Più Lavoro Più Stato Sociale Più Europa

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Più Lavoro Più Stato Sociale Più Europa
Più Lavoro
Più Stato Sociale
Più Europa
Atti del convegno
11 dicembre 2012
Sindacato
Pensionati
Italiani
BRESCIA
Sindacato
Pensionati
Italiani
Lombardia
Segretariato
Europa
Sommario
Introduzione3
Interventi
2
Intervento introduttivo di Anna Bonanomi 4
Oliviero Girelli 6
Ernesto Cadenelli 8
Cesare Pinelli 13
Renata Bagatin 19
Intervento conclusivo di Fausto Durante 23
Sommario
Introduzione
P
iù lavoro, più stato sociale, più Europa – questi i temi al centro della riflessione
nell’assemblea annuale dello Spi Cgil svoltasi l’11 dicembre 2012.
Una riflessione necessaria dato il sempre maggiore rilievo che il livello europeo
esercita negli orientamenti di politica economica e, più in generale, nelle scelte
degli Stati membri. Dall’UE provengono vincoli per gli Stati nazionali, parametri
di riferimento, limitazioni alla sovranità.
La crisi economica coinvolge tutti gli Stati europei, gli effetti su occupazione e redditi sono gravi. C’è la necessità di dare risposte ai bisogni crescenti favorendo, a livello
europeo, decisioni orientate alla creazione di percorsi comuni per uscire dalla crisi.
Purtroppo non avviene, manca un’adeguata politica comune.
Cresce il rischio che le popolazioni percepiscano l’Unione come completamente
ostile. Eppure i destini dei vari Paesi europei sono legati, non esistono strade per
uscire dalla crisi che non prevedano strategie comuni.
Il dibattito proposto dallo Spi Cgil di Brescia parte dalla convinzione che sia necessaria una forte integrazione europea, una politica comune le cui priorità siano
rappresentate dalla tutela di occupazione, lavoro, diritti e stato sociale.
Particolare attenzione è dedicata alla difesa del modello sociale europeo, tratto caratterizzante degli Stati dell’Unione e, per i pensionati, un aspetto di essenziale importanza.
I problemi connessi alla questione sono stati affrontati attraverso più prospettive:sono
intervenuti, oltre ai rappresentanti della Cgil e dello Spi di Brescia e della Lombardia, Cesare Pinelli, docente di diritto pubblico che ha affrontato aspetti giuridici e
politici dell’integrazione europea, Renata Bagatin, componente dell’esecutivo Ferpa
(Federazione europea dei pensionati e degli anziani) e Fausto Durante del Segretariato Europa della Cgil nazionale.
Con questa pubblicazione speriamo di dare il nostro contributo alla discussione sui
cambiamenti in atto, sulle prospettive per lavoratori e pensionati in un contesto di
forte mutamento.
Segreteria Spi Cgil Brescia
Segreteria Spi Cgil Lombardia
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
3
Interventi
Introduzione di
Anna Bonanomi
Segretario generale Spi Cgil Lombardia
L
’incontro di oggi, che come sapete
ha per tema Più lavoro, più stato
sociale, più Europa, penso consentirà
a ciascuno di noi di riflettere attorno a
problemi di grande attualità che stanno
caratterizzando il nostro tempo come
quello immediatamente precedente.
Non ultimo le conseguenze della scelta
del Pdl di “staccare la spina al Governo
Monti” e le sue annunciate dimissioni
dopo il varo della legge di stabilità.
L’anno scorso anche noi, come sindacato dei pensionati, abbiamo celebrato
i 150 anni dalla realizzazione dell’Unità del nostro Paese. Ripercorrendo le
tappe del lungo e travagliato cammino
compiuto possiamo notare come tre
tappe lo abbiano caratterizzato: a cinquanta anni dall’Unità il nostro paese
cresceva, alla celebrazione dei cento
anni – dopo un periodo complesso segnato dal fascismo e dal dramma delle
due guerre – iniziava, dopo la ripresa, la
fase del boom economico e del riscatto della popolazione debole e povera, a
centocinquanta anni saggiamo le prime
concrete avvisaglie di un’inversione di
quest’ultima stagione di conquiste e benessere.
4
Interventi
Il nostro Paese non cresce più, c’è meno
lavoro, salari e pensioni sono sempre
più poveri, i diritti vengono messi in
discussione e la speranza nel futuro,
soprattutto per i giovani, sembra un’utopia del passato.
Di contro le disuguaglianze aumentano,
aumentano la corruzione e l’evasione
fiscale, aumenta l’intolleranza nei confronti degli stranieri, ci si chiude nei
propri steccati aumentando così divisione, scollamento e solitudini. È palpabile la disaffezione nei confronti della
politica che, negli ultimi venti anni, ha
ritenuto che dovesse essere il mercato
a decidere delle sorti delle nostre popolazioni lasciando, nel contempo, soli i
più deboli. Non solo, attraverso la colpevole sottovalutazione della crisi che
avanzava, ha creato tutte le condizioni
per mettere in ginocchio il Paese e ha
favorito i tanti privilegi a dispetto delle
enormi difficoltà in cui versano lavoratori e pensionati.
Voglio qui oggi porre l’accento sul
grande valore sociale che hanno avuto
l’Unità del nostro paese e la Costituzione italiana nel quadro di un convinto e
più che mai necessario impegno a sostegno della realizzazione degli Stati
d’Europa.
Riteniamo non possano esserci dubbi rispetto al fatto che l’integrazione
europea è un processo irreversibile e
progressivo, ma siamo altrettanto consapevoli e convinti che la comunità si
trovi a un bivio e che occorra optare
per una direzione chiara scegliendo tra
l’unire le forze all’interno della stessa
- costruendo un futuro forte, guidati da
valori quali la solidarietà in un mondo
globalizzato - o il ripiegare su se stessa
adattandosi supinamente alla globalizzazione.
Certo non possiamo sottovalutare che
nell’ultimo decennio l’euro ha arrecato
numerosi benefici ai cittadini dell’Unione, quali la stabilità dei prezzi, la
soppressione dei costi di conversione
valutaria, l’impossibilità di svalutazioni concorrenziali nominali, tassi
di interesse meno elevati, lo stimolo
all’integrazione dei mercati finanziari
e una maggiore facilità dei movimenti
transfrontalieri dei capitali. Di contro,
anche per effetto della crisi finanziaria
ed economica partita dagli Stati Uniti
d’America che ha investito molti paesi
europei, è aumentato il tasso di disoccupazione: da circa il 7% nel 2008 all’attuale 10,4%, con una disoccupazione
giovanile che supera il 50% in alcuni
Stati membri.
Il debito pubblico e quello privato, gli
eccessivi squilibri macroeconomici
hanno causato un rapido, diretto e profondamente negativo sviluppo socio economico dell’area euro e dell’Unione
nel suo complesso.
La situazione economica e finanziaria,
quanto mai difficile, è aggravata da
continue tensioni e speculazioni sui
mercati delle obbligazioni sovrane, che
si sono tradotti in tassi debitori insostenibili per alcuni paesi e bassi e negativi per altri, creando una drammatica
instabilità economico – finanziaria per
alcuni Paesi.
Se questa è la condizione e se non è
conveniente affossare l’Unione, quali
politiche bisogna mettere in atto per rimontare questa situazione e far tornare
competitiva l’area euro?
Il rigore, certo necessario per avere bilanci in ordine e trasparenti, può bastare
allo scopo? O il solo rigore sta causando
recessione e perciò povertà di massa?
La politica di riduzione e contenimento
dei salari porterà a rendere più competitivo il sistema produttivo dei nostri Paesi o serve migliore qualità del prodotto,
ricerca e promozione dei settori strategici per invertire il declino in alcuni
Paesi e il default in altri?
La pressione fiscale talmente alta da
strangolare la capacità di spesa delle famiglie, ma anche la possibilità di investimento delle aziende, è la condizione
che può aiutare lo sviluppo economico
oppure è solo foriera di salari e pensioni
incapaci di garantire un tenore di vita
dignitoso?
È la diminuzione dei diritti, conquistati
dal dopoguerra a oggi, la strada da percorrere o, invece, serve uno sforzo straordinario per coinvolgere tutte le forze
sane e intelligenti, presenti nei nostri
paesi, nella costruzione di un progetto
di inclusione, di valorizzazione del merito, solidale e democratico?
Da questo punto di vista vale la pena riaffermare la necessità di riconoscere pienamente il ruolo delle parti sociali, il diritto
a negoziare e concludere accordi collettivi e a intraprendere azioni anch’esse collettive, al fine di definire una politica del
mercato del lavoro che stimoli la ricerca,
riduca la disoccupazione, salvaguardando al tempo stesso il modello sociale eu-
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
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ropeo che, sino a ora, ha risposto in modo
adeguato ai bisogni di tutela.
E ancora, è utile tagliare indiscriminatamente il finanziamento allo stato
sociale o sarebbe più conveniente investire nella crescita sostenibile a medio
termine? Occorrerebbero, secondo noi,
livelli adeguati di investimenti pubblici essenziali per la stabilità economica
e finanziaria a lungo termine, per uno
stato sociale equo e per finanziare i costi
della già più che prevista evoluzione demografica, scongiurando così il rischio
di non dare adeguate tutele alla condizione di fragilità della popolazione anziana e non solo.
Se consideriamo che l’Unione è attualmente fragile dal punto di vista sociale,
economico e politico, che diversi stati
membri, tra cui il nostro, sono impegnati in sforzi di riforme strutturali e in
programmi di consolidamento estremamente gravosi per le popolazioni, non
possiamo non ritenere che, in ultima
analisi, la chiave per superare congiunture come questa sia l’unione politica.
Un’unione politica che favorisca solidarietà, lavoro, tutele per i più fragili,
democrazia e convivenza civile.
Intervento di Oliviero Girelli
Segreteria Camera del Lavoro
di Brescia
S
ono maturi i tempi per discussioni
a livello europeo, quello che si teorizzava alcuni anni fa oggi è realtà, ciò
che si pensava lontano è arrivato molto
prima del previsto: l’obbligo di discutere di diritti nel mondo del lavoro, di
stato sociale, di modello di sviluppo nel
contesto europeo.
6
Interventi
L’Italia è un Paese decisamente in difficoltà, un Paese dove gli unici provvedimenti attuati per rispondere alla crisi
sono stati lo schiacciamento dei salari e
la compressione dei diritti. Non è stato
messo in campo nessun progetto per riattivare una parte di domanda interna,
nessuna misura efficace né in ambito
fiscale, né in ambito produttivo.
È evidente la necessità di un piano straordinario per l’occupazione e sono molti i settori nei quali si potrebbe agire.
Alcuni esempi di centrale rilevanza
sono i progetti di sviluppo su risparmio
energetico, Green Economy, innovazione manifatturiera, efficienza energetica,
messa in sicurezza dell’edilizia pubblica, riqualificazione urbana, turismo,
smaltimento dei rifiuti, diffusione della
banda larga, un tpl sostenibile, sviluppo
rurale.
Nulla di tutto ciò rientra tra le priorità
del Governo.
Guardando con attenzione ai recenti
provvedimenti, come il piano di stabilità, si scoprono, per l’ennesima volta,
sprechi ed inefficienze.
Riguardo all’utilizzo delle risorse disponibili, inoltre, vengono prese decisioni molto discutibili. Non condivido,
a questo proposito, i soldi stanziati per
la defiscalizzazione dei premi di risultato: una cifra superiore ai due miliardi
che sarebbe stata più utile per rifinanziare i contratti di solidarietà nel 2013
e sostenere i sette milioni di pensionati
che vivono con meno di 1000 euro al
mese.
