
Non si deve tuttavia dimenticare che, nell’ambito del Titolo VI del
Trattato dell’Unione europea confluiscono altresì molte disposizioni dell’acquis di Schengen in materia di cooperazione di polizia. In particolare,
non essendosi trovato un accordo al momento della ripartizione delle disposizioni dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea relativamente allo Schengen Information System (SIS), che poteva essere
collocato nel primo pilastro dell’Unione europea ove si fosse ritenuto
prevalente l’aspetto concernente la libera circolazione delle persone oppure nel terzo pilastro ove si fosse ritenuto prevalente l’aspetto della cooperazione tra le forze di polizia, è stata preferita, sia pur in via
transitoria, quest’ultima soluzione. È da ricordare che il lo Schengen
Information System costituisce il cuore del sistema Schengen, in quanto
comprende una banca dati che raccoglie i dati delle persone non ammissibili sul territorio comune di libera circolazione e quelli relativi alle
persone segnalate ai fini dell’estradizione (19). Si tratta di una struttura
che appare ben consolidata, in quanto l’obiettivo cui è preordinata —
creare un flusso circolare di informazioni tra gli Stati Schengen — è stato raggiunto e tutti i Paesi, collegati in via informatica con il Central SIS
di Strasburgo (l’unità ove fisicamente si trova la banca dati centrale) dispongono del medesimo patrimonio di informazioni, che dunque rappresenta un plusvalore rispetto ai dati che altrimenti si conoscerebbero
a livello nazionale, con indubbio ed immediato vantaggio per ogni singolo Stato (20). La struttura EUROPOL appare, invece, più esile e difficile da rafforzare perché l’ Ufficio europeo di polizia con sede a L’Aja e
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la relativa banca dati non hanno l’obiettivo di creare un flusso circolare
di informazioni, bensì quello di agevolare indagini che coinvolgano almeno due Stati membri ed in prospettiva svolgere attività di analisi e di
intelligence su specifici fenomeni criminali. Questo determina una certa
ritrosia da parte degli Stati membri nel cedere informazioni, le quali peraltro sono spesso coperte da segreto istruttorio e richiedono quindi l’intervento dell’autorità giudiziaria per essere utilizzate (21).
Non si intende tuttavia, in questa sede, scendere nel dettaglio del sistema EUROPOL e del sistema SIS che rispondono ad esigenze e finalità diverse, oltre che a diversi presupposti giuridici e normativi, e
comunque non esauriscono l’insieme dei sistemi operativi di cooperazione tra le forze di polizia esistenti (22). Si vuole, ad ogni modo, porre
in evidenza come, nonostante il tentativo di razionalizzazione posto in essere dal Trattato di Amsterdam, che ha specificato le misure da adottare
nell’azione comune nel settore della cooperazione di polizia e ha valorizzato, come si è detto, tra gli strumenti possibili quello di EUROPOL,
le forme di cooperazione di polizia siano differenziate, spesso non coordinate, talvolta informali, geograficamente non coincidenti, giuridicamente nate ed operanti in ambiti diversi.
Tuttavia le molteplici iniziative che, a partire dagli anni ’80, ma soprattutto negli anni ’90, hanno preso piede, hanno avuto il merito di produrre un maggiore sviluppo della cooperazione di polizia rispetto a
quella penale giudiziaria, ove i passi sono stati e sono più lenti. Si può
quindi senz’altro affermare che la cooperazione di polizia è già una realtà
mentre la cooperazione giudiziaria penale è una entità ancora in divenire (sull’argomento, vedi capitolo seguente).
Ciò non toglie che, se da un lato deve senz’altro riconoscersi il valore positivo delle iniziative di cooperazione di polizia che a vario titolo si
sono sviluppate in ambito europeo e che costituiscono senz’altro un patrimonio da non disperdere, sarebbe senza dubbio opportuno seguire la
filosofia di razionalizzazione che ispira il Trattato di Amsterdam e soprattutto superare interessi e situazioni particolari che a vario titolo sostengono la permanenza di queste forme di cooperazione di polizia in
ambiti distinti. In altre parole è innegabile, ad esempio, che la banca dati relativa alla cooperazione Schengen sia nata su presupposti (pratici e
giuridici) diversi, nell’ambito di una cooperazione rafforzata intergovernativa, e con finalità diverse (creare un flusso circolare di informazioni
ben precise tra gli Stati membri) rispetto alla banca dati EUROPOL, che
ha finalità essenzialmente di intelligence ed è nata sulla base di una Convenzione del terzo pilastro . Tuttavia è altresì innegabile che, se l’intento
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è quello di creare — come si legge nel citato piano d’azione della Commissione e del Consiglio — un ordine pubblico europeo, si dovrebbe
senz’altro pensare ad una integrazione — sia pur prudente e graduale —
dell’acquis di Schengen che già è confluito in effetti nell’Unione europea,
intendendo però il termine integrazione come ricollocazione vera e propria delle norme nel quadro giuridico dell’Unione europea. Un’integrazione reale dovrebbe quindi mirare anche al coordinamento delle norme
e, in ultima analisi, delle strutture esistenti, creando un sistema equilibrato ed omogeneo di relazioni funzionali tra i vari organismi esistenti,
eventualmente anche rivedendone le rispettive competenze. Se, dunque,
la prospettiva è quella di rafforzare il ruolo di EUROPOL, sarebbe auspicabile nel medio-lungo periodo un’integrazione delle banche dati non
solo SIS — Schengen ed EUROPOL, ma anche della costituenda banca
dati EURODAC (relativa alle impronte digitali), della banca dati per le
informazioni doganali e la banca dati FADO, che riguarda i documenti
falsi: il tutto andrebbe ripensato in un quadro unitario. A ciò dovrebbe
seguire l’unificazione delle autorità di controllo preordinate alla tutela
dei dati personali. Anche sotto quest’ultimo profilo, sarebbe infatti opportuno avere, nell’ambito del terzo pilastro, regole ed organismi comuni
per garantire, secondo le medesime modalità, un valore comune, quello
della tutela dei dati personali. Significativa appare ,del resto, la recente
iniziativa della Presidenza portoghese volta a costituire a breve termine
almeno un Segretariato comune delle varie autorità di controllo (23).
In realtà, la sensazione che si ricava anche dalle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere, è ancora quella di un sistema a raggiera, che
individua una serie di iniziative tutte lodevoli le quali però sono ognuna
un segmento di una figura geometrica da rendere compiuta. Ad esempio,
i punti 43, 44,45 e 47 delle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere, volti alla costituzione di «squadre investigative comuni», di una
task force operativa dei capi della polizia e di un’accademia europea di
polizia aperta ai paesi candidati, dovrebbero forse tendere ad un potenziamento e completamento della struttura EUROPOL anziché configurarsi come ulteriori iniziative non integrate nei sistemi di cooperazione di
polizia già esistenti nell’ambito del terzo pilastro.
Per la verità, già con riferimento alle squadre comuni operative, si sono riscontrate sin dall’inizio alcune divergenze sul ruolo che esse
dovrebbero avere, più precisamente se debbano intendersi come articolazioni di EUROPOL, ovvero squadre di sostegno alle forze di polizia locali; è comunque da salutare con favore il superamento di una cultura
bilaterale nella cooperazione internazionale tra le forze di polizia. Ed an-
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che la costituzione di un’accademia europea di polizia (punto 47 delle
conclusioni di Tampere) è al momento concepita solo come una rete degli istituti di formazione esistenti. In conclusione, si può riaffermare che
lo spazio di sicurezza è ricco di iniziative pratiche ed operative, le quali
sono anche indotte dal ritmo incalzante con cui progredisce la criminalità organizzata, ma che tuttavia stentano ad essere ricondotte nell’ambito di una strategia coordinata e complessiva.
Quanto agli strumenti per realizzare lo spazio di sicurezza, si rinvia
al capitolo 2.1.
1.3 Lo spazio di giustizia
Lo spazio di giustizia, come già si è accennato, è un’entità ancora esigua. Se, infatti, lo sviluppo orizzontale delle organizzazioni criminali ha
richiesto, quasi imposto, risposte operative rapide ed immediate da parte degli apparati di polizia, che hanno tutto sommato contribuito a creare la percezione di uno spazio di sicurezza, non altrettanto può dirsi per
lo spazio di giustizia, ove le gelosie e la tradizionale difesa delle prerogative nazionali hanno fino ad oggi prevalso, rallentando e rendendo più
faticoso il processo di avvicinamento prima ancora che di armonizzazione delle normative nazionali.
Una prima svolta si è comunque avuta nel 1997, con l’approvazione
da parte del Consiglio europeo di un piano d’azione contro la criminalità organizzata, salutato con favore da magistrati ed operatori per l’approccio pratico e realistico alle tematiche della cooperazione giudiziaria,
che vengono individuate e formano oggetto di raccomandazioni da attuare entro una certa data, identificando altresì anche i destinatari e
quindi i responsabili dell’attuazione delle stesse. Insomma uno scoreboard, che può paragonarsi nel metodo alla tabella di marcia predisposta dalla Commissione per la realizzazione dello spazio di libertà,
sicurezza e giustizia.
Da quel piano d’azione è nato infatti un gruppo multidisciplinare
che, in seno al Consiglio, ha riunito esperti dei ministeri degli interni e
dei ministeri di grazia e giustizia di tutti i paesi ed è stata creata una rete giudiziaria con punti di contatto nazionali per agevolare lo scambio di
informazioni e la cooperazione giudiziaria.
Certo, si è ancora lontani dalla creazione di un comune diritto penale processuale minimo, dal reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie e dalla costituzione di un ufficio europeo del pubblico ministero
indipendente, prospettive queste che rappresenterebbero il coronamen-
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to in positivo della cooperazione giudiziaria penale, tuttavia il Trattato di
Amsterdam e poi il Consiglio europeo di Tampere (15-16 ottobre 1999)
hanno contribuito a costruire un ulteriore tassello nel composito spazio
di giustizia. L’articolo 31 del Trattato sull’Unione europea prevede, infatti, che l’azione comune nel settore della cooperazione giudiziaria in
materia penale comprenda una maggiore collaborazione tra le autorità
nazionali competenti ai fini dell’esecuzione delle decisioni, la facilitazione dell’estradizione, la compatibilità delle normative applicabili per migliorare la suddetta cooperazione, la prevenzione dei conflitti di
giurisdizione, l’adozione di misure per la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni per quanto riguarda
la criminalità organizzata, il terrorismo e il traffico illecito di stupefacenti. Proprio quest’ultimo punto rappresenta un importante salto di
qualità, che risponde anche all’esigenza di realizzare un intervento integrato tra gli operatori di polizia e l’autorità giudiziaria. La lotta alla criminalità organizzata sembra dunque profilarsi come motore trainante di
iniziative che potrebbero valere a colmare il gap tra cooperazione di polizia e cooperazione giudiziaria penale.
