Paracelso medico e mago

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Paracelso medico e mago
Paracelso medico e mago
Davide Arecco
Studioso di storia della scienza
Nel panorama della medicina di età rinascimentale diversi sono i dati che si impongono all’attenzione generale. Due dei fatti
che maggiormente concorrono ad incidere sulle scienze mediche sono l'entrata in vigore a livello universitario, con l’opera di
Mondino de’ Luzzi, della pratica anatomica con l’illustrazione della dissezione del cadavere e la tremenda diffusione delle
epidemie di peste. L’impianto galenico degli studi di medicina comincia a scricchiolare, nonostante non manchino medici
anche illustri, come Jacques Dubois (1478-1555), latinamente Jacobus Sylvius, e Johann Winther von Andernach (14871574), che si atteggiano a strenui paladini della tradizione. Non senza fatica le idee di Jacopo Berengario da Carpi (14701550), Nicolò Massa (1485-1569), dello stesso Andrea Vesalio (1514-1564) riusciranno a farsi strada. L’umanista Giovanni
Lamola scopre a Milano nel 1427 il testo del De medicina di Celso, contribuendo con ciò ad arricchire ulteriormente un
quadro d’insieme già ampio. L’opera sarà essenziale per la formazione di Antonio Benivieni (1443-1502), segnando anche
l’avvio dell’anatomia patologica, che si affermerà pienamente nel XVIII secolo con Giovanni Battista Morgagni (1682-1771).
Girolamo Fracastoro (1478-1553) offre con la sua opera una caratteristica e per certi versi curiosa mescolanza di elementi
appartenenti alla tradizione medica classica e affascinanti visioni assolutamente nuove. Mentre la medicina ippocratica torna
anch’essa a fiorire, la polemica che pare rivestire ruolo e significato decisivo per la scienza medica del tempo interessa
galenisti e arabisti, ferocemente divisi in quanto a metodologia, fonti, discussione sui fondamenti e pratica concreta. Ma, con
la diffusione delle idee di Vesalio, la battaglia si rivelerà persa da entrambe le fazioni in gioco.
Mentre tutte le spinte culturali innovatrici che abbiamo si qui delineato si sviluppano gradualmente secondo le direzioni dette
per andare a disporsi sulla grande scacchiera della scienza medica moderna – risultando in ogni caso tutte più o meno
riconducibili ai diversi aspetti della tradizione – un tentativo di drastico rifiuto del passato si manifesta nell’opera medica
dell’alchimista e filosofo svizzero Aureolo Filippo Teofrasto Bombast von Hohenheim, assai meglio noto sotto il nome, che fu
egli stesso a darsi, di Paracelso.
Paracelso, uno degli autori forse più amati e odiati di tutti i tempi, per il quale celebrazioni e trionfi sono controbilanciati in
egual misura da calunnia e vilipendio, si presentò al suo tempo come uno strenuo profeta e paladino del nuovo, tema peraltro
dominante ed esplicitamente manifesto della moderna scienza europea. Paracelso rifiuta la medicina galenica, nonché quella
fondata su Avicenna e sulle altre autoritates comunemente accettate, ritenendo che a fondamento della scienza medica non
vadano collocate le discipline abitualmente riconosciute, come l’osservazione e lo studio astrologico dei segni celesti per la
determinazione degli influssi astrali, la teoria della discrasia umorale, la pratica anatomica o la farmacopea dei semplici. Base
della medicina, secondo una dottrina di ascendenza ermetica e neoplatonica, è la filosofia. La farmacopea, che nel suo caso
rimonta almeno in parte a Dioscuride, un semplice accessorio.
Le formulazioni di Paracelso richiamano le speculazioni del suo grande contemporaneo Enrico Cornelio Agrippa di
Nettesheim (1486-1535). Entrambi fanno coincidere astronomia ed astrologia, accentuando notevolmente il rapporto di
interdipendenza tra macrocosmo divino e microcosmo umano. In entrambi l’alchimia riveste il ruolo di ancella delle scienze,
desumendosi da essa sia la sfera delle nozioni teoriche e tecniche pratiche necessarie per la preparazione dei composti ad uso
terapeutico, sia il ricorso alla spiegazione analogica nelle questioni di natura patologica e fisiologica. Alla base di ogni cosa,
radice stessa dell’essere e spirito universale che da vita al mondo, sta la virtus, da Paracelso intesa poi anche come attitudine di
umana comprensione ed attenzione nei confronti del paziente. Sarà così anche per i suoi seguaci inglesi e francesi.