Quello a cui assistiamo in questa fase
storica è, al di là dei singoli fatti, un
complessivo mutamento culturale.
Sta ormai prendendo forma un progetto politico di frantumazione e disgre-
gazione della società, dal lavoro alle
pensioni. Un modello in cui ognuno si
percepisce come singolo, sulla propria
posizione e problema, solo e debole
contro il sistema.
Si stanno abbattendo le radici collettive
e solidaristiche italiane ed europee.
Abbiamo davanti a noi la necessità impellente di un percorso per il recupero
di coesione sociale, diversamente non
riusciremo a frenare la deriva liberistica.
Servono un piano strutturale per la lotta
all’evasione, all’elusione fiscale e contributiva, maggiori imposizioni sulle
transazioni finanziarie, tasse ambientali
coerenti con l’indicazione europea secondo il principio “Chi inquina paga”,
una vera revisione dell’Irpef, in modo
sostanziale sulla prima aliquota, un bonus fiscale per incapienti. Misure che
tengano conto delle necessità di sviluppo industriale, sociale e ambientale da
affrontare, in gran parte, guardando alla
dimensione comunitaria.
L’Europa ha forti potenzialità economiche e industriali. Vi è, però, bisogno di
unificazione: ogni nazione deve avere il
coraggio di perdere una parte di sovranità per il bene comune.
Vanno cambiate le linee guida nella politica economica dell’Unione. Il patto di
stabilità europeo ha bisogno di modifiche, lo dimostrano dati che fotografano
la preoccupante situazione esistente.
Dall’inizio della crisi, nei 27 paesi europei si sono registrate 5500 ristrutturazioni che hanno colpito 2 milioni di
lavoratori. In tutta Europa sono 25 milioni i disoccupati.
Va costruito un modello fondato sulla
coesione sociale.
Problemi economici e sociali che si presentano in forme diverse in molti Stati
e che, per essere affrontati richiedono,
oggi, la capacità di ragionare, anche per
il sindacato, in un’ottica europea. Dobbiamo lavorare con sinergia per dare più
forza alla Confederazione Europea dei
Sindacati.
È evidente che, per porsi in questa dimensione, vanno affrontati, a livello
nazionale, alcuni temi: anzitutto quello
dell’unità sindacale.
In Italia si è fatto, di recente, l’accordo
separato sulla produttività. Ci sono stati
mesi di discussione tra Cgil, Cisl e Uil
nei quali si è cercato di costruire un rapporto unitario, dopo l’accordo separato
del 2009. Alla prima occasione, però,
Cisl e Uil si sono sganciate.
La mancata adesione di Cisl e Uil e
allo sciopero europeo del 14 novembre è stato un atto grave. Hanno perso
un’occasione importante: partecipare
ad uno sciopero che potrebbe segnare
l’inizio di nuove prospettive per un futuro più progressista, per un’Europa più
progressista.
Un modello per un futuro in cui si spera
che i cittadini escano dalle mode politiche di questi ultimi vent’anni all’insegna dello slogan “meno Stato più
mercato”,“togliere ai padri per dare ai
figli”. Serve il recupero di una politica
più sobria ed etica, in grado di rinnovarsi.
So di parlare a una platea che è preoccupata della divisione sindacale più di
qualsiasi altra categoria, anche per la storia che la vostra generazione ha vissuto.
L’unità sindacale va recuperata velocemente, attraverso un accordo interconfederale o passando per la legislazione.
Servono regole certe, senza che vi sia
la paura di misurarsi democraticamente.
Potremmo scoprire di non avere sempre
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
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ragione, deciderlo spetta a chi rappresentiamo, non ai vertici.
Dobbiamo lavorare con l’obiettivo di
creare sindacati forti e coordinati a livello europeo, in grado di farsi rappresentanti dei lavoratori, dei molti e sempre più gravi problemi che vivono.
Diversamente si produrranno le condizioni per Stati molto più liberisti e che
non garantiranno i diritti sociali, un
orizzonte preoccupante che si sta già
delineando.
Intervento di
Ernesto Cadenelli
segretario generale Spi Cgil Brescia
D
edichiamo questa giornata ad una
riflessione sull’Unione europea
che, nel 2012, è stata destinataria del
premio Nobel per la pace.
Si è riconosciuto, con questa assegnazione, come l’UE abbia saputo mantenere la pace dentro i propri confini.
Prima della Comunità europea la tragedia del conflitto tra i paesi del vecchio
continente aveva significato due guerre
mondiali, l’immane tragedia dei fronti,
delle trincee, dei campi di concentramento e sterminio.
Dopo il 1945 alcuni tra i principali Stati
europei voltano pagina cominciando a
mettere in comune carbone ed acciaio:
le materie prime della guerra.
Inizia così la storia di un’unione economica con un’aspirazione politica.
L’Europa è, in effetti, riuscita a fermare l’incubo della guerra dentro i propri
confini.
Si tratta di una conquista di enorme
portata, ma vanno fatte alcune considerazioni. Anzitutto la drammatica crisi
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Interventi
balcanica, a fine anni ‘90, ha riportato
nel continente la guerra e la catastrofe
del genocidio.
Va rilevato poi come molti stati europei siano stati, dal ‘45 ad oggi, coinvolti in azioni militari in molte parti
del mondo. Mai, l’Europa è riuscita ad
esprimere una politica estera comune, nemmeno su questioni cruciali. Lo
vediamo nitidamente anche in questa
fase: l’Europa non ha una visione unanime su questioni rilevanti del nostro
tempo, si pensi all’assenza di una posizione comune sulla vicenda Palestina –
ONU e alle difficoltà di definizione di
una politica verso l’area Mediterranea
o la Turchia.
L’assenza di orientamenti condivisi
sulla politica internazionale ha ricadute drammatiche anche sul tema dei
flussi migratori: non esiste una politica comune che permetta di fare fronte
solidamente nemmeno alle emergenze
umanitarie.
Quelli della politica estera, della politica internazionale, della pace sono alcuni tra i temi di importanza centrale su
cui sembra bloccato il tentativo di dare
all’UE un’unica voce. Sempre più si ha
la percezione del “gigante economico
- nano politico”: l’Unione appare come
una tecnocrazia bancaria estremamente
lontana.
Eppure le esigenze degli Stati nazionali,
pur nelle differenze evidenti tra casi, si
avvicinano sempre di più. La crisi colpisce, in maniera più evidente, gli Stati
del Sud Europa ma è un fenomeno che
coinvolge tutti. Ad essere messe in discussione sono, ovunque, le conquiste
dei precedenti decenni.
Si trovano ad essere in crisi, così, alcuni
tratti caratterizzanti dell’Europa, primo
fra tutti il suo modello sociale.
Quasi ovunque i governi tagliano la
spesa pubblica. Le ricadute sono le minori risorse per sanità, servizi pubblici,
istruzione e pensioni...proprio quegli
elementi che hanno caratterizzato l’esperienza europea distanziandola significativamente da quella di altri continenti.
Habermas e Derrida, nel 2003, hanno scritto una lettera aperta sul futuro
dell’identità europea, dove nell’identificare “i pilastri fondamentali “ di tale
identità, citano, non a caso, “le garanzie
di sicurezza sociale offerte dal welfare”
e “la fiducia degli europei nel potere civilizzante dello Stato”.
Si percepisce il rischio che i citati pilastri vengano meno ma l’UE, nel complesso, non agisce per fare fronte a queste eventualità, non cerca di allargare le
proprie aree di competenza.
Tutte le scelte sono lasciate a governi
nazionali, talvolta sotto il controllo indiretto degli stati più forti economicamente.
Le stesse parti sociali fanno fatica ad
agire a livello europeo. Abbiamo visto
come la CES sia riuscita ad organizzare,
il 14 novembre 2012, una mobilitazione
in tutti i paesi, con molti scioperi. È stato
di forte impatto vedere le stesse parole
d’ordine fare il giro dell’Europa: per il
lavoro e la solidarietà, no all’austerità.
Non si è trattato, certamente, della prima iniziativa riuscita della Ces ma è innegabile che, un reale e radicato senso
di appartenenza ad un grande movimento europeo, nel sindacato debba ancora
affermarsi. Del resto, le divisioni sono
ben presenti anche tra le confederazioni italiane. È indispensabile rafforzare
rapidamente il ruolo della CES: le pro-
blematiche dei lavoratori assumono carattere globale.
Il 5 settembre scorso, a Bruxelles, la
Commissione UE ha posto al centro del
dibattito quattro punti salienti a sostegno dell’occupazione:
1 -creare sussidi per nuovi assunti riducendo la pressione fiscale sul lavoro, sfruttare l’elevato potenziale di
creazione di occupazione dato dalla
Green Economy (20 milioni entro il
2020), migliorare la pianificazione
del personale nel sistema sanitarioassistenziale, fornitura di forza lavoro altamente qualificata.
2 -riforma dei mercati del lavoro, perché siano più dinamici e solidali.
Trarre insegnamento dalla crisi per
ridurre insicurezza del lavoro, garantire salari dignitosi, evitare le insidie
dei bassi salari, prevenire l’abuso dei
contratti atipici, aumentare gli investimenti.
3 -creare un mercato del lavoro completo per migliorare la mobilità, superando ostacoli giuridici e pratiche
per la libera circolazione dei lavoratori, a tal fine si propone di migliorare la trasferibilità delle pensioni e
delle prestazioni di disoccupazione
per i disoccupati che si recano in altri
paesi per cercare lavoro.
4 -un monitoraggio delle politiche per
l’occupazione e l’avanzamento del
piano nei singoli stati, coinvolgendo
il Fondo sociale europeo per sostenere le priorità.
La strategia Europa 2020 ha come
obiettivo il 75% di occupazione per tale
data, una tabella di marcia che fa i conti
con la crisi persistente, anche nel 2013,
e la necessità di realizzare lavoro, economia sociale e welfare.
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
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Un obiettivo che tiene conto anche di
una politica occupazionale comprensiva
dell’invecchiamento attivo. Si tratta di
punti programmatici, in gran parte, condivisibili ma che possono realizzarsi, uniformemente, solo con una politica comune.
Guardando all’UE sono, infatti, evidenti le differenze nei mercati del lavoro e
nella loro regolamentazione tra gli stati
membri. Si rischia l’acuirsi del dumping sociale, della corsa al ribasso dei
salari, dell’erosione dei diritti.
A chi spetta, se non all’Europa nel suo
complesso, governare questi fenomeni?
Serve un sindacato che sappia rappresentare tutti i lavoratori europei, contrastando un mercato selvaggio. Fausto
Durante potrà, certamente, aggiornarci
sullo “stato dell’arte”.
Serve un soggetto che affermi che i diritti dei lavoratori italiani non sono in
contrapposizione con quelli dei lavoratori tedeschi o greci, elaborando una
politica industriale e del lavoro comune.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un’intervista a Davignon, commissario UE negli anni della grande ristrutturazione siderurgica europea, in cui
ricordava quella fase.
Cito questo riferimento perché rende
evidente come, allora, una crisi di settore di dimensione enorme (lo sappiamo
bene noi bresciani ex Fiom) fu gestita
finanziando la chiusura di impianti,
garantendo i lavoratori con prepensionamenti senza messa in discussione di
diritti e libertà sindacali.
Attualmente le politiche attuate dai
governi sono, nel complesso, estremamente diverse da allora. Va evidenziato
anche come emergano differenze tra i
casi nazionali.
In questi giorni, ad esempio, il governo
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Interventi
francese ha minacciato la nazionalizzazione del colosso ArcelorMittal nel
caso in cui non dia garanzie di continuità, mentre noi siamo alla prese con la
drammatica situazione dell’Ilva.
