Più Lavoro Più Stato Sociale Più Europa
Transcript
Più Lavoro Più Stato Sociale Più Europa
Più Lavoro Più Stato Sociale Più Europa Atti del convegno 11 dicembre 2012 Sindacato Pensionati Italiani BRESCIA Sindacato Pensionati Italiani Lombardia Segretariato Europa Sommario Introduzione3 Interventi 2 Intervento introduttivo di Anna Bonanomi 4 Oliviero Girelli 6 Ernesto Cadenelli 8 Cesare Pinelli 13 Renata Bagatin 19 Intervento conclusivo di Fausto Durante 23 Sommario Introduzione P iù lavoro, più stato sociale, più Europa – questi i temi al centro della riflessione nell’assemblea annuale dello Spi Cgil svoltasi l’11 dicembre 2012. Una riflessione necessaria dato il sempre maggiore rilievo che il livello europeo esercita negli orientamenti di politica economica e, più in generale, nelle scelte degli Stati membri. Dall’UE provengono vincoli per gli Stati nazionali, parametri di riferimento, limitazioni alla sovranità. La crisi economica coinvolge tutti gli Stati europei, gli effetti su occupazione e redditi sono gravi. C’è la necessità di dare risposte ai bisogni crescenti favorendo, a livello europeo, decisioni orientate alla creazione di percorsi comuni per uscire dalla crisi. Purtroppo non avviene, manca un’adeguata politica comune. Cresce il rischio che le popolazioni percepiscano l’Unione come completamente ostile. Eppure i destini dei vari Paesi europei sono legati, non esistono strade per uscire dalla crisi che non prevedano strategie comuni. Il dibattito proposto dallo Spi Cgil di Brescia parte dalla convinzione che sia necessaria una forte integrazione europea, una politica comune le cui priorità siano rappresentate dalla tutela di occupazione, lavoro, diritti e stato sociale. Particolare attenzione è dedicata alla difesa del modello sociale europeo, tratto caratterizzante degli Stati dell’Unione e, per i pensionati, un aspetto di essenziale importanza. I problemi connessi alla questione sono stati affrontati attraverso più prospettive:sono intervenuti, oltre ai rappresentanti della Cgil e dello Spi di Brescia e della Lombardia, Cesare Pinelli, docente di diritto pubblico che ha affrontato aspetti giuridici e politici dell’integrazione europea, Renata Bagatin, componente dell’esecutivo Ferpa (Federazione europea dei pensionati e degli anziani) e Fausto Durante del Segretariato Europa della Cgil nazionale. Con questa pubblicazione speriamo di dare il nostro contributo alla discussione sui cambiamenti in atto, sulle prospettive per lavoratori e pensionati in un contesto di forte mutamento. Segreteria Spi Cgil Brescia Segreteria Spi Cgil Lombardia Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 3 Interventi Introduzione di Anna Bonanomi Segretario generale Spi Cgil Lombardia L ’incontro di oggi, che come sapete ha per tema Più lavoro, più stato sociale, più Europa, penso consentirà a ciascuno di noi di riflettere attorno a problemi di grande attualità che stanno caratterizzando il nostro tempo come quello immediatamente precedente. Non ultimo le conseguenze della scelta del Pdl di “staccare la spina al Governo Monti” e le sue annunciate dimissioni dopo il varo della legge di stabilità. L’anno scorso anche noi, come sindacato dei pensionati, abbiamo celebrato i 150 anni dalla realizzazione dell’Unità del nostro Paese. Ripercorrendo le tappe del lungo e travagliato cammino compiuto possiamo notare come tre tappe lo abbiano caratterizzato: a cinquanta anni dall’Unità il nostro paese cresceva, alla celebrazione dei cento anni – dopo un periodo complesso segnato dal fascismo e dal dramma delle due guerre – iniziava, dopo la ripresa, la fase del boom economico e del riscatto della popolazione debole e povera, a centocinquanta anni saggiamo le prime concrete avvisaglie di un’inversione di quest’ultima stagione di conquiste e benessere. 4 Interventi Il nostro Paese non cresce più, c’è meno lavoro, salari e pensioni sono sempre più poveri, i diritti vengono messi in discussione e la speranza nel futuro, soprattutto per i giovani, sembra un’utopia del passato. Di contro le disuguaglianze aumentano, aumentano la corruzione e l’evasione fiscale, aumenta l’intolleranza nei confronti degli stranieri, ci si chiude nei propri steccati aumentando così divisione, scollamento e solitudini. È palpabile la disaffezione nei confronti della politica che, negli ultimi venti anni, ha ritenuto che dovesse essere il mercato a decidere delle sorti delle nostre popolazioni lasciando, nel contempo, soli i più deboli. Non solo, attraverso la colpevole sottovalutazione della crisi che avanzava, ha creato tutte le condizioni per mettere in ginocchio il Paese e ha favorito i tanti privilegi a dispetto delle enormi difficoltà in cui versano lavoratori e pensionati. Voglio qui oggi porre l’accento sul grande valore sociale che hanno avuto l’Unità del nostro paese e la Costituzione italiana nel quadro di un convinto e più che mai necessario impegno a sostegno della realizzazione degli Stati d’Europa. Riteniamo non possano esserci dubbi rispetto al fatto che l’integrazione europea è un processo irreversibile e progressivo, ma siamo altrettanto consapevoli e convinti che la comunità si trovi a un bivio e che occorra optare per una direzione chiara scegliendo tra l’unire le forze all’interno della stessa - costruendo un futuro forte, guidati da valori quali la solidarietà in un mondo globalizzato - o il ripiegare su se stessa adattandosi supinamente alla globalizzazione. Certo non possiamo sottovalutare che nell’ultimo decennio l’euro ha arrecato numerosi benefici ai cittadini dell’Unione, quali la stabilità dei prezzi, la soppressione dei costi di conversione valutaria, l’impossibilità di svalutazioni concorrenziali nominali, tassi di interesse meno elevati, lo stimolo all’integrazione dei mercati finanziari e una maggiore facilità dei movimenti transfrontalieri dei capitali. Di contro, anche per effetto della crisi finanziaria ed economica partita dagli Stati Uniti d’America che ha investito molti paesi europei, è aumentato il tasso di disoccupazione: da circa il 7% nel 2008 all’attuale 10,4%, con una disoccupazione giovanile che supera il 50% in alcuni Stati membri. Il debito pubblico e quello privato, gli eccessivi squilibri macroeconomici hanno causato un rapido, diretto e profondamente negativo sviluppo socio economico dell’area euro e dell’Unione nel suo complesso. La situazione economica e finanziaria, quanto mai difficile, è aggravata da continue tensioni e speculazioni sui mercati delle obbligazioni sovrane, che si sono tradotti in tassi debitori insostenibili per alcuni paesi e bassi e negativi per altri, creando una drammatica instabilità economico – finanziaria per alcuni Paesi. Se questa è la condizione e se non è conveniente affossare l’Unione, quali politiche bisogna mettere in atto per rimontare questa situazione e far tornare competitiva l’area euro? Il rigore, certo necessario per avere bilanci in ordine e trasparenti, può bastare allo scopo? O il solo rigore sta causando recessione e perciò povertà di massa? La politica di riduzione e contenimento dei salari porterà a rendere più competitivo il sistema produttivo dei nostri Paesi o serve migliore qualità del prodotto, ricerca e promozione dei settori strategici per invertire il declino in alcuni Paesi e il default in altri? La pressione fiscale talmente alta da strangolare la capacità di spesa delle famiglie, ma anche la possibilità di investimento delle aziende, è la condizione che può aiutare lo sviluppo economico oppure è solo foriera di salari e pensioni incapaci di garantire un tenore di vita dignitoso? È la diminuzione dei diritti, conquistati dal dopoguerra a oggi, la strada da percorrere o, invece, serve uno sforzo straordinario per coinvolgere tutte le forze sane e intelligenti, presenti nei nostri paesi, nella costruzione di un progetto di inclusione, di valorizzazione del merito, solidale e democratico? Da questo punto di vista vale la pena riaffermare la necessità di riconoscere pienamente il ruolo delle parti sociali, il diritto a negoziare e concludere accordi collettivi e a intraprendere azioni anch’esse collettive, al fine di definire una politica del mercato del lavoro che stimoli la ricerca, riduca la disoccupazione, salvaguardando al tempo stesso il modello sociale eu- Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 5 ropeo che, sino a ora, ha risposto in modo adeguato ai bisogni di tutela. E ancora, è utile tagliare indiscriminatamente il finanziamento allo stato sociale o sarebbe più conveniente investire nella crescita sostenibile a medio termine? Occorrerebbero, secondo noi, livelli adeguati di investimenti pubblici essenziali per la stabilità economica e finanziaria a lungo termine, per uno stato sociale equo e per finanziare i costi della già più che prevista evoluzione demografica, scongiurando così il rischio di non dare adeguate tutele alla condizione di fragilità della popolazione anziana e non solo. Se consideriamo che l’Unione è attualmente fragile dal punto di vista sociale, economico e politico, che diversi stati membri, tra cui il nostro, sono impegnati in sforzi di riforme strutturali e in programmi di consolidamento estremamente gravosi per le popolazioni, non possiamo non ritenere che, in ultima analisi, la chiave per superare congiunture come questa sia l’unione politica. Un’unione politica che favorisca solidarietà, lavoro, tutele per i più fragili, democrazia e convivenza civile. Intervento di Oliviero Girelli Segreteria Camera del Lavoro di Brescia S ono maturi i tempi per discussioni a livello europeo, quello che si teorizzava alcuni anni fa oggi è realtà, ciò che si pensava lontano è arrivato molto prima del previsto: l’obbligo di discutere di diritti nel mondo del lavoro, di stato sociale, di modello di sviluppo nel contesto europeo. 