I punti da 28 a 62 delle conclusioni del Consiglio stesso (precisati con
maggiore dettaglio nella citata tabella di marcia predisposta dal commissario europeo Vitorino) hanno poi concorso a stabilire finalità concrete
e scadenze, definendo così un’impostazione strategica degli obiettivi da
raggiungere e delle modalità con cui tali obiettivi devono essere conseguiti affinché l’indagine sulle cose e sulle persone che circolano liberamente all’interno dell’Unione sia il più possibile agevolata.
Merita segnatamente di essere menzionata la decisione contenuta al
punto 46 delle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere di istituire
un’unità EUROJUST, composta di pubblici ministeri, magistrati o funzionari di polizia di pari competenza, che dovrebbe avere il compito precipuo di assistere EUROPOL e di cooperare strettamente con la rete
giudiziaria europea allo scopo di semplificare l’esecuzione delle rogatorie.
Si tratta di una ipotesi costruita ancora in modo molto generale, che
tuttavia risponde ad un’esigenza concreta e, soprattutto per quanto concerne EUROPOL, era già formulata da tempo a livello di ipotesi di studio: il cosiddetto pendant giudiziario di EUROPOL (24).
È fuori di dubbio che il progetto EUROJUST non esaurisca l’insieme
dei temi legati ad una compiuta realizzazione della cooperazione giudiziaria, tuttavia ne costituisce un primo fondamento rispetto al quale è prevista anche una scadenza — dicembre 2001 — per la sua realizzazione.
Probabilmente proprio l’indicazione di una scadenza, che deve
considerarsi al quanto ravvicinata in relazione all’obiettivo, e la conside-
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Valeria Galardini
razione che la decisione definitiva da assumere dovrà essere presa all’unanimità, hanno fatto sì che il dibattito sulla questione si sia già aperto, individuandosi sin d’ora una tesi minimalista e una tesi massimalista.
La prima tenderebbe a considerare l’unità EUROJUST come uno sviluppo dell’attuale rete di cooperazione giudiziaria, con compiti prevalentemente di coordinamento e di assistenza alle autorità nazionali ma priva di
poteri investigativi autonomi; la seconda, invece, propenderebbe per costituire uno strumento dotato di una autonoma capacità di indagine in relazione a specifiche fattispecie di reato con connotazioni comunitarie (25).
Come ha affermato il Ministro di grazia e giustizia pro tempore Diliberto nel corso di un’audizione svolta dinanzi al Comitato parlamentare
Schengen – EUROPOL (26), EUROJUST è «al momento poco più che
un contenitore, rispetto al quale si tratterà di approfondire i possibili
rapporti con gli organismi comunitari esistenti, EUROPOL da una parte ed OLAF (l’ufficio europeo di lotta alle frodi) dall’altra». È stato tuttavia già predisposto un documento che reca in oggetto «orientamenti
relativi all’EUROJUST» (27) in base al quale la costituenda unità dovrebbe assolvere a funzioni di assistenza alle indagini, di coordinamento
e di impulso alle indagini stesse e alle azioni penali. Si tratta, tuttavia, ancora di una riflessione e non di una vera e propria proposta di testo; l’auspicio è che la mancata creazione a Tampere di un pubblico ministero
europeo e la formulazione di compromesso raggiunta al punto 46 delle
conclusioni del Consiglio europeo stesso possa in ultima analisi dar vita
ad unità EUROJUST che sia quanto più riempita di contenuti concreti
e soddisfi l’esigenza di controbilanciare sul piano delle garanzie il crescente sviluppo della cooperazione di polizia.
Quanto agli strumenti per realizzare lo spazio di giustizia, si rinvia al
capitolo seguente.
2 - Il ruolo del Parlamento nel procedimento decisionale europeo
2.1 - Le procedure decisionali per l’adozione delle misure necessarie per la
creazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia
L’obiettivo programmatico di creare uno spazio di libertà, sicurezza
e giustizia deve essere considerato, sotto il profilo concettuale, un
unicum, in quanto, come si è detto, si tratta di nozioni interconnesse e
interdisciplinari.
Quanto alla realizzazione di tale spazio, può individuarsi un minimo
comune denominatore nelle procedure decisionali per l’adozione degli at-
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
981
ti, mentre risultano diverse le misure da porre in essere nell’ambito del
titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea (con cui, si è detto, si vuole identificare lo spazio di libertà) e nell’ambito del titolo VI del
Trattato che istituisce l’Unione europea (nel quale si identificano sostanzialmente lo spazio di sicurezza e di cooperazione giudiziaria penale).
Quanto alle procedure decisionali, si rileva che queste, sia nel titolo IV
del Trattato che istituisce la Comunità europea che nel titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea, conservano caratteristiche analoghe,
ancora di carattere intergovernativo pur essendo il titolo IV del Trattato
che istituisce la Comunità europea quasi comunitario. Come già si è accennato nel capitolo 1.2, infatti, le regole di questo titolo non sono ancora propriamente comunitarie, o almeno non lo sono per un periodo che
può arrivare a cinque anni: il potere di iniziativa non è esclusivo della
Commissione, ma è da questa condiviso con gli Stati membri, le decisioni sono assunte all’unanimità dal Consiglio (salvo, come si è visto, alcune eccezioni e salvo che medio tempore non intervenga una decisione —
anch’essa unanime — del Consiglio, di voler assoggettare alcune delle
materie previste dal titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea ad una procedura di codecisione con il Parlamento europeo) e l’intervento del Parlamento europeo non è ancora codecisione, ma
consultazione nella forma del parere obbligatorio e non vincolante. L’intervento del Parlamento è quindi un elemento che incide sulla legittimità
formale dell’atto (la mancata consultazione renderebbe l’atto illegittimo)
ma non ne condiziona i contenuti (in quanto il Consiglio può discostarsi
dal parere espresso) se non eventualmente sotto il profilo politico.
Quanto al controllo giurisdizionale, per le materie confluite nel titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea, le competenze della Corte di giustizia appaiono limitate rispetto a quelle previste in via
generale per gli atti comunitari; ad esempio, è esclusa la facoltà del rinvio pregiudiziale da parte del giudici nazionali non di ultima istanza, anche se per le giurisdizioni di ultima istanza il ricorso alla Corte è
obbligatorio come previsto per gli atti comunitari ai sensi dell’articolo
234 del Trattato che istituisce la Comunità europea.
I medesimi principi sotto il profilo procedurale valgono anche per il
titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea, salvo che per quanto riguarda il controllo da parte della Corte di giustizia, che può estendersi all’interpretazione e alla legittimità, o pregiudiziali di validità degli
atti adottati, ma previa accettazione da parte degli Stati membri.
Si deve inoltre ricordare che tanto per le decisioni da assumere nell’ambito del titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea
982
Valeria Galardini
quanto per quelle proprie del titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea sussiste il limite generale al controllo giurisdizionale di legittimità, relativo al mantenimento dell’ordine pubblico e alla salvaguardia
della sicurezza interna: misure e decisioni che sono rimesse esclusivamente alla potestà normativa e quindi alla sovranità degli Stati membri.
In tale quadro, il riferimento operato al minimo comune denominatore dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (con un raccordo tra titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea e titolo VI del
Trattato che istituisce l’Unione europea), trova riscontro nella sussistenza di meccanismi decisionali per i quali operano ancora evidenti rapporti ed ambiti intergovernativi, che non premiano la trasparenza e la
democraticità delle decisioni.
Concretamente, all’atto di attivazione di un’iniziativa, su impulso della Commissione o di uno Stato membro, si dà corso a una fase istruttoria della medesima in seno al gruppo di lavoro competente; per quanto
concerne il titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea vi è
poi un esame da parte di un gruppo di lavoro successivo, denominato
(SCIFA) Strategic Committee Immigration frontieres asylum quindi dinanzi al Comitato per i rappresentanti permanenti (di seguito denominato
COREPER) (28) e l’approvazione definitiva in Consiglio dei ministri; per
quanto concerne invece il titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione
europea, è previsto, dopo l’esame dinanzi al gruppo di lavoro, un passaggio dinanzi al Comitato ex articolo 36 del Trattato che istituisce
l’Unione europea (29), quindi dinanzi al COREPER e al Consiglio.
Sia per le decisioni da assumere ex titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea che per quelle ex titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea, va ricordato che all’ordine del giorno del
Consiglio vengono solitamente distinti punti A e punti B (30): i punti A
sono quelle decisioni per le quali è stato già raggiunto un accordo in sede di COREPER, che dunque possono essere approvate, come di norma
avviene, senza discussione. Si evidenzia così l’importanza della fase di
passaggio di un progetto di decisione dinanzi al COREPER, in relazione all’idoneità di tale sede a costituire fase procedurale necessaria e momento decisionale sostanziale del procedimento, da riversare in atto del
Consiglio, di norma immodificato e in genere senza specifico dibattito.