Su un settore centrale come quello
dell’auto, non è in campo nessuna idea
di governo europeo e ci troviamo davanti a differenze abissali tra paesi: mentre
la Volkswagen fa investimenti e tutela
l’occupazione, la Fiat, in difficoltà di
strategia, non sa fare altro che scaricare tutti i costi sui lavoratori, sui diritti e
sulle libertà sindacali. Per la verità, nel
caso Fiat, ci sono stati attivissimi apripista nei ministri del lavoro dei governi
Berlusconi.
Siamo consapevoli che oggi, forse, le risorse economiche disponibili nella stagione evocata da Davignon non ci sono
più ma, appunto, andrebbero ricercate
nel bilancio dell’Unione attraverso una
davvero risolutiva sconfitta della piaga
delle evasioni fiscali e dei privilegi di
cui grandi ricchezze e finanza godono.
La vicenda dell’introduzione della Tobin tax è esemplare per capire quante
sono le resistenze dei poteri forti.
La necessità di riorientare l’azione
guardando al livello europeo coinvolge anche i pensionati. Anzitutto sono
molto direttamente toccati dalle evoluzioni dei modelli di welfare, pensiamo ad ambiti come la sanità e i servizi
sociali. L’età media della popolazione
aumenta in gran parte dell’UE, il problema dell’insufficienza dei redditi da
pensione non riguarda solo l’Italia. Il
sindacato pensionati rappresenta una
particolarità italiana cui molti paesi, in
questa fase, stanno cominciando a guardare con interesse.
È indispensabile che i pensionati nei
sindacati europei, davanti a problematiche simili, parlino con un’unica voce.
Lo Spi nazionale da anni partecipa attivamente alla FERPA, Federazione
Europea dei pensionati e delle persone
anziane. È un lavoro importante, rivolto alle politiche ma anche all’organizzazione di un Sindacato Europeo dei
Pensionati.
È auspicabile che il modello italiano
fatto di rappresentanza specifica dei
pensionati, negoziazione sociale e tutela individuale, confronto con i governi
locali e nazionali si estenda agli altri
paesi dove i pensionati o si riuniscono
in semplici associazioni di anziani, o
rimangono collegati alle categorie di
provenienza. Il risultato pratico è che i
loro problemi sono trascurati e rimangono in fondo all’agenda.
Nel nostro piccolo, con Renata Bagatin
e Livio Melgari, abbiamo partecipato e
dato una mano nei Balcani a far sì che
i sindacati di Slovenia e Croazia riprendessero il dialogo e che in Serbia sorga
un sindacato pensionati. Renata entrerà,
poi, più nel merito del nesso tra l’organizzazione e la pratica degli obiettivi di
welfare europeo.
Per creare le condizioni atte a facilitare lo sviluppo politico e democratico
dell’Unione, per dare voce alle esigenze
di lavoratori e pensionati, serve un’Europa che torni ad appassionare le opinioni pubbliche.
Va ricordato come, in Italia, lavoratori e pensionati siano stati i primi a fare
sacrifici, pagando anche una tassa specifica, per dare vita al progetto della
moneta unica.
Va creata un’istituzione che ci faccia
sentire rappresentati e dunque, per cominciare, un’istituzione democratica.
Non è accettabile l’attuale deficit democratico: abbiamo, a livello comunitario, un assetto istituzionale che non
dà sufficiente spazio al Parlamento,
unico organo eletto a suffragio universale. Certamente l’intervento del prof.
Cesare Pinelli ci aiuterà ad affrontare la
complessità dei temi in questione.
Noi siamo convinti che questa condizione di forte debolezza delle istituzioni rappresentative sia frutto anche di
orientamenti di politica economica che
hanno dominato gli ultimi decenni, a
partire dalla liberazione del movimento
dei capitali, che all’inizio degli anni ‘80
pose fine al compromesso di Bretton
Woods fondato appunto sul divieto di
circolazione dei capitali cui faceva da
contrappeso la libertà per le merci.
Lo strappo dei conservatori Reagan e
Thatcher determinò un rovesciamento
dei rapporti di forza sia tra capitale e
lavoro, sia tra capitalismo e democrazia
poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali.
Da quel momento l’intervento dello
stato nell’economia fu ridimensionato
e i lavoratori cominciarono a subire i
ricatti delle delocalizzazioni produttive.
Ebbe avvio così la fase del capitalismo
finanziario.
Possiamo parlare di “internazionale del
capitale”, un’élite globale che concentra un potere immenso. Si realizza al
contrario l’appello di Marx “proletari di
tutto il mondo unitevi”.
I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e si esprimono come i
governi.
Grandi banche e società finanziarie attraverso decisioni sui tassi, su dove investire o disinvestire possono sfiduciare
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
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i governi che attuano politiche economiche non gradite e sono in grado di
condizionare il destino dei popoli.
Il mutamento del rapporto tra capitalismo e governo democratico è uno dei
fattori alla base del processo di finanziarizzazione, così come lo è il cambio dei
rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Ma c’è anche una concorrenza tra i capitalismi nazionali e il mercato finanziario internazionale, che impone la sua
visione del mondo rappresentata dal
guadagno immediato da ottenere con
ogni mezzo. I finanzieri hanno conquistato un ruolo centrale nella gestione
delle grandi imprese.
Se si vuole uscire dalla crisi bisogna rovesciare questa situazione.
Le recenti decisioni della Banca Centrale Europea sugli interventi anti- spread
sono un primo passo per ricostruire la
sovranità monetaria dell’Unione e ridimensionare l’influenza della speculazione finanziaria sulle politiche economiche dei paesi in difficoltà.
Però occorre fare di più: la politica deve
tornare a fissare le regole fondamentali
dei movimenti di capitale a livello mondiale.
Serve un’Europa che si occupi di politica nel senso più alto del termine. In passato è avvenuto: si pensi, ad esempio,
alla solidarietà tra Paesi emersa durante
la fase di riunificazione delle due Germanie.
Oggi, invece, l’Europa è percepita come
un ostacolo allo sviluppo, anche da popoli tradizionalmente europeisti come il
nostro.
La responsabilità è, in parte, di quanti –
nei governi nazionali- scaricano, superficialmente, l’origine di politiche impopolari sul livello europeo. Il ritorno
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Interventi
in campo di Berlusconi non potrà che
acuire queste tendenze. Non c’è, però,
solo questo elemento: l’Unione europea
appare, troppo spesso, più una burocrazia gestita da un’élite di tecnocrati che
un’istituzione impegnata nel raggiungimento del progresso generale.
Questa situazione genera sfiducia verso
il livello comunitario e, unita alla crisi
economica, alimenta i populismi delle destre estreme che, in tutta Europa,
accrescono i loro consensi facendo leva
sui sentimenti antieuropei.
Dobbiamo togliere argomenti a questi
populismi montanti, favoriti da mercati
selvaggi, non gestiti dalla politica. La
sinistra, in tutti i paesi europei, rispetto
a queste istanze, ha compiti di portata
storica: l’evidente fallimento delle destre in Europa impone ai progressisti
europei il compito di rilanciare un processo di crescita economica, di democratizzazione delle istituzioni comunitarie, di proporre una governance che
vada oltre il metodo intergovernativo
con l’obiettivo di costruire un’Europa
solidale e inclusiva. Il “documento progressista di Parigi” firmato da Bersani,
Hollande e Gabriel rappresenta un positivo passo in questa direzione.
Se non si rafforza l’integrazione, la grave crisi politica e sociale travolgerà i
paesi dell’euro.
La via d’uscita possibile consiste nel
correggere gli squilibri dell’Unione
economica e monetaria superando le
insufficienze del Trattato di Lisbona del
2007 per andare oltre il semplice coordinamento tra Stati membri.
Servono scelte che annullino i costi della non – Europa.
Sono necessarie riforme strutturali nel
settore servizi, investimenti e progetti di
crescita. Occorrerà rafforzare la cooperazione tra Commissione e ministeri del
Tesoro, nell’ottica di creare un Tesoro
europeo, come si fece per la BCE. Si
tratta di una tappa verso la creazione di
un governo dell’economia con un ministro federale delle finanze.
Un’imposta europea nell’ambito del bilancio federale potrà dare credibilità adeguata per finanziare la crescita. Può essere l’1% dell’Iva attuale, una carbon tax,
una tassa sulle transizioni finanziarie.
Nessuna imposta, tuttavia, potrà essere decisa senza legittimità democratica
e senza risolvere la crisi di fiducia tra
l’Unione e i suoi cittadini.
L’euro non potrà sopravvivere senza un
progresso politico democratico decisivo.
Da oggi al 2014, quale cammino può
essere intrapreso? Serve recuperare alcuni capisaldi della Costituzione non
approvata nel 2004, e svolgere un lavoro del Parlamento europeo intrecciato
con i Parlamenti nazionali.
Lo stato di necessità può dar vita ad una
vera Europa politica e sociale, le cui
istituzioni garantiscano un equilibrio
giusto tra politiche monetarie, di bilancio, stimolando la crescita e le riforme.
L’euro sopravviverà solo con un governo economico europeo e un bilancio di
crescita; il suo fallimento avrebbe conseguenze disastrose su tutta l’Unione.
Questo processo può essere la via per
recuperare un’idea di Europa giusta, solidale, democratica e con un suo ruolo
nel mondo.
Serve un’ Europa dei popoli contrapposta all’Europa delle banche – non si
tratta solo di uno slogan ma di un vero e
proprio programma politico.
È evidente anche agli euro-scettici che
il futuro non è destinato al confron-
to esclusivo tra stati nazionali, non è
pensabile che sia l’Italia del domani a
rapportarsi, da sola, con la Cina o con
l’India, presumibilmente a relazionarsi
saranno le grandi aree geografiche.
E, allora, un’organizzazione come la
nostra, credo, non possa che aspirare ad
un’Europa coesa e capace di guardare
ad altre aree del mondo con spirito di
collaborazione.
Un’ Unione che riparta dalla consapevolezza che l’ha originata: l’indispensabilità della pace quale condizione irrinunciabile per lo sviluppo umano.
Esiste un grande potenziale che la politica europea ha il compito di incanalare.
Mai come oggi, gli Stati europei (Germania inclusa) sono ad un bivio: sprofondare o risollevarsi, insieme.
Intervento di Cesare Pinelli
Docente di Diritto Pubblico Università La Sapienza Roma
Cosa significa oggi per noi italiani
l’Europa, in un momento di così grande difficoltà economica per il nostro
Paese, per l’occupazione e per il lavoro? Come mai, in pochi anni, il nostro
atteggiamento, un tempo molto positivo, si è rovesciato in preoccupazione o
diffidenza? Certo, ci sono sempre parti
politiche pronte a cavalcare questo sentimento per ottenere voti. Ma del sentimento della grande maggioranza degli
italiani bisogna invece parlare, anche
per correggere certe idee un po’ astratte
sull’Europa.
La Comunità Europea nasce più di cinquant’anni fa, nel 1957, col Trattato di
Roma, e unisce allora solo alcuni Stati
del continente europeo: i tre maggiori
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
13
erano l’Italia, la Francia e la Germania
Occidentale, in un contesto non molto
diverso da quello in cui si era riunita
l’Assemblea Costituente italiana (19461948), un contesto di grande miseria,
prima di tutto, non solo materiale ma
anche morale per quello che era successo col fascismo e subito dopo il fascismo.
La situazione nel 1957, a distanza di
dieci anni, non era granché cambiata. C’erano state alcune grosse novità
politiche, però dal punto di vista economico c’era molto da fare ancora per
la crescita italiana. E c’erano anche
dei fenomeni di migrazione interna tra
gli Stati della Comunità Europea: non
dimentichiamo che la tragedia di Marcinelle in Belgio riguardò minatori italiani.