6 Interventi L’Italia è un Paese decisamente in difficoltà, un Paese dove gli unici provvedimenti attuati per rispondere alla crisi sono stati lo schiacciamento dei salari e la compressione dei diritti. Non è stato messo in campo nessun progetto per riattivare una parte di domanda interna, nessuna misura efficace né in ambito fiscale, né in ambito produttivo. È evidente la necessità di un piano straordinario per l’occupazione e sono molti i settori nei quali si potrebbe agire. Alcuni esempi di centrale rilevanza sono i progetti di sviluppo su risparmio energetico, Green Economy, innovazione manifatturiera, efficienza energetica, messa in sicurezza dell’edilizia pubblica, riqualificazione urbana, turismo, smaltimento dei rifiuti, diffusione della banda larga, un tpl sostenibile, sviluppo rurale. Nulla di tutto ciò rientra tra le priorità del Governo. Guardando con attenzione ai recenti provvedimenti, come il piano di stabilità, si scoprono, per l’ennesima volta, sprechi ed inefficienze. Riguardo all’utilizzo delle risorse disponibili, inoltre, vengono prese decisioni molto discutibili. Non condivido, a questo proposito, i soldi stanziati per la defiscalizzazione dei premi di risultato: una cifra superiore ai due miliardi che sarebbe stata più utile per rifinanziare i contratti di solidarietà nel 2013 e sostenere i sette milioni di pensionati che vivono con meno di 1000 euro al mese. Quello a cui assistiamo in questa fase storica è, al di là dei singoli fatti, un complessivo mutamento culturale. Sta ormai prendendo forma un progetto politico di frantumazione e disgre- gazione della società, dal lavoro alle pensioni. Un modello in cui ognuno si percepisce come singolo, sulla propria posizione e problema, solo e debole contro il sistema. Si stanno abbattendo le radici collettive e solidaristiche italiane ed europee. Abbiamo davanti a noi la necessità impellente di un percorso per il recupero di coesione sociale, diversamente non riusciremo a frenare la deriva liberistica. Servono un piano strutturale per la lotta all’evasione, all’elusione fiscale e contributiva, maggiori imposizioni sulle transazioni finanziarie, tasse ambientali coerenti con l’indicazione europea secondo il principio “Chi inquina paga”, una vera revisione dell’Irpef, in modo sostanziale sulla prima aliquota, un bonus fiscale per incapienti. Misure che tengano conto delle necessità di sviluppo industriale, sociale e ambientale da affrontare, in gran parte, guardando alla dimensione comunitaria. L’Europa ha forti potenzialità economiche e industriali. Vi è, però, bisogno di unificazione: ogni nazione deve avere il coraggio di perdere una parte di sovranità per il bene comune. Vanno cambiate le linee guida nella politica economica dell’Unione. Il patto di stabilità europeo ha bisogno di modifiche, lo dimostrano dati che fotografano la preoccupante situazione esistente. Dall’inizio della crisi, nei 27 paesi europei si sono registrate 5500 ristrutturazioni che hanno colpito 2 milioni di lavoratori. In tutta Europa sono 25 milioni i disoccupati. Va costruito un modello fondato sulla coesione sociale. Problemi economici e sociali che si presentano in forme diverse in molti Stati e che, per essere affrontati richiedono, oggi, la capacità di ragionare, anche per il sindacato, in un’ottica europea. Dobbiamo lavorare con sinergia per dare più forza alla Confederazione Europea dei Sindacati. È evidente che, per porsi in questa dimensione, vanno affrontati, a livello nazionale, alcuni temi: anzitutto quello dell’unità sindacale. In Italia si è fatto, di recente, l’accordo separato sulla produttività. Ci sono stati mesi di discussione tra Cgil, Cisl e Uil nei quali si è cercato di costruire un rapporto unitario, dopo l’accordo separato del 2009. Alla prima occasione, però, Cisl e Uil si sono sganciate. La mancata adesione di Cisl e Uil e allo sciopero europeo del 14 novembre è stato un atto grave. Hanno perso un’occasione importante: partecipare ad uno sciopero che potrebbe segnare l’inizio di nuove prospettive per un futuro più progressista, per un’Europa più progressista. Un modello per un futuro in cui si spera che i cittadini escano dalle mode politiche di questi ultimi vent’anni all’insegna dello slogan “meno Stato più mercato”,“togliere ai padri per dare ai figli”. Serve il recupero di una politica più sobria ed etica, in grado di rinnovarsi. So di parlare a una platea che è preoccupata della divisione sindacale più di qualsiasi altra categoria, anche per la storia che la vostra generazione ha vissuto. L’unità sindacale va recuperata velocemente, attraverso un accordo interconfederale o passando per la legislazione. Servono regole certe, senza che vi sia la paura di misurarsi democraticamente. Potremmo scoprire di non avere sempre Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 7 ragione, deciderlo spetta a chi rappresentiamo, non ai vertici. Dobbiamo lavorare con l’obiettivo di creare sindacati forti e coordinati a livello europeo, in grado di farsi rappresentanti dei lavoratori, dei molti e sempre più gravi problemi che vivono. Diversamente si produrranno le condizioni per Stati molto più liberisti e che non garantiranno i diritti sociali, un orizzonte preoccupante che si sta già delineando. Intervento di Ernesto Cadenelli segretario generale Spi Cgil Brescia D edichiamo questa giornata ad una riflessione sull’Unione europea che, nel 2012, è stata destinataria del premio Nobel per la pace. Si è riconosciuto, con questa assegnazione, come l’UE abbia saputo mantenere la pace dentro i propri confini. Prima della Comunità europea la tragedia del conflitto tra i paesi del vecchio continente aveva significato due guerre mondiali, l’immane tragedia dei fronti, delle trincee, dei campi di concentramento e sterminio. Dopo il 1945 alcuni tra i principali Stati europei voltano pagina cominciando a mettere in comune carbone ed acciaio: le materie prime della guerra. Inizia così la storia di un’unione economica con un’aspirazione politica. L’Europa è, in effetti, riuscita a fermare l’incubo della guerra dentro i propri confini. Si tratta di una conquista di enorme portata, ma vanno fatte alcune considerazioni. Anzitutto la drammatica crisi 8 Interventi balcanica, a fine anni ‘90, ha riportato nel continente la guerra e la catastrofe del genocidio. Va rilevato poi come molti stati europei siano stati, dal ‘45 ad oggi, coinvolti in azioni militari in molte parti del mondo. Mai, l’Europa è riuscita ad esprimere una politica estera comune, nemmeno su questioni cruciali. Lo vediamo nitidamente anche in questa fase: l’Europa non ha una visione unanime su questioni rilevanti del nostro tempo, si pensi all’assenza di una posizione comune sulla vicenda Palestina – ONU e alle difficoltà di definizione di una politica verso l’area Mediterranea o la Turchia. L’assenza di orientamenti condivisi sulla politica internazionale ha ricadute drammatiche anche sul tema dei flussi migratori: non esiste una politica comune che permetta di fare fronte solidamente nemmeno alle emergenze umanitarie. Quelli della politica estera, della politica internazionale, della pace sono alcuni tra i temi di importanza centrale su cui sembra bloccato il tentativo di dare all’UE un’unica voce. Sempre più si ha la percezione del “gigante economico - nano politico”: l’Unione appare come una tecnocrazia bancaria estremamente lontana. Eppure le esigenze degli Stati nazionali, pur nelle differenze evidenti tra casi, si avvicinano sempre di più. La crisi colpisce, in maniera più evidente, gli Stati del Sud Europa ma è un fenomeno che coinvolge tutti. Ad essere messe in discussione sono, ovunque, le conquiste dei precedenti decenni. Si trovano ad essere in crisi, così, alcuni tratti caratterizzanti dell’Europa, primo fra tutti il suo modello sociale. Quasi ovunque i governi tagliano la spesa pubblica. Le ricadute sono le minori risorse per sanità, servizi pubblici, istruzione e pensioni...proprio quegli elementi che hanno caratterizzato l’esperienza europea distanziandola significativamente da quella di altri continenti. Habermas e Derrida, nel 2003, hanno scritto una lettera aperta sul futuro dell’identità europea, dove nell’identificare “i pilastri fondamentali “ di tale identità, citano, non a caso, “le garanzie di sicurezza sociale offerte dal welfare” e “la fiducia degli europei nel potere civilizzante dello Stato”. Si percepisce il rischio che i citati pilastri vengano meno ma l’UE, nel complesso, non agisce per fare fronte a queste eventualità, non cerca di allargare le proprie aree di competenza. Tutte le scelte sono lasciate a governi nazionali, talvolta sotto il controllo indiretto degli stati più forti economicamente. Le stesse parti sociali fanno fatica ad agire a livello europeo. Abbiamo visto come la CES sia riuscita ad organizzare, il 14 novembre 2012, una mobilitazione in tutti i paesi, con molti scioperi. È stato di forte impatto vedere le stesse parole d’ordine fare il giro dell’Europa: per il lavoro e la solidarietà, no all’austerità. Non si è trattato, certamente, della prima iniziativa riuscita della Ces ma è innegabile che, un reale e radicato senso di appartenenza ad un grande movimento europeo, nel sindacato debba ancora affermarsi. Del resto, le divisioni sono ben presenti anche tra le confederazioni italiane. È indispensabile rafforzare rapidamente il ruolo della CES: le pro- blematiche dei lavoratori assumono carattere globale. Il 5 settembre scorso, a Bruxelles, la Commissione UE ha posto al centro del dibattito quattro punti salienti a sostegno dell’occupazione: 1 -creare sussidi per nuovi assunti riducendo la pressione fiscale sul lavoro, sfruttare l’elevato potenziale di creazione di occupazione dato dalla Green Economy (20 milioni entro il 2020), migliorare la pianificazione del personale nel sistema sanitarioassistenziale, fornitura di forza lavoro altamente qualificata. 2 -riforma dei mercati del lavoro, perché siano più dinamici e solidali. Trarre insegnamento dalla crisi per ridurre insicurezza del lavoro, garantire salari dignitosi, evitare le insidie dei bassi salari, prevenire l’abuso dei contratti atipici, aumentare gli investimenti. 3 -creare un mercato del lavoro completo per migliorare la mobilità, superando ostacoli giuridici e pratiche per la libera circolazione dei lavoratori, a tal fine si propone di migliorare la trasferibilità delle pensioni e delle prestazioni di disoccupazione per i disoccupati che si recano in altri paesi per cercare lavoro. 4 -un monitoraggio delle politiche per l’occupazione e l’avanzamento del piano nei singoli stati, coinvolgendo il Fondo sociale europeo per sostenere le priorità. La strategia Europa 2020 ha come obiettivo il 75% di occupazione per tale data, una tabella di marcia che fa i conti con la crisi persistente, anche nel 2013, e la necessità di realizzare lavoro, economia sociale e welfare. Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 9 Un obiettivo che tiene conto anche di una politica occupazionale comprensiva dell’invecchiamento attivo. Si tratta di punti programmatici, in gran parte, condivisibili ma che possono realizzarsi, uniformemente, solo con una politica comune. Guardando all’UE sono, infatti, evidenti le differenze nei mercati del lavoro e nella loro regolamentazione tra gli stati membri. Si rischia l’acuirsi del dumping sociale, della corsa al ribasso dei salari, dell’erosione dei diritti. A chi spetta, se non all’Europa nel suo complesso, governare questi fenomeni? Serve un sindacato che sappia rappresentare tutti i lavoratori europei, contrastando un mercato selvaggio. Fausto Durante potrà, certamente, aggiornarci sullo “stato dell’arte”. Serve un soggetto che affermi che i diritti dei lavoratori italiani non sono in contrapposizione con quelli dei lavoratori tedeschi o greci, elaborando una politica industriale e del lavoro comune. Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un’intervista a Davignon, commissario UE negli anni della grande ristrutturazione siderurgica europea, in cui ricordava quella fase. Cito questo riferimento perché rende evidente come, allora, una crisi di settore di dimensione enorme (lo sappiamo bene noi bresciani ex Fiom) fu gestita finanziando la chiusura di impianti, garantendo i lavoratori con prepensionamenti senza messa in discussione di diritti e libertà sindacali. Attualmente le politiche attuate dai governi sono, nel complesso, estremamente diverse da allora. Va evidenziato anche come emergano differenze tra i casi nazionali. In questi giorni, ad esempio, il governo 10 Interventi francese ha minacciato la nazionalizzazione del colosso ArcelorMittal nel caso in cui non dia garanzie di continuità, mentre noi siamo alla prese con la drammatica situazione dell’Ilva. Su un settore centrale come quello dell’auto, non è in campo nessuna idea di governo europeo e ci troviamo davanti a differenze abissali tra paesi: mentre la Volkswagen fa investimenti e tutela l’occupazione, la Fiat, in difficoltà di strategia, non sa fare altro che scaricare tutti i costi sui lavoratori, sui diritti e sulle libertà sindacali. Per la verità, nel caso Fiat, ci sono stati attivissimi apripista nei ministri del lavoro dei governi Berlusconi. Siamo consapevoli che oggi, forse, le risorse economiche disponibili nella stagione evocata da Davignon non ci sono più ma, appunto, andrebbero ricercate nel bilancio dell’Unione attraverso una davvero risolutiva sconfitta della piaga delle evasioni fiscali e dei privilegi di cui grandi ricchezze e finanza godono. La vicenda dell’introduzione della Tobin tax è esemplare per capire quante sono le resistenze dei poteri forti. La necessità di riorientare l’azione guardando al livello europeo coinvolge anche i pensionati. Anzitutto sono molto direttamente toccati dalle evoluzioni dei modelli di welfare, pensiamo ad ambiti come la sanità e i servizi sociali. L’età media della popolazione aumenta in gran parte dell’UE, il problema dell’insufficienza dei redditi da pensione non riguarda solo l’Italia. Il sindacato pensionati rappresenta una particolarità italiana cui molti paesi, in questa fase, stanno cominciando a guardare con interesse. È indispensabile che i pensionati nei sindacati europei, davanti a problematiche simili, parlino con un’unica voce. Lo Spi nazionale da anni partecipa attivamente alla FERPA, Federazione Europea dei pensionati e delle persone anziane. È un lavoro importante, rivolto alle politiche ma anche all’organizzazione di un Sindacato Europeo dei Pensionati. È auspicabile che il modello italiano fatto di rappresentanza specifica dei pensionati, negoziazione sociale e tutela individuale, confronto con i governi locali e nazionali si estenda agli altri paesi dove i pensionati o si riuniscono in semplici associazioni di anziani, o rimangono collegati alle categorie di provenienza. Il risultato pratico è che i loro problemi sono trascurati e rimangono in fondo all’agenda. Nel nostro piccolo, con Renata Bagatin e Livio Melgari, abbiamo partecipato e dato una mano nei Balcani a far sì che i sindacati di Slovenia e Croazia riprendessero il dialogo e che in Serbia sorga un sindacato pensionati. Renata entrerà, poi, più nel merito del nesso tra l’organizzazione e la pratica degli obiettivi di welfare europeo. Per creare le condizioni atte a facilitare lo sviluppo politico e democratico dell’Unione, per dare voce alle esigenze di lavoratori e pensionati, serve un’Europa che torni ad appassionare le opinioni pubbliche. Va ricordato come, in Italia, lavoratori e pensionati siano stati i primi a fare sacrifici, pagando anche una tassa specifica, per dare vita al progetto della moneta unica. Va creata un’istituzione che ci faccia sentire rappresentati e dunque, per cominciare, un’istituzione democratica. Non è accettabile l’attuale deficit democratico: abbiamo, a livello comunitario, un assetto istituzionale che non dà sufficiente spazio al Parlamento, unico organo eletto a suffragio universale. Certamente l’intervento del prof. Cesare Pinelli ci aiuterà ad affrontare la complessità dei temi in questione. Noi siamo convinti che questa condizione di forte debolezza delle istituzioni rappresentative sia frutto anche di orientamenti di politica economica che hanno dominato gli ultimi decenni, a partire dalla liberazione del movimento dei capitali, che all’inizio degli anni ‘80 pose fine al compromesso di Bretton Woods fondato appunto sul divieto di circolazione dei capitali cui faceva da contrappeso la libertà per le merci. Lo strappo dei conservatori Reagan e Thatcher determinò un rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento l’intervento dello stato nell’economia fu ridimensionato e i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. Ebbe avvio così la fase del capitalismo finanziario. Possiamo parlare di “internazionale del capitale”, un’élite globale che concentra un potere immenso. Si realizza al contrario l’appello di Marx “proletari di tutto il mondo unitevi”. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e si esprimono come i governi. Grandi banche e società finanziarie attraverso decisioni sui tassi, su dove investire o disinvestire possono sfiduciare Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 11 i governi che attuano politiche economiche non gradite e sono in grado di condizionare il destino dei popoli. Il mutamento del rapporto tra capitalismo e governo democratico è uno dei fattori alla base del processo di finanziarizzazione, così come lo è il cambio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Ma c’è anche una concorrenza tra i capitalismi nazionali e il mercato finanziario internazionale, che impone la sua visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo. I finanzieri hanno conquistato un ruolo centrale nella gestione delle grandi imprese. Se si vuole uscire dalla crisi bisogna rovesciare questa situazione. Le recenti decisioni della Banca Centrale Europea sugli interventi anti- spread sono un primo passo per ricostruire la sovranità monetaria dell’Unione e ridimensionare l’influenza della speculazione finanziaria sulle politiche economiche dei paesi in difficoltà. Però occorre fare di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Serve un’Europa che si occupi di politica nel senso più alto del termine. In passato è avvenuto: si pensi, ad esempio, alla solidarietà tra Paesi emersa durante la fase di riunificazione delle due Germanie. Oggi, invece, l’Europa è percepita come un ostacolo allo sviluppo, anche da popoli tradizionalmente europeisti come il nostro. La responsabilità è, in parte, di quanti – nei governi nazionali- scaricano, superficialmente, l’origine di politiche impopolari sul livello europeo. Il ritorno 12 Interventi in campo di Berlusconi non potrà che acuire queste tendenze. Non c’è, però, solo questo elemento: l’Unione europea appare, troppo spesso, più una burocrazia gestita da un’élite di tecnocrati che un’istituzione impegnata nel raggiungimento del progresso generale. Questa situazione genera sfiducia verso il livello comunitario e, unita alla crisi economica, alimenta i populismi delle destre estreme che, in tutta Europa, accrescono i loro consensi facendo leva sui sentimenti antieuropei. Dobbiamo togliere argomenti a questi populismi montanti, favoriti da mercati selvaggi, non gestiti dalla politica. La sinistra, in tutti i paesi europei, rispetto a queste istanze, ha compiti di portata storica: l’evidente fallimento delle destre in Europa impone ai progressisti europei il compito di rilanciare un processo di crescita economica, di democratizzazione delle istituzioni comunitarie, di proporre una governance che vada oltre il metodo intergovernativo con l’obiettivo di costruire un’Europa solidale e inclusiva. Il “documento progressista di Parigi” firmato da Bersani, Hollande e Gabriel rappresenta un positivo passo in questa direzione. Se non si rafforza l’integrazione, la grave crisi politica e sociale travolgerà i paesi dell’euro. La via d’uscita possibile consiste nel correggere gli squilibri dell’Unione economica e monetaria superando le insufficienze del Trattato di Lisbona del 2007 per andare oltre il semplice coordinamento tra Stati membri. Servono scelte che annullino i costi della non – Europa. Sono necessarie riforme strutturali nel settore servizi, investimenti e progetti di crescita. Occorrerà rafforzare la cooperazione tra Commissione e ministeri del Tesoro, nell’ottica di creare un Tesoro europeo, come si fece per la BCE. Si tratta di una tappa verso la creazione di un governo dell’economia con un ministro federale delle finanze. Un’imposta europea nell’ambito del bilancio federale potrà dare credibilità adeguata per finanziare la crescita. Può essere l’1% dell’Iva attuale, una carbon tax, una tassa sulle transizioni finanziarie. Nessuna imposta, tuttavia, potrà essere decisa senza legittimità democratica e senza risolvere la crisi di fiducia tra l’Unione e i suoi cittadini. L’euro non potrà sopravvivere senza un progresso politico democratico decisivo. Da oggi al 2014, quale cammino può essere intrapreso? Serve recuperare alcuni capisaldi della Costituzione non approvata nel 2004, e svolgere un lavoro del Parlamento europeo intrecciato con i Parlamenti nazionali. Lo stato di necessità può dar vita ad una vera Europa politica e sociale, le cui istituzioni garantiscano un equilibrio giusto tra politiche monetarie, di bilancio, stimolando la crescita e le riforme. L’euro sopravviverà solo con un governo economico europeo e un bilancio di crescita; il suo fallimento avrebbe conseguenze disastrose su tutta l’Unione. Questo processo può essere la via per recuperare un’idea di Europa giusta, solidale, democratica e con un suo ruolo nel mondo. Serve un’ Europa dei popoli contrapposta all’Europa delle banche – non si tratta solo di uno slogan ma di un vero e proprio programma politico. È evidente anche agli euro-scettici che il futuro non è destinato al confron- to esclusivo tra stati nazionali, non è pensabile che sia l’Italia del domani a rapportarsi, da sola, con la Cina o con l’India, presumibilmente a relazionarsi saranno le grandi aree geografiche. E, allora, un’organizzazione come la nostra, credo, non possa che aspirare ad un’Europa coesa e capace di guardare ad altre aree del mondo con spirito di collaborazione. Un’ Unione che riparta dalla consapevolezza che l’ha originata: l’indispensabilità della pace quale condizione irrinunciabile per lo sviluppo umano. Esiste un grande potenziale che la politica europea ha il compito di incanalare. Mai come oggi, gli Stati europei (Germania inclusa) sono ad un bivio: sprofondare o risollevarsi, insieme. Intervento di Cesare Pinelli Docente di Diritto Pubblico Università La Sapienza Roma Cosa significa oggi per noi italiani l’Europa, in un momento di così grande difficoltà economica per il nostro Paese, per l’occupazione e per il lavoro? Come mai, in pochi anni, il nostro atteggiamento, un tempo molto positivo, si è rovesciato in preoccupazione o diffidenza? Certo, ci sono sempre parti politiche pronte a cavalcare questo sentimento per ottenere voti. Ma del sentimento della grande maggioranza degli italiani bisogna invece parlare, anche per correggere certe idee un po’ astratte sull’Europa. La Comunità Europea nasce più di cinquant’anni fa, nel 1957, col Trattato di Roma, e unisce allora solo alcuni Stati del continente europeo: i tre maggiori Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 13 erano l’Italia, la Francia e la Germania Occidentale, in un contesto non molto diverso da quello in cui si era riunita l’Assemblea Costituente italiana (19461948), un contesto di grande miseria, prima di tutto, non solo materiale ma anche morale per quello che era successo col fascismo e subito dopo il fascismo. La situazione nel 1957, a distanza di dieci anni, non era granché cambiata. C’erano state alcune