Vi sono invece differenze tra titolo IV del Trattato che istituisce la
Comunità europea e titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea per quanto concerne la tipologia di atti da adottare. Si deve innanzitutto notare che mentre il Trattato di Amsterdam ha provveduto ad
una più netta tipizzazione e ad una migliore sistemazione degli atti contenuti nel titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea (articolo
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
983
34), non altrettanto può dirsi per il titolo IV del Trattato che istituisce la
Comunità europea. In tale ambito normativo, si fa sempre riferimento all’adozione di misure senza tuttavia meglio identificare alcuna tipizzazione degli atti stessi. Si può ipotizzare che si ricorrerà a direttive, per
consentire una maggiore autonomia agli Stati membri e perché lo strumento appare più duttile rispetto alla delicatezza della materia, ma è solo
una previsione, permanendo in questo titolo una certa ambiguità. È possibile infatti prefigurare anche altri strumenti attuativi delle previste misure, al cospetto di un quadro comunitario in cui, pur senza voler
svolgere una disamina articolata degli atti normativi europei, si può
senz’altro osservare che accanto agli atti tipici (regolamenti, direttive e
decisioni), si è più volte fatto ricorso ad atti atipici, il cui valore, sia pur
con effetti essenzialmente interni al sistema istituzionale, può dirsi tutt’altro che secondario (ad esempio le dichiarazioni e le conclusioni del Consiglio europeo — Tampere da ultimo per quanto concerne la materia qui
in specifico trattata — i programmi d’azione della Commissione, gli Accordi interistituzionali, eccetera) (31). Si tratta di strumenti che, pur avendo come destinatari le istituzioni europee e non direttamente i singoli
Stati, finiscono poi per avere un’importanza e un grande valore in termini di ordinamento materiale e, successivamente, anche formale laddove vengono, come talvolta accade, tenuti in considerazione nella revisione
dei trattati. Non è escluso, quindi, che le misure cui fa riferimento il titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea possano assumere anche questa veste, non senza destare anche perplessità, visto che il
ricorso ad un atto atipico se da un lato può risolvere situazioni di rigidità, dall’altro è sottratto alle regole e alle procedure proprie dei meccanismi comunitari senza ricadere neanche nelle procedure del diritto
internazionale (32).
Rispetto al terzo pilastro, ove pure sono possibili atti atipici, il Trattato di Amsterdam, come si è accennato, ha tuttavia meglio precisato gli
strumenti normativi necessari per realizzare le azioni da intraprendere
prevedendo, oltre alla posizione comune (che è tuttavia ancora da considerare come uno strumento debole in quanto preordinato soltanto a
costituire un orientamento dell’Unione su una questione specifica), il
rafforzamento della Convenzione, uno strumento che è apparso fino ad
oggi forte ma con tempi lunghi ed esiti incerti. Nel contempo, lo stesso
Trattato di Amsterdam ha posto dei correttivi a tali aspetti negativi, prevedendo che gli Stati avviino le procedure di ratifica entro un termine
stabilito dal Consiglio e che l’entrata in vigore della Convenzione stessa
possa avvenire anche se non sono state completate le procedure di rati-
984
Valeria Galardini
fica da parte di tutti gli Stati membri, quindi con una eventuale momentanea esclusione degli Stati che necessitano di tempi più lunghi per
il dibattito parlamentare. Si avvalora così l’idea che l’Europa, data la
complessità ed eterogeneità degli ordinamenti nazionali e delle materie
comunitarie, possa non crescere uniformemente in tutti i settori, e che
quindi il metodo dell’Europa a due o a tre velocità sia l’unico percorribile. D’altra parte se da un punto di vista razionale , di omogeneità e di
certezza del diritto sarebbe preferibile una procedura decisionale che
porti a deliberazioni di convergenza, all’unisono, nella realtà dei fatti le
clausole di opting in o di opting out sono ormai considerate normali (costituiscono anzi il contenuto di alcuni Protocolli allegati al Trattato di
Amsterdam ad esempio sulla posizione della Danimarca, del Regno Unito e dell’Irlanda), e la possibilità di ricorrere a forme di cooperazione
rafforzata solo tra determinati Stati membri (Schengen ne è un esempio
ante litteram), sia pur con determinate regole e garanzie, è espressamente riconosciuta anche nel settore della giustizia e degli affari interni, non
più come ipotesi residuale, bensì come disciplina in positivo. Del resto,
l’esperienza di un’Europa a geometria variabile, maturata in settori
strategici come quello della moneta unica, della politica sociale e degli
accordi di Schengen, ha dato fino ad oggi esiti positivi. Tuttavia, l’intensificarsi dei rapporti tra gli Stati, una normativa sempre più puntuale e
complessa, l’adesione di nuovi Stati in corso di definizione presso la
Conferenza intergovernativa apertasi a febbraio, rendono auspicabile la
riconduzione sia pur lenta e faticosa all’unità del panorama eterogeneo
che oggi caratterizza l’Europa unita.
La principale novità, sotto il profilo degli strumenti normativi introdotti dal Trattato di Amsterdam per il titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea, è quella delle decisioni quadro la cui buona
riuscita potrà utilmente essere valutata solo dopo un certo tempo. Fin
d’ora, tuttavia, tali decisioni si configurano come uno strumento potenzialmente efficace, in quanto l’obiettivo cui sono predestinate è il riavvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati
membri; tale riavvicinamento appare sempre più — soprattutto con riferimento alla cooperazione giudiziaria penale (vedi capitolo 1.3) — un
elemento ineliminabile per il raggiungimento effettivo di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia. Le decisioni quadro non intervengono direttamente nell’ordinamento dei singoli Stati, ma pongono un
obiettivo, un risultato da raggiungere cui ogni singolo Stato può adeguare, secondo le forme che crede, nell’esercizio della propria sovranità,
la rispettiva normativa interna. La tipizzazione di questo strumento ri-
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
985
sponde evidentemente all’esigenza di avere anche nel terzo pilastro uno
strumento assimilabile alla direttiva.
Le decisioni, infine, sono un altro strumento previsto dall’articolo 34
del Trattato che istituisce l’Unione europea (come le decisioni-quadro:
vincolanti ma senza efficacia diretta), preordinate all’adozione di tutte
quelle misure che non richiedano il riavvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Con ogni probabilità, questo strumento assumerà il carattere concreto e operativo che hanno avuto
sino ad oggi le azioni comuni, ma con il vantaggio di essere tipizzate ed
espressamente dotate di carattere vincolante. Anche in questo caso, come per le convenzioni ratificate da almeno la metà degli Stati membri, le
eventuali misure di applicazione sono adottate dal Consiglio a maggioranza qualificata, venendosi a temperare così il meccanismo dell’unanimità che ancora governa tutte le decisioni da assumere nell’ambito del
terzo pilastro.
In conclusione, se si considera da un lato la maggiore tipizzazione che
il Trattato di Amsterdam ha effettuato nell’ambito del Titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea, dall’altro l’esigenza di un controllo
democratico puntuale ed efficace, da parte dei parlamenti nazionali e del
Parlamento europeo, soprattutto sul terzo pilastro, che è ancora prevalentemente intergovernativo, proprio questo settore si presenta come il
più adatto e al tempo stesso quello che più necessita di ricevere un intervento democratico nella fase ascendente del procedimento decisionale (sull’argomento, vedi capitolo 4).
2.2 - Il ruolo del Parlamento nazionale
L’intervento dei parlamenti nazionali nella fase ascendente del procedimento decisionale europeo è una novità a livello comunitario e ad esso è stato infatti dedicato uno specifico Protocollo allegato al Trattato di
Amsterdam (33), ma non costituisce una novità per quello che riguarda il
nostro ordinamento interno.
Già infatti la legge Fabbri (16 aprile 1987 n. 183) prevedeva l’invio
al Parlamento dei progetti di regolamento, di raccomandazione e di direttiva, e la legge comunitaria n. 128 del 24 aprile 1998 ha previsto l’invio di tutti i progetti degli atti normativi e di indirizzo di competenza
degli organi dell’Unione e della Comunità. Più in dettaglio, la legge di ratifica del Trattato di Amsterdam (legge 16 giugno 1998, n. 209) ha previsto la trasmissione alle Camere, alle Regioni e alle Province autonome
di tutti i documenti di consultazione redatti dalla Commissione (“libri
986
Valeria Galardini
verdi”, “libri bianchi” e comunicazioni), delle proposte legislative della
Commissione, quali definite dal regolamento interno del Consiglio dell’Unione europea e delle proposte relative agli atti da adottare a norma
del titolo VI del Trattato sull’Unione europea (adempimento questo che
il citato Protocollo sul ruolo dei Parlamenti nazionali prevedeva solo a
favore del Parlamento europeo).
La legge di ratifica n. 209 del 1998 prevede inoltre che le Camere, nei
termini stabiliti dalle norme comunitarie (quindi nell’arco delle sei settimane previste dal suddetto Protocollo per il rilascio del parere da parte
del Parlamento europeo), formulino osservazioni ed adottino ogni opportuno atto di indirizzo al Governo (34). Da ultimo, la legge comunitaria 2000 in corso di approvazione ha nuovamente ribadito l’intervento
del Parlamento nella fase ascendente del procedimento decisionale con
un’indicazione ancor più dettagliata degli atti che devono essere trasmessi alle Camere: «… progetti degli atti normativi e di indirizzo degli
organi dell’Unione europea e delle Comunità europee, (…). Gli atti
preordinati alla formulazione degli stessi (…) le loro modificazioni (…)»
Insomma tutti gli atti, anche se ancora a livello di progetto, devono
essere conoscibili e conosciuti dalle Camere con l’indicazione di un termine «quarantacinque giorni dalla data di trasmissione» affinchè le commissioni parlamentari competenti possano formulare osservazioni e
adottare ogni opportuno atto di indirizzo al Governo. Decorso il termine, il Governo può comunque procedere (35) nella negoziazione e definizione dei provvedimenti in questione.
Le leggi citate si riferiscono al complesso dei rapporti ParlamentoGoverno nella fase ascendente del procedimento decisionale europeo. A
ciò — come si preciserà in seguito — non ha corrisposto l’affermarsi di
una vera cultura dell’intervento del Parlamento nella fase precedente
l’adozione definitiva dell’atto, mentre si è valorizzato di più il momento della fase discendente, cioè dell’adeguamento dell’ordinamento interno alla normativa comunitaria in essere e quindi del recepimento
delle direttive comunitarie, attraverso, essenzialmente, lo strumento della legge comunitaria (36).
Basti pensare che, ad esempio, nella XIII legislatura, fino al dicembre 1999, sono stati soltanto 11 i progetti di atti normativi comunitari
esaminati dalle commissioni nella fase ascendente a fronte di quasi 300
direttive approvate tra il 1996 e il 1998 (37) e di 600 proposte in corso di
esame presso le istituzioni dell’Unione europea, segno questo della difficoltà del Parlamento ad intervenire nella fase ascendente nonostante le
previsioni di legge e di regolamento.