Che cosa ha significato, su questa premessa, la Comunità Europea? Ha significato un grande slancio all’economia
italiana. La CE pose le premesse di un
mercato che prima era semplicemente
comune, un mercato aperto, e poi, nel
1986, con l’Atto unico, è diventato un
mercato unico che ha consentito un’espansione dell’economia e, nello stesso
tempo, una crescita dello stato sociale
a livello nazionale. Questi due binari sono andati fino agli anni Ottanta in
modo parallelo: crescevano le prestazioni e i servizi sociali alla popolazione,
i diritti sociali riconosciuti in Costituzione venivano garantiti, e si affermava
il ruolo dei sindacati. Dall’altra parte,
col mercato, crescevano le imprese, il
famoso “miracolo italiano”. Il miracolo non è che l’abbiano avuto la Francia
o la Germania. Lo abbiamo avuto noi,
nei primi anni Sessanta, proprio perché
venivamo da una condizione di estrema
14
Interventi
arretratezza.
Non solo l’Europa ha avuto un grande
ruolo nel far crescere l’economia italiana, ma l’Italia ha avuto anche un grande
ruolo per far crescere l’Europa, nei momenti in cui Francia e Germania da sole
non riuscivano a risolvere certi blocchi.
Non dimentichiamo che all’origine della formazione della Comunità Europea
ci fu il bisogno di far fare la pace alla
Germania ed alla Francia. Tutto nasce
dalla controversia nel bacino della Ruhr
tra carbone ed acciaio, fra la paura dei
Francesi che si ricostituisse l’esercito
tedesco e la paura dei Tedeschi che l’industria francese avesse un’impennata
tale da danneggiare l’economia tedesca. La CECA, la Comunità economica
per il carbone e l’acciaio, che precede
di tre anni la CE, nasce su questo presupposto, su un presupposto di crescita
economica che però, nel contesto della
Guerra Fredda in cui erano l’Europa e
tutto il mondo, significava anche far
fare la pace alla Germania ed alla Francia col Trattato di Roma del 1957. In
realtà, la pace non l’avevano fatta fino
in fondo, perché c’erano questi dissidi,
questi sospetti, queste diffidenze, e noi,
con De Gasperi, con Spinelli, fummo
fondamentali in quest’azione all’inizio. Ed anche dopo l’Italia fu molto
importante per superare le crisi. Quindi
nell’avventura dell’Europa unita noi ci
siamo stati proprio dentro fino al collo.
Ed addirittura, quando si pensa, in certi
momenti di difficoltà, di far ripartire il
motore, si pensa agli Stati della piccola
Europa come base: che siamo sempre
noi, alla fine.
Per capirci: non possiamo pensare minimamente, a differenza degli inglesi,
di staccarci dall’Unione. È totalmente
fuori dal nostro pensiero. Però soffriamo moltissimo per quello che sta succedendo. Perché l’Europa oggi sembra
una tecnostruttura e basta, mentre è
molto di più? E che dire del capitolo
sociale, del modello sociale europeo?
Queste sono le due questioni principali
che tratterò.
Sulla prima. Negli anni che vanno fino
a Maastricht, ai primi anni Novanta, la macchina europea si reggeva su
una Commissione, che era poco più di
un’agenzia, con una componente tecnica forte perché i membri di questa
commissione non prendono direttive
dai governi nazionali, hanno uno statuto d’indipendenza, il Consiglio dei
ministri, riunito in varie formazioni di
settore fino alla maggiore, quella dei
Capi di Stato e di Governo (Consiglio
Europeo), infine il Parlamento Europeo,
che dal 1979 rappresenta direttamente i
cittadini europei.
Inizialmente le decisioni venivano prese
dal Consiglio (quindi dai governi nazionali) su iniziativa della Commissione.
Poi, sempre su iniziativa della Commissione, dal Consiglio su parere o d’intesa
col Parlamento, infine, col trattato di
Lisbona del 2009, congiuntamente dal
Consiglio e dal Parlamento su quasi tutte le materie. In questo senso c’è stata
una democratizzazione dell’Unione
Europea. Il fatto che il Parlamento Europeo co-decide, adesso, sicuramente
aiuta. Però questa è solo una parte del
problema.
Il fatto è che per i governi l’Unione
Europea è un parafulmine fantastico,
perché consente di nascondere le responsabilità politiche per le decisioni
prese, cosa che non avviene a livello nazionale. Intanto, oltre alla Commissio-
ne, c’è una serie di comitati, composti
da rappresentanti degli Stati membri e
dell’UE, che preparano e attuano le decisioni. Per cui alla fine il sistema di
decisioni appare confuso. Ai governi,
non importa se di destra o di sinistra,
conviene mantenere l’immagine dell’Unione Europea come una organizzazione tecnocratica, perché le decisioni
impopolari che a livello nazionale sarebbero costose nel senso di voti, prese
a Bruxelles non costano niente ai governi, che le possono scaricare su una
tecnocrazia, un palazzo, senza contare
il fatto che invece sono loro che cambiano il cappello e vanno a Bruxelles a
prendere le decisioni insieme.
Questo è il gioco, e con la crisi questo
gioco è arrivato al capolinea. Ma i governi hanno una grande paura a cambiarlo, perché per cambiarlo dovrebbero costituire un governo europeo vero,
a cominciare da un ministro dell’economia. Come sapete, noi abbiamo l’euro e
una banca centrale europea, con un potere molto grosso, quello di assicurare
la stabilità di questa moneta, a garanzia
che non ci siano degli sconquassi come
quelli che si ebbero, per capirci, negli
anni Trenta del ‘900 in tutto il mondo.
Ma questo non basta a placare la finanza globale. Con la crisi dei derivati,
nel 2007, i grossi capitali che questa
finanza globale riesce a muovere sono
stati concentrati con finalità speculative sull’Europa come area debole. Non
da un punto di vista economico, perché
anzi l’Europa è molto meno indebitata
che non gli Stati Uniti, che hanno dei
grossi problemi di politica economica,
però li esportano: sono sempre riusciti,
dalla Seconda Guerra Mondiale in poi,
a buttarli fuori da loro ed a mantenere
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
15
il dollaro in una posizione centrale. Invece, l’Europa soffre di non essere né
carne né pesce. Non è uno Stato che
prende le decisioni su certe cose e non è
neanche una organizzazione internazionale che magari non conta nulla, perché
l’euro è la seconda moneta del mondo,
e quella europea nonostante evidenti segni di declino è ancora importantissima
nel mondo. Però è incapace di prendere decisioni politiche ed è molto divisa
all’interno fra Stati fortemente indebitati e Stati che non lo sono. I mercati globali hanno capito che poteva giocare sui
differenziali tra uno Stato e l’altro dal
punto di vista dei rendimenti dei titoli
del debito, il famoso spread. Abbiamo
dunque in Europa regolazioni di mercati che funzionano dal lato della moneta,
ma non del debito. E quindi ritorniamo
allo stesso discorso di prima: l’Europa è
una cosa lasciata a metà.
Guardiamo ancora al bilancio dell’Unione. Da una parte abbiamo una moneta unica, come se fossimo un solo
Stato, dall’altra il bilancio dell’Unione
Europea è una cosa ridicola, l’1% della
ricchezza che circola in Europa. Sono
solo soldi che gli Stati danno all’Unione
Europea in quella minima proporzione
per finanziare l’agricoltura e un po’ di
progetti. Allora, è chiaro che qui così
non possiamo andare avanti. È come
se fosse il bilancio di un’organizzazione internazionale, in cui ognuno fa
per conto suo, e nello stesso tempo c’è
una moneta unica e una banca centrale
europea che prende decisioni, che, per
quanto riguarda l’aspetto strettamente
monetario, sono simili a quelle di altre
banche mondiali.
Ancora, la banca centrale, a differenza
che negli stati, non ha una controparte
16
Interventi
politica, un Ministro dell’economia, un
Primo Ministro, un Governo che risponda politicamente. L’UE non ce l’ha.
Tutti questi squilibri si pagano, perché
chi ha interesse a sfruttare le occasioni
per farci i soldi di proprio non si fa tanti
scrupoli, come appunto sta succedendo. L’unica risposta in questi due anni
è stata data dal Presidente della Banca
centrale Draghi. È stato l’unico che ha
dato delle risposte serie. Se non c’era lo
scudo che già comincia a funzionare, lo
spread italiano e quelli di altri Paesi indebitati sarebbero saliti molto di più. La
Banca centrale è riuscita a fermare una
cosa che poteva andare molto peggio.
Ma è chiaro che non basta, che ci vuole
uno scatto da parte dei governi. Questo
scatto non c’è per il timore di perdere
non tanto la sovranità, quanto i vantaggi
che questa situazione “né carne né pesce” dell’Europa porta ai governi, di cui
ho già detto.
Bisogna dire che i governi non sono soli
in questo. La politica è rimasta nazionale, così come l’organizzazione delle
parti sociali e l’informazione. C’è un
problema di lingua, certamente, ma
sempre meno. Si parla in inglese, specie
tra le giovani generazioni. Quindi, non
è che non sia possibile, non ci si prova
nemmeno. È proprio tutto fermo ad una
situazione in cui, appunto, non c’è una
televisione, non c’è una cultura, non ci
sono giornali, non ci sono partiti, non ci
sono sindacati europei.
Allora, è chiaro che i governi sono una
parte di un problema più grosso. Tutti
i soggetti che ho detto non fanno abbastanza per adeguarsi non tanto all’Europa, ma al fatto che senza l’Europa
non ce la facciamo più a prendere le
nostre decisioni, a concepire la nostra
convivenza soltanto a livello nazionale.
Non è che noi dobbiamo abbandonare
l’Italia. Non è questo il problema. Noi
siamo sempre noi, ma è il come siamo
organizzati che deve cambiare. È una
cosa diversa. Noi siamo e resteremo italiani, ma il come prendere le decisioni,
a che cosa rapportarci sul piano politico
e sul piano sociale, deve cambiare. Altrimenti non ce la facciamo, perché la
competizione – lo sapete – è diventata
pazzesca.
E qui aprirei il capitolo dell’Europa
sociale. È un capitolo pieno di contraddizioni, vorrei dire di montagne russe,
perché noi siamo partiti nel 1957 da un
Trattato nel quale il modello sociale era
abbastanza modesto rispetto all’obiettivo di formare un mercato. La libera
circolazione dei lavoratori era una delle
quattro libertà di circolazione all’interno dell’Europa, ma significava sostanzialmente considerare il lavoro come
un’altra merce. Non c’erano sufficienti
garanzie che la libera circolazione dei
lavoratori avvenisse in un quadro di diritti per i lavoratori.
Solo alcune regole erano state fissate,
come la parità retributiva uomo-donna,
che compare già nel Trattato di Roma e
invece in Italia lo sarà soltanto con una
legge del 1977. Perché viene affermata
questa regola? Per interessi economici:
la Francia temeva che il forte differenziale retributivo fra lavoratrici e lavoratori in Italia danneggiasse le imprese
francesi. Quindi, non è che fosse un
ideale, però lo si affermò, e su questo
ha poi fatto leva tutta la giurisprudenza
della Corte di giustizia, per cui questo
principio è assolutamente pacifico in
Europa. Non è certo un punto da sottovalutare.
Il grosso, l’affermazione dello stato sociale, le modalità di rappresentanza del
sindacato, lo sciopero, tutto quello che
ha a che vedere, appunto, con quello
che è stato chiamato il modello sociale
europeo era però lasciato a livello nazionale, e a livello nazionale si sviluppò, in Italia come negli altri Stati membri: in modi diversi, ma comunque con
una ispirazione di sviluppo, di crescita.