grosse novità politiche, però dal punto di vista economico c’era molto da fare ancora per la crescita italiana. E c’erano anche dei fenomeni di migrazione interna tra gli Stati della Comunità Europea: non dimentichiamo che la tragedia di Marcinelle in Belgio riguardò minatori italiani. Che cosa ha significato, su questa premessa, la Comunità Europea? Ha significato un grande slancio all’economia italiana. La CE pose le premesse di un mercato che prima era semplicemente comune, un mercato aperto, e poi, nel 1986, con l’Atto unico, è diventato un mercato unico che ha consentito un’espansione dell’economia e, nello stesso tempo, una crescita dello stato sociale a livello nazionale. Questi due binari sono andati fino agli anni Ottanta in modo parallelo: crescevano le prestazioni e i servizi sociali alla popolazione, i diritti sociali riconosciuti in Costituzione venivano garantiti, e si affermava il ruolo dei sindacati. Dall’altra parte, col mercato, crescevano le imprese, il famoso “miracolo italiano”. Il miracolo non è che l’abbiano avuto la Francia o la Germania. Lo abbiamo avuto noi, nei primi anni Sessanta, proprio perché venivamo da una condizione di estrema 14 Interventi arretratezza. Non solo l’Europa ha avuto un grande ruolo nel far crescere l’economia italiana, ma l’Italia ha avuto anche un grande ruolo per far crescere l’Europa, nei momenti in cui Francia e Germania da sole non riuscivano a risolvere certi blocchi. Non dimentichiamo che all’origine della formazione della Comunità Europea ci fu il bisogno di far fare la pace alla Germania ed alla Francia. Tutto nasce dalla controversia nel bacino della Ruhr tra carbone ed acciaio, fra la paura dei Francesi che si ricostituisse l’esercito tedesco e la paura dei Tedeschi che l’industria francese avesse un’impennata tale da danneggiare l’economia tedesca. La CECA, la Comunità economica per il carbone e l’acciaio, che precede di tre anni la CE, nasce su questo presupposto, su un presupposto di crescita economica che però, nel contesto della Guerra Fredda in cui erano l’Europa e tutto il mondo, significava anche far fare la pace alla Germania ed alla Francia col Trattato di Roma del 1957. In realtà, la pace non l’avevano fatta fino in fondo, perché c’erano questi dissidi, questi sospetti, queste diffidenze, e noi, con De Gasperi, con Spinelli, fummo fondamentali in quest’azione all’inizio. Ed anche dopo l’Italia fu molto importante per superare le crisi. Quindi nell’avventura dell’Europa unita noi ci siamo stati proprio dentro fino al collo. Ed addirittura, quando si pensa, in certi momenti di difficoltà, di far ripartire il motore, si pensa agli Stati della piccola Europa come base: che siamo sempre noi, alla fine. Per capirci: non possiamo pensare minimamente, a differenza degli inglesi, di staccarci dall’Unione. È totalmente fuori dal nostro pensiero. Però soffriamo moltissimo per quello che sta succedendo. Perché l’Europa oggi sembra una tecnostruttura e basta, mentre è molto di più? E che dire del capitolo sociale, del modello sociale europeo? Queste sono le due questioni principali che tratterò. Sulla prima. Negli anni che vanno fino a Maastricht, ai primi anni Novanta, la macchina europea si reggeva su una Commissione, che era poco più di un’agenzia, con una componente tecnica forte perché i membri di questa commissione non prendono direttive dai governi nazionali, hanno uno statuto d’indipendenza, il Consiglio dei ministri, riunito in varie formazioni di settore fino alla maggiore, quella dei Capi di Stato e di Governo (Consiglio Europeo), infine il Parlamento Europeo, che dal 1979 rappresenta direttamente i cittadini europei. Inizialmente le decisioni venivano prese dal Consiglio (quindi dai governi nazionali) su iniziativa della Commissione. Poi, sempre su iniziativa della Commissione, dal Consiglio su parere o d’intesa col Parlamento, infine, col trattato di Lisbona del 2009, congiuntamente dal Consiglio e dal Parlamento su quasi tutte le materie. In questo senso c’è stata una democratizzazione dell’Unione Europea. Il fatto che il Parlamento Europeo co-decide, adesso, sicuramente aiuta. Però questa è solo una parte del problema. Il fatto è che per i governi l’Unione Europea è un parafulmine fantastico, perché consente di nascondere le responsabilità politiche per le decisioni prese, cosa che non avviene a livello nazionale. Intanto, oltre alla Commissio- ne, c’è una serie di comitati, composti da rappresentanti degli Stati membri e dell’UE, che preparano e attuano le decisioni. Per cui alla fine il sistema di decisioni appare confuso. Ai governi, non importa se di destra o di sinistra, conviene mantenere l’immagine dell’Unione Europea come una organizzazione tecnocratica, perché le decisioni impopolari che a livello nazionale sarebbero costose nel senso di voti, prese a Bruxelles non costano niente ai governi, che le possono scaricare su una tecnocrazia, un palazzo, senza contare il fatto che invece sono loro che cambiano il cappello e vanno a Bruxelles a prendere le decisioni insieme. Questo è il gioco, e con la crisi questo gioco è arrivato al capolinea. Ma i governi hanno una grande paura a cambiarlo, perché per cambiarlo dovrebbero costituire un governo europeo vero, a cominciare da un ministro dell’economia. Come sapete, noi abbiamo l’euro e una banca centrale europea, con un potere molto grosso, quello di assicurare la stabilità di questa moneta, a garanzia che non ci siano degli sconquassi come quelli che si ebbero, per capirci, negli anni Trenta del ‘900 in tutto il mondo. Ma questo non basta a placare la finanza globale. Con la crisi dei derivati, nel 2007, i grossi capitali che questa finanza globale riesce a muovere sono stati concentrati con finalità speculative sull’Europa come area debole. Non da un punto di vista economico, perché anzi l’Europa è molto meno indebitata che non gli Stati Uniti, che hanno dei grossi problemi di politica economica, però li esportano: sono sempre riusciti, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, a buttarli fuori da loro ed a mantenere Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 15 il dollaro in una posizione centrale. Invece, l’Europa soffre di non essere né carne né pesce. Non è uno Stato che prende le decisioni su certe cose e non è neanche una organizzazione internazionale che magari non conta nulla, perché l’euro è la seconda moneta del mondo, e quella europea nonostante evidenti segni di declino è ancora importantissima nel mondo. Però è incapace di prendere decisioni politiche ed è molto divisa all’interno fra Stati fortemente indebitati e Stati che non lo sono. I mercati globali hanno capito che poteva giocare sui differenziali tra uno Stato e l’altro dal punto di vista dei rendimenti dei titoli del debito, il famoso spread. Abbiamo dunque in Europa regolazioni di mercati che funzionano dal lato della moneta, ma non del debito. E quindi ritorniamo allo stesso discorso di prima: l’Europa è una cosa lasciata a metà. Guardiamo ancora al bilancio dell’Unione. Da una parte abbiamo una moneta unica, come se fossimo un solo Stato, dall’altra il bilancio dell’Unione Europea è una cosa ridicola, l’1% della ricchezza che circola in Europa. Sono solo soldi che gli Stati danno all’Unione Europea in quella minima proporzione per finanziare l’agricoltura e un po’ di progetti. Allora, è chiaro che qui così non possiamo andare avanti. È come se fosse il bilancio di un’organizzazione internazionale, in cui ognuno fa per conto suo, e nello stesso tempo c’è una moneta unica e una banca centrale europea che prende decisioni, che, per quanto riguarda l’aspetto strettamente monetario, sono simili a quelle di altre banche mondiali. Ancora, la banca centrale, a differenza che negli stati, non ha una controparte 16 Interventi politica, un Ministro dell’economia, un Primo Ministro, un Governo che risponda politicamente. L’UE non ce l’ha. Tutti questi squilibri si pagano, perché chi ha interesse a sfruttare le occasioni per farci i soldi di proprio non si fa tanti scrupoli, come appunto sta succedendo. L’unica risposta in questi due anni è stata data dal Presidente della Banca centrale Draghi. È stato l’unico che ha dato delle risposte serie. Se non c’era lo scudo che già comincia a funzionare, lo spread italiano e quelli di altri Paesi indebitati sarebbero saliti molto di più. La Banca centrale è riuscita a fermare una cosa che poteva andare molto peggio. Ma è chiaro che non basta, che ci vuole uno scatto da parte dei governi. Questo scatto non c’è per il timore di perdere non tanto la sovranità, quanto i vantaggi che questa situazione “né carne né pesce” dell’Europa porta ai governi, di cui ho già detto. Bisogna dire che i governi non sono soli in questo. La politica è rimasta nazionale, così come l’organizzazione delle parti sociali e l’informazione. C’è un problema di lingua, certamente, ma sempre meno. Si parla in inglese, specie tra le giovani generazioni. Quindi, non è che non sia possibile, non ci si prova nemmeno. È proprio tutto fermo ad una situazione in cui, appunto, non c’è una televisione, non c’è una cultura, non ci sono giornali, non ci sono partiti, non ci sono sindacati europei. Allora, è chiaro che i governi sono una parte di un problema più grosso. Tutti i soggetti che ho detto non fanno abbastanza per adeguarsi non tanto all’Europa, ma al fatto che senza l’Europa non ce la facciamo più a prendere le nostre decisioni, a concepire la nostra convivenza soltanto a livello nazionale. Non è che noi dobbiamo abbandonare l’Italia. Non è questo il problema. Noi siamo sempre noi, ma è il come siamo organizzati che deve cambiare. È una cosa diversa. Noi siamo e resteremo italiani, ma il come prendere le decisioni, a che cosa rapportarci sul piano politico e sul piano sociale, deve cambiare. Altrimenti non ce la facciamo, perché la competizione – lo sapete – è diventata pazzesca. E qui aprirei il capitolo dell’Europa sociale. È un capitolo pieno di contraddizioni, vorrei dire di montagne russe, perché noi siamo partiti nel 1957 da un Trattato nel quale il modello sociale era abbastanza modesto rispetto all’obiettivo di formare un mercato. La libera circolazione dei lavoratori era una delle quattro libertà di circolazione all’interno dell’Europa, ma significava sostanzialmente considerare il lavoro come un’altra merce. Non c’erano sufficienti garanzie che la libera circolazione dei lavoratori avvenisse in un quadro di diritti per i lavoratori. Solo alcune regole erano state fissate, come la parità retributiva uomo-donna, che compare già nel Trattato di Roma e invece in Italia lo sarà soltanto con una legge del 1977. Perché viene affermata questa regola? Per interessi economici: la Francia temeva che il forte differenziale retributivo fra lavoratrici e lavoratori in Italia danneggiasse le imprese francesi. Quindi, non è che fosse un ideale, però lo si affermò, e su questo ha poi fatto leva tutta la giurisprudenza della Corte di giustizia, per cui questo principio è assolutamente pacifico in Europa. Non è certo un punto da sottovalutare. Il grosso, l’affermazione dello stato sociale, le modalità di rappresentanza del sindacato, lo sciopero, tutto quello che ha a che vedere, appunto, con quello che