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
987
Emerge dunque con chiarezza come la costruzione della fase ascendente non si possa esaurire nella mera predisposizione di meccanismi legislativi e norme regolamentari stringenti, ma necessiti anche di un
corretto rapporto con il Governo che deve svolgere un ruolo di organizzazione e di coordinamento per rendere più agevole l’intervento del
Parlamento. Gli attuali limiti della fase ascendente appaiono infatti riconducibili non tanto a ritardi o carenze delle procedure poste in essere
dalle leggi e dai regolamenti parlamentari, ma dall’assenza di un’organizzazione politico istituzionale e amministrativa in grado di sostenere il
vasto e complesso processo di partecipazione all’elaborazione delle decisioni assunte in seno all’Unione europea.
In questa ottica appare necessario stabilire in primo luogo un metodo che valga a determinare un efficace rapporto Governo-Parlamento; in
secondo luogo l’intervento del Parlamento dovrebbe essere quanto più
tipizzato.
Sotto il primo profilo, sarebbe necessaria un’analisi a monte, da parte del Governo, degli atti che le istituzioni dell’Unione si accingono ad
emanare. Non si dovrebbe pertanto ritenere importante la quantità di
informazioni e di progetti di atti che vengono inviati alle Camere, ma la
qualità del ruolo svolto dal Governo per trasmettere al Parlamento
un’informazione qualificata e ragionata, che sia al tempo stesso essenziale e mirata, delle iniziative in corso di esame. Altrimenti appare difficile
scandire procedure ed entrare nel merito dei progetti e documenti dell’Unione europea, il cui esame dovrebbe ad esempio tener conto anche
della posizione degli altri Paesi, che non è facile conoscere se non per il
tramite del Governo stesso. A questo riguardo, si può affermare che si
sia instaurato un valido meccanismo di intervento del Parlamento nazionale nella fase ascendente del procedimento decisionale europeo con riferimento alla cooperazione Schengen, che ha stabilito in effetti un buon
metodo sia rispetto al versante governativo che a quello parlamentare.
La legge di ratifica degli accordi di Schengen (legge 30 settembre
1993, n. 388), ha infatti introdotto una procedura speciale che, con
l’istituzione di un organismo bicamerale ad hoc (il Comitato di controllo sull’attuazione ed il funzionamento della Convenzione di applicazione
dell’accordo di Schengen, incaricato di esaminare i progetti di decisione
vincolanti per l’Italia entro quindici giorni dalla data di ricezione), ha
permesso al Parlamento di esprimersi prima della adozione definitiva di
decisioni assunte in seno al Comitato esecutivo Schengen (l’organo decisionale di questa forma ante litteram di cooperazione rafforzata). A tal fine, per consentire al Parlamento di definire la propria posizione, il
rappresentante italiano aveva anche la possibilità di chiedere il rinvio
988
Valeria Galardini
della decisione (38), ed i progetti di decisione erano accompagnati da una
nota ragionata (una sorta di relazione tecnico-politica) per rendere più
completa l’informazione sul progetto di atto.
Questo meccanismo è risultato efficace, se si considera che dal 20
marzo 1997, data in cui è stato costituito il Comitato, fino al 1° maggio
1999, data di entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, sono stati
espressi 66 pareri (64 favorevoli e 2 contrari). L’arco temporale considerato non a caso vede come termine finale il 1° maggio 1999: perché con
l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, gli accordi di Schengen sono stati integrati nel quadro dell’Unione europea e si sono in qualche
modo perse quelle caratteristiche di specificità che avevano contraddistinto il meccanismo Schengen. In particolare, il Comitato esecutivo
Schengen è stato sostituito dal Consiglio dell’Unione e le disposizioni
dell’acquis di Schengen, come si è già detto, sono state ripartite tra il primo ed il terzo pilastro dell’Unione europea, creando una certa incertezza interpretativa anche sulla reale possibilità teorica e pratica per il
Comitato di poter proseguire, nel nuovo quadro giuridico ed istituzionale venutosi a creare, le funzioni che gli erano riconosciute quando
Schengen era una forma di cooperazione rafforzata intergovernativa (39).
In merito alla seconda esigenza che si è in precedenza prospettata, la
necessità di costruire l’intervento del Parlamento nella fase ascendente
del procedimento decisionale europeo in modo tipizzato, si può affermare che il metodo Schengen è risultato valido anche rispetto al versante parlamentare. Le ragioni risiedono probabilmente nel fatto che erano
ben stabiliti:
1) la materia: gli accordi di Schengen;
2) l’oggetto: i progetti di decisione vincolanti per l’Italia;
3) l’organo legittimato ad intervenire: il Comitato parlamentare
Schengen;
4) le forme di intervento: un parere obbligatorio e vincolante sui progetti di decisione stessi.
5) i tempi per intervenire: quindici giorni dalla data di ricezione del
progetto;
Si ritiene in conclusione di poter affermare l’importanza della specializzazione degli organi parlamentari ed in particolare delle commissioni che devono intervenire nella fase ascendente del procedimento
decisionale europeo, soprattutto se la materia, come nel caso degli accordi di Schengen e dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, è trasversale alla competenza di più commissioni.
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Nel caso del Comitato parlamentare Schengen, infatti, l’essere un organo ad hoc, incaricato di verificare l’attuazione ed il funzionamento
degli accordi di Schengen, ha comportato non solo una sempre più approfondita conoscenza delle questioni e delle problematiche Schengen,
ma anche maggior attenzione e costanza, se così si può dire, nello svolgimento del proprio compito istituzionale. La stessa espressione di un
parere vincolante, che può ragionevolmente essere considerata una forma di intervento sui generis (sull’argomento vedi la parte conclusiva del
presente documento, capitolo 3) non ha in fondo causato ritardi o disfunzioni nel rapporto con il Governo, se si considera che dei 66 pareri
espressi, 57 sono stati favorevoli, 7 favorevoli con osservazioni, 2 contrari, a dimostrazione di una sintonia pressoché costante tra Parlamento
e Governo. Si può anzi sostenere che il parere favorevole del Parlamento nazionale reso al Governo prima dell’adozione definitiva dell’atto in
sede europea, è valso ad accrescere l’autorevolezza e quindi la forza negoziale dell’Italia al tavolo di Bruxelles.
Certo, sarebbe fuorviante pensare di costituire un Comitato o una
Commissione ad hoc su ogni specifica questione o argomento ma indubbiamente sarebbe necessaria una ricognizione a monte della complessa
materia comunitaria per poi valutare a valle se le attuali competenze delle commissioni consentono realmente un efficace intervento del Parlamento nella fase ascendente del procedimento decisionale europeo. In
prima approssimazione, si può comunque sostenere che laddove esistano materie interdisciplinari, che quindi toccano orizzontalmente le competenze di più commissioni è forse preferibile l’individuazione o
l’istituzione di un organismo bicamerale che da un lato risponde all’esigenza di specializzazione dall’altro, in quanto sintesi dei due rami del
Parlamento, vale ad evitare sovrapposizioni o duplicazioni di attività, le
quali peraltro non sono affatto rare, anche in ragione dell’organizzazione non sempre speculare dell’attività della Camera e del Senato.
2.3 - La funzione del parere parlamentare
Il ruolo del Parlamento nella fase ascendente del procedimento decisionale europeo potrebbe far pensare all’assolvimento di una funzione
consultiva e di controllo (40) perché nelle leggi che prevedono tale intervento (vedi capitolo precedente) si fa spesso riferimento, ad osservazioni e pareri come atti conclusivi del procedimento dinanzi all’organo
parlamentare; si può inoltre ritenere prevalente l’aspetto tecnico, quello
del parere come ultimo atto del procedimento che perfeziona la decisione prima della sua adozione definitiva, avendo come parametro la com-
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Valeria Galardini
patibilità del progetto di decisione con l’ordinamento interno (41). In
realtà, analizzando l’intervento del Parlamento in un procedimento complesso come quello comunitario (le considerazioni, come si è visto, sono
analoghe per tutti i tipi di atti che si vogliano adottare, siano essi direttive o decisioni quadro) ne emerge con chiarezza l’aspetto politico.
In primo luogo, infatti, ci si deve interrogare sul perché dell’esigenza
di un controllo democratico sugli atti che devono assumersi in sede europea. La prima risposta è quella della trasparenza, rendere cioè note al
Parlamento e all’opinione pubblica negoziazioni che altrimenti emergerebbero solo al momento dell’adozione definitiva dell’atto, il quale a sua
volta ricadrebbe sull’ordinamento interno nazionale senza una concertazione democratica preventiva. Si deve inoltre considerare che un maggiore intervento del Parlamento sull’attività del Governo nell’ambito
dell’Unione europea faciliterebbe la trasposizione del diritto comunitario nell’ordinamento interno.
È tuttavia necessario svolgere qualche considerazione ulteriore. In particolare, il procedimento che si svolge a Bruxelles secondo le caratteristiche del metodo intergovernativo, è del tutto riservato: e vi è anzi una fase,
che va dal momento in cui uno Stato membro o la Commissione assumono una certa iniziativa fino al passaggio dinanzi al COREPER, caratterizzata dalla potenziale assenza di input politici, visto che le negoziazioni
avvengono nell’ambito di gruppi di lavoro che hanno, è vero, un mandato
ben preciso, ma che sono pur sempre formati da personale non politico.
Questo procedimento incide negativamente sulla trasparenza delle scelte
e crea un deficit democratico non solo per la mancata partecipazione del
Parlamento a questa fase, che è di impegno politico della posizione del
Paese, ma anche perché quand’anche intervenisse già in sede dei gruppi
di lavoro un intervento politico, esso, allo stato attuale, non potrebbe che
essere governativo e quindi di maggioranza, rimanendo esclusi la partecipazione ed il controllo delle forze politiche di opposizione (42).
La non trasparenza delle scelte deriva inoltre dal carattere informale
che quasi sempre rivestono le negoziazioni all’interno del gruppo di lavoro e dalla non pubblicità dei lavori dello stesso.
Di qui la risposta alla domanda iniziale sul significato dell’intervento
del Parlamento: esso vale a determinare il rispetto del principio della trasparenza e della partecipazione di tutte le forze politiche oltre a rendere
necessaria una più precisa ed attenta formalizzazione dei testi.