Piano piano, il capitolo sociale viene
affermato nei trattati europei. Perché?
Perché è lo sviluppo stesso del mercato che pone le premesse per rafforzare
questo capitolo. Per come si era sviluppata la civiltà europea, con stati sociali
avanzati che nel lavoro erano sempre
più presenti, non era possibile pensare
ad uno sviluppo deregolato, puramente
liberistico. Le due cose andavano insieme. Lo sviluppo del mercato andava
insieme, non contro lo stato sociale. E
questo viene proseguito con i trattati di
Maastricht, di Amsterdam, infine di
Lisbona.
Nel frattempo accadono altri fatti importanti. Nel momento in cui i lavoratori
di uno Stato membro si spostano in un
altro per cercare lavoro, si vedono riconosciute le stesse garanzie dei cittadini
degli Stati dove risiedono dalla Corte di
giustizia. I giudici europei dicono: se in
Italia arriva un lavoratore francese, al lavoratore francese tu devi dare le stesse
garanzie che dai ai tuoi lavoratori ed ai
cittadini in generale: non solo i fabbrica, ma per i servizi sociali, la salute, la
casa, la scuola per i figli e così via. C’è
una cittadinanza transnazionale che si
afferma all’interno dell’Unione Europea
e che costituisce la base per la formazione, appunto, della cittadinanza europea,
una doppia cittadinanza, nazionale ed
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
17
europea, in tutti gli Stati dell’Unione.
Però, per tante ragioni, il capitolo dei
diritti fondamentali nell’Unione stentava a trovare forma. I diritti ancora non
erano riconosciuti 15 anni fa in Europa.
Ma con l’allargamento ai Paesi dell’Est
si arrivò all’assurdo che noi chiedevamo
loro di garantire i diritti fondamentali, che però come tali non erano ancora
previsti dal trattato sull’Unione. Era assurdo. Quindi ad Amsterdam si comincia a riconoscerli, e poiché non bastava
si scrive una Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei che nel 2000
viene affermata a Nizza solennemente, e infine entra di diritto nel Trattato
di Lisbona del 2009. In questa Carta,
nel Capo IV, “Solidarietà”, ci sono articoli intitolati “diritto dei lavoratori
all’informazione ed alla consultazione
nell’ambito dell’impresa”, che riguarda
anche il sindacato; “diritto di negoziazione e di azioni collettive”, compreso
lo sciopero, che riguarda di nuovo il
sindacato: “diritto di accesso ai servizi
di collocamento”; “tutela in caso di licenziamento ingiustificato”; “condizioni di lavoro giuste ed eque”; “divieto del
lavoro minorile e protezione dei giovani
sul luogo di lavoro”; “vita familiare e
vita professionale”.
Ho letto soltanto i titoli degli articoli da
27 a 33. Non posso entrare nel merito
del testo, ma una cosa è certa: che queste sono le basi di un’affermazione forte
di un modello sociale a livello europeo.
Il problema è l’estrema divaricazione
fra quello che c’è scritto, le promesse, se volete, e la realtà che noi stiamo
sperimentando. Non è la prima volta,
d’altra parte. Perché dal 1948, quando
entrò in vigore la Costituzione, al momento della sua attuazione, passarono
18
Interventi
trenta anni. Il nostro mondo va avanti
così: fra grandi divaricazioni fra i principi che vengono posti e la realtà, che
è molto più dura, molto più difficile di
questi principi.
Ma non c’è il rischio che tutto si sfasci
prima che questo divario sia colmato?
Il rischio non si porrà solo se, pur con
grande ritardo, i governi riusciranno a
capire di dover rinunciare a quella convenienza di piccolo cabotaggio che hanno nello sfruttare l’Unione europea nel
modo che ho detto.
Eppure non sarebbe difficile trovare
dei sistemi per uscire da questo gioco,
a cominciare dalle elezioni del prossimo Parlamento Europeo: basterebbe
che una famiglia politica proponesse un
candidato alla guida della Commissione e un programma serio perché le altre
facessero altrettanto, col risultato che
le elezioni per il Parlamento Europeo
sarebbero finalmente una competizione
politica europea, non un modo per continuare le politiche nazionali, per contare quanti voti hanno ottenuto i singoli
partiti nazionali. A quel punto si potrebbe avere una maggioranza politica al
Parlamento europeo, capace di dare la
fiducia alla Commissione come un parlamento nazionale la dà a un governo.
Si aprirebbe tutto un altro capitolo, senza toccare i trattati europei. Quindi, ci
vorrebbe poco.
I partiti e i governi europei si trovano
perciò in questo momento davanti a una
grandissima responsabilità. Quella di
salvare non solo la convivenza europea,
ma anche quella nazionale, che dal crollo dell’Unione uscirebbe anch’essa travolta. La questione non è più quella di
scegliere fra Stato nazionale ed Europa.
Ma è di scegliere tra uno sguardo corto,
come scrisse Tommaso Padoa Schioppa, e uno più lungimirante e ragionevole, il solo che può far ripartire anche la
crescita e continuare a garantire i diritti
dei lavoratori.
Intervento di Renata Bagatin
esecutivo FERPA – Federazione
Europea Pensionati ed Anziani
Non c’è dubbio che lavoro, stato sociale
ed Europa, i temi che avete voluto affrontare in questa Assemblea annuale,
siano strettamente e indissolubilmente
legati tra di loro.
IL SOGNO EUROPEO
Lo stato sociale, che nelle utopie di un
tempo delle grandi socialdemocrazie
europee doveva accompagnare i suoi
cittadini dalla culla alla tomba, oggi
come ieri non è in grado di dare nessuna risposta senza la conquista della
piena occupazione, un lavoro dignitoso e di qualità per i giovani e le donne,
giustamente retribuito e con i contributi
regolarmente versati.
E non c’è prospettiva di lavoro e piena
occupazione senza politiche di sviluppo, nazionali ed europee, modificando
radicalmente l’orientamento di governi
nazionali e di un’Unione Europea ancora pesantemente condizionata da politiche liberiste.
Il “sogno europeo” che ci ha regalato
uno dei periodi di pace più lunghi della
nostra storia (è stato, infatti, conferito a
Oslo il premio Nobel per la pace all’Unione europea, che per cinquant’anni
ci ha regalato stabilità e sviluppo) oggi
sembra smarrito, ripiegato su se stesso,
sotto i colpi di lunga crisi che ha messo
in ginocchio molte economie occidentali.
L’Euro, la moneta unica, che doveva
avviare un processo di unione politica
dell’Europa (non solo monetaria) puntando all’omogeneità delle sue leggi e
dei suoi sistemi di welfare, si è trovato a
sua volta al centro degli attacchi speculativi della finanza internazionale, complice proprio la mancata integrazione
politica.
Un’integrazione arenatasi all’inizio degli anni 2000, quando il vento del liberismo e del nazionalismo ha cominciato
a soffiare sull’Europa, travolgendo i governi progressisti, che nel giro di pochi
anni avrebbe portato un’Unione Europea governata da 13 governi di centrosinistra su 15 stati membri, a quella di
questi ultimi anni, con 25 governi di
centrodestra su 27 stati membri.
LA CRISI
Nasce lì, in quegli anni, alimentato dalla crisi dell’economia occidentale che
già si profila all’orizzonte, l’attacco al
modello sociale europeo, che altro non
era che lo scambio tra capitale e lavoro, tra protezione sociale in cambio di
produttività, costruito sul dialogo tra le
parti, che l’Unione Europea aveva reso
per se stessa obbligatorio.
Non dobbiamo dimenticarci che tutto
questo è successo anche per i nostri ritardi, per l’incapacità della sinistra europea di cogliere i cambiamenti in atto,
di comprendere cosa avrebbe significato nella nostra organizzazione sociale
il fenomeno del tutto nuovo dell’immigrazione africana, o di quella interna ai
Paesi dell’Unione, che la caduta delle
frontiere aveva favorito.
La stessa Ces, la Confederazione Euro-
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
19
pea dei Sindacati, non sarebbe riuscita
ad arginare questa deriva, condizionata
al suo interno dalle difficoltà di rendere
univoco un percorso di sindacati profondamente diversi, per storia, cultura,
condizioni e problematiche diverse da
Paese a Paese.
Diversità che in questi anni hanno scavato e approfondito solchi su aspetti
fondamentali della vita dei suoi cittadini.
IL LAVORO CHE MANCA
Quando parliamo di lavoro, dobbiamo
sapere che in Europa oggi abbiamo quasi 26 milioni di disoccupati, aumentati
di 2 milioni nel solo ultimo anno, con
un tasso di disoccupazione che va dai
minimi del 4-5% di Austria, Lussemburgo e Germania, fino al 25-26% di
Grecia e Spagna.
Il tasso di disoccupazione medio in
Europa è sul 10,6%, più o meno come
quello in Italia che è del 10,8%.
Se poi guardiamo la disoccupazione
giovanile, l’oscillazione va dall’8% in
Germania al 36% in Italia, fino al 55%
in Grecia e Spagna.
Una disoccupazione giovanile che possiamo riscontrare anche nella ripresa
della nostra emigrazione, tornata a crescere negli ultimi anni come più non
accadeva dal secolo scorso.
E non sono solo i giovani laureati a
emigrare, ma ragazzi che andranno a
fare i manovali, gli operai, i pizzaioli o
i camerieri.
Certo non si emigra più con la valigia
di cartone e i treni che partono dal sud,
ma con i trolley e i voli a basso costo,
con poche decine di euro verso Berlino,
Londra o il Lussemburgo.
20
Interventi
LE NUOVE POVERTÀ
Così come quando parliamo di povertà,
dobbiamo sapere che ci sono 116 milioni di persone povere o a rischio povertà
di quaranta milioni in stato di grave indigenza e con i bambini e gli anziani tra
i più colpiti.
In Europa è considerata povera la persona che non ha accesso a beni e servizi
che le altre persone nella stessa società considerano normali e garantiti, o la
persona che vive al di sotto del 60% del
reddito medio.
Non servono molti altri dati per comprendere come siano i disoccupati, i precari e le persone anziane, in particolare
le donne sole, a rientrare in quest’area
che da alcuni anni è in costante crescita.
E se il Bilancio Sociale presentato recentemente dall’Inps ci dice che in Italia sono
oltre 7 milioni i pensionati che vivono con
meno di 1000 euro al mese - naturalmente
lordi - e che l’occupazione giovanile e il
potere d’acquisto delle famiglie italiane
continuano a calare, ci rendiamo ben conto come noi, non altri, ma noi, siamo parte
integrante di questa situazione europea.
LA SANITÀ
La nostra stessa sanità, che tante risorse ha divorato e che qui in Lombardia
ha conosciuto il peso degli scandali e
dell’esaltazione dell’intervento privato,
quella che Formigoni continua disinvoltamente a definire un’eccellenza,
in Europa è scesa al 21° posto tra i 34
maggiori sistemi sanitari europei.
Sì, avete capito bene, negli ultimi anni
il nostro Paese ha fatto un deciso passo
indietro, retrocedendo di sei posti dalla
già non brillante posizione del 15° posto del 2009. Anche qui, rispetto ai primi posti di Olanda e Danimarca, l’Italia
si trova oggi ai livelli di Grecia e Cipro.
Le cause di tutto questo sono presto dette: l’Italia non è rimasta al passo con i
progressi fatti da molti altri stati, da noi
si continua a mettere il sistema sanitario
sul piedistallo dell’economia, ignorando diritti dei pazienti, trasparenza e attenzione per l’utente.