è stato chiamato il modello sociale europeo era però lasciato a livello nazionale, e a livello nazionale si sviluppò, in Italia come negli altri Stati membri: in modi diversi, ma comunque con una ispirazione di sviluppo, di crescita. Piano piano, il capitolo sociale viene affermato nei trattati europei. Perché? Perché è lo sviluppo stesso del mercato che pone le premesse per rafforzare questo capitolo. Per come si era sviluppata la civiltà europea, con stati sociali avanzati che nel lavoro erano sempre più presenti, non era possibile pensare ad uno sviluppo deregolato, puramente liberistico. Le due cose andavano insieme. Lo sviluppo del mercato andava insieme, non contro lo stato sociale. E questo viene proseguito con i trattati di Maastricht, di Amsterdam, infine di Lisbona. Nel frattempo accadono altri fatti importanti. Nel momento in cui i lavoratori di uno Stato membro si spostano in un altro per cercare lavoro, si vedono riconosciute le stesse garanzie dei cittadini degli Stati dove risiedono dalla Corte di giustizia. I giudici europei dicono: se in Italia arriva un lavoratore francese, al lavoratore francese tu devi dare le stesse garanzie che dai ai tuoi lavoratori ed ai cittadini in generale: non solo i fabbrica, ma per i servizi sociali, la salute, la casa, la scuola per i figli e così via. C’è una cittadinanza transnazionale che si afferma all’interno dell’Unione Europea e che costituisce la base per la formazione, appunto, della cittadinanza europea, una doppia cittadinanza, nazionale ed Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 17 europea, in tutti gli Stati dell’Unione. Però, per tante ragioni, il capitolo dei diritti fondamentali nell’Unione stentava a trovare forma. I diritti ancora non erano riconosciuti 15 anni fa in Europa. Ma con l’allargamento ai Paesi dell’Est si arrivò all’assurdo che noi chiedevamo loro di garantire i diritti fondamentali, che però come tali non erano ancora previsti dal trattato sull’Unione. Era assurdo. Quindi ad Amsterdam si comincia a riconoscerli, e poiché non bastava si scrive una Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei che nel 2000 viene affermata a Nizza solennemente, e infine entra di diritto nel Trattato di Lisbona del 2009. In questa Carta, nel Capo IV, “Solidarietà”, ci sono articoli intitolati “diritto dei lavoratori all’informazione ed alla consultazione nell’ambito dell’impresa”, che riguarda anche il sindacato; “diritto di negoziazione e di azioni collettive”, compreso lo sciopero, che riguarda di nuovo il sindacato: “diritto di accesso ai servizi di collocamento”; “tutela in caso di licenziamento ingiustificato”; “condizioni di lavoro giuste ed eque”; “divieto del lavoro minorile e protezione dei giovani sul luogo di lavoro”; “vita familiare e vita professionale”. Ho letto soltanto i titoli degli articoli da 27 a 33. Non posso entrare nel merito del testo, ma una cosa è certa: che queste sono le basi di un’affermazione forte di un modello sociale a livello europeo. Il problema è l’estrema divaricazione fra quello che c’è scritto, le promesse, se volete, e la realtà che noi stiamo sperimentando. Non è la prima volta, d’altra parte. Perché dal 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, al momento della sua attuazione, passarono 18 Interventi trenta anni. Il nostro mondo va avanti così: fra grandi divaricazioni fra i principi che vengono posti e la realtà, che è molto più dura, molto più difficile di questi principi. Ma non c’è il rischio che tutto si sfasci prima che questo divario sia colmato? Il rischio non si porrà solo se, pur con grande ritardo, i governi riusciranno a capire di dover rinunciare a quella convenienza di piccolo cabotaggio che hanno nello sfruttare l’Unione europea nel modo che ho detto. Eppure non sarebbe difficile trovare dei sistemi per uscire da questo gioco, a cominciare dalle elezioni del prossimo Parlamento Europeo: basterebbe che una famiglia politica proponesse un candidato alla guida della Commissione e un programma serio perché le altre facessero altrettanto, col risultato che le elezioni per il Parlamento Europeo sarebbero finalmente una competizione politica europea, non un modo per continuare le politiche nazionali, per contare quanti voti hanno ottenuto i singoli partiti nazionali. A quel punto si potrebbe avere una maggioranza politica al Parlamento europeo, capace di dare la fiducia alla Commissione come un parlamento nazionale la dà a un governo. Si aprirebbe tutto un altro capitolo, senza toccare i trattati europei. Quindi, ci vorrebbe poco. I partiti e i governi europei si trovano perciò in questo momento davanti a una grandissima responsabilità. Quella di salvare non solo la convivenza europea, ma anche quella nazionale, che dal crollo dell’Unione uscirebbe anch’essa travolta. La questione non è più quella di scegliere fra Stato nazionale ed Europa. Ma è di scegliere tra uno sguardo corto, come scrisse Tommaso Padoa Schioppa, e uno più lungimirante e ragionevole, il solo che può far ripartire anche la crescita e continuare a garantire i diritti dei lavoratori. Intervento di Renata Bagatin esecutivo FERPA – Federazione Europea Pensionati ed Anziani Non c’è dubbio che lavoro, stato sociale ed Europa, i temi che avete voluto affrontare in questa Assemblea annuale, siano strettamente e indissolubilmente legati tra di loro. IL SOGNO EUROPEO Lo stato sociale, che nelle utopie di un tempo delle grandi socialdemocrazie europee doveva accompagnare i suoi cittadini dalla culla alla tomba, oggi come ieri non è in grado di dare nessuna risposta senza la conquista della piena occupazione, un lavoro dignitoso e di qualità per i giovani e le donne, giustamente retribuito e con i contributi regolarmente versati. E non c’è prospettiva di lavoro e piena occupazione senza politiche di sviluppo, nazionali ed europee, modificando radicalmente l’orientamento di governi nazionali e di un’Unione Europea ancora pesantemente condizionata da politiche liberiste. Il “sogno europeo” che ci ha regalato uno dei periodi di pace più lunghi della nostra storia (è stato, infatti, conferito a Oslo il premio Nobel per la pace all’Unione europea, che per cinquant’anni ci ha regalato stabilità e sviluppo) oggi sembra smarrito, ripiegato su se stesso, sotto i colpi di lunga crisi che ha messo in ginocchio molte economie occidentali. L’Euro, la moneta unica, che doveva avviare un processo di unione politica dell’Europa (non solo monetaria) puntando all’omogeneità delle sue leggi e dei suoi sistemi di welfare, si è trovato a sua volta al centro degli attacchi speculativi della finanza internazionale, complice proprio la mancata integrazione politica. Un’integrazione arenatasi all’inizio degli anni 2000, quando il vento del liberismo e del nazionalismo ha cominciato a soffiare sull’Europa, travolgendo i governi progressisti, che nel giro di pochi anni avrebbe portato un’Unione Europea governata da 13 governi di centrosinistra su 15 stati membri, a quella di questi ultimi anni, con 25 governi di centrodestra su 27 stati membri. LA CRISI Nasce lì, in quegli anni, alimentato dalla crisi dell’economia occidentale che già si profila all’orizzonte, l’attacco al modello sociale europeo, che altro non era che lo scambio tra capitale e lavoro, tra protezione sociale in cambio di produttività, costruito sul dialogo tra le parti, che l’Unione Europea aveva reso per se stessa obbligatorio. Non dobbiamo dimenticarci che tutto questo è successo anche per i nostri ritardi, per l’incapacità della sinistra europea di cogliere i cambiamenti in atto, di comprendere cosa avrebbe significato nella nostra organizzazione sociale il fenomeno del tutto nuovo dell’immigrazione africana, o di quella interna ai Paesi dell’Unione, che la caduta delle frontiere aveva favorito. La stessa Ces, la Confederazione Euro- Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 19 pea dei Sindacati, non sarebbe riuscita ad arginare questa deriva, condizionata al suo interno dalle difficoltà di rendere univoco un percorso di sindacati profondamente diversi, per storia, cultura, condizioni e problematiche diverse da Paese a Paese. Diversità che in questi anni hanno scavato e approfondito solchi su aspetti fondamentali della vita dei suoi cittadini. IL LAVORO CHE MANCA Quando parliamo di lavoro, dobbiamo sapere che in Europa oggi abbiamo quasi 26 milioni di disoccupati, aumentati di 2 milioni nel solo ultimo anno, con un tasso di disoccupazione che va dai minimi del 4-5% di Austria, Lussemburgo e Germania, fino al 25-26% di Grecia e Spagna. Il tasso di disoccupazione medio in Europa è sul 10,6%, più o meno come quello in Italia che è del 10,8%. Se poi guardiamo la disoccupazione giovanile, l’oscillazione va dall’8% in Germania al 36% in Italia, fino al 55% in Grecia e Spagna. Una disoccupazione giovanile che possiamo riscontrare anche nella ripresa della nostra emigrazione, tornata a crescere negli ultimi anni come più non accadeva dal secolo scorso. E non sono solo i giovani laureati a emigrare, ma ragazzi che andranno a fare i manovali, gli operai, i pizzaioli o i camerieri. Certo non si emigra più con la valigia di cartone e i treni che partono dal sud, ma con i trolley e i voli a basso costo, con poche decine di euro verso Berlino, Londra o il Lussemburgo. 20 Interventi LE NUOVE POVERTÀ Così come quando parliamo di povertà, dobbiamo sapere che ci sono 116 milioni di persone povere o a rischio povertà di quaranta milioni in stato di grave indigenza e con i bambini e gli anziani tra i più colpiti. In Europa è considerata povera la persona che non ha accesso a beni e servizi che le altre persone nella stessa società considerano normali e garantiti, o la persona che vive al di sotto del 60% del reddito medio. Non servono molti altri dati per comprendere come siano i disoccupati, i precari e le persone anziane, in particolare le donne sole, a rientrare in quest’area che da alcuni anni è in costante crescita. E se il Bilancio Sociale presentato recentemente dall’Inps ci dice che in Italia sono oltre 7 milioni i pensionati che vivono con meno di 1000 euro al mese - naturalmente lordi - e che l’occupazione giovanile e il potere d’acquisto delle famiglie italiane continuano a calare, ci rendiamo ben conto come noi, non altri, ma noi, siamo parte integrante di questa situazione europea. LA SANITÀ La nostra stessa sanità, che tante risorse ha divorato e che qui in Lombardia ha conosciuto il peso degli scandali e dell’esaltazione dell’intervento privato, quella che Formigoni continua disinvoltamente a definire un’eccellenza, in Europa è scesa al 21° posto tra i 34 maggiori sistemi sanitari europei. Sì, avete capito bene, negli ultimi anni il nostro Paese ha fatto un deciso passo indietro, retrocedendo di sei posti dalla già non brillante posizione del 15° posto del 2009. Anche qui, rispetto ai primi posti di Olanda e Danimarca, l’Italia si trova oggi ai livelli di Grecia e Cipro. Le cause di tutto questo sono presto dette: l’Italia non è rimasta al passo con i progressi fatti da molti altri stati, da noi si continua a mettere il sistema sanitario sul piedistallo dell’economia, ignorando diritti dei pazienti, trasparenza e attenzione per l’utente. È mancata anche qui un’idea