Il passaggio parlamentare dovrebbe quindi porsi in un momento almeno precedente l’esame del progetto dinanzi al COREPER (43), momento nel quale le trattative sono ormai in genere alla fase conclusiva
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(sull’argomento, vedi il capitolo 2.1), e si dovrebbe prevedere un secondo passaggio parlamentare se dopo l’esame dinanzi al COREPER l’atto
abbia subito sostanziali modifiche (analogamente a quanto avviene per
gli schemi di decreto che vengono trasmessi alle Camere per il parere al
fine dell’adozione di un decreto legislativo, il quale deve recare soltanto
modifiche conseguenti al recepimento del parere parlamentare ed essere
soggetto ad un secondo parere in caso di modifiche ulteriori).
In questa ottica il ruolo svolto dal Parlamento potrebbe sdoppiarsi e
sostanziarsi in una funzione di indirizzo esercitata in via preliminare rispetto all’esame del COREPER e in una successiva funzione di controllo (eventuale), avente ad oggetto l’atto adottato dal medesimo organismo
in caso di modifiche sostanziali, con la conseguenza di un ampliamento
dell’aspetto politico del ruolo parlamentare in forza della idoneità dell’esame preliminare ad indirizzare le negoziazioni, nonché della capacità
di incidenza dell’intervento del Parlamento sulla decisione finale. E ciò
tanto più in considerazione del fatto che il progetto di atto, quando è ancora all’esame dei gruppi di lavoro, non ha un contenuto normativo vero e proprio ed è dunque suscettibile delle più ampie modifiche.
Anche la eventuale seconda fase, successiva all’esame del progetto di
atto dinanzi al COREPER, pur configurando un’attività di controllo volta a verificare le ragioni di una decisione non conforme alle indicazioni
del Parlamento, rientrerebbe pur sempre nella funzione di indirizzo politico, in quanto il controllo stesso sarebbe accedente al ruolo di indirizzo
in precedenza svolto ed avrebbe come parametro un giudizio politico (44).
3 - Il controllo democratico del Parlamento nazionale sullo spazio di libertà, sicurezza e giustizia: osservazioni conclusive e prospettive di sviluppo
Tirando le fila delle argomentazioni sin qui svolte, il controllo del
Parlamento nazionale sull’ulteriore sviluppo dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia appare senz’altro un elemento essenziale nella costruzione dell’edificio europeo, che perde sempre più un aspetto meramente
economico a favore di quella che può essere definita una connotazione
politico-sociale. È certo comunque che lo spazio di libertà, sicurezza e
giustizia per i contenuti che ha assunto diventa uno di quegli aspetti europei che toccheranno più da vicino la vita concreta dei cittadini: è quindi ancor più necessario che questo obiettivo dell’Unione si sviluppi con
una piena partecipazione democratica. Si tratta altresì di un settore nel
quale l’aspetto multidisciplinare è più che evidente. Appare quindi ra-
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Valeria Galardini
gionevole pensare ad un organo parlamentare ad hoc che si occupi con
continuità ed attenzione costante della materia, che altrimenti andrebbe
dispersa tra le competenze di più commissioni, perdendosi in tal modo
il filo conduttore che lega tutti gli interventi di questo settore. A ciò si
aggiunga che una Commissione bicamerale rappresenterebbe quel necessario momento di sintesi e di univocità che, per le considerazioni suesposte, appare più che necessario alla materia stessa, evitando possibili
dualismi tra Camera e Senato nell’esprimere la rispettiva posizione sul
medesimo progetto di atto. Si tratta, è vero, di un rischio insito nel nostro sistema bicamerale, che tuttavia, se è vero che la funzione svolta dal
Parlamento nella fase ascendente del procedimento decisionale europeo
è prevalentemente una funzione di indirizzo, dovrebbe essere evitato, affinché il Governo riceva una chiara ed univoca espressione di volontà da
parte del Parlamento e ad un unico organo riferisca sull’attuazione data
all’indirizzo ricevuto. Sotto questo profilo, il riferimento ad un organismo bicamerale verrebbe anche a snellire e semplificare le procedure. È
inoltre da tener presente che l’attuale costruzione, da parte del Regolamento della Camera (articolo 127), della fase ascendente, ne configura
un aspetto decentrato, assegnando alle commissioni di merito l’esame dei
progetti di atti normativi del Consiglio e della Commissione, con il parere rinforzato della XIV Commissione. Questo significa che si è privilegiata e si è ritenuta efficace, ai fini di un incisivo intervento del
Parlamento nella fase ascendente del procedimento di formazione degli
atti comunitari, la specializzazione e la competenza per materia, la cui
importanza si è voluta ribadire anche con la presente relazione.
Si potrebbe allora pensare ad un adeguamento, con uno specifico
intervento legislativo, delle attuali funzioni e poteri del Comitato Schengen, che ha già assunto poteri di vigilanza anche sull’unità nazionale
EUROPOL, nonché di generale controllo sulla Convenzione istitutiva dell’Ufficio europeo di polizia (45), quindi su uno spicchio del terzo pilastro.
Le competenze del Comitato potrebbero così estendersi a tutte le materie del titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea (fino
alla comunitarizzazione, auspicabilmente entro i cinque anni previsti dall’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam) e alle materie del titolo VI
del Trattato sull’Unione europea, venendo così anche a semplificarsi l’individuazione dei progetti di atti che, nell’ambito dei suddetti titoli, si
configurano come ulteriore prosecuzione dell’acquis di Schengen e come
tali rientranti nelle attuali competenze del Comitato stesso. L’idea di concentrare la materia dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia in un’unica
commissione non è del resto nuova nel panorama europeo. Anche nel-
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
993
l’ambito del Parlamento europeo esiste, infatti, una Commissione per le
libertà pubbliche che si occupa trasversalmente della materia ed il Parlamento dei Paesi Bassi, nel ratificare il Trattato di Amsterdam, ha previsto
che una sottocommissione della Commissione giustizia e della Commissione per gli affari europei esprima un parere vincolante su tutti gli atti
del Titolo IV del Trattato che istituisce la Comunità europea, (fino a
quando non sarà completato il processo di comunitarizzazione), e su tutti gli atti del Titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea ( 46).
Quanto alle modalità di intervento, una volta stabilito che i progetti
di decisione dovrebbero essere trasmessi al Parlamento prima del
passaggio dinanzi al COREPER, si potrebbe prevedere un termine più
ampio rispetto agli attuali quindici giorni (47) per l’esame degli stessi,
eventualmente i quarantacinque giorni stabiliti in via generale dalla legge comunitaria 2000 (in corso di approvazione) per l’intervento del Parlamento nella fase ascendente del procedimento decisionale europeo.
Maggiori perplessità desta invece l’individuazione di un efficace strumento di intervento nella fase ascendente sullo spazio di libertà, sicurezza
e giustizia. La legge numero 388 del 1993 prevede infatti un parere vincolante da esprimere sui progetti di decisione che impegnano il nostro
Paese nella materia Schengen. Si tratta di uno strumento che piò apparire
inidoneo e troppo rigido rispetto ad una funzione che indubbiamente deve esprimere un indirizzo politicamente vincolate per il Governo ma che
deve al tempo stesso considerare la fluidità delle trattative che si svolgono
a Bruxelles, lasciando un certo margine al Governo. Come si è giustamente osservato (48) «più che porre vincoli fissi i parlamenti chiedono ai loro
governi di tener conto di certe esigenze nel confronto con la posizione degli altri». Il parere vincolante è inoltre uno strumento inedito nel panorama regolamentare. Tuttavia, nonostante le perplessità che in linea teorica
si possono senz’altro sostenere, esso non è mai risultato un intralcio nei
rapporti tra Governo e Comitato parlamentare ed anzi ha contribuito a
rafforzare la posizione dell’Italia nelle sedi decisionali senza pregiudicare
quello spirito europeistico che contraddistingue il nostro Paese e che non
sarebbe opportuno comprimere in alcun modo. D’altra parte, se il parere
vincolante può apparire uno strumento troppo rischioso, il «documento
finale», con cui l’articolo 127 del Regolamento della Camera conclude l’intervento delle commissioni competenti per materia nella fase ascendente
volta all’esame degli atti normativi del Consiglio e della Commissione, appare uno strumento troppo debole ed in effetti quasi mai utilizzato.
L’esigenza che allora sembra senz’altro potersi cogliere è quella di tipizzare il più possibile l’intervento del Parlamento nella fase ascendente
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Valeria Galardini
del procedimento decisionale europeo non solo, come si è detto, individuando con precisione le materie e gli atti da sottoporre all’esame del
Parlamento, ma anche gli organi che devono intervenire, i tempi e gli
strumenti con cui intervenire.
Sotto questo profilo, l’articolo 50 del Regolamento del Senato delinea
un meccanismo che appare convincente se è vero che la funzione svolta
dal Parlamento nella fase ascendente è una funzione di indirizzo: la risoluzione ex articolo 50 del Regolamento del Senato è infatti uno strumento tipico, vincolante per il Governo ma non così rigido come un
parere vincolante, corredato di opportune garanzie quali la rimessione in
Assemblea a richiesta del Governo o di un quorum di componenti della
commissione, elemento questo che garantisce anche le opposizioni.
D’altra parte, senza poter scendere in questa sede nel dettaglio della
funzione di indirizzo delle Camere e ancor più delle commissioni bicamerali, si può osservare da un lato il progressivo superamento della ritrosia con cui si riconoscevano agli organismi bicamerali poteri di
indirizzo da esprimere con risoluzioni (49), dall’altro, per quanto concerne il regolamento della Camera, la possibilità di configurare la risoluzione anche come strumento conclusivo (50).
In definitiva, appare plausibile attribuire al Comitato SchengenEUROPOL una funzione di indirizzo e di controllo sullo spazio di libertà, sicurezza e giustizia da esercitare avvalendosi dello strumento della risoluzione, che impegna il Governo, avendo tuttavia una maggiore
duttilità rispetto al parere vincolante. Tale strumento può dunque
apparire più consono alla natura giuridica della funzione svolta che, come si è detto, è essenzialmente di indirizzo, in quanto non si riduce ad
un’azione di conformità ad un parametro, ma è sempre una somma di valutazioni, di indicazioni e di osservazioni anche per un eventuale riformulazione del progetto di atto.