È mancata anche qui un’idea di sviluppo e civiltà che puntasse sulla persona
e non sul mercato e oggi il nostro sistema sanitario, rispetto agli altri paesi
europei è debole nella maggior parte dei
settori: l’attesa, l’economicità, l’uso dei
farmaci, le cure a lungo termine.
Per risanare il nostro Paese e costruire
l’Europa c’è tanto, tantissimo da fare.
I NOSTRI COMPITI
Quando noi recriminiamo giustamente
sui ritardi dell’Unione Europea e delle
sue forze progressiste, dobbiamo anche
guardare in casa nostra, alle nostre difficoltà, ai nostri ritardi, a livello europeo
come a livello nazionale.
Questo è quanto è successo e le condizioni date, quelle da cui dobbiamo
partire per costruire veramente un’Europa con più lavoro e più stato sociale,
riproponendo con forza quel sogno e
quel modello europeo che, anche nelle
difficoltà di questi anni, non è mai tramontato.
Anzi, forse proprio queste difficoltà
hanno fatto prendere coscienza di quanto il mondo sia ormai interconnesso, di
quanto sia stata importante anche per
noi l’elezione di Hollande in Francia,
di Obama negli Stati Uniti e, ci auguriamo, di un governo di centrosinistra
domani in Germania e, naturalmente,
in Italia.
Noi non abbiamo mai confuso l’autono-
mia sindacale, di cui siamo profondamente gelosi, con il disinteresse verso
le sorti di questo nostro Paese che ha un
grande, profondo bisogno, di chiudere
definitivamente con gli anni del berlusconismo, degli egoismi privati e della
corruzione pubblica.
Gli anni che hanno fatto del nostro un
Paese offeso e dileggiato, gli anni che
hanno impoverito i pensionati e i lavoratori e rubato il futuro ai giovani, gli
anni della divisione sindacale coltivata,
voluta, perseguita con determinazione.
Noi non dimentichiamo come siamo
arrivati e chi ci ha portato in questa situazione; dagli anni delle bugie e della
crisi negata di Berlusconi, alle difficoltà
avute con il Governo Monti.
Le parole d’ordine di quest’ultimo erano: rigore, equità e sviluppo.
Peccato che abbia fatto solo rigore.
Questo non va bene. Se non c’è sviluppo non c’è occupazione per i giovani, se
non c’è equità pagano solo i lavoratori e
pensionati. E questo non va bene.
Come abbiamo sempre detto, vogliamo
un Governo legittimato dal voto e, come
Spi e Cgil, vogliamo confrontarci con
i programmi delle coalizioni, perché
puntiamo al ritorno della bella politica,
che faccia sviluppo e metta ai primi posti il lavoro e il welfare.
E noi dobbiamo fare la nostra parte,
così come l’abbiamo fatta nell’importante giornata di mobilitazione europea
dello scorso 14 novembre, dove anche
la Ces è riuscita finalmente a far sentire
la sua voce; la Cgil e lo Spi c’erano, in
prima fila assieme ai tanti altri lavoratori e pensionati che con gli scioperi che
hanno attraversato l’Europa, hanno reso
visibile a tutti la profondità della crisi
e il limite di politiche di austerità che
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
21
ricadono sempre e pesantemente sui
giovani e sui lavoratori, che siano attivi
o pensionati.
Certo la strada è ancora lunga e difficile,
le diversità tra e dentro i Paesi europei
sono ancora molte, condizioni di vita e
lavoro, di accesso alla sanità e ai servizi pubblici, registrano ancora profonde
differenze e ogni piccolo passo avanti
è una conquista frutto di un lavoro costante.
È, però un percorso possibile e, ognuno
di noi, anche a livello individuale, può
dare un suo contributo per questo nostro
Paese e questa nostra Europa, sia quando saremo chiamati, nel giro di poco più
di un anno, a eleggere prima il Parlamento italiano e poi quello europeo, sia
con la nostra firma.
L’AZIONE DELLA FERPA
Poche settimane fa l’Esecutivo della
Ferpa (Federazione Europea dei Sindacati dei Pensionati) ha, infatti, deciso
di avviare la procedura per una proposta d’iniziativa di legge europea sulle
cure a lungo termine per le persone non
autosufficienti, che, se ammessa dalla
Commissione, ci vedrà impegnati già
dai primi mesi del 2013 per la raccolta
di almeno un milione di firme in almeno
sette paesi dell’Unione.
È una proposta che come Spi-Cgil abbiamo sostenuto con particolare determinazione perché siamo convinti che,
anche così, diamo non solo una risposta
a un problema che riguarda milioni di
cittadini europei e di loro famiglie, ma
apriamo anche la strada per costruire un
vero sindacato dei pensionati a livello
europeo.
Chiederemo a voi, a tutti i nostri attivisti, un impegno molto concreto per la
22
Interventi
raccolta di queste firme, che potranno
essere fatte sia in internet sia su modello cartaceo, richiedendo come sola garanzia, oltre i previsti dati anagrafici, il
numero di carta d’identità, senza notai o
pubblici ufficiali a controfirmarle.
Come Italia vogliamo, infatti, portare
unitariamente almeno cinquecentomila
firme, perché come principali sindacati
europei sentiamo tutta l’importanza e la
responsabilità di questa sfida, ma anche
per dare fiducia e sicurezza a tutti quegli
altri sindacati dei pensionati che affrontano per la prima volta un impegno di
questo livello.
Il Parlamento Europeo, dopo aver dedicato il 2012 all’invecchiamento attivo e
alla solidarietà tra le generazioni ha proclamato il 2013 “Anno europeo dei cittadini”, in coincidenza con il ventesimo
anniversario della cittadinanza dell’Unione, introdotta con l’entrata in vigore
del trattato di Maastricht nel 1993.
L’anno che saluteremo tra qualche settimana sarà perciò un anno carico di
appuntamenti e di sfide che lo Spi Cgil
intende assumere fino in fondo, perché, come dice la nostra campagna di
tesseramento noi siamo liberi, ribelli e
resistenti.
Anche perché, l’unico modo che conosciamo per onorare la nostra storia
sindacale e per salutare questo 2012
dedicato all’invecchiamento attivo e
alla solidarietà tra le generazioni, è continuare a lottare per più lavoro, più stato
sociale, più Europa.
Il nostro deve tornare a essere un Paese
normale, con i suoi problemi da affrontare, ma normale, dove la politica torni
ad avere la P maiuscola, quella politica
che deve essere in grado di chinarsi per
aiutare a rialzarsi il più debole, ma an-
che erigersi contro tutte le prepotenze,
contro tutte le ingiustizie, contro tutto
il malaffare che soffoca le aspettative
civili dei popoli.
E, ancora una volta, tutti insieme possiamo farcela.
Intervento conclusivo
di Fausto Durante
Segretariato Europa Cgil
Grazie alle compagne e ai compagni
dello Spi di Brescia per questo invito.
È una giornata importante, nella quale
discutiamo di lavoro, di stato sociale,
di Europa, e lo facciamo in una città significativa per la storia del lavoro, del
sindacato, della nostra confederazione. Da questa città sono spesso giunti
messaggi, segnali, insegnamenti, spunti
contrattuali e anche, lasciatemelo dire,
dirigenti sindacali che hanno arricchito la Cgil e hanno portato un grande
contributo alla storia della nostra organizzazione. Per questi motivi vi sono
particolarmente grato di avermi dato
l’opportunità di essere qui.
Voglio partire, per questa riflessione ad
alta voce, da quello che è stato detto
in modo particolare da Cadenelli e dal
professor Pinelli, a proposito dei primi
passi e dell’avvio di questo sogno europeo, che per anni ci ha visto tra i più
convinti protagonisti, come cittadini e
come lavoratori italiani.
Negli anni ’50, quando fu fondato il primo embrione di organismo europeo, la
CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, in tante regioni europee a forte concentrazione di attività
minerarie e siderurgiche, e in alcune
parti d’Italia, tra cui questa, accadeva
spesso di dover affrontare ristrutturazioni, chiusure di stabilimenti, drastici
cambiamenti nelle produzioni e nel mix
delle attività di importanti impianti siderurgici, o la rinuncia all’attività di
estrazione di carbone e di altri minerali.
In quegli anni, i piani della CECA, lo
sforzo del commissario Davignon, le
decisioni prese a livello nazionale e
confermate in una dimensione europea
stabilivano di destinare ingenti risorse
per accompagnare le ristrutturazioni,
per sostenere le condizioni economiche
dei lavoratori e delle loro famiglie alle
prese con i dolorosi processi di riorganizzazione delle imprese. Quando a
quei lavoratori coinvolti nelle riorganizzazioni industriali, magari nei momenti di inattività e di disoccupazione, si
chiedeva per chi lavorassero, in Italia,
in Belgio, in Francia, in Germania o nel
Lussemburgo, quei lavoratori rispondevano: “Io sono della CECA”.
Essere della CECA significava sentirsi
parte di un progetto più grande di quello
che si poteva costituire in una dimensione nazionale: era far parte di un disegno
che a livello europeo prevedeva strumenti, sussidi, sostegni, dalle semplici
integrazioni al salario, dagli interventi
sulla condizione economica delle famiglie, ai provvedimenti sull’abitazione,
sulla possibilità di acquistare un’automobile, di contrarre un mutuo, di utilizzare i sussidi per riconvertirsi e avviare
una piccola attività imprenditoriale in
proprio, o associando diversi colleghi
coinvolti anch’essi da quei progetti.
Faccio questo riferimento, perché si
tratta del migliore esempio che possiamo ancora oggi ricordare di che cosa
è stato davvero l’avvio del processo di
costruzione europea: si è trattato del
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
23
tentativo di mettere in piedi un modello
economico e sociale. Il modello sociale
europeo ha costituito una grande speranza, non solo per i cittadini dei paesi europei che intraprendevano questo
percorso, ma per tanta parte delle popolazioni del mondo. In quel tentativo,
che cominciava faticosamente a prendere piede nel vecchio continente, di
rappresentare un’alternativa concreta,
non semplicemente declamata nei convegni, ma viva nel fuoco delle battaglie
politiche, sindacali, sociali dell’epoca,
si intravedeva un modello che costituisse un’altra via, tanto nei confronti degli
Stati Uniti d’America con il trionfo del
libero mercato e dell’ideologia liberista,
quanto verso il modello di oltre cortina,
con l’autoritarismo, la dittatura, il totalitarismo di stampo collettivistico.
E quella grande speranza ha animato
anche le ragioni e le aspettative dei cittadini e dei lavoratori italiani, che, come
buona parte della platea di oggi, avevano conosciuto gli orrori della guerra,
il fascismo, le difficoltà di riprendersi
dopo la dittatura e dopo le tragedie che
l’Italia ed il resto dell’Europa avevano
conosciuto.
Era lì che i lavoratori e i politici italiani cominciavano a coltivare un sogno e
una visione di carattere europeo, perché
intravedevano in quella prospettiva, in
quella strada, in quel solco, nelle idee
di De Gasperi, di Spinelli e di tanti europeisti convinti, la possibilità di dare
attuazione al bisogno di pace, di democrazia, di superamento della povertà,
di aspirazione individuale e collettiva
ad un benessere diffuso, che è stato il
segno vero del processo di costruzione europea, e che è, in fin dei conti, la
ragione per la quale è stato consegnato
24
Interventi
simbolicamente all’Unione Europea il
Premio Nobel per la Pace per il 2012.