di sviluppo e civiltà che puntasse sulla persona e non sul mercato e oggi il nostro sistema sanitario, rispetto agli altri paesi europei è debole nella maggior parte dei settori: l’attesa, l’economicità, l’uso dei farmaci, le cure a lungo termine. Per risanare il nostro Paese e costruire l’Europa c’è tanto, tantissimo da fare. I NOSTRI COMPITI Quando noi recriminiamo giustamente sui ritardi dell’Unione Europea e delle sue forze progressiste, dobbiamo anche guardare in casa nostra, alle nostre difficoltà, ai nostri ritardi, a livello europeo come a livello nazionale. Questo è quanto è successo e le condizioni date, quelle da cui dobbiamo partire per costruire veramente un’Europa con più lavoro e più stato sociale, riproponendo con forza quel sogno e quel modello europeo che, anche nelle difficoltà di questi anni, non è mai tramontato. Anzi, forse proprio queste difficoltà hanno fatto prendere coscienza di quanto il mondo sia ormai interconnesso, di quanto sia stata importante anche per noi l’elezione di Hollande in Francia, di Obama negli Stati Uniti e, ci auguriamo, di un governo di centrosinistra domani in Germania e, naturalmente, in Italia. Noi non abbiamo mai confuso l’autono- mia sindacale, di cui siamo profondamente gelosi, con il disinteresse verso le sorti di questo nostro Paese che ha un grande, profondo bisogno, di chiudere definitivamente con gli anni del berlusconismo, degli egoismi privati e della corruzione pubblica. Gli anni che hanno fatto del nostro un Paese offeso e dileggiato, gli anni che hanno impoverito i pensionati e i lavoratori e rubato il futuro ai giovani, gli anni della divisione sindacale coltivata, voluta, perseguita con determinazione. Noi non dimentichiamo come siamo arrivati e chi ci ha portato in questa situazione; dagli anni delle bugie e della crisi negata di Berlusconi, alle difficoltà avute con il Governo Monti. Le parole d’ordine di quest’ultimo erano: rigore, equità e sviluppo. Peccato che abbia fatto solo rigore. Questo non va bene. Se non c’è sviluppo non c’è occupazione per i giovani, se non c’è equità pagano solo i lavoratori e pensionati. E questo non va bene. Come abbiamo sempre detto, vogliamo un Governo legittimato dal voto e, come Spi e Cgil, vogliamo confrontarci con i programmi delle coalizioni, perché puntiamo al ritorno della bella politica, che faccia sviluppo e metta ai primi posti il lavoro e il welfare. E noi dobbiamo fare la nostra parte, così come l’abbiamo fatta nell’importante giornata di mobilitazione europea dello scorso 14 novembre, dove anche la Ces è riuscita finalmente a far sentire la sua voce; la Cgil e lo Spi c’erano, in prima fila assieme ai tanti altri lavoratori e pensionati che con gli scioperi che hanno attraversato l’Europa, hanno reso visibile a tutti la profondità della crisi e il limite di politiche di austerità che Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 21 ricadono sempre e pesantemente sui giovani e sui lavoratori, che siano attivi o pensionati. Certo la strada è ancora lunga e difficile, le diversità tra e dentro i Paesi europei sono ancora molte, condizioni di vita e lavoro, di accesso alla sanità e ai servizi pubblici, registrano ancora profonde differenze e ogni piccolo passo avanti è una conquista frutto di un lavoro costante. È, però un percorso possibile e, ognuno di noi, anche a livello individuale, può dare un suo contributo per questo nostro Paese e questa nostra Europa, sia quando saremo chiamati, nel giro di poco più di un anno, a eleggere prima il Parlamento italiano e poi quello europeo, sia con la nostra firma. L’AZIONE DELLA FERPA Poche settimane fa l’Esecutivo della Ferpa (Federazione Europea dei Sindacati dei Pensionati) ha, infatti, deciso di avviare la procedura per una proposta d’iniziativa di legge europea sulle cure a lungo termine per le persone non autosufficienti, che, se ammessa dalla Commissione, ci vedrà impegnati già dai primi mesi del 2013 per la raccolta di almeno un milione di firme in almeno sette paesi dell’Unione. È una proposta che come Spi-Cgil abbiamo sostenuto con particolare determinazione perché siamo convinti che, anche così, diamo non solo una risposta a un problema che riguarda milioni di cittadini europei e di loro famiglie, ma apriamo anche la strada per costruire un vero sindacato dei pensionati a livello europeo. Chiederemo a voi, a tutti i nostri attivisti, un impegno molto concreto per la 22 Interventi raccolta di queste firme, che potranno essere fatte sia in internet sia su modello cartaceo, richiedendo come sola garanzia, oltre i previsti dati anagrafici, il numero di carta d’identità, senza notai o pubblici ufficiali a controfirmarle. Come Italia vogliamo, infatti, portare unitariamente almeno cinquecentomila firme, perché come principali sindacati europei sentiamo tutta l’importanza e la responsabilità di questa sfida, ma anche per dare fiducia e sicurezza a tutti quegli altri sindacati dei pensionati che affrontano per la prima volta un impegno di questo livello. Il Parlamento Europeo, dopo aver dedicato il 2012 all’invecchiamento attivo e alla solidarietà tra le generazioni ha proclamato il 2013 “Anno europeo dei cittadini”, in coincidenza con il ventesimo anniversario della cittadinanza dell’Unione, introdotta con l’entrata in vigore del trattato di Maastricht nel 1993. L’anno che saluteremo tra qualche settimana sarà perciò un anno carico di appuntamenti e di sfide che lo Spi Cgil intende assumere fino in fondo, perché, come dice la nostra campagna di tesseramento noi siamo liberi, ribelli e resistenti. Anche perché, l’unico modo che conosciamo per onorare la nostra storia sindacale e per salutare questo 2012 dedicato all’invecchiamento attivo e alla solidarietà tra le generazioni, è continuare a lottare per più lavoro, più stato sociale, più Europa. Il nostro deve tornare a essere un Paese normale, con i suoi problemi da affrontare, ma normale, dove la politica torni ad avere la P maiuscola, quella politica che deve essere in grado di chinarsi per aiutare a rialzarsi il più debole, ma an- che erigersi contro tutte le prepotenze, contro tutte le ingiustizie, contro tutto il malaffare che soffoca le aspettative civili dei popoli. E, ancora una volta, tutti insieme possiamo farcela. Intervento conclusivo di Fausto Durante Segretariato Europa Cgil Grazie alle compagne e ai compagni dello Spi di Brescia per questo invito. È una giornata importante, nella quale discutiamo di lavoro, di stato sociale, di Europa, e lo facciamo in una città significativa per la storia del lavoro, del sindacato, della nostra confederazione. Da questa città sono spesso giunti messaggi, segnali, insegnamenti, spunti contrattuali e anche, lasciatemelo dire, dirigenti sindacali che hanno arricchito la Cgil e hanno portato un grande contributo alla storia della nostra organizzazione. Per questi motivi vi sono particolarmente grato di avermi dato l’opportunità di essere qui. Voglio partire, per questa riflessione ad alta voce, da quello che è stato detto in modo particolare da Cadenelli e dal professor Pinelli, a proposito dei primi passi e dell’avvio di questo sogno europeo, che per anni ci ha visto tra i più convinti protagonisti, come cittadini e come lavoratori italiani. Negli anni ’50, quando fu fondato il primo embrione di organismo europeo, la CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, in tante regioni europee a forte concentrazione di attività minerarie e siderurgiche, e in alcune parti d’Italia, tra cui questa, accadeva spesso di dover affrontare ristrutturazioni, chiusure di stabilimenti, drastici cambiamenti nelle produzioni e nel mix delle attività di importanti impianti siderurgici, o la rinuncia all’attività di estrazione di carbone e di altri minerali. In quegli anni, i piani della CECA, lo sforzo del commissario Davignon, le decisioni prese a livello nazionale e confermate in una dimensione europea stabilivano di destinare ingenti risorse per accompagnare le ristrutturazioni, per sostenere le condizioni economiche dei lavoratori e delle loro famiglie alle prese con i dolorosi processi di riorganizzazione delle imprese. Quando a quei lavoratori coinvolti nelle riorganizzazioni industriali, magari nei momenti di inattività e di disoccupazione, si chiedeva per chi lavorassero, in Italia, in Belgio, in Francia, in Germania o nel Lussemburgo, quei lavoratori rispondevano: “Io sono della CECA”. Essere della CECA significava sentirsi parte di un progetto più grande di quello che si poteva costituire in una dimensione nazionale: era far parte di un disegno che a livello europeo prevedeva strumenti, sussidi, sostegni, dalle semplici integrazioni al salario, dagli interventi sulla condizione economica delle famiglie, ai provvedimenti sull’abitazione, sulla possibilità di acquistare un’automobile, di contrarre un mutuo, di utilizzare i sussidi per riconvertirsi e avviare una piccola attività imprenditoriale in proprio, o associando diversi colleghi coinvolti anch’essi da quei progetti. Faccio questo riferimento, perché si tratta del migliore esempio che possiamo ancora oggi ricordare di che cosa è stato davvero l’avvio del processo di costruzione europea: si è trattato del Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 23 tentativo di mettere in piedi un modello economico e sociale. Il modello sociale europeo ha costituito una grande speranza, non solo per i cittadini dei paesi europei che intraprendevano questo percorso, ma per tanta parte delle popolazioni del mondo. In quel tentativo, che cominciava faticosamente a prendere piede nel vecchio continente, di rappresentare un’alternativa concreta, non semplicemente declamata nei convegni, ma viva nel fuoco delle battaglie politiche, sindacali, sociali dell’epoca, si intravedeva un modello che costituisse un’altra via, tanto nei confronti degli Stati Uniti d’America con il trionfo del libero mercato e dell’ideologia liberista, quanto verso il modello di oltre cortina, con l’autoritarismo, la dittatura, il totalitarismo di stampo collettivistico. E quella grande speranza ha animato anche le ragioni e le aspettative dei cittadini e dei lavoratori italiani, che, come buona parte della platea di oggi, avevano conosciuto gli orrori della guerra, il fascismo, le difficoltà di riprendersi dopo la dittatura e dopo le tragedie che l’Italia ed il resto dell’Europa avevano conosciuto. Era lì che i lavoratori e i politici italiani cominciavano a coltivare un sogno e una visione di carattere europeo, perché intravedevano in quella prospettiva, in quella strada, in quel solco, nelle idee di De Gasperi, di Spinelli e di tanti europeisti convinti, la possibilità di dare attuazione al bisogno di pace, di democrazia, di superamento della povertà, di aspirazione individuale e collettiva ad un benessere diffuso, che è stato il segno vero del processo di costruzione europea, e che è, in fin dei conti, la ragione per la quale è stato consegnato 24 Interventi simbolicamente all’Unione Europea il Premio Nobel per la Pace per il 2012. Perché non dobbiamo dimenticare che i paesi ed i popoli di questo continente, fino al 1945, hanno speso il loro tempo prevalentemente a farsi la guerra e a massacrarsi. Dal ’45 in poi, anche attraverso il