Corviale, Forum "L`impresa di un`economia diversa

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Corviale, Forum "L`impresa di un`economia diversa
Corviale, Forum "L'impresa di un'economia diversa", 1-4 settembre
III sessione del 3 settembre
IL RITORNO DEL PUBBLICO:
Fisco, beni comuni e welfare, politiche locali: l'azione pubblica torna al centro
Intervento di Marcello Messori
(economista, responsabile della sezione scienze sociali della Fondazione Di Vittorio)
Una premessa: non siamo eredi di guasti di politiche neo-liberiste, siamo
piuttosto eredi di un passato di partecipazioni statali e di banche pubbliche e di
un presente di assenza di politica economica e di politica industriale.
L’effetto di questa prima constatazione è che attualmente l’economia italiana è
caratterizzata da due peculiarità: la prima è di avere un modello di
specializzazione assolutamente obsoleto e che quindi richiede profonde
modificazioni; la seconda di essere una società bloccata soprattutto nella
componente di classe o di ceto dirigente.
Oggi la vera rigidità di questo paese non sta nel mercato del lavoro, ma
piuttosto nel cosiddetto mercato dei capitali. Questo ha un’implicazione
immediata: una parte assai consistente del nostro sistema delle imprese non
opera più su mercati nazionali o, a maggior ragione, internazionali ma opera in
comparti protetti di attività che danno luogo non a profitti ma a rendite.
Questi sono i capisaldi su cui si basa il ragionamento che segue.
Ciò non significa che noi dobbiamo temere che l’eredità che ci è stata lasciata
dalle partecipazioni statali e dal sistema di banche pubbliche sia un fatto tutto
negativo; questi sono stati i perni regolativi dell’economia italiana
nell’immediato secondo dopoguerra, che hanno consentito nel bene e nel male
a questa economia di avere uno dei tassi di crescita più rapidi fino alla metà
degli anni Ottanta.
Naturalmente quel modello, fondato su questi perni regolativi, e su un sistema,
che non avendo vincoli di bilancio molto stringenti era anche capace di fare
molta ricerca e sviluppo, si è irrimediabilmente deteriorato.
Riconoscere che il sistema di partecipazioni statali e il sistema di banche
pubbliche hanno funto da fattore di traino per alti tassi di crescita nel passato,
non significa affatto poterli riproporli come tali oggi.
Se è vero infatti che i perni regolativi hanno retto il rapido sviluppo economico,
che ha trasformato questo paese da un sistema economico con forti
arretratezze ad un sistema economico che fa parte del nucleo di paesi ricchi, è
anche vero che questo modello si sia irrimediabilmente deteriorato essendo poi
il padre di una commistione tra politica ed economia che ha caratterizzato
soprattutto la seconda metà degli anni Ottanta e la prima metà degli anni
Novanta.
È evidente, quindi, la necessità di intervenire e di incidere su quelli che
oggi sono i caratteri negativi della nostra economia: un modello di
specializzazione produttiva inadeguato e una fortissima presenza delle
rendite.
Bisogna sottolineare che tra queste due componenti vi sono nessi evidenti: è
empiricamente scorretto affermare che il problema della perdita di
competitività dell’economia italiana sia dato dal costo del lavoro, è ormai stato
dimostrato, per esempio dall’Attività Garante della Concorrenza e del Mercato,
che ormai i costi da servizi per le imprese sono ampiamente dominanti rispetto
ai costi del lavoro e che questi costi dei servizi in Italia sono totalmente non
allineati a quelli degli altri paesi economicamente avanzati (nel senso che sono
molto più elevati).
Questo fenomeno si spiega considerando che chi produce servizi, siano essi le
cosiddette libere professioni o siano i settori dei servizi alle attività produttive,
per esempio la trasformazione delle materie prime, opera in regime di
monopolio e quindi opera con elevatissimi margini di rendita.
Questo non ha effetti solamente sul sistema delle imprese ma anche sulla
redistribuzione del reddito e della ricchezza, che nel periodo prima del
riequilibrio del debito pubblico del 1992 e, forse con meno certezza statistica
ma con più intensità sociale, dal 2001 in poi, è stata a favore dei ceti più
abbienti, cioè c’è stata una forte polarizzazione. Questo fenomeno ha molte
cause, non ultima delle quali, il dilatarsi delle aree di rendita.