Come detto, le sue teorie incontrarono tanto entusiastici sostenitori quanto accaniti avversari. Il successo, però, non si rivelò
durevole e si limitò a vivere lo spazio di una generazione. Malgrado tutto ciò, va riconosciuto il valore del suo confuso sforzo
di comprendere i più riposti meccanismi del mondo naturale e di quello umano attraverso i procedimenti caratteristici
dell’alchimia tanto teorica quanto pratica. Paracelso aprì la strada ai successivi e più lucidi tentativi attraverso i quali, anche
grazie agli sviluppi dell’alchimia verso la moderna chimica, la iatrochimica seppe conoscere un forte e rigoglioso sviluppo. Gli
artefici di questo percorso storico portano i nomi di Johannes Baptista van Helmont (1577-1644) e di Franz de la Boe (16141672), latinamente Sylvius. In particolare, questi ultimi portarono a compimento un’idea da Paracelso soltanto abbozzata, o
comunque in lui accostata ad altri elementi ed inserita in un più ampio quadro, vale a dire la presenza interna alla natura di un
principio regolatore che spetta alla pratica medico-alchemica dover portare alla luce. La physis come specchio e immagine
dell’arché, come macchina cosmica capace di rappresentare la viva divinità di un tutto che si apre alla mente dell’uomo, che
chiede a sua volta e a gran voce di farsi mente. A tale richiesta l’uomo di Paracelso, il quale come detto è medico, alchimista e
filosofo a un tempo, non può rispondere con un rifiuto. Rifiutare sarebbe ai suoi occhi come violare il recinto sacro di un
tempio, come interrompere il silenzio nella pratica mistica dell’estasi filosofica. Su tale punto la posizione di Paracelso appare
la medesima di un Campanella, identica la chiave ermetica del procedimento.
E’ probabile che Paracelso – il quale nacque ad Einsiedeln, vicino Zurigo, nel 1493 e si spense a Salisburgo nel 1541 -, con
l’aggiunta al proprio nome degli epiteti densi di richiami simbolici ed allegorici con i quali si firmava, intendesse riferirsi
proprio ad Aulo Cornelio Celso, non solo uno dei padri della antica medicina – insieme ad Ippocrate e Galeno, ma anche ed in
particolare dotto cultore di ogni ramo dell’umano scibile. In tale senso ben più che un modello. Pare difatti che Paracelso – ed
il dato può considerarsi oggi come acquisito – si proponesse il preciso ideale di realizzare nella sua stessa persona la figura del
perfetto medico, attento ed esperto conoscitore di ogni ambito del sapere in quanto iniziato agli ultimi e più riposti segreti della
sfera umana e naturale.
Da tale angolazione perlomeno guardarono e celebrarono la sua figura, restandone a loro volta segnatamente influenzati,
uomini come Shakespeare, Boehme, Spinoza, Baader, Cagliostro, Goethe, Meyer e, nel nostro secolo, Steiner, Kolbenheyer,
Pound. Paracelso rimane ancora oggi uno dei protagonisti principali del pensiero rinascimentale. Anzi, al di là di qualsivoglia
giudizio, la sua avventura intellettuale ed umana è emblema e paradigma di certo Rinascimento, quando ancora la ragione
indugia sulla soglia dell’arcano e la mistica del segreto nascosto sembra imbrigliarla con gentilezza nella sua tela prima di
lasciarla fuggire, nuovamente libera di creare. Il nome di quella creazione, tanto noto quanto abusato, sarà quello di
Rivoluzione Scientifica; il ruolo di quegli apporti magici molto più significativo e carico di conseguenze di quanto spesso si
pensi. Newton potrebbe essere solo un nome, fra i molti che si potrebbero qui addurre. Se poi di rivoluzione scientifica ve ne
sia stata davvero una sola, è questione che non si può in questa sede approfondire.