ricorso a questa grande prospettiva europea, noi abbiamo goduto di un lunghissimo periodo, il più duraturo della storia europea, di pace, di convivenza pacifica fra i popoli, soprattutto di progresso sociale, economico e civile, che ci ha consentito di giungere al punto in cui siamo. Certo, poi vi è stata una cesura. Vi è stata un’interruzione, uno spartiacque fondamentale che ha segnato la storia recente dell’Europa e del mondo. È accaduto, ad un certo punto, che quell’equilibrio, quell’assetto bipolare che si reggeva sulla competizione feroce tra sistemi economici e politici dell’Est e dell’Ovest del mondo, tra i due poli rappresentati dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti d’America, quell’equilibrio è andato in crisi. Sappiamo tutti che cosa è avvenuto nel 1989. Sappiamo però anche – e lo dico come dirigente sindacale e come cittadino che da sempre ha vissuto ed ha guardato nel mondo della sinistra politica di questo paese, ai partiti che l’hanno rappresentata – sappiamo anche che quella vicenda, una fine del mondo per come lo conoscevamo, dopo il 1989 ha portato noi, una parte del sindacato, una parte consistente della sinistra nazionale, europea e internazionale, ad una sorta di disorientamento fatale. Un disorientamento che ci ha colpito in pieno e ci ha portato a pensare che, di fronte a quel disastro, l’unico modello possibile fos- se il turbo-capitalismo di stampo americano e che a noi competesse solo di provare a temperarne gli eccessi, mitigarne le conseguenze, giocando, all’interno di quel percorso e di quel solco, nient’altro che un ruolo di tutela residuale. Credo che in questo errore fatale, cioè nell’assenza, negli anni ‘90, di una ipotesi alternativa e di una prospettiva politica concreta e diversa da parte dell’Internazionale Socialista, del Partito Socialista Europeo, del movimento sindacale, stiano le ragioni della nostra incapacità di mettere in attività gli anticorpi per impedire ciò che sta oggi accadendo, ora che la grande crisi colpisce, con la violenza e la forza che stiamo conoscendo, gli interessi, le condizioni, le aspirazioni delle persone che noi rappresentiamo. Avremmo dovuto ragionare di più e meglio, essere in grado di avere una visione, un’idea di un modello alternativo al turbo-capitalismo, alla perdita di centralità della politica e all’accettazione passiva del fatto che a comandare fossero le grandi imprese, le multinazionali, le banche, l’economia di carta e la finanza, a tutto ciò che si può riassumere in quello che per tanto tempo è stato erroneamente lo slogan della sinistra italiana “meno Stato, più mercato”. Ecco, se avessimo saputo costruire un altro punto di vista, un’altra idea dell’economia, della società, del mondo, forse noi oggi non avremmo le politiche di austerità, di rigore nei conti pubblici, di ossessione per la disciplina di bilancio, che le vestali dell’ortodossia liberista ci propongono ad ogni piè sospinto, a Bruxelles e a Strasburgo nei palazzi delle istituzioni europee, a Francoforte dov’è la Banca Centrale Europea. Ora siamo costretti a fare i conti con il fatto che, dopo anni di queste politiche, siamo ad un punto morto. Ci hanno spiegato che le ragioni dell’acuirsi della crisi erano da ricercarsi nel permanere dei tratti originali e del modello sociale che la vecchia Europa, con qualche scossone e qualche difficoltà, comunque conservava. A Bruxelles e a Francoforte cercano di convincerci che noi non riusciamo a risollevarci e a risolvere la crisi in Italia, in Grecia, in Spagna o in Portogallo, vale a dire nei paesi che ancora oggi sono un po’ più deboli e a rischio speculazione, perché abbiamo pensioni troppo alte, spendiamo troppo per la sanità, per i sussidi che assicurano le persone contro la disoccupazione, contro gli infortuni o le malattie. Ci spiegano che il fatto che noi tuteliamo le persone è concausa dell’acuirsi della crisi. E che noi aggraviamo la crisi perché siamo troppo generosi, per via dei sussidi, delle pensioni e della sanità. Ci dicono che questo nostro modello - che, invece, guarda caso, funziona benissimo in paesi come quelli scandinavi o del centro Europa, Germania su tutti, dove nessuno si sogna di mettere in discussione lo stato sociale, i sussidi, la sanità e le pensioni molto più alte di quanto non abbiamo nell’Europa più debole - ci rende non competitivi con la Cina, con l’India, con la Corea, con il Vietnam, con il Sudafrica, con il Brasile, con i nuovi paesi che, giustamente, dal loro punto di vista, premono per sostituire le nazioni storicamente più avanzate nell’egemonia del processo economico. E ci dicono che, se vogliamo essere competitivi, oltre a ridurre la spesa per Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 25 salari, pensioni, sanità e sussidi, dobbiamo rinunciare ad un altro dei fondamenti del modello sociale europeo, dobbiamo rinunciare al meccanismo di formazione dei salari, e quindi alla contrattazione, al ruolo negoziale del sindacato e delle parti nella determinazione delle dinamiche salariali. In generale, ci dicono che dovremmo smantellare i sistemi di contrattazione collettiva, per andare verso una contrattazione di tipo aziendale o territoriale, e nell’ipotesi preferita, quella prediletta dai cultori dell’ortodossia neoliberista che hanno trovato buona accoglienza anche nei governi di Berlusconi che si sono succeduti nel tempo, oltre che in alcuni tecnici del governo Monti, dovremmo condividere l’idea di una contrattazione di tipo individuale. Noi abbiamo sperimentato queste ricette negli ultimi quattro o cinque anni: dal 2007, quando è cominciata a balenare la crisi, e ancor più nel 2008, anno in cui Berlusconi faceva il cucù e raccontava le barzellette ai vertici internazionali, mentre i lavoratori italiani iniziavano a vedere le loro fabbriche chiudere, le commesse dimezzarsi e la cassa integrazione dilagare. Possiamo semplicemente affermare, avendole subite negli ultimi anni, che queste ricette non funzionano. L’ossessione per la disciplina di bilancio sta causando ulteriore recessione. L’assillo di intervenire sullo stato sociale, sulla contrattazione collettiva e sui diritti delle persone sta portando all’impoverimento dei cittadini e dei lavoratori. Lo sanno i giovani. Lo sanno i giovani italiani, lo sanno i giovani dei paesi latini; cominciano a rendersene conto i giovani tedeschi, ai quali le modifiche 26 Interventi del mercato del lavoro propongono salari di 400 euro al mese per i mini-job integrati da interventi molto corposi da parte dello Stato. Queste ricette colpiscono in modo particolare i giovani e le donne, perché l’unica prospettiva possibile per loro sembra essere quella di un lavoro precario, sottopagato, dequalificato. Questo è ciò che avviene per i nostri giovani: noi li esortiamo a studiare, a prendere una laurea, a specializzarsi con un doppio o triplo master all’estero, e quando tornano in Italia, in Spagna, o, adesso, anche in Germania, ciò che possiamo proporre loro sono 400 euro al mese per un lavoro in un call-center. Questo è il risultato che quattro anni di politica di austerità e rigore stanno comportando, non per gli abitanti del pianeta Marte, ma per i giovani, i lavoratori, gli uomini e le donne dei paesi di questo continente. Oltre a ciò, noi osserviamo che i capisaldi economici del neoliberismo, per realizzare i quali, o per rispettare i quali, sono state messe in atto queste politiche, non funzionano. Queste politiche non stanno affatto invertendo la tendenza alla recessione. L’Europa è tecnicamente in recessione. L’Italia lo è da tre anni. Ma adesso, anche le aree economicamente più forti dell’Europa incominciano a non crescere più. Ciò significa che queste politiche favoriscono la recessione, invece di combatterla. Con la recessione non c’è crescita, non c’è ripresa dei consumi pubblici e privati, non c’è ripresa degli investimenti. Un altro dei capisaldi per i quali sono state messe in campo quelle politiche, la riduzione a tutti i costi dei deficit pubblici, si dimostra inefficace, perché quelle politiche, in tutti i paesi, stanno portando ad un aumento dei debiti pubblici, non alla loro diminuzione. Inoltre, le nostre banche continuano ad essere vulnerabili e la nostra moneta, quell’euro in cui abbiamo riposto tante speranze, quella moneta unica che ci è sembrata lo spartiacque tra il Novecento ed il Duemila e il passaporto verso la costruzione di questa grande Europa delle comunità, dei popoli, delle economie, continua ad essere sotto attacco della speculazione senza scrupoli. Per far risuonare l’allarme è sufficiente che l’innominabile Presidente del Consiglio che c’era prima di Monti annunci l’intenzione di tornare in campo. Siamo ancora alla mercé degli attacchi speculativi. In un simile contesto, la condizione dell’economia materiale è drammatica. Assistiamo a processi di chiusure o di ristrutturazioni industriali di proporzioni gigantesche in rapporto alle dimensioni del nostro sistema economico, allo spostamento delle produzioni fuori dai nostri confini e, ovviamente, di conseguenza, ad un preoccupante aumento della disoccupazione. In più, il cammino di convergenza fra gli stati, fra le diverse aree economiche, tra le regioni dell’Europa si è interrotto ed anzi, l’inefficacia delle ricette adoperate per provare a risolvere la crisi contribuisce ad aumentare ulteriormente le divergenze, le differenze tra le diverse aree economiche. E questo comporta il ritorno in campo di tendenze che credevamo di avere sconfitto: i populismi, le ideologie reazionarie di destra. Consideriamo quanto è avvenuto in Grecia, dove i neofascisti sono ritornati in Parlamento, o l’affermazione dei mo- vimenti populisti, razzisti e xenofobi in importanti aree del centro Europa, senza dimenticare il contributo dato dall’Italia al riprendere di questi fenomeni, in modo particolare nella parte settentrionale del paese, anche in questa regione. Bene, noi non possiamo più accettare, continuando a rimanere inerti, questo stato di cose. Qualche giorno fa, in una conferenza sull’Europa che la Cgil ha tenuto a Firenze, il Segretario Generale delle Comisiones Obreras, ci ha raccontato che, per via di quanto stabilito dalla Troika, i sindacati spagnoli si trovano a dover accettare, dopo quelle che ci sono già state negli ultimi due anni, un’ulteriore riduzione delle pensioni per i lavoratori ex dipendenti del settore privato e un altro quadriennio di blocco della contrattazione nel settore pubblico, con tutti gli effetti che ciò comporterà sulla maturazione delle future pensioni per i lavoratori pubblici. In seguito a un rapido calcolo sugli effetti di questa e delle altre richieste che vengono dall’Europa, i sindacati spagnoli sono giunti alla conclusione che, se si applicassero integralmente queste misure, delle quali il governo conservatore di Mariano Rajoy si sta facendo strenuo paladino, nel 2013 la Spagna pagherebbe per gli interessi sul proprio debito - quel debito che non riesce a diminuire per le politiche sbagliate imposte dall’Europa, in un circolo vizioso che si autoalimenta – una somma superiore a quanto spende per pagare tutti gli stipendi della pubblica amministrazione nazionale, regionale, locale. Voi vi rendete conto di come, se si continua così, il pagamento del debito non sarà tecnicamente possibile. Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 27 A indicare questo percorso è la “troika”, uno strano organismo fatto di gente che non è sottoposta ad alcun controllo popolare e non deve rispondere a nessun corpo elettorale. Si tratta di giovanotti di trent’anni, coltivati alle idee di Milton Friedman e del neoliberismo spinto, inviati, per conto della Commissione europea, a discutere con governi, ministri e parlamenti che nel loro paese il mandato se lo sono dovuto conquistare voto su voto alle elezioni. E questo organismo impone di ridurre le pensioni, tagliare i salari, combattere l’inflazione con queste ricette. A tutto ciò bisogna dire basta, mettendo in campo una politica economica alternativa. Per quanto ci riguarda, la Cgil sta contribuendo all’individuazione di una nuova politica economica con la definizione del nuovo Piano del lavoro, riprendendo quella grande intuizione, quella aspirazione al riscatto di un intero popolo incarnata nel dopoguerra da Giuseppe di Di Vittorio, certo declinata nella condizione che viviamo nel tempo presente, nella difficilissima fase che stiamo attraversando. Quindi, adattando questa riflessione alla condizione attuale, il punto di partenza non può che essere la necessità che i cittadini ricomincino ad avere fiducia nel processo europeo. Perché io capisco i sentimenti diffusi di ripulsa e di reazione contro l’attuale Europa. Se fossi un lavoratore greco, sentendo nominare l’Unione Europea, fuggirei, pensando che mi stanno portando alla fame, mi hanno tolto il pane, mi hanno privato di tutti i diritti, mi hanno ridotto le pensioni, hanno annullato la contrattazione collettiva, perdo la casa. Perché dovrei 28 Interventi essere contento di questa Europa? Ne abbiamo avuto una riprova qualche settimana fa, quando, con una delegazione della Cgil guidata da Susanna Camusso, abbiamo effettuato una visita in Turchia. Voi sapete che la Turchia è uno dei paesi da sempre candidato all’ingresso nell’Unione Europea. Ebbene, dieci anni fa, le personalità che incontravamo, membri del Governo, sindacalisti, imprenditori, italiani che lavorano e vivono in Turchia, ci manifestavano grande fiducia, grandi speranze nell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Oggi i sindacati turchi ci dicono: “Questa Europa non la vogliamo”. Ed è difficile dare loro torto, guardando che cosa questa Europa sta producendo, per l’appunto, in Grecia, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda, a Cipro, a Malta. E il contagio non riguarda solo noi, perché la recessione, come ho provato a dire prima, si sta allargando e sta cominciando a colpire anche sistemi economici forti, come quello francese e quello tedesco. Tutti gli osservatori sanno che il prossimo paese sotto attacco dopo l’Italia sarà la Francia. Perché questa Europa dovrebbe essere appetibile ed ambita come traguardo da raggiungere? Ecco, noi dobbiamo ricominciare ad instillare fiducia e speranza nel fatto che il sogno europeo si può trasformare, dall’incubo che è diventato, in una nuova prospettiva di prosperità, di benessere e di pace. E abbiamo bisogno di leader politici che abbiano coraggio e visione politica. Nessuno dei paesi europei può immaginare di competere con i giganti che a livello mondiale saranno i protagonisti dell’economia nel terzo millennio. Non si può pensare davvero che l’Italia, con i suoi sessanta milioni di abitanti e il suo PIL che decresce, o la stessa Germania, o la Francia, possano ancora aspirare ad essere titolari degli imperi del Novecento. No, perché i nuovi protagonisti economici sono rappresentati dal Sud America, dall’Argentina, dal Brasile, che cresce a ritmi impensabili per quel popolo fino a qualche anno fa, e cresce probabilmente anche grazie al fatto che in Brasile c’è stato un Presidente della Repubblica che era un operaio, non un Presidente del Consiglio frequentatore di prostitute minorenni. I giganti economici sono la Cina, l’India, la Russia, il Sudafrica. I paesi del Nord dell’Africa stanno cominciando a conoscere, oltre alle primavere che tentano di portar loro elementi di democrazia, una inedita crescita economica: basti pensare a quello che sta avvenendo in Marocco, dove alcune delle più importanti multinazionali europee e americane stanno delocalizzando investimenti e produzioni. Noi dobbiamo ricominciare ad avere fiducia nell’Europa, che è un grande continente, con una popolazione di seicento milioni di persone, ed è, sulla carta, l’area economica più forte del mondo, se si superano egoismi, divisioni nazionali, ritorni al passato. Quest’area può competere se è in grado di trovare ancora coesione e unità, e se si riconosce attorno ad alcuni valori fondamentali: la pace, la solidarietà, il benessere, la giustizia sociale, il modello sociale europeo. Questa Europa deve essere cambiata. La settimana scorsa ho partecipato, per conto della Cgil, alla riunione del co- mitato esecutivo della CES, la Confederazione Europea dei Sindacati, a cui avevamo invitato, per discutere con noi dopo il successo della grande giornata del 14 novembre, il Presidente della Commissione Europea. Bene, il Presidente Barroso è intervenuto e, come se niente fosse, ci ha ribadito che è necessario fare sacrifici adesso, perché solo così avremo un certo benessere domani. Ci ha riproposto la solita litania, secondo la quale bisogna coniugare i sacrifici con la sicurezza sociale, dimenticando che da ben cinque anni il popolo del suo paese, il Portogallo, si sacrifica assistendo impotente al declino costante della propria economia e delle proprie speranze. Ecco, io penso che sia giunto il momento di una svolta radicale nell’impostazione della politica economica, finanziaria e sociale di Bruxelles, e ritengo che sia urgente iniziare a utilizzare risorse pubbliche, abbandonando l’accanimento nel cercare di ridurre il bilancio europeo, che, al contrario, deve essere aumentato. Occorre destinare risorse pubbliche per tutto ciò che può far crescere l’economia, per gli investimenti nei settori produttivi, nella manifattura, nei beni che si possono produrre, commerciare, vendere, che possono dare ricchezza, insieme al grande capitolo dell’invecchiamento attivo e sulla cura delle persone, su cui l’Unione Europea punta come uno dei fondamenti della sua strategia per creare nuova occupazione. È necessario puntare sull’industria sostenibile, sulla riqualificazione ecologica dell’economia, perché non si può più accettare, per esempio, che in Italia ci sia uno stabilimento come quello dell’ILVA di Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 29 Taranto, che ha bisogno di interventi di bonifica e di riqualificazione ambientale senza i quali non è più sostenibile dal punto di vista sociale, industriale, sanitario. È urgente che l’Unione Europea riprenda a giocare un ruolo attivo nella dimensione dei progetti economici, perché non è più tempo che i capi delle multinazionali abbiano un potere maggiore dei capi di governi democraticamente eletti. E non è più possibile che l’Unione Europea sia governata e gestita da persone che non hanno un rapporto democratico con il proprio elettorato e con i propri cittadini. Dobbiamo, allora, perseguire degli obiettivi semplici. Introdurre una tassa sulle transazioni finanziarie non è un rigurgito di bolscevismo o di sovietismo, è un impegno che si chiede a chi specula sulla movimentazione dei capitali, a chi con un “clic” su un computer guadagna milioni di euro esentasse, mentre noi versiamo fino all’ultimo centesimo sul reddito imponibile. E occorre destinare queste risorse al servizio della crescita. Si deve far pagare di più alle aziende che inquinano, e mettere gli introiti derivanti da situazioni di svantaggio a disposizione degli investimenti per una riconversione ecologica dell’industria pesante. È necessario ritornare ad occuparsi di economia reale. In Francia, qualche giorno fa, il Presidente della Repubblica François Hollande ha convocato il capo di uno dei più grandi colossi siderurgici, l’ArcelorMittal. Si tratta di una concentrazione, ora di proprietà di una famiglia indiana, che produce acciaio in tutto il mondo ed è il risultato della fusione di tre grandi imprese, una spagnola, una 30 Interventi lussemburghese ed una francese. Il Presidente francese ha detto a questo signore: “Tu non puoi chiudere due altiforni in Francia, mentre stai facendo miliardi di profitti in Sudafrica e in America. E se chiudi quell’acciaieria, riducendo di 600 unità un organico di 2.100 persone, io la sequestro, me la riprendo come Stato francese, e la faccio funzionare”. Mi sarebbe piaciuto che qualche ministro del Governo italiano si fosse rivolto a Marchionne, non dico per annunciargli la requisizione dell’azienda da parte dello Stato, ma, quanto meno, per intimargli di usare maggiore misura e rispetto per leggi, contratti e diritti. Ecco, questa è l’idea di un ritorno alla leva dell’intervento pubblico. Ho detto prima dell’ArcelorMittal, ma in Francia lo Stato, non un imprenditore o un soggetto privato, ma – ripeto lo Stato, possiede ancora il 15% delle azioni della Renault. E ci sarà un qualche legame tra questo assetto e il fatto che la Renault in Francia non ha chiuso uno stabilimento, non ha licenziato una persona in cinque anni di crisi, mentre Marchionne, che in Italia è l’unico monopolista dell’automobile, ha fatto quello che ha voluto, smontato i contratti nazionali, licenziato le persone, cacciato la Cgil dalle fabbriche senza che nessuno reagisse. Ci sarà una qualche relazione con il fatto che, in Germania, la regione della Bassa Sassonia ha il 20% delle azioni della Volkswagen, un suo esponente siede nel consiglio di amministrazione di quell’impresa, e che esiste una “golden share” per cui il parere di quel signore vale doppio ed è vincolante nei casi in cui l’azienda decide di chiudere, ristrutturare, spostare le produzioni. Ci sarà qualcosa che contraddistingue l’Europa rispetto alla deregolamentazione totale dei mercati, dell’economia e dell’industria, rispetto a questo prevalere della finanza, al quale dobbiamo, finalmente, dire basta. Ecco, questo è il punto. E quindi, dirottare risorse per la crescita significa eurobond, euro project bond, mettere in comune solidarietà europea una parte del debito dei singoli stati, perché quel debito può essere, se utilizzato bene, uno strumento che consenta di individuare nuove possibilità e nuove potenzialità della politica industriale in ambito europeo. Ciò che è irrinunciabile è democratizzare l’Unione, rendere, quelli di Bruxelles, Francoforte e Strasburgo, palazzi di vetro, non solo per il loro aspetto, per la loro architettura, per i materiali con cui sono costruiti, ma soprattutto per un reale rapporto democratico con i cittadini. Occorre far questo, perché il mondo ritorni a guardare all’Europa come ad un faro di civiltà, ad un esempio di progresso e perché per i cittadini italiani, per i cittadini europei, per i nostri giovani, l’Europa torni ad essere quel sogno: un sogno di crescita, di sviluppo, di lavoro, di speranza. Più Lavoro, Più Stato Sociale, Più Europa 31 Finito di stampare nel mese di marzo 2013 per i tipi della GAM di A. Mena e C. snc in Rudiano (Bs)