Perché non dobbiamo dimenticare che
i paesi ed i popoli di questo continente,
fino al 1945, hanno speso il loro tempo prevalentemente a farsi la guerra e
a massacrarsi. Dal ’45 in poi, anche attraverso il ricorso a questa grande prospettiva europea, noi abbiamo goduto di
un lunghissimo periodo, il più duraturo
della storia europea, di pace, di convivenza pacifica fra i popoli, soprattutto
di progresso sociale, economico e civile, che ci ha consentito di giungere al
punto in cui siamo.
Certo, poi vi è stata una cesura. Vi è
stata un’interruzione, uno spartiacque
fondamentale che ha segnato la storia
recente dell’Europa e del mondo. È accaduto, ad un certo punto, che quell’equilibrio, quell’assetto bipolare che si
reggeva sulla competizione feroce tra
sistemi economici e politici dell’Est e
dell’Ovest del mondo, tra i due poli rappresentati dall’Unione Sovietica e dagli
Stati Uniti d’America, quell’equilibrio
è andato in crisi. Sappiamo tutti che
cosa è avvenuto nel 1989.
Sappiamo però anche – e lo dico come
dirigente sindacale e come cittadino che
da sempre ha vissuto ed ha guardato nel
mondo della sinistra politica di questo
paese, ai partiti che l’hanno rappresentata – sappiamo anche che quella vicenda, una fine del mondo per come lo
conoscevamo, dopo il 1989 ha portato
noi, una parte del sindacato, una parte
consistente della sinistra nazionale, europea e internazionale, ad una sorta di
disorientamento fatale. Un disorientamento che ci ha colpito in pieno e ci ha
portato a pensare che, di fronte a quel
disastro, l’unico modello possibile fos-
se il turbo-capitalismo di stampo americano e che a noi competesse solo di provare a temperarne gli eccessi, mitigarne
le conseguenze, giocando, all’interno di
quel percorso e di quel solco, nient’altro
che un ruolo di tutela residuale.
Credo che in questo errore fatale, cioè
nell’assenza, negli anni ‘90, di una
ipotesi alternativa e di una prospettiva politica concreta e diversa da parte
dell’Internazionale Socialista, del Partito Socialista Europeo, del movimento sindacale, stiano le ragioni della
nostra incapacità di mettere in attività
gli anticorpi per impedire ciò che sta
oggi accadendo, ora che la grande crisi
colpisce, con la violenza e la forza che
stiamo conoscendo, gli interessi, le condizioni, le aspirazioni delle persone che
noi rappresentiamo.
Avremmo dovuto ragionare di più e
meglio, essere in grado di avere una
visione, un’idea di un modello alternativo al turbo-capitalismo, alla perdita
di centralità della politica e all’accettazione passiva del fatto che a comandare
fossero le grandi imprese, le multinazionali, le banche, l’economia di carta
e la finanza, a tutto ciò che si può riassumere in quello che per tanto tempo è
stato erroneamente lo slogan della sinistra italiana “meno Stato, più mercato”.
Ecco, se avessimo saputo costruire un
altro punto di vista, un’altra idea dell’economia, della società, del mondo, forse noi oggi non avremmo le politiche di
austerità, di rigore nei conti pubblici, di
ossessione per la disciplina di bilancio,
che le vestali dell’ortodossia liberista ci
propongono ad ogni piè sospinto, a Bruxelles e a Strasburgo nei palazzi delle
istituzioni europee, a Francoforte dov’è
la Banca Centrale Europea.
Ora siamo costretti a fare i conti con il
fatto che, dopo anni di queste politiche,
siamo ad un punto morto.
Ci hanno spiegato che le ragioni dell’acuirsi della crisi erano da ricercarsi nel
permanere dei tratti originali e del modello sociale che la vecchia Europa, con
qualche scossone e qualche difficoltà,
comunque conservava.
A Bruxelles e a Francoforte cercano di
convincerci che noi non riusciamo a risollevarci e a risolvere la crisi in Italia,
in Grecia, in Spagna o in Portogallo,
vale a dire nei paesi che ancora oggi
sono un po’ più deboli e a rischio speculazione, perché abbiamo pensioni troppo alte, spendiamo troppo per la sanità,
per i sussidi che assicurano le persone
contro la disoccupazione, contro gli infortuni o le malattie. Ci spiegano che il
fatto che noi tuteliamo le persone è concausa dell’acuirsi della crisi. E che noi
aggraviamo la crisi perché siamo troppo
generosi, per via dei sussidi, delle pensioni e della sanità.
Ci dicono che questo nostro modello - che, invece, guarda caso, funziona
benissimo in paesi come quelli scandinavi o del centro Europa, Germania su
tutti, dove nessuno si sogna di mettere
in discussione lo stato sociale, i sussidi, la sanità e le pensioni molto più alte
di quanto non abbiamo nell’Europa più
debole - ci rende non competitivi con la
Cina, con l’India, con la Corea, con il
Vietnam, con il Sudafrica, con il Brasile, con i nuovi paesi che, giustamente, dal loro punto di vista, premono per
sostituire le nazioni storicamente più
avanzate nell’egemonia del processo
economico.
E ci dicono che, se vogliamo essere
competitivi, oltre a ridurre la spesa per
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
25
salari, pensioni, sanità e sussidi, dobbiamo rinunciare ad un altro dei fondamenti del modello sociale europeo,
dobbiamo rinunciare al meccanismo di
formazione dei salari, e quindi alla contrattazione, al ruolo negoziale del sindacato e delle parti nella determinazione
delle dinamiche salariali. In generale,
ci dicono che dovremmo smantellare i
sistemi di contrattazione collettiva, per
andare verso una contrattazione di tipo
aziendale o territoriale, e nell’ipotesi
preferita, quella prediletta dai cultori
dell’ortodossia neoliberista che hanno
trovato buona accoglienza anche nei
governi di Berlusconi che si sono succeduti nel tempo, oltre che in alcuni
tecnici del governo Monti, dovremmo
condividere l’idea di una contrattazione
di tipo individuale.
Noi abbiamo sperimentato queste ricette negli ultimi quattro o cinque anni: dal
2007, quando è cominciata a balenare la
crisi, e ancor più nel 2008, anno in cui
Berlusconi faceva il cucù e raccontava
le barzellette ai vertici internazionali,
mentre i lavoratori italiani iniziavano
a vedere le loro fabbriche chiudere, le
commesse dimezzarsi e la cassa integrazione dilagare.
Possiamo semplicemente affermare,
avendole subite negli ultimi anni, che
queste ricette non funzionano. L’ossessione per la disciplina di bilancio sta
causando ulteriore recessione. L’assillo
di intervenire sullo stato sociale, sulla contrattazione collettiva e sui diritti
delle persone sta portando all’impoverimento dei cittadini e dei lavoratori.
Lo sanno i giovani. Lo sanno i giovani italiani, lo sanno i giovani dei paesi
latini; cominciano a rendersene conto i
giovani tedeschi, ai quali le modifiche
26
Interventi
del mercato del lavoro propongono salari di 400 euro al mese per i mini-job
integrati da interventi molto corposi da
parte dello Stato.
Queste ricette colpiscono in modo particolare i giovani e le donne, perché l’unica prospettiva possibile per loro sembra
essere quella di un lavoro precario, sottopagato, dequalificato.
Questo è ciò che avviene per i nostri
giovani: noi li esortiamo a studiare, a
prendere una laurea, a specializzarsi
con un doppio o triplo master all’estero,
e quando tornano in Italia, in Spagna,
o, adesso, anche in Germania, ciò che
possiamo proporre loro sono 400 euro
al mese per un lavoro in un call-center.
Questo è il risultato che quattro anni
di politica di austerità e rigore stanno
comportando, non per gli abitanti del
pianeta Marte, ma per i giovani, i lavoratori, gli uomini e le donne dei paesi di
questo continente.
Oltre a ciò, noi osserviamo che i capisaldi economici del neoliberismo, per
realizzare i quali, o per rispettare i quali, sono state messe in atto queste politiche, non funzionano. Queste politiche
non stanno affatto invertendo la tendenza alla recessione.
L’Europa è tecnicamente in recessione.
L’Italia lo è da tre anni. Ma adesso, anche le aree economicamente più forti
dell’Europa incominciano a non crescere più. Ciò significa che queste politiche favoriscono la recessione, invece di
combatterla. Con la recessione non c’è
crescita, non c’è ripresa dei consumi
pubblici e privati, non c’è ripresa degli
investimenti.
Un altro dei capisaldi per i quali sono
state messe in campo quelle politiche,
la riduzione a tutti i costi dei deficit
pubblici, si dimostra inefficace, perché
quelle politiche, in tutti i paesi, stanno
portando ad un aumento dei debiti pubblici, non alla loro diminuzione.
Inoltre, le nostre banche continuano ad
essere vulnerabili e la nostra moneta,
quell’euro in cui abbiamo riposto tante
speranze, quella moneta unica che ci è
sembrata lo spartiacque tra il Novecento ed il Duemila e il passaporto verso
la costruzione di questa grande Europa
delle comunità, dei popoli, delle economie, continua ad essere sotto attacco
della speculazione senza scrupoli. Per
far risuonare l’allarme è sufficiente che
l’innominabile Presidente del Consiglio
che c’era prima di Monti annunci l’intenzione di tornare in campo.
Siamo ancora alla mercé degli attacchi
speculativi. In un simile contesto, la
condizione dell’economia materiale è
drammatica. Assistiamo a processi di
chiusure o di ristrutturazioni industriali
di proporzioni gigantesche in rapporto alle dimensioni del nostro sistema
economico, allo spostamento delle produzioni fuori dai nostri confini e, ovviamente, di conseguenza, ad un preoccupante aumento della disoccupazione.
In più, il cammino di convergenza fra gli
stati, fra le diverse aree economiche, tra
le regioni dell’Europa si è interrotto ed
anzi, l’inefficacia delle ricette adoperate per provare a risolvere la crisi contribuisce ad aumentare ulteriormente le
divergenze, le differenze tra le diverse
aree economiche. E questo comporta il
ritorno in campo di tendenze che credevamo di avere sconfitto: i populismi, le
ideologie reazionarie di destra.
Consideriamo quanto è avvenuto in
Grecia, dove i neofascisti sono ritornati
in Parlamento, o l’affermazione dei mo-
vimenti populisti, razzisti e xenofobi in
importanti aree del centro Europa, senza dimenticare il contributo dato dall’Italia al riprendere di questi fenomeni, in
modo particolare nella parte settentrionale del paese, anche in questa regione.
Bene, noi non possiamo più accettare,
continuando a rimanere inerti, questo
stato di cose.
Qualche giorno fa, in una conferenza
sull’Europa che la Cgil ha tenuto a Firenze, il Segretario Generale delle Comisiones Obreras, ci ha raccontato che,
per via di quanto stabilito dalla Troika,
i sindacati spagnoli si trovano a dover
accettare, dopo quelle che ci sono già
state negli ultimi due anni, un’ulteriore riduzione delle pensioni per i lavoratori ex dipendenti del settore privato
e un altro quadriennio di blocco della
contrattazione nel settore pubblico, con
tutti gli effetti che ciò comporterà sulla
maturazione delle future pensioni per i
lavoratori pubblici.
In seguito a un rapido calcolo sugli effetti di questa e delle altre richieste che
vengono dall’Europa, i sindacati spagnoli sono giunti alla conclusione che,
se si applicassero integralmente queste
misure, delle quali il governo conservatore di Mariano Rajoy si sta facendo
strenuo paladino, nel 2013 la Spagna
pagherebbe per gli interessi sul proprio
debito - quel debito che non riesce a
diminuire per le politiche sbagliate imposte dall’Europa, in un circolo vizioso
che si autoalimenta – una somma superiore a quanto spende per pagare tutti gli
stipendi della pubblica amministrazione
nazionale, regionale, locale.