Mettendo insieme tutte queste componenti, si trova un nesso molto stretto tra
modello di specializzazione obsoleto, estensione delle aree di rendita, perdita di
competitività del Paese, che non si traduce soltanto in una crescita rallentata
negli anni novanta e nulla dal 2001 ad oggi ma che si traduce anche in una
mancanza di sviluppo economico e sociale.
Se questa diagnosi è corretta, sorge il problema di individuare gli strumenti per
uscire da questa situazione.
Proprio perché questa situazione non è il frutto di politiche neoliberiste, una
delle gambe, ancorché non l’unica, di una nuova politica industriale e di una
nuova politica sociale deve essere una ripresa delle liberalizzazioni per erodere
le aree di rendita.
Negli anni Novanta, il problema è stato che si è confusa una politica di
liberalizzazione dei servizi alle imprese e dei servizi alle famiglie con la
privatizzazione.
Il dato prioritario è liberalizzare, regolamentando i mercati in modo non
discorsivo.
Altro errore, infatti, è quello di pensare che liberalizzazione significhi mercato
selvaggio, una corretta liberalizzazione, come la insegnano per esempio i paesi
scandinavi, si accompagna normalmente ad un forte processo di
regolamentazione dei mercati.
Questo rappresenta dunque una prima gamba su cui deve fondarsi una nuova
politica industriale e dei servizi, naturalmente non può essere la sola, non ci si
deve illudere che erodendo aree di rendita - cosa che ha un costo finanziario
pari a zero ma che ha un costo elevatissimo in termini di rapporti di potere
perché significa incidere sugli interessi di frazioni molto agguerrite di ceto
dirigente che stanno diventando dominanti in questo paese e che hanno una
commistione con la politica molto spesso trasversale - oggi recupereremmo in
termini economici una competitività adeguata al contesto internazionale.
Accanto a questo processo di liberalizzazione dei servizi trovo che sia
necessario anche dare una spinta corretta al sistema delle imprese per
ridefinire il modello si specializzazione.
Il terreno diventa difficile ed insidioso, perché non è possibile delineare un
nucleo illuminato di responsabili della politica economica che con la bacchetta
magica riesca a stabilire quali siano i settori strategici su cui intervenire e
quindi dislocare le risorse pubbliche rispetto a questi settori.
Purtroppo una ridefinizione del modello di specializzazione deve procedere per
prove ed errori. Il compito della nuova politica industriale e dei servizi non è
quello di fare politica settoriale, che equivarrebbe all’idea di possedere una
bacchetta magica per stabilire le priorità strategiche, ma deve consistere nel
dare quei vantaggi e quegli svantaggi relativi al sistema delle imprese che
spingano, in modo appunto per prove ed errori, la parte più vitale del sistema
delle imprese ad avventurarsi su settori innovativi.
Per dirla nel gergo degli economisti, questo significa fornire esternalità
positive alle imprese laddove si ritiene che questo possa modificare
favorevolmente il modello di specializzazione e di fornire esternalità
negative, ovvero costi, laddove viceversa si ritiene che questo sia regressivo
per lo sviluppo e la crescita dell’economia.
Per fare degli esempi anche banali: un’impresa che produce con tecnologie
obsolete ed inquinanti va relativamente punita e vanno, viceversa
premiati, comportamenti innovativi che aprano a possibilità di crescita
e di sviluppo del sistema.
Se si ragiona in termini di esternalità e se quindi l’altra gamba della politica
industriale e dei servizi è fornire esternalità positive al sistema delle imprese,
bisogna concentrarsi su almeno tre tematiche che non sono esaustive e
comunque potrebbero farci fare dei passi avanti: educazione, formazione,
ricerca e sviluppo.
Investire in R&S non vuol dire soltanto mettere più soldi ma avere un modello,
come tutti i paesi avanzati a partire dagli Stati Uniti dove esiste un modello
statale di R&S; l’unico paese avanzato che aveva un modello, le partecipazioni
statali, che non piace più e che non lo ha più è l’Italia. Un modello è necessario
perché questa è la tipica situazione per cui alle singole imprese non conviene
operare perché dà vantaggi anche ai concorrenti, lo Stato deve avere dunque
una parte preponderante.