Sulla vita di Paracelso concrebbe un apparato mitologico talmente imponente da costituire motivo ed elemento di sfida per le
odierne ricerche storiche, sorta di bachelardiano ostacolo epistemologico pericolosamente fascinoso. Quanto realmente si sa è
che Paracelso compì i sui studi a Basilea – dove si sarebbe poi effettivamente stabilito – e con tutta probabilità anche a Ferrara.
Fu allievo, tra gli altri, di ermetisti quali Giovanni Tritemio e Salomon Trismosin, ai quali va probabilmente ascritta la sua
introduzione alla philosophia occulta, allora tripartita in astrologia matematica, alchimia teorica e pratica, e qabbalah cristiana.
Negli anni intorno al 1520 fu nel Tirolo per approfondire sul terreno i suoi studi di mineralogia, metallurgia e geologia
generale. Lo interessavano in particolare tanto le caratteristiche dei minerali quanto le malattie dei minatori. Emerge qui un
legame antico – quello fra arte medica e tecniche di guarigione da un lato e pratica di estrazione e lavorazione metallurgica
dall’altro – legame che sarà comune anche ad Agricola, seppur nei diversi intenti, e di presumibile ascendenza pitagorica,
come attestano le molte miniature medievali tese a rappresentare Pitagora alle prese con campane e martelli, nell’atto di
fondere e lavorare i metalli.
Nel trienno compreso fra il 1526 ed il 1528, in seguito ad alcuni viaggi europei cui la tradizione leggendaria ama accostare
poco probabili itinerari in Africa e Asia, Paracelso si fermò a Basilea, dove attese alla pratica ed all’insegnamento della
medicina.
Della sua sterminata produzione – comprendente oltre settanta scritti, alcuni dei quali di più diversa natura – è impossibile non
menzionare gli Undici trattati sull’origine, le cause, i segni e la cura delle singole malattie (1520), i Tre libri di chirurgia
(1528), La grande chirurgia (1536), il Paramirum (1562-75) ed il Paragranum (1565). In tutte queste opere Paracelso accosta
accurate osservazioni di natura clinica a testimonianze di alcune scoperte chimiche. Il suo pensiero, malgrado tutto
intimamente estraneo ai successivi sviluppi della medicina e delle scienze naturali e ad esso ricollegabile solo per certi temi
isolati e comunque marginali, è un pensiero fortemente legato a modelli di carattere magico e mistico. Un precedente in tale
senso può venire individuato in Arnaldo da Villanova come in Alberto Magno. In Paracelso l’importanza della chimica ai fini
della medicina consiste nella sua pressoché totale coincidenza con l’alchimia. Alla parola chimica Paracelso associa il
significato di ricerca condotta sperimentalmente per accertare il ritrovamento dell’essenza di ogni sostanza. Per lui il mondo
della chimica è costituito e rappresentato dagli strumenti dell’archeus, lo spirito primordiale dispensatore di vita dei
neoplatonici.
Per mezzo dell’archeus il mondo reale della materia terrena e dell’organica concretezza di ogni cosa acquista il suo senso,
senso che, per il medico-mago delineato da Paracelso con la sua stessa vita oltre che attraverso le proprie opere, viene a
collimare con la stessa conoscibilità iniziatica nel quadro di un universo popolato di segreti metarazionali, in cui il nascosto ha
decisamente la meglio sul manifesto, il non-detto sul detto.