Sarebbe infine opportuno, ove fosse accolta questa tesi, ampliare il
numero dei componenti del Comitato (51) che potrebbe assumere la denominazione di Commissione di indirizzo e di controllo sullo spazio di
libertà, sicurezza e giustizia.
4 - Il controllo democratico europeo: osservazioni conclusive e prospettive
di sviluppo
Del ruolo, inteso come poteri effettivi, del Parlamento europeo nel
procedimento decisionale volto all’adozione delle misure di cui al titolo
IV del Trattato che istituisce la Comunità europea e degli atti di cui al-
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
995
l’articolo 34 del Titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea si
è già accennato nel capitolo 2.1. Il controllo democratico svolto dal Parlamento europeo infatti, non è ancora, in estrema sintesi, una codecisione, si esplica infatti nella forma di un parere obbligatorio e vincolante
tale da incidere sulla legittimità formale dell’atto, ma non sulla sua elaborazione politica.
La riflessione che si vuole svolgere in questa sede è tuttavia sul
carattere integrato e non sovrapposto dei ruoli svolti dal Parlamento nazionale e da quello europeo, ragione per cui la crescita del controllo
democratico europeo non dovrebbe comportare il venir meno o l’affievolirsi delle ragioni che sono alla base del controllo democratico nazionale, mentre è necessario individuare un circuito parlamentare integrato.
In primo luogo, infatti, le due istanze, europea e nazionale, sono portatrici di interessi non coincidenti: sulla medesima questione è quindi opportuno avere una valutazione che tenga conto del contesto europeo, ma
che sia altresì anche fortemente radicata nella realtà nazionale. Come ha
affermato il ministro pro tempore per le politiche comunitarie Enrico Letta nel corso di un’audizione dinanzi al Comitato Schengen (cfr Resoconto stenografico del 16 giugno 1999, pag. 8): «L’immagine invece che
raffigura l’azione di controllo e di rappresentanza democratica del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali come elementi di un gioco a
somma zero, come vasi comunicanti nei quali la crescita di livello di una
delle due aree porta alla diminuzione di livello della seconda non è corretta né credo adeguata alla complessità dell’ordinamento comunitario
attuale». Ed in effetti, come ha affermato il Presidente della Camera Luciano Violante in occasione di una tavola rotonda organizzata dall’Istituto diplomatico «Mario Toscano» del Ministero degli affari esteri (52):
«La natura dell’ordinamento comunitario richiede (…) che alcune questioni non possano essere affrontate né isolatamente dal Parlamento europeo, né dai singoli Parlamenti divisi nei loro circuiti nazionali (…). I
Parlamenti nazionali sono in grado, con maggiore o minore efficacia, di
controllare l’operato dei rispettivi governi e quindi di influire, seppure
indirettamente, sull’attività del Consiglio dei ministri dell’Unione europea. L’azione di ciascun Parlamento rimarrebbe, però assai parziale e
condizionata da un’ottica necessariamente nazionale — non andando così ad intaccare la sostanza del deficit democratico presente nell’Unione
europea — se non si raccordasse con quella degli altri Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo».
Per quanto concerne il controllo sullo spazio di libertà, sicurezza e
giustizia, tale valutazione ha inoltre particolare rilievo in una fase in cui
996
Valeria Galardini
il completamento della comunitarizzazione del titolo IV del Trattato che
istituisce la Comunità europea è ancora da realizzare, ed il controllo democratico sul titolo VI del Trattato che istituisce l’Unione europea, sia
da parte del Parlamento europeo che dei parlamenti nazionali è ancora
una scommessa, non tanto perché non esistono norme in tal senso, ma
perché manca ancora la cultura e l’attitudine, se così si può dire, a costruire un vero intervento dei parlamenti nel contesto del terzo pilastro.
Ciò nonostante il circuito Parlamento nazionale — Parlamento europeo non sempre è complementare ed integrato (53); lo stesso Parlamento
nazionale, che ha reagito alla perdita di sovranità derivante dall’evolversi della costruzione dell’Unione europea dotandosi di norme di raccordo con le attività europee (vedi ad esempio l’articolo 125 che disciplina
il seguito parlamentare delle risoluzioni votate dal Parlamento europeo),
e con le sue istituzioni (vedi ad esempio l’articolo 126 che consente audizioni dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo) vi ha fatto
raramente ricorso (54). Anche il Commissario europeo Vitorino ha comunque affermato, nel corso dell’audizione dinanzi ad una delegazione
del Comitato parlamentare Schengen-EUROPOL a Bruxelles (55), che
«Non si può sostituire il controllo dei Parlamenti nazionali con un controllo esclusivo del Parlamento europeo» è necessario quindi mantenere
i due livelli . Il riferimento era in particolare all’Ufficio europeo di polizia, quindi ad un settore del terzo pilastro e dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. A questo riguardo, nel medesimo contesto della citata
audizione, si è contemplata l’ipotesi di costituire un’istanza permanente
in cui associare nel controllo democratico i parlamenti nazionali e quello europeo per avere una visione globale dei problemi, in questo caso riferiti ad EUROPOL. Si tratta di un’idea non nuova, come ha affermato
lo stesso Commissario Vitorino, e come si è avuto modo di riscontrare
anche recentemente con la costituzione di un organismo permanente per
la redazione di un progetto di Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, che effettivamente si presta al perseguimento di un obiettivo
specifico. La novità dell’iniziativa, che in effetti è inedita, risiede nel fatto che si tratta di un consesso (che è stato denominato convention), composto da rappresentanti sia del potere legislativo che esecutivo, a livello
nazionale ed europeo. Sia pur con connotazioni e finalità diverse, sembra quindi di potersi cogliere e sostenere l’esigenza di dover trovare in
vari settori e per varie finalità una sede in cui unire il confronto ed i
rispettivi contributi da parte nazionale ed europea.
Si potrebbe quindi pensare alla costituzione o alla individuazione di
un organismo sovranazionale preordinato al controllo democratico su
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
997
uno specifico settore (ad esempio il terzo pilastro o alcune parti di esso):
organismo che dovrebbe avere, per conseguire un risultato utile,
carattere di struttura permanente, poteri effettivi, e un obiettivo ben
individuato.
Il carattere permanente lo distinguerebbe infatti da altri organismi,
che hanno natura diversa anche se riassumono le istanze dei paesi membri e associano altresì ai lavori il Parlamento europeo, organismi quali la
Conferenza delle commissioni per affari europei, che tuttavia, nonostante il ruolo più incisivo che le viene riconosciuto dal citato Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam sul ruolo dei parlamenti nazionali, è una
conferenza parlamentare, e quindi non può evidentemente affrontare ed
esaurire il controllo democratico sullo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in quanto non ha, appunto, né è struttura, né ha la tradizione, ed
i poteri (un regolamento procedurale interno) per effettuare un controllo costante ed incisivo su tutti gli atti del terzo pilastro.
Il secondo elemento che appare indispensabile per il buon funzionamento di un’istanza sovranazionale così concepita dovrebbe essere proprio l’attribuzione di poteri effettivi, volti al conseguimento di un
risultato mirato: il controllo democratico integrato tra parlamenti nazionali e parlamento europeo. L’esigenza di specializzazione che si è avuto
modo di tratteggiare a proposito del controllo da parte del Parlamento
nazionale si avverte infatti anche nel contesto europeo in particolare per
la natura stessa della materia (lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia),
che non ha ancora contorni ben definiti.
La costituzione di un organo specifico ad hoc, ovvero il conferimento alla Conferenza delle commissioni per gli affari europei di un carattere
strutturale, operativo e specializzato (rivedendone le attuali competenze),
potrebbe quindi essere la risposta sul piano europeo all’esigenza di un
controllo diffuso ma al tempo stesso mirato sullo spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Tale istanza di controllo interistituzionale non dovrebbe tuttavia sovrapporsi gerarchicamente all’esercizio dei poteri di indirizzo e di controllo da parte dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo, bensì
essere l’occasione per un opportuno raccordo tra i compiti che ogni istituzione parlamentare ha e conserva. In altri termini si dovrebbe senz’altro
conservare un legame tra l’organo parlamentare, nazionale ed europeo, e
la sua proiezione nell’ambito della prospettata istanza interistituzionale,
la quale dovrebbe integrare le due legittimità democratiche eventualmente anche solo per un periodo transitorio, fino all’avvenuta comunitarizzazione del Titolo VI del Trattato sull’Unione europea.
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Valeria Galardini
Note
(1) Articolo 2, quarto trattino, del Trattato di Amsterdam nella versione consolidata con il Trattato sull’Unione europea.
(2) COM (1998) 459: verso uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
(3) (4 dicembre 1998) - Piano d’azione del Consiglio e della Commissione sul
modo migliore per attuare le disposizioni del Trattato di Amsterdam concernenti uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
(4) COM (2000) 167 definitivo.
(5) Tale cooperazione si è comunque sempre sviluppata a latere della Comunità europea e poi dell’Unione europea, come si evince chiaramente dall’articolo 134 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen, che prevede
l’applicabilità delle disposizioni Schengen solo in quanto compatibili con il diritto comunitario e dall’articolo 142 della Convenzione stessa, che prevede la
sostituzione di eventuali norme comunitarie approvate in materia di libera circolazione con le corrispondenti norme Schengen. In entrambi i casi è chiara
pertanto la prevalenza del diritto comunitario sulle disposizioni Schengen
ed è questa la filosofia che si trae dall’impianto complessivo degli accordi di
Schengen.
(6) Nel dicembre del 1996, la Norvegia e l’Islanda hanno inoltre firmato un
accordo di cooperazione che ha conferito a questi due paesi lo status di membri
associati, in quanto essi, non facendo parte dell’Unione europea, non potevano
essere ammessi a pieno titolo nella cooperazione Schengen. Ha tuttavia pesato il
loro precedente accordo di libera circolazione con la Svezia, la Danimarca e la
Norvegia attraverso l’Unione nordica dei passaporti, che non poteva essere spezzata dalla successiva adesione di questi tre Stati — membri dell’UE — agli accordi di libera circolazione firmati a Schengen.