Voi vi rendete conto di come, se si continua così, il pagamento del debito non
sarà tecnicamente possibile.
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
27
A indicare questo percorso è la “troika”,
uno strano organismo fatto di gente che
non è sottoposta ad alcun controllo popolare e non deve rispondere a nessun
corpo elettorale. Si tratta di giovanotti
di trent’anni, coltivati alle idee di Milton Friedman e del neoliberismo spinto,
inviati, per conto della Commissione
europea, a discutere con governi, ministri e parlamenti che nel loro paese il
mandato se lo sono dovuto conquistare
voto su voto alle elezioni. E questo organismo impone di ridurre le pensioni,
tagliare i salari, combattere l’inflazione
con queste ricette.
A tutto ciò bisogna dire basta, mettendo
in campo una politica economica alternativa.
Per quanto ci riguarda, la Cgil sta contribuendo all’individuazione di una
nuova politica economica con la definizione del nuovo Piano del lavoro,
riprendendo quella grande intuizione,
quella aspirazione al riscatto di un intero popolo incarnata nel dopoguerra da
Giuseppe di Di Vittorio, certo declinata
nella condizione che viviamo nel tempo
presente, nella difficilissima fase che
stiamo attraversando.
Quindi, adattando questa riflessione alla
condizione attuale, il punto di partenza
non può che essere la necessità che i cittadini ricomincino ad avere fiducia nel
processo europeo.
Perché io capisco i sentimenti diffusi di
ripulsa e di reazione contro l’attuale Europa. Se fossi un lavoratore greco, sentendo nominare l’Unione Europea, fuggirei, pensando che mi stanno portando alla
fame, mi hanno tolto il pane, mi hanno
privato di tutti i diritti, mi hanno ridotto le
pensioni, hanno annullato la contrattazione collettiva, perdo la casa. Perché dovrei
28
Interventi
essere contento di questa Europa?
Ne abbiamo avuto una riprova qualche
settimana fa, quando, con una delegazione della Cgil guidata da Susanna
Camusso, abbiamo effettuato una visita in Turchia. Voi sapete che la Turchia
è uno dei paesi da sempre candidato
all’ingresso nell’Unione Europea. Ebbene, dieci anni fa, le personalità che
incontravamo, membri del Governo,
sindacalisti, imprenditori, italiani che
lavorano e vivono in Turchia, ci manifestavano grande fiducia, grandi speranze
nell’ingresso della Turchia nell’Unione
Europea. Oggi i sindacati turchi ci dicono: “Questa Europa non la vogliamo”.
Ed è difficile dare loro torto, guardando
che cosa questa Europa sta producendo,
per l’appunto, in Grecia, in Spagna, in
Portogallo, in Irlanda, a Cipro, a Malta.
E il contagio non riguarda solo noi,
perché la recessione, come ho provato a dire prima, si sta allargando e sta
cominciando a colpire anche sistemi
economici forti, come quello francese e
quello tedesco. Tutti gli osservatori sanno che il prossimo paese sotto attacco
dopo l’Italia sarà la Francia.
Perché questa Europa dovrebbe essere
appetibile ed ambita come traguardo da
raggiungere?
Ecco, noi dobbiamo ricominciare ad instillare fiducia e speranza nel fatto che
il sogno europeo si può trasformare,
dall’incubo che è diventato, in una nuova prospettiva di prosperità, di benessere e di pace.
E abbiamo bisogno di leader politici
che abbiano coraggio e visione politica.
Nessuno dei paesi europei può immaginare di competere con i giganti che a
livello mondiale saranno i protagonisti
dell’economia nel terzo millennio.
Non si può pensare davvero che l’Italia, con i suoi sessanta milioni di
abitanti e il suo PIL che decresce, o la
stessa Germania, o la Francia, possano ancora aspirare ad essere titolari
degli imperi del Novecento. No, perché i nuovi protagonisti economici
sono rappresentati dal Sud America,
dall’Argentina, dal Brasile, che cresce
a ritmi impensabili per quel popolo
fino a qualche anno fa, e cresce probabilmente anche grazie al fatto che
in Brasile c’è stato un Presidente della
Repubblica che era un operaio, non un
Presidente del Consiglio frequentatore
di prostitute minorenni.
I giganti economici sono la Cina, l’India, la Russia, il Sudafrica. I paesi del
Nord dell’Africa stanno cominciando
a conoscere, oltre alle primavere che
tentano di portar loro elementi di democrazia, una inedita crescita economica: basti pensare a quello che sta avvenendo in Marocco, dove alcune delle
più importanti multinazionali europee
e americane stanno delocalizzando investimenti e produzioni.
Noi dobbiamo ricominciare ad avere
fiducia nell’Europa, che è un grande continente, con una popolazione
di seicento milioni di persone, ed è,
sulla carta, l’area economica più forte del mondo, se si superano egoismi,
divisioni nazionali, ritorni al passato.
Quest’area può competere se è in grado di trovare ancora coesione e unità, e
se si riconosce attorno ad alcuni valori
fondamentali: la pace, la solidarietà, il
benessere, la giustizia sociale, il modello sociale europeo.
Questa Europa deve essere cambiata.
La settimana scorsa ho partecipato, per
conto della Cgil, alla riunione del co-
mitato esecutivo della CES, la Confederazione Europea dei Sindacati, a cui
avevamo invitato, per discutere con noi
dopo il successo della grande giornata
del 14 novembre, il Presidente della
Commissione Europea. Bene, il Presidente Barroso è intervenuto e, come se
niente fosse, ci ha ribadito che è necessario fare sacrifici adesso, perché solo
così avremo un certo benessere domani.
Ci ha riproposto la solita litania, secondo la quale bisogna coniugare i sacrifici
con la sicurezza sociale, dimenticando
che da ben cinque anni il popolo del
suo paese, il Portogallo, si sacrifica assistendo impotente al declino costante
della propria economia e delle proprie
speranze.
Ecco, io penso che sia giunto il momento di una svolta radicale nell’impostazione della politica economica,
finanziaria e sociale di Bruxelles, e ritengo che sia urgente iniziare a utilizzare risorse pubbliche, abbandonando
l’accanimento nel cercare di ridurre il
bilancio europeo, che, al contrario, deve
essere aumentato.
Occorre destinare risorse pubbliche per
tutto ciò che può far crescere l’economia, per gli investimenti nei settori produttivi, nella manifattura, nei beni che si
possono produrre, commerciare, vendere, che possono dare ricchezza, insieme
al grande capitolo dell’invecchiamento
attivo e sulla cura delle persone, su cui
l’Unione Europea punta come uno dei
fondamenti della sua strategia per creare nuova occupazione. È necessario
puntare sull’industria sostenibile, sulla
riqualificazione ecologica dell’economia, perché non si può più accettare,
per esempio, che in Italia ci sia uno
stabilimento come quello dell’ILVA di
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
29
Taranto, che ha bisogno di interventi di
bonifica e di riqualificazione ambientale senza i quali non è più sostenibile
dal punto di vista sociale, industriale,
sanitario.
È urgente che l’Unione Europea riprenda a giocare un ruolo attivo nella
dimensione dei progetti economici,
perché non è più tempo che i capi delle
multinazionali abbiano un potere maggiore dei capi di governi democraticamente eletti. E non è più possibile che
l’Unione Europea sia governata e gestita da persone che non hanno un rapporto democratico con il proprio elettorato
e con i propri cittadini.
Dobbiamo, allora, perseguire degli
obiettivi semplici. Introdurre una tassa
sulle transazioni finanziarie non è un rigurgito di bolscevismo o di sovietismo,
è un impegno che si chiede a chi specula
sulla movimentazione dei capitali, a chi
con un “clic” su un computer guadagna
milioni di euro esentasse, mentre noi
versiamo fino all’ultimo centesimo sul
reddito imponibile. E occorre destinare
queste risorse al servizio della crescita.
Si deve far pagare di più alle aziende
che inquinano, e mettere gli introiti
derivanti da situazioni di svantaggio a
disposizione degli investimenti per una
riconversione ecologica dell’industria
pesante. È necessario ritornare ad occuparsi di economia reale.
In Francia, qualche giorno fa, il Presidente della Repubblica François Hollande ha convocato il capo di uno dei
più grandi colossi siderurgici, l’ArcelorMittal. Si tratta di una concentrazione, ora di proprietà di una famiglia
indiana, che produce acciaio in tutto il
mondo ed è il risultato della fusione di
tre grandi imprese, una spagnola, una
30
Interventi
lussemburghese ed una francese. Il Presidente francese ha detto a questo signore: “Tu non puoi chiudere due altiforni
in Francia, mentre stai facendo miliardi
di profitti in Sudafrica e in America. E
se chiudi quell’acciaieria, riducendo di
600 unità un organico di 2.100 persone, io la sequestro, me la riprendo come
Stato francese, e la faccio funzionare”.
Mi sarebbe piaciuto che qualche ministro del Governo italiano si fosse rivolto
a Marchionne, non dico per annunciargli la requisizione dell’azienda da parte dello Stato, ma, quanto meno, per
intimargli di usare maggiore misura e
rispetto per leggi, contratti e diritti.
Ecco, questa è l’idea di un ritorno alla
leva dell’intervento pubblico.
Ho detto prima dell’ArcelorMittal, ma
in Francia lo Stato, non un imprenditore o un soggetto privato, ma – ripeto lo Stato, possiede ancora il 15% delle
azioni della Renault. E ci sarà un qualche legame tra questo assetto e il fatto
che la Renault in Francia non ha chiuso
uno stabilimento, non ha licenziato una
persona in cinque anni di crisi, mentre Marchionne, che in Italia è l’unico
monopolista dell’automobile, ha fatto
quello che ha voluto, smontato i contratti nazionali, licenziato le persone,
cacciato la Cgil dalle fabbriche senza
che nessuno reagisse.
Ci sarà una qualche relazione con il
fatto che, in Germania, la regione della
Bassa Sassonia ha il 20% delle azioni
della Volkswagen, un suo esponente siede nel consiglio di amministrazione di
quell’impresa, e che esiste una “golden
share” per cui il parere di quel signore
vale doppio ed è vincolante nei casi in
cui l’azienda decide di chiudere, ristrutturare, spostare le produzioni.
Ci sarà qualcosa che contraddistingue
l’Europa rispetto alla deregolamentazione totale dei mercati, dell’economia
e dell’industria, rispetto a questo prevalere della finanza, al quale dobbiamo,
finalmente, dire basta.
Ecco, questo è il punto.
E quindi, dirottare risorse per la crescita
significa eurobond, euro project bond,
mettere in comune solidarietà europea
una parte del debito dei singoli stati,
perché quel debito può essere, se utilizzato bene, uno strumento che consenta
di individuare nuove possibilità e nuove
potenzialità della politica industriale in
ambito europeo.
Ciò che è irrinunciabile è democratizzare l’Unione, rendere, quelli di Bruxelles, Francoforte e Strasburgo, palazzi di
vetro, non solo per il loro aspetto, per la
loro architettura, per i materiali con cui
sono costruiti, ma soprattutto per un reale rapporto democratico con i cittadini.
Occorre far questo, perché il mondo
ritorni a guardare all’Europa come ad
un faro di civiltà, ad un esempio di progresso e perché per i cittadini italiani,
per i cittadini europei, per i nostri giovani, l’Europa torni ad essere quel sogno:
un sogno di crescita, di sviluppo, di lavoro, di speranza.
Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa
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Finito di stampare nel mese di marzo 2013
per i tipi della GAM di A. Mena e C. snc
in Rudiano (Bs)