In Paracelso quanto più il medico-iniziato si cala nel mondo dell’esperienza naturale e materiale, ripetuta ed accurata, tanto più
egli evade dagli angusti ed astratti spazi del sapere di tradizione scolastica per accedere al nuovo mondo che gli si spalanca
dinanzi, fatto della concreta veridicità dei simboli e dei miti, innervato da una metafisica che è a un tempo sogno e pratica
reale di guarigione. La medicina di Paracelso arriva pertanto a configurarsi come una vivente alchimia del corpo e dello
spirito, armonicamente correlazionati. Nell’ermetismo paracelsiano la pansofia rinascimentale trova uno dei suoi più convinti e
valenti sostenitori. La medicina, qualora ce ne fosse mai stato bisogno, torna a tingersi di sacro. Sarebbe assurdo imputare oggi
a Paracelso tale volutamente cercata indistinzione, a livello sia di contenuti che di linguaggio. L’utilizzo di una terminologia
vaga e cifrata, il ricorso a schemi concettuali che sanno di favole egiziane e ritualità orientale non possono essere oggi
interpretati al pari di punti a sfavore o motivi di critica. In essi va semmai letto il modo di essere di Paracelso e di chi, come
lui, credeva nei medesimi assunti teorici. Non si può chiedere chiarezza espositiva e contenutistica ad una forma di sapere
apertamente e dichiaratamente – si perdoni l’ossimoro – non pubblica, che al contrario su questa segretezza fondava tutto un
suo statuto ontologico ed una radice profonda di verità, traendone la sua intima ragion d’essere. La segretezza non può in altre
parole assurgere al ruolo di colpa, tanto più che – a ben vedere – tale aspetto è diversamente presente anche nella tradizione di
bottega di artisti, artigiani, tecnici, meccanici, di tutti quei pratici insomma, che alla scienza del Rinascimento hanno saputo
dare non poco. Come per gli apporti magico-ermetici alla Rivoluzione Scientifica, anche la gelosa custodia dei segreti di
bottega viene superata solamente dalla rivoluzionaria innovazione apportata dalla stampa, con la pressoché definitiva
cessazione della distinzione fra sapere pubblico e sapere privato, tra nascostamente celato ed apertamente detto.
Quando sentì avvicinarsi la fine, Paracelso si raccomandò che nel corso delle esequie fossero cantati tre salmi (1, 7, 30). Si
trattò di una scelta profondamente meditata, dal momento che in essi ritroviamo l’indelebile riflesso del suo intimo
atteggiamento spirituale, ma anche l’ennesimo riproporsi di quei discordanti motivi che delineano la sua complessa figura. Al
sentimento di assoluta superiorità individuale e senso di orgoglioso distacco si accompagna una radicata avversione per i
nemici e contemporaneamente un forte anelito verso un sogno di purezza e annullamento di sé. Superiorità come quella di chi
“non si è fermato sulla via dei peccatori” e che porge intrepido la propria sfida al tempo “come un albero piantato presso
ruscelli di acqua”. Le durezze di Paracelso sono quelle dell’uomo che odia apertamente nemici e calunniatori. “Levati,
Signore, nella tua ira: innalzati contro i furori dei miei nemici… Ecco, il mio nemico partorisce iniquità; egli ha concepito
affanno e partorirà inganno. Egli ha scavato una fossa e l’ha affondata; ma egli stesso è caduto nella fossa che ha creato…”
Nonostante tutto, rifulge in Paracelso la più autentica aspirazione dell’uomo giusto che ha fiducia in Dio per ritrovare la
felicità eterna. “Ascolta, Signore, ed abbi pietà di me…Tu hai mutato il mio lutto in festa. Tu hai sciolto il mio cilicio e mi hai
cinto di gioia”.
In un mondo che, con il profilarsi della rivoluzione copernicana, pare destinato a sbriciolarsi, il medico svizzero prova a
mantenerne unite le parti per far sì che i cocci del cosmo non si disperdano ovunque. Con Cartesio quel mondo saprà
ricomporsi, disponendosi per moto e figura. L’unico moto che Paracelso ha saputo riconoscere ed accettare è quello
dell’universale animazione di tutte le cose, la figura cui assegnare cittadinanza nella repubblica paracelsiana delle scienze
quella rappresentata dal pentalfa pitagorico e dal cerchio alchimistico. Tra la medicina magica di Paracelso ed i successivi
sviluppi della chimica e iatrochimica vivono realmente quella nozione di salto e quel criterio di incommensurabilità che Kuhn
ha eletto a suoi paradigmi. L’uomo di Paracelso, creato perché libero di creare, si presenta come vindice e custode, dai tratti
insieme angelici e bestiali, dell’unitarietà dell’Uno-Tutto. Al futuro egli lascia aperto e lecitamente percorribile solo un piccolo
spiraglio. E la grandezza di un consapevole auto-isolamento.
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