(7) Per acquis di Schengen devono intendersi, così come chiarito dal Protocollo stesso sull’integrazione dell’acquis di Schengen, l’Accordo firmato a
Schengen il 14 giugno del 1985; la Convenzione firmata a Schengen il 19 giugno 1990 recante l’applicazione dell’Accordo stesso, nonché l’atto finale e le
dichiarazioni comuni relative, i protocolli e gli accordi di adesione all’Accordo
del 1985, nonchè la Convenzione di applicazione del 1990 firmata successivamente dall’Italia, dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Grecia, dall’Austria, dalla
Danimarca, dalla Finlandia e dalla Svezia con i relativi atti finali e dichiarazioni; le decisioni e le dichiarazioni adottate dal Comitato esecutivo e dagli organi da esso delegati.
(8) La data in cui ha avuto inizio questo periodo transitorio volto alla definitiva integrazione dell’Italia nello spazio Schengen è stata il 26 ottobre 1997,
quando sono stati eliminati i controlli alle frontiere aeroportuali (ad eccezione di
quelli da e per l’aeroporto di Schipol - Paesi Bassi) e l’Italia è entrata a tutti gli
effetti nello Schengen Information System (SIS).
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
999
(9) L’adeguamento dell’Italia ai parametri Schengen è stato in realtà ben più
lungo e laborioso. Dal 1990, anno in cui è stata firmata la Convenzione di Schengen, il nostro paese ha infatti dovuto dotarsi di una legge sulla protezione dei dati personali (L. 31 dicembre 1996, n. 675) e, anche se non espressamente previsto
dalla Convenzione, di una normativa più efficace in materia di immigrazione (legge 6 marzo 1998, n. 40). Sull’argomento vedi in specifico capitoli 2.4 e 2.5 del
primo volume relativo all’indagine conoscitiva sullo stato di attuazione della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen in Atti parlamentari - XIII legislatura, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, n. 3, 1997.
(10) Sono in realtà previste alcune eccezioni di deliberazione a maggioranza
qualificata, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, in materia di visti.
(11) Cfr. sull’argomento TIZZANO A., Il Trattato di Amsterdam, Cedam, Padova, 1998, p. 77, ove si ipotizza, anche alla luce dei precedenti, che il Consiglio,
decorso inutilmente il periodo transitorio di cinque anni, possa continuare a deliberare in materia, con la stessa procedura prevista per i primi cinque anni se nel
frattempo non sia stata adottata quella indicata dall’articolo 67 del Trattato che
istituisce la Comunità europea per il periodo successivo. Sull’argomento vedi
anche il capitolo VII del volume conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea in Atti parlamentari - XIII legislatura, Indagini conoscitive e documentazioni legislative,
n. 20, 1999.
(12) Cfr. Resoconto stenografico del 19 aprile 2000, p. 54.
(13) La politica di partenariato con i Paesi di origine degli immigrati comporta un approccio “interpilastri” ricomprendendo le questioni connesse alla politica dei diritti umani e allo sviluppo del Paesi e delle regioni di origine e transito.
In questa logica Tampere ha prolungato il mandato al gruppo di lavoro di alto livello su asilo e immigrazione, investendolo del compito di procedere all’attuazione
dei piani d’azione sinora elaborati (Albania, Marocco, Afghanistan, Iraq, Somalia
e Sri Lanka) e di procedere nell’elaborazione di analoghi documenti per altri Stati terzi, riferendo sul proprio lavoro al Consiglio europeo nel dicembre 2000.
(14) Cfr. in proposito il Resoconto stenografico dell’audizione del sottosegretario per gli affari interni Massimo Brutti svolta dinanzi al Comitato Schengen —
Europol il 17 febbraio 2000, p. 4 e ss.
(15) L’articolo 2 della Convenzione di Schengen, così recita: «(…) per esigenze di ordine pubblico o di sicurezza nazionale una parte contraente può, previa consultazione delle altre parti contraenti, decidere che, per un periodo
limitato, alle frontiere interne siano effettuati controlli di frontiera nazionali adeguati alla situazione. Se per esigenze di ordine pubblico o di sicurezza nazionale si impone un’azione immediata, la parte contraente interessata adotta le misure
necessarie e ne informa il più rapidamente possibile le altre parti contraenti».
(16) L’iniziativa volta a sviluppare la cooperazione di polizia mediante un apposito ufficio (EUROPOL) risale in realtà al Consiglio europeo di Lussumburgo del 1975 che ha istituito un gruppo denominato TREVI (acronimo di
1000
Valeria Galardini
“terrorismo, radicalismo e violenza internazionale”), che ha posto in essere le basi per la realizzazione di EUROPOL dando avvio ad una Unità droghe EUROPOL — UDE — (già operante in ambito TREVI fin dal 1990) divenuta il nucleo
centrale (limitato al settore droghe) su cui si è sviluppato EUROPOL. In seguito con le azioni comuni del 20 marzo 1995 e del 16 dicembre 1996, l’attività dell’UDE è stata ampliata ad altre fattispecie criminose: il traffico di materiale
radioattivo, di immigrati clandestini, di autoveicoli rubati, la tratta di esseri umani ed il riciclaggio del denaro “sporco”. Il 26 luglio del 1995 è stata infine adottata, sulla base dell’articolo K3 del Trattato di Maastricht, la Convenzione che
istituisce l’ufficio europeo di polizia EUROPOL.
(17) Il combinato disposto dei paragrafo 2 e 3 dell’articolo 45 della Convenzione EUROPOL stabilisce che la Convenzione entri in vigore il primo giorno
del terzo mese successivo al dispositivo dell’ultima ratifica.
(18) Per la definitiva operatività dell’Ufficio europeo di polizia è stata necessaria l’adozione di una serie di atti, previsti dall’articolo 45 della Convenzione
stessa, tra cui un Protocollo sui privilegi e le immunità del personale EUROPOL
che ha dovuto essere sottoposto a ratifica (con una procedura analoga a quella
prevista per la Convenzione stessa) da parte dei parlamenti nazionali e avendo
destato — soprattutto da parte italiana — alcune perplessità nei contenuti, ritenuti da alcune parti politiche troppo sbilanciati verso l’immunità del personale,
contenuti che tuttavia, come è evidente, non potevano essere rinegoziati , ha richiesto un lungo dibattito ed iter parlamentare.
(19) Cfr. gli artt. 94 e ss. della Convenzione di Schengen, che precisano altresì la qualità dei dati che possono essere immessi nel sistema.
(20) Basti pensare che anche il Regno Unito, che non aveva partecipato alla
cooperazione rafforzata Schengen, ha avanzato la richiesta, immediatamente dopo l’incorporazione dell’acquis di Schengen nell’Unione europea conseguente
all’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, di poter partecipare alla cooperazione di polizia realizzata con lo Schengen Information System, determinando
più di una perplessità, per evitare quello che è stato definito uno Schengen à la
carte, che fa perdere il valore complessivo di questa forma di cooperazione.
(21) Sull’argomento, vedi in specifico il documento conclusivo dell’indagine
conoscitiva sull’attuazione della Convenzione EUROPOL, approvato nella seduta del Comitato Schengen-EUROPOL del 22 giugno 2000.
(22) Si deve infatti senz’altro considerare anche il sistema INTERPOL (che si
pone su scala internazionale essendo 177 i Paesi aderenti), le riunioni informali
dei capi della polizia, un’apposita task force operativa dei capi della polizia che
collabora con EUROPOL (l’istituzione di questa task force è prevista al punto 44
delle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere e si è riunita per la prima
volta a Lisbona il 7 e 8 aprile 2000), la cooperazione transfrontaliera (che generalmente si basa su accordi bilaterali di cooperazione, ma ha già avuto un fondamento giuridico nella Convenzione di Schengen: gli artt. 40 e 41 della
Convenzione di Schengen prevedono infatti gli istituti dell’osservazione e dell’insegnamento oltre frontiera).
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
1001
(23) Si tratta di un’iniziativa illustrata dall’onorevole Elena Paciotti nel corso
di un’audizione dinanzi al Comitato Schengen-EUROPOL (Cfr. Resoconto stenografico del 1° giugno 2000).
(24) Si è visto nel capitolo precedente come l’Ufficio europeo di polizia stenti a decollare senza il supporto dell’autorità giudiziaria.
(25) Quest’ultima posizione è sostenuta in particolare proprio dall’Italia
(Doc. 6412/00 LIMITE CATS 15), che ha proposto per la costituenda unità
EUROJUST il modello della Direzione nazionale antimafia che, dotata di funzioni di coordinamento, riesce ad agevolare e rendere concreta ed operante la
cooperazione tra le diverse autorità nazionali titolari delle indagini, senza tuttavia porsi in rapporto di supremazia gerarchica. Tale coordinamento ha, per quanto riguarda l’esperienza nazionale italiana, e dovrebbe avere, in ambito europeo
— ove fosse accolto questo modello — la funzione di far circolare le informazioni evitando quindi duplicazioni di attività ed ottimizzando così l’espletamento delle attività di indagine. Oltre all’attività di coordinamento, EUROJUST
potrebbe svolgere anche una funzione di impulso investigativo nei confronti dei
pubblici ministeri nazionali così da valorizzare anche, sotto il profilo delle indagini, il cuore del sistema EUROPOL, che è rappresentato dalla possibilità di
costituire archivi di analisi, raccogliendo ed elaborando le informazioni, con la
possibilità di indagare su un fenomeno criminale attraverso un’indagine sovranazionale per reati che coinvolgano più paesi. Ancora oggi manca invece ad
EUROPOL quell’ impulso autonomo che può nascere soltanto da un organo di
coordinamento fra gli Stati membri.
Sotto il profilo della competenza, il documento propone che EUROJUST costituisca in un primo momento il pendant giudiziario di EUROPOL, quindi con
ambito di attività esteso ai reati di pertinenza dell’Ufficio europeo di polizia, con
la prospettiva tuttavia di estendere tali competenze anche ai reati di frode finanziaria, così da costituire il pendant giudiziario anche dell’OLAF (l’ufficio europeo di lotta alle frodi), in modo da creare un sistema equilibrato ed omogeneo
di relazioni funzionali tra i vari organismi dell’Unione, eventualmente anche rivedendo le attuali competenze dell’EUROPOL e dell’OLAF.
In conclusione, l’attività di EUROJUST dovrebbe essere di coordinamento
ed eventualmente di impulso nella fase preliminare delle indagini giudiziarie, attraverso i punti di contatto della rete giudiziaria europea, nell’esecuzione delle attività intraprese.