Quindi educazione, formazione, R&S fino ad arrivare a modelli di innovazione
rappresentano un ambito in cui la politica industriale e dei servizi e quindi un
intervento dello stato è essenziale. Ragionando su questi due assi, si trae una
considerazione efficace, se riempita di questi contenuti: nel nostro paese si ha
bisogno allo stesso tempo di più stato e di più mercato.
La situazione paradossale in cui ci troviamo è tale per cui questi due termini
non sono assolutamente antinomi, ma anzi devono interagire positivamente. Il
percorso fin qui proposto è irto di difficoltà. A differenza di una prima gamba di
una nuova politica industriale e dei servizi, che non ha costi finanziari sebbene
alti costi in termini di potere, questa seconda gamba implica costi finanziari e
quindi implica forte selettività ma anche innovazioni che, di nuovo, non hanno
costi finanziari: puntare su educazione e formazione implica che la mobilità del
lavoro diventa un costo per le stesse imprese, non un vantaggio.
In un mondo ideale, con un nuovo modello di specializzazione, dovrebbe
essere convenienza per le imprese riuscire a mantenere al proprio interno unità
di lavoro ad alta specializzazione, ad alta formazione, perché se le perdesse
con forte mobilità questo significherebbe che le imprese hanno avuto un costo
di formazione in parte coperto dallo Stato ma in parte coperto da risorse
private che perdono.
Oggi si presenta esattamente la situazione opposta, per rincorrere con un
modello di specializzazione obsoleto, paesi socialmente meno avanzati
dell’Italia, noi rinunciamo a questo elemento. Il risultato è sotto gli occhi di
tutti. La dinamica della produttività del lavoro e quell’indice di competitività
globale che è dinamica della produttività totale dei fattori hanno avuto in
questo Paese andamenti desolanti. Negli ultimi tempi, laddove la dinamica
della produttività totale dei fattori per i Paesi economicamente avanzati è
cresciuta sensibilmente, in Italia addirittura è diminuita.
Una politica industriale e dei servizi quale quella che si è qui cercato di
delineare, ha un costo sociale non irrilevante. Certamente cerca di correggere
distorsioni e polarizzazioni nella distribuzione del reddito e della ricchezza,
implica però anche una società più mobile più dinamica e più aperta rispetto a
quella in cui abbiamo vissuto in passato e stiamo vivendo oggi.
Questo, per quanto si operi con una politica attenta ai costi sociali, ha un costo
sociale non trascurabile. Per fare un esempio un po’ provocatorio, in una
politica quale quella delineata, non è un fatto negativo avere delocalizzazioni di
attività produttive verso paesi dell’est Europa e paesi asiatici laddove queste
attività produttive siano incompatibili con un modello di specializzazione non
competitivo.
Il problema vero è che queste delocalizzazioni devono essere sostituite da
qualche cosa d’altro, ma per fare questo passaggio minimizzando i costi sociali,
è necessaria la presenza di un welfare molto forte, efficace e molto equo. E
probabilmente questo non basterebbe, in una politica così delineata, un welfare
forte ed efficace non è un costo sociale che si deve pagare per qualche buon
sentimento, ma diventa un elemento non soltanto redistributivo, ma anche un
elemento funzionale ad un passaggio di ripresa di competitività.
Un welfare efficace ed equo non basta ancora, occorre anche eliminare quelle
rigidità quasi connaturate al modo di vivere del nostro paese. Come, per
esempio, il fatto che da noi la mobilità territoriale è impedita e ha costi umani
elevatissimi per l’organizzazione urbanistica e del territorio che ci caratterizza:
siamo ancor più degli altri paesi dell’Europa continentale, un paese in cui
cambiare casa ha un costo drammatico: questo non è un fatto naturale bensì
l’esito di un organizzazione sociale.
La nuova politica industriale e dei servizi qui presentata ha costi sociali, perché
dal punto di vista sociale comporta il passaggio da una società bloccata ad una
società dinamica. Non bisogna però rassegnarsi a pagare questi costi sociali
senza gestirli e senza cercare di minimizzarli. Ma per questo, un welfare
efficace ed equo e una buona politica del territorio sono componenti essenziali
del ragionamento.