(26) Cfr. Resoconto stenografico del 23 marzo 2000, p. 5.
(27) Cfr. Doc. 7384/00 LIMITE EUROJUST 1 CATS 21.
(28) Si tratta del Comitato dei rappresentanti permanenti, previsto dall’articolo 207 del Trattato che istituisce la Comunità europea.
(29) L’articolo 36 del Trattato sull’Unione europea prevede un Comitato di alti funzionari che sostituisce il precedente Comitato ex articolo K4 del Trattato di
Maastricht.
(30) Cfr. articolo 2 del Regolamento interno del Consiglio.
(31) Sull’argomento, vedi in specifico GUIZZI V., Manuale di diritto e politica
dell’Unione europea, II ed., Editoriale scientifica, 2000, p. 304 e ss.
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Valeria Galardini
(32) Sull’argomento v. GUIZZI V., op. cit., p. 308 e ss.
(33) Precedentemente, la dichiarazione n. 13 allegata al Trattato di Maastricht
aveva promosso una maggiore partecipazione dei parlamenti nazionali all’attività
dell’Unione europea.
(34) Per una ricognizione storica del ruolo del Parlamento nella fase ascendente del procedimento decisionale europeo, v. GUIZZI V., op. cit., p. 555 e ss.
(35) In specifico, un emendamento presentato dalla Commissione per le politiche dell’Unione europea così modifica l’articolo 6 delle legge comunitaria 2000:
«1. Alla legge 9 marzo 1989, n, 86, e successive modificazioni, sono apportate le
seguenti modificazioni:
a) dopo l’articolo 1 è inserito il seguente:
«Art. 1-bis (Trasmissione al Parlamento e alle regioni dei progetti di atti comunitari). – 1. I progetti degli atti normativi e di indirizzo degli organi dell’Unione europea e delle Comunità europee, nonchè gli atti preordinati alla
formulazione degli stessi, e le loro modificazioni, sono trasmessi, contestualmente alla loro ricezione, alle Camere per l’assegnazione alle Commissioni parlamentari competenti, nonché alle regioni anche a statuto speciale e alle province
autonome, dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal Ministro competente
per le politiche comunitarie, indicando la data presunta per la loro discussione
o adozione da parte degli organi predetti.
2. Tra i progetti e gli atti di cui al comma 1 sono ricompresi anche quelli relativi alle misure previste dal Titolo VI del Trattato sull’Unione europea, ratificato ai sensi della legge 3 novembre 1992, n. 454, nonché quelli di cui al Titolo
VI dello stesso Trattato volti alla definizione della politica estera e di sicurezza
comune.
3. Le Commissioni parlamentari competenti formulano osservazioni e adottato ogni opportuno atto di indirizzo al Governo. Le regioni e le province autonome possono inviare al Governo osservazioni.
4. Decorso il termine di quarantacinque giorni dalla data di trasmissione dei
progetti e degli atti di cui ai commi 1 e 2, il Governo può procedere alla attività
di propria competenza per la formazione dei relativi atti dell’Unione europea e
delle Comunità europee».
(36) In realtà, come si legge anche nel Rapporto sull’attività della Camera nel
1999, presentato dal Presidente della Camera Luciano Violante in occasione della Conferenza stampa di fine anno, il Parlamento sta cercando vie più efficaci di
collegamento con l’attività normativa dell’Unione europea, ad esempio con la
creazione di una sorta di sessione comunitaria e con l’esame del programma legislativo dell’Unione, da parte di tutte le commissioni, prima della sua definitiva
approvazione.
(37) Il dato, che non comprende l’attività delle commissioni bicamerali, è
contenuto nel Rapporto sullo stato della legislatura a cura del Servizio Studi Parte I: dati e tendenze, II/1999, pag. 60. Sull’argomento, v. anche DE CARO C., «I
rapporti istituzionali e con le istituzioni europee», in Atti del FORUM su La formazione della classe dirigente per l’Europa. Spunti di riflessione sull’alta burocra-
Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia
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zia pubblica, promosso a Roma — 14 gennaio 1999, Palazzo Montecitorio —
Sala della Lupa.
(38) L’articolo 18 della legge n. 388 del 1993 così recita: «Il Comitato parlamentare esamina i progetti di decisione, vincolanti per l’Italia pendenti innanzi
al Comitato esecutivo contemplato dal titolo VII della citata Convenzione. A tal
fine, il rappresentante del Governo italiano, chiesto eventualmente al Comitato
esecutivo il rinvio della decisione a norma dell’articolo 132, paragrafo 3, della
Convenzione, trasmette immediatamente il progetto di decisione al Comitato
parlamentare. Questo esprime il proprio parere vincolante entro quindici giorni
dalla data di ricezione del progetto; qualora il parere non venga espresso entro
tale termine, esso s’intende favorevole alla decisione».
(39) La questione, monitorata dal Comitato con un’apposita indagine conoscitiva (sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea,
op. cit.) sembrerebbe ora in via di soluzione con la mozione De Luca ed altri n.
1-00439, già nel programma dei lavori dell’Aula, mozione che vuole riconfermare il ruolo del Comitato Schengen anche nel nuovo quadro istituzionale venutosi a creare con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam.
(40) La nozione di controllo sarebbe comunque da intendersi, in questo contesto, non come controllo ex post, ma come controllo-direzione. (Sull’argomento, v. MANZELLA A., Il Parlamento, Ed. Il Mulino, 1991, p. 349).
(41) Che il parere parlamentare debba essere l’ultimo atto del procedimento
lo ha stabilito anche una lettera del Presidente della Camera dei deputati al Presidente del Consiglio in data 2 ottobre 1998 a proposito in generale degli schemi di decreto legislativo, con l’ulteriore precisazione che, ove il Governo intenda
modificare il testo dello schema di decreto inviato alle Camere con contenuti naturalmente diversi dal recepimento del parere stesso, sarà necessario ripetere la
fase parlamentare sul nuovo testo (su quest’ultimo punto, vedi lettera inviata dal
Presidente del Consiglio dei ministri al presidente della Commissione bicamerale per la riforma amministrativa in data 9 dicembre 1999).
(42) Le considerazioni svolte traggono spunto anche dal discorso pronunziato dal presidente della Commissione parlamentare in ordine alla riforma amministrativa Vincenzo Cerulli Irelli in occasione della Conferenza sullo stato di
attuazione del Capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59: a che punto siamo con
il federalismo amministrativo? promossa il 25 gennaio 2000 a Roma, i cui atti sono stati pubblicati a cura del Servizio Prerogative e Immunità. Tali considerazioni riguardano la funzione del parere parlamentare in ordine agli schemi di
decreto legislativo di cui alla legge n. 59 del 1997.
(43) Sotto questo profilo, si ritiene poco efficace l’articolo 127 del Regolamento della Camera che scandisce, come momento temporale cui far seguire l’intervento del Parlamento, la pubblicazione della proposta di atto in Gazzetta
Ufficiale.
(44) Sul carattere “inautonomo” della funzione del controllo parlamentare, vedi MANZELLA A., op. cit., p. 349, che considera l’attività di controllo parlamentare come un’attività spesso ausiliaria ad altre funzioni e quindi gli atti di
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Valeria Galardini
controllo, secondo una definizione di M.S. Giannini, come atti di «partecipazione procedimentale» alla funzione di indirizzo politico.
(45) La legge di ratifica della Convenzione EUROPOL (legge 23 marzo 1998,
n. 93) ha stabilito che il Comitato Schengen sia il destinatario diretto di una relazione annuale sull’attuazione della Convenzione e svolga funzioni di vigilanza
sull’UNE l’Unità nazionale EUROPOL. A seguito di queste nuove competenze,
il Comitato ha cambiato la sua denominazione in: Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione ed il funzionamento della Convenzione di applicazione degli accordi di Schengen e di vigilanza sull’Unità nazionale EUROPOL.
(46) Legge 24 dicembre 1998, di ratifica del Trattato di Amsterdam.
(47) Così è stabilito dall’articolo 18 della legge 30 settembre 1993, n. 388 istitutiva del Comitato e dalla mozione De Luca ed altri n. 1-00439. Tale termine si
è rivelato tuttavia insufficiente, anche per le maggiori difficoltà con cui le commissioni bicamerali riescono a calendarizzare i propri lavori.
(48) Cost.. LIPPOLIS V., «Il Parlamento nazional-comunitario», in Quaderni
costituzionali, 1991, p. 319 e ELIA L., «Relazione di sintesi», in Seconda Conferenza dei Presidenti delle Assemblee Parlamentari Europee, a cura delle Camere,
1976, Roma.
(49) Cfr., ad esempio, le numerose risoluzioni assegnate alla Commissione parlamentare per l’infanzia (Pozza Tasca n. 7-00727, Pozza Tasca n. 7-00815, Cavanna Scirea n. 7-00870, Pozza Tasca n. 7-00842, De Luca n. 7-00022 e De Luca
n. 7-00024.
(50) Cfr., ad esempio, la lettera inviata dal Presidente della Camera al presidente del Comitato Schengen in data 30 settembre 1998 con cui si riconosce la
possibilità di concludere una procedura consultiva con l’approvazione di un documento di indirizzo; vedi anche la risoluzione approvata dalla Commissione per
le questioni regionali il 29 settembre 1999 a conclusione dell’esame dello schema di decreto legislativo concernente disposizioni correttive ed integrative del
decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, in materia di invalidi civili.
(51) Il Comitato Schengen-EUROPOL è attualmente composto da 10 deputati e 10 senatori che eleggono un presidente, un vicepresidente e, avendone avuta specifica autorizzazione dai Presidenti delle Camere, anche un segretario (cfr.
lettera del Presidente della Camera dei deputati al presidente del Comitato
Schengen del 28 maggio 1997).
(52) Vedi Incontri 1999 «Il raccordo legislativo tra il Parlamento europeo e
quello italiano», Ministero degli affari esteri, p. 93.
(53) Su questo argomento, vedi in dettaglio GUIZZI V., op. cit., p. 593 e ss.
(54) Sull’argomento vedi LIPPOLIS V., Il Parlamento nazional-comunitario, op.
cit., p. 332 e ss.
(55) Cfr. Resoconto stenografico del 19 aprile 